Contestazioni Per Uso Di Società Di Comodo All’estero: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché la tua società estera è stata considerata una società di comodo? In questi casi, l’Ufficio presume che la società non svolga una reale attività economica, ma sia stata costituita solo per beneficiare di un regime fiscale più favorevole, riducendo il carico impositivo in Italia. La conseguenza è il recupero delle imposte con applicazione di sanzioni, interessi e nei casi più gravi anche segnalazioni penali. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con la giusta strategia difensiva è possibile dimostrare la reale operatività della società estera.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta l’uso di società di comodo all’estero
– Se la società non ha dipendenti, uffici o strutture operative proprie
– Se i ricavi dichiarati sono minimi rispetto al patrimonio detenuto
– Se l’attività svolta all’estero è solo apparente e le decisioni vengono prese in Italia
– Se i beni sociali (immobili, conti correnti, partecipazioni) sono utilizzati dai soci a titolo personale
– Se la società è localizzata in Paesi a fiscalità privilegiata e priva di reale sostanza economica

Conseguenze della contestazione
– Riqualificazione della società come “esterovestita” e tassazione in Italia dei redditi prodotti
– Recupero delle imposte dirette e indirette ritenute non versate
– Applicazione di sanzioni per elusione e abuso del diritto
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Possibile apertura di procedimenti penali per dichiarazione fraudolenta o occultamento di redditi

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’effettiva operatività della società con contratti, fatture, bilanci e documentazione gestionale
– Produrre prove della presenza di sedi, uffici e personale nel Paese estero
– Contestare la presunzione di “società di comodo” se l’attività ha reale sostanza economica
– Evidenziare vizi di motivazione, errori di diritto o difetti procedurali nell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la struttura societaria e la documentazione contabile e fiscale
– Verificare la legittimità della contestazione in base alla normativa nazionale e internazionale
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi dell’accertamento
– Difendere la società e i soci davanti ai giudici tributari contro pretese fiscali indebite
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da conseguenze fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della reale operatività della società estera
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: le contestazioni sull’uso di società di comodo estere possono avere riflessi fiscali e penali. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e ben documentata.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscalità internazionale – spiega come difendersi in caso di contestazioni per uso di società di comodo all’estero e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Le società di comodo all’estero – fenomeno noto in ambito fiscale come esterovestizione – sono entità formalmente residenti fuori dall’Italia ma utilizzate principalmente per ottenere vantaggi fiscali o sottrarsi al Fisco italiano. In pratica si trasferisce fittiziamente la residenza fiscale di una società (o di una persona) all’estero, spesso in Paesi a fiscalità privilegiata, continuando però a operare sostanzialmente in Italia . L’Agenzia delle Entrate può contestare queste situazioni riconducendo in Italia la residenza fiscale, con pesanti conseguenze tributarie e sanzioni. Questa guida, aggiornata ad agosto 2025, esamina la normativa italiana (europea e internazionale) e la giurisprudenza più recente, fornendo indicazioni pratiche su come difendersi da contestazioni di esterovestizione. Il taglio è avanzato – adatto a professionisti legali, imprenditori evoluti e contribuenti informati – ma con linguaggio chiaro e divulgativo. Si analizzeranno i profili fiscali e penal-tributari (incluso l’art. 11 D.Lgs. 74/2000 sulla sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte), con domande e risposte, tabelle riepilogative, simulazioni pratiche basate su casi italiani e un’attenzione particolare ai diritti e alle strategie dal punto di vista del contribuente (debitore).

Cos’è una “società di comodo” all’estero (esterovestizione)

Con società di comodo estera si intende una società formalmente localizzata all’estero – tipicamente in un Paese con tassazione più bassa – che però viene gestita dall’Italia e svolge in Italia la propria attività o i propri affari sostanziali. L’esterovestizione societaria è dunque la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, al solo scopo di usufruire di un trattamento fiscale estero più vantaggioso rispetto a quello italiano . In sostanza si costituisce una sede legale fuori dall’Italia (spesso un ufficio di comodo o una casella postale) mentre la direzione effettiva e l’operatività rimangono in Italia.

Anche per le persone fisiche esiste un fenomeno analogo, quando un contribuente risulta formalmente residente all’estero, ma di fatto la sua vita e i suoi interessi economici continuano a essere in Italia . In tali casi, l’Amministrazione finanziaria può contestare la residenza dichiarata e accertare la residenza fiscale in Italia, con recupero delle imposte evase, applicazione di sanzioni e interessi, ed eventualmente segnalazioni penali. In questa guida ci concentriamo sulle società esterovestite, tenendo presente però che criteri simili valgono per le persone fisiche che trasferiscono fittiziamente la residenza all’estero.

Perché si ricorre a società estere di comodo? Principalmente per ragioni fiscali: ridurre il carico tributario italiano (più elevato) spostando utili o beni in giurisdizioni “tax friendly”. Ad esempio, un imprenditore italiano potrebbe costituire una società in Svizzera, Emirati Arabi, Regno Unito o altri Paesi, e far figurare lì profitti o proprietà, beneficiando di tasse più basse o normative più favorevoli. Tuttavia, se la società estera manca di una reale struttura operativa locale e viene amministrata dall’Italia, il Fisco italiano la considererà una mera schermatura (società schermo) e ne ignorerà la forma giuridica estera, tassandola come soggetto residente in Italia. Si tratta di un’ipotesi di evasione fiscale (o elusione abusiva nei casi più borderline) che il nostro ordinamento contrasta con specifiche norme e presumptions anti-elusive.

Normativa italiana di riferimento

Vediamo anzitutto i riferimenti normativi chiave nell’ordinamento italiano relativi alla residenza fiscale e alle presunzioni anti-esterovestizione, aggiornati alle ultime riforme.

Residenza fiscale delle società (art. 73 TUIR) – L’art. 73 del TUIR (D.P.R. 917/1986) stabilisce che una società è considerata fiscalmente residente in Italia se, per la maggior parte del periodo d’imposta (almeno 183 giorni l’anno), ricorre anche uno solo dei seguenti criteri alternativi : 1. Sede legale in Italia – ovvero il luogo indicato come sede nell’atto costitutivo o nello statuto. 2. Sede di direzione effettiva in Italia – il luogo in cui vengono adottate in modo continuo e coordinato le decisioni strategiche e di gestione dell’impresa (c.d. place of effective management). 3. Oggetto principale / gestione operativa in Italia – il luogo in cui si svolge prevalentemente l’attività operativa dell’impresa.

È sufficiente uno solo di questi collegamenti per considerare la società residente in Italia e tassarne i redditi ovunque prodotti (principio del worldwide income) . Ad esempio, una società con sede legale a Londra ma di fatto amministrata dall’Italia sarà considerata residente fiscale italiana, in virtù del criterio della direzione effettiva .

Novità 2024: La riforma fiscale (D.Lgs. 209/2023) ha confermato questi criteri e fornito definizioni più precise, applicabili dal 1° gennaio 2024 . In particolare, è stata normativamente definita la sede di direzione effettiva come il luogo in cui avviene in maniera continua e coordinata l’assunzione delle decisioni strategiche dell’impresa . Inoltre, il previgente criterio dell’“oggetto principale” è stato sostituito (sempre dal 2024) con il criterio della “gestione operativa prevalente”: se la gran parte dell’attività ordinaria (produzione, amministrazione, operatività quotidiana) si svolge in Italia, la società si considera ivi residente . Questa modifica chiarisce meglio il concetto di attività economica sostanziale in Italia. Di fatto, dal 2024 il legislatore rafforza l’attenzione sulla sostanza economica: basta che sede legale, sede effettiva o gestione operativa siano in Italia per far scattare la residenza fiscale italiana.

Residenza fiscale delle persone fisiche (art. 2 TUIR) – Per completezza, ricordiamo che l’art. 2 del TUIR definisce residenti fiscali le persone fisiche che, per la maggior parte dell’anno, (i) sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente oppure (ii) hanno in Italia il domicilio (inteso come sede principale di interessi e affari) oppure (iii) la residenza civile (dimora abituale) . Anche qui basta uno di questi criteri. Fino al 2023 vigeva inoltre una presunzione per cui i cittadini italiani cancellati dall’anagrafe e trasferiti in Paesi a fiscalità privilegiata erano comunque considerati residenti in Italia salvo prova contraria (era il comma 2-bis dell’art. 2 TUIR).

Novità 2024: Il D.Lgs. 209/2023 ha innovato anche su questo fronte. Dal 1° gennaio 2024 l’iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) è solo una presunzione relativa di non residenza in Italia, superabile con prova contraria . Sono stati distinti tre criteri alternativi per la residenza delle persone: (i) domicilio inteso come centro prevalente di legami familiari e personali; (ii) presenza fisica in Italia per oltre 183 giorni l’anno; (iii) centro degli interessi vitali (criterio simile al domicilio, da usare se gli altri due non risolvono) . In pratica, oggi vive stabilmente in Italia chi o risiede fisicamente qui per più di metà anno, o qui mantiene il proprio nucleo familiare/interessi principali. Resta fermo che le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni (dove esistenti) possono prevalere con le loro regole di tie-breaker (vedi oltre) .

Presunzioni anti-esterovestizione (art. 73 comma 5-bis TUIR) – Oltre ai criteri generali sopra descritti, esistono norme specifiche anti-elusione mirate alle società estere controllate da italiani. L’art. 73, comma 5-bis, TUIR (introdotto nel 2006) prevede una presunzione legale relativa che una società formalmente estera è in realtà residente in Italia se ricorrono congiuntamente alcune condizioni indicative di “esterovestizione”. In sintesi: – La società estera è controllata, direttamente o indirettamente, da soggetti residenti in Italia; – La società estera detiene partecipazioni di controllo in società italiane oppure svolge in prevalenza funzioni di mero holding/passiva (gestisce beni o partecipazioni senza una propria attività economica autonoma).

Se queste condizioni sono soddisfatte, si presume che il centro degli affari e interessi della società sia in Italia . La presunzione è iuris tantum: può essere superata dal contribuente dimostrando con adeguate prove che la direzione effettiva e l’attività economica della società si svolgono realmente all’estero . In pratica, l’onere della prova si inverte a carico del contribuente: l’Agenzia delle Entrate, individuati gli indizi, può applicare la presunzione, e spetta al contribuente fornire la prova contraria (rebuttal evidence) che la società estera non è un guscio vuoto ma opera autonomamente all’estero.

Nota: La presunzione automatica dell’art. 73 co.5-bis si applica tipicamente alle holding esterovestite (cassette finanziarie all’estero che controllano società o beni in Italia). Se invece la società estera non detiene partecipazioni o asset in Italia, la presunzione legale non scatta, ma ciò non significa immunità: il Fisco potrà comunque contestare la residenza in Italia in base ai criteri ordinari (sede effettiva, ecc.) dell’art. 73 . In tal caso l’onere probatorio rimane in capo all’amministrazione finanziaria (che deve fornire elementi indiziari di gestione italiana), mentre il contribuente dovrà controbattere tali indizi con prove contrarie .

Presunzione per trasferimenti in paradisi fiscali (persone fisiche) – Prima della riforma 2024, l’art. 2 co. 2-bis TUIR stabiliva che il cittadino italiano che si trasferiva in uno Stato a fiscalità privilegiata veniva comunque considerato residente in Italia (presunzione relativa). Tale norma è stata in parte superata: oggi conta primariamente l’applicazione delle Convenzioni internazionali. Ad esempio, la Cassazione n. 35284/2023 ha affermato che perfino chi si sposta in un paradiso fiscale può far valere i criteri tie-breaker della Convenzione contro le doppie imposizioni per dimostrare la propria residenza estera . Questo significa che, in presenza di un trattato, prevalgono i criteri convenzionali (centro degli interessi vitali, dimora abituale, nazionalità, ecc.) per evitare la doppia residenza. La presunzione interna di residenza italiana per iscrizione AIRE in Paese black-list è dunque mitigata e va coordinata con il diritto internazionale .

Obblighi formali (AIRE e comunicazioni) – Chi intende trasferire all’estero la residenza (persona fisica) o la sede (società) deve curare alcuni adempimenti formali, la cui omissione può costare caro. Per le persone fisiche è obbligatoria l’iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) entro 90 giorni dal trasferimento. La mancata cancellazione dalle anagrafi italiane ora comporta una sanzione amministrativa da €200 a €1.000 per anno (introdotta dalla L. 213/2023, in vigore dal 2024) . Tuttavia, va chiarito che l’iscrizione o meno all’AIRE non è decisiva sulla residenza fiscale: è un elemento formale importante ma non sufficiente né assoluto. Dopo la riforma, l’iscrizione all’AIRE costituisce solo un’indicazione (presunzione relativa) di residenza estera, e la mancata iscrizione non determina di per sé la residenza italiana se il contribuente prova con altri mezzi di aver effettivamente vissuto all’estero . In altre parole: curare l’adempimento anagrafico è importante (anche per evitare sanzioni), ma in caso di verifica conteranno soprattutto i fatti sostanziali (luogo di vita, famiglia, lavoro, beni).

Per le società, oltre alla comunicazione al Registro Imprese del trasferimento di sede all’estero (se è una società italiana che emigra), non esistono “AIRE” analoghi. Tuttavia, va notificato all’Agenzia Entrate il cambio di residenza fiscale tramite il quadro RS della dichiarazione dei redditi relativa all’ultimo periodo di residenza in Italia. Inoltre, se si tratta di una società estera controllata da italiani, è necessario valutare gli obblighi di monitoraggio fiscale (quadro RW per le partecipazioni estere detenute da soci italiani) e le regole CFC (Controlled Foreign Companies) se applicabili. La compliance formale quindi è un primo passo necessario ma non sufficiente a prevenire contestazioni: ciò che conta, ancora una volta, è la realtà sostanziale della localizzazione all’estero.

Normativa UE e internazionale: libertà di stabilimento e iniziative anti-abuso

Il tema dell’esterovestizione si colloca anche in un contesto europeo e internazionale più ampio. Da un lato, vi è la libertà di stabilimento nell’UE che tutela il diritto delle imprese a scegliere in quale Stato membro insediarsi; dall’altro, vi sono normative anti-abuso per evitare che tale libertà sia utilizzata in modo distorto per eludere le imposte.

Principi UE e libertà di stabilimento – L’ordinamento comunitario non vieta a un’impresa di trasferirsi in un Paese UE più vantaggioso fiscalmente; tuttavia, pretende che il trasferimento sia genuino e sostanziale, non una costruzione di puro artificio. La Corte di Giustizia UE, nel celebre caso Cadbury Schweppes (C-196/04), ha affermato che uno Stato membro (in quel caso il Regno Unito) non può negare i benefici fiscali o applicare norme anti-elusive a una controllata estera se quest’ultima corrisponde a un insediamento reale, con un’effettiva attività economica nello Stato di stabilimento . Solo nel caso di una “costruzione artificiosa” priva di sostanza economica, creata allo scopo di eludere la tassazione nazionale, lo Stato può disconoscere la struttura estera senza violare la libertà di stabilimento . In altre parole, il mero vantaggio fiscale non è illecito: diventa abuso solo se l’entità estera è fittizia. La Cassazione italiana stessa richiama questi principi europei, sottolineando che la lotta all’esterovestizione “trova fondamento nel diritto tributario europeo” . Dunque, in ambito UE, il contribuente ha diritto di stabilirsi dove preferisce, ma deve essere pronto a dimostrare la genuinità della propria scelta (onere della prova a suo carico, in caso di indagine, sulla sostanza economica dell’attività all’estero).

Direttive UE anti-abuso (ATAD) e “Unshell Directive” – L’Unione Europea ha varato negli ultimi anni varie misure per contrastare l’elusione ed evasione fiscale transnazionale. Tra queste, meritano attenzione: – La Direttiva ATAD (Anti Tax Avoidance Directive), recepita anche in Italia, che introduce norme sulle società controllate estere (CFC), sul dividendo mother-daughter, sul disconoscimento di artifici abusivi (clausola generale anti-abuso). In particolare le norme CFC (recepite nell’art. 167 TUIR) tassano in capo al socio italiano gli utili non distribuiti di società estere prive di sostanza economica e collocate in paradisi fiscali (al ricorrere di certe condizioni). – La proposta di direttiva “Unshell” (detta anche ATAD 3) specificamente rivolta alle società di comodo. Si tratta di un pacchetto di norme che l’UE sta finalizzando (proposta n. 565/2021, approvata dal Parlamento UE a larga maggioranza) per identificare e sanzionare le shell companies all’interno dell’Unione . In base a questa direttiva (non ancora definitivamente in vigore al momento di questa guida), dal 2024 le società residenti nell’UE che risultino prive di reale attività economica perderanno lo status di residenti ai fini fiscali nell’Unione . In pratica, se una società UE non supera un certo substance test (basato su indicatori come la prevalenza di redditi passivi >75%, operazioni transnazionali, personale/uffici esigui ), l’autorità fiscale: – Negherà il rilascio di un certificato di residenza fiscale valido, oppure emetterà un certificato che attesta lo status di “società di comodo” . – Disconoscerà i benefici delle direttive e dei trattati: ad es., niente esenzioni su dividendi, interessi, royalties; ritenute alla fonte applicate come se la società non fosse residente “privilegiata” . – Tasserà i redditi della società direttamente in capo ai soci o nel Paese del beneficiario effettivo , come se la shell fosse trasparente. – In caso di immobili posseduti tramite una società di comodo, lo Stato dove si trova l’immobile li tasserà come se fossero posseduti direttamente dalla persona fisica dietro la società .

Questa direttiva Unshell, una volta adottata dai Paesi membri, mira a togliere ogni vantaggio fiscale alle entità “vuote” prive di sostanza, attraverso lo scambio automatico di informazioni e una procedura di accertamento coordinata a livello UE . Le società classificate come di comodo potranno comunque impugnare tale classificazione presentando prove contrarie della loro sostanza economica reale . Pur non essendo ancora operativa, l’Unshell Directive segnala chiaramente l’orientamento europeo: tolleranza zero verso le costruzioni societarie prive di attività reale volte solo a ottenere vantaggi fiscali.

Accordi internazionali e casi extra-UE (Svizzera, Emirati, ecc.) – Al di fuori dell’UE, non si applica ovviamente la libertà di stabilimento comunitaria, ma esistono comunque trattati bilaterali e standard OCSE che regolano la materia. Paesi come la Svizzera, gli Emirati Arabi Uniti, il Principato di Monaco, le Isole offshore e altri paradisi fiscali, sono spesso scelti per localizzare società di comodo. L’Italia ha reagito stipulando convenzioni contro le doppie imposizioni anche con molti di questi Paesi (es. San Marino, Emirati, Monaco, recentemente anche con la Svizzera nel 2020) che prevedono clausole di scambio di informazioni e criteri per risolvere conflitti di residenza. Ad esempio, l’Italia e gli Emirati Arabi hanno una Convenzione dal 2021 (ratificata nel 2022) che all’art. 4 include i criteri per individuare la residenza fiscale e risolvere i casi dubbi (commissioni miste in caso di dual residence). Proprio la Cassazione n. 35284/2023 citata sopra riguardava un trasferimento a Dubai: la Corte ha riconosciuto che il contribuente poteva invocare i criteri della Convenzione Italia–UAE per provare la residenza negli Emirati, superando la presunzione italiana di residenza, poiché la sua famiglia e interessi erano stabilmente colà .

In sostanza, anche fuori dall’UE il contribuente può difendersi appellandosi alle Convenzioni OCSE (tie-breaker rule: prevale il Paese dove la persona ha il centro degli interessi vitali o, per le società, la sede di direzione effettiva) e sfruttando la cooperazione amministrativa internazionale (oggi rafforzata dallo scambio automatico di informazioni finanziarie). Tuttavia, va detto che molti paradisi fiscali extra-OCSE offrono minori garanzie: la difesa diventa più difficile se lo Stato estero non collabora o non esistono accordi. In tali casi, l’Agenzia italiana può più facilmente presumere l’esterovestizione e il contribuente dovrà da solo fornire solide evidenze della reale operatività all’estero.

Giurisprudenza italiana recente su esterovestizione

Negli ultimi anni la Corte di Cassazione e le corti tributarie hanno affinato i principi applicativi in materia di esterovestizione. Ecco alcuni orientamenti chiave emersi dalle sentenze più recenti (2022–2024), utili da conoscere per impostare una difesa:

  • Esterovestizione ≠ abuso del diritto, ma evasione fiscale: con la sentenza n. 34723/2022, la Cassazione ha chiarito che l’esterovestizione non rientra propriamente nelle figure di abuso del diritto (che presupporrebbero una valutazione sull’intento elusivo), bensì è un fenomeno evasivo tout court . Non serve indagare se vi fosse un fine esclusivamente fiscale; è sufficiente accertare che sussiste uno dei criteri di collegamento ex art. 73 TUIR (es. la direzione effettiva in Italia) per qualificare la società come residente in Italia . In altri termini, se la gestione è rimasta in Italia il trasferimento all’estero è fittizio, a prescindere da eventuali motivazioni lecite addotte, e l’accertamento fiscale è legittimo. Questa pronuncia nega la rilevanza di una difesa basata sull’assenza di volontà evasiva: conta il fatto oggettivo del mancato spostamento reale.
  • Principio generale anti-esterovestizione applicabile a tutte le imposte: la Cassazione con sentenza n. 3386/2024 ha affermato che il contrasto all’esterovestizione vale trasversalmente, non solo per le imposte sui redditi (IRES, IRPEF) ma anche per le imposte indirette . Il caso riguardava l’imposta di registro su un conferimento di immobili italiani a una SRL con sede a Londra. La Corte ha ritenuto che, poiché la società era esterovestita (gestita dall’Italia), dovesse applicarsi l’imposta di registro proporzionale prevista per trasferimenti domestici, anziché l’aliquota fissa agevolata per operazioni intra-gruppo con soggetti esteri . Ciò in quanto “il contrasto del fenomeno dell’esterovestizione societaria assume valenza di principio generale… applicabile non soltanto alle imposte sui redditi… ma anche alle imposte indirette” . In altre parole, i criteri di residenza fiscale (di derivazione OCSE/UE) devono essere applicati in modo coerente a ogni ambito tributario: se un soggetto è considerato residente in Italia, lo è ai fini di tutte le imposte.
  • Criterio della “direzione effettiva” (place of effective management): più pronunce (Cass. n. 23150/2022, Cass. n. 3386/2024 cit.) hanno ribadito l’importanza di individuare dove vengono assunte le decisioni strategiche della società. L’art. 73 TUIR, comma 3, già fornisce la definizione domestica di sede di direzione effettiva come il luogo in cui avviene la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti l’ente . La Cassazione ha confermato che questo criterio internazionale standard (analogo al place of effective management dei trattati) è determinante anche per società formalmente stabilite in Stati UE . Ad esempio, in un caso, una SRL slovacca interamente controllata da italiani svolgeva tutti gli affari in Italia: la Corte ha ritenuto che anche un trasferimento in un altro Stato UE può costituire abuso della libertà di stabilimento se la società rimane gestita dall’Italia . La direzione effettiva si prova con elementi come: luogo abituale di riunione degli amministratori, residenza degli amministratori, luogo di firma dei contratti più rilevanti, gestione dei conti bancari, ecc. Se questi elementi puntano verso l’Italia, la società sarà considerata residente in Italia nonostante la sede formale estera.
  • Residenza delle persone fisiche e convenzioni internazionali: la Cassazione si è espressa anche su casi di persone fisiche “esterovestite”. La sentenza n. 35284/2023 (già citata) riguardava un contribuente trasferitosi negli Emirati Arabi Uniti. La Corte ha confermato che la presunzione di residenza italiana (per chi si sposta in un paradiso fiscale) può essere vinta applicando i criteri della Convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni . In quel caso, il contribuente ha dimostrato di avere negli UAE il proprio centro degli interessi vitali (famiglia, abitazione principale, attività professionale), prevalente rispetto ai legami residui con l’Italia, e ciò è bastato a escludere la residenza fiscale italiana nonostante gli Emirati fossero black-list . Questo precedente è importante perché evidenzia che le Convenzioni internazionali prevalgono sul diritto interno in materia di residenza, obbligando l’Amministrazione a tener conto della realtà di fatto anche se il trasferimento è verso un tax haven.
  • Valore del certificato di residenza estero: la giurisprudenza ha ridimensionato il peso probatorio dei certificati di residenza fiscale rilasciati da Stati esteri. Sebbene tali certificati siano utili, da soli non bastano a blindare la posizione. La Cassazione ha definito il certificato estero come “elemento formale e marginale” se i fatti indicano altrove . In una vicenda, la Commissione Tributaria Regionale aveva dato ragione al contribuente basandosi sul certificato di residenza in un noto paradiso fiscale; la Cassazione ha cassato la decisione ricordando che occorre valutare tutti gli indizi concreti: ad esempio domicilio, sede degli affari, famiglia, utilizzo di utenze . Se una persona ha un certificato di residenza a Monaco ma poi trascorre gran parte dell’anno in Italia, ha casa in Italia e qui svolge attività, il certificato vale poco. Dunque, in caso di contestazione, il contribuente deve supportare l’eventuale certificato estero con prove sostanziali (bollette, contratti di affitto, spese, biglietti aerei, iscrizioni scolastiche dei figli, ecc.) che dimostrino la vita all’estero .
  • Esterovestizione e imposte IVA/indirette: un ulteriore filone giurisprudenziale (Cass. nn. 5066 e 5075/2023, ordinanze) ha esteso il concetto di esterovestizione anche ai fini IVA. Sebbene l’IVA sia un’imposta “armonizzata” UE con regole proprie sulla territorialità, la Cassazione ha evidenziato che, se una società finge di avere sede fuori UE per evitare l’IVA italiana, può essere smascherata. È il caso di imprese che costituiscono società fittizie in Paesi UE per emettere fatture senza IVA o usufruire di regimi intracomunitari: se la società in realtà opera dall’Italia, anche il trattamento IVA dovrà essere quello italiano. Questo rientra in un approccio olistico: la residenza effettiva unica vale per tutte le posizioni tributarie.

Strategie difensive del contribuente

Di fronte a una contestazione di esterovestizione, il contribuente (debitore) deve approntare una difesa su più fronti, combinando prove fattuali, eccezioni procedurali e argomentazioni giuridiche. Di seguito analizziamo le principali strategie difensive in fase sia amministrativa (verifica e accertamento) che contenziosa, per contrastare efficacemente le pretese del Fisco.

Documentazione e prove concrete: il primo pilastro della difesa è dimostrare che il trasferimento all’estero non è fittizio, ma sostanziale e genuino. È fondamentale raccogliere e presentare tutti i documenti che attestino l’effettiva attività all’estero: – Per le società: contratti di locazione di un ufficio all’estero (con ricevute di affitto e utenze locali intestate alla società), contratti con clienti/fornitori esteri, fatture emesse o ricevute all’estero, conti bancari esteri operativi, verbali del Consiglio di Amministrazione tenuti regolarmente all’estero, libri sociali e contabilità tenuti presso la sede estera, presenza di personale o collaboratori locali, iscrizione della società a registri d’impresa locali, eventuale bilancio certificato nel Paese estero, ecc . È utile mostrare che la società non è una scatola vuota: ad esempio un organigramma in cui non tutti gli amministratori e procuratori risiedono in Italia, un sito web con contatti esteri, fotografie degli uffici e dipendenti, ecc. Più l’impresa estera appare come un’azienda reale (e non un semplice guscio gestito dall’Italia), più forte sarà la difesa. – Per le persone fisiche: contratti di affitto o atti di acquisto di una abitazione all’estero (meglio se abitazione principale), iscrizioni di figli a scuole estere, eventuali contratti di lavoro o iscrizione a sistemi di previdenza esteri, bollette e ricevute di spese quotidiane all’estero, estratti conto di carte di credito utilizzate nel Paese estero, iscrizione a medici di base o assicurazioni sanitarie estere, appartenenza a circoli o associazioni locali, ecc . Tutti questi elementi devono comporre un quadro coerente che la vita della persona si svolge prevalentemente fuori dall’Italia. Se invece emergono elementi di radicamento in Italia (es. frequenti utilizzi di carte in Italia, bollette di utenze italiane attive, iscrizione a palestra in Italia, ecc.), il Fisco li userà per avvalorare la tesi della residenza di fatto in Italia.

Onere della prova e confutazione degli indizi: dal punto di vista giuridico, occorre ricordare come funziona il riparto dell’onere probatorio in questi casi: – Se l’ufficio finanziario invoca una presunzione legale (es. art. 73 co.5-bis TUIR per società esterovestite in paradisi fiscali), il contribuente è tenuto a fornire la prova contraria. Quindi la difesa consisterà nel portare in sede di contraddittorio e contenzioso tutti gli elementi idonei a smontare la presunzione (vedi sopra documenti da produrre). – Se invece si tratta di una contestazione “ordinaria” senza presunzioni (es. società in paese UE non blacklist, oppure contestazione a persona fisica senza applicare art. 2 co.2-bis), l’onere iniziale è dell’ufficio: il Fisco deve indicare elementi presuntivi seri che fanno supporre l’esterovestizione (ad es. amministratori tutti italiani, nessun dipendente locale, ecc.). Una volta forniti questi indizi, però, il contribuente deve confutarli con riscontri concreti . Non basta negare, bisogna dimostrare positivamente la realtà estera. La Cassazione ha osservato che tipicamente l’Amministrazione può limitarsi a provare alcuni fatti indicatori (indizi gravi, precisi e concordanti) e poi spetta al contribuente l’onere di provare che tali fatti sono male interpretati e che la residenza estera è reale . Ad esempio, se il Fisco mostra che il 100% delle decisioni operative risultano prese in Italia, il contribuente dovrà produrre verbali o testimonianze che invece le decisioni venivano prese all’estero, o spiegare perché alcuni atti firmati in Italia erano eccezioni.

Contraddittorio endoprocedimentale: un aspetto procedurale cruciale è assicurarsi che sia stato rispettato (o richiederlo attivamente) il contraddittorio preventivo prima dell’emissione di un avviso di accertamento. Il contraddittorio endoprocedimentale consiste nella possibilità per il contribuente di essere convocato dall’ufficio fiscale e presentare le proprie osservazioni e prove prima che l’accertamento diventi definitivo. In materia di tributi armonizzati (come l’IVA), la giurisprudenza europea richiede sempre il contraddittorio; per gli altri tributi in Italia l’obbligo generalizzato non è stato sancito per legge, ma negli ultimi anni la Cassazione tende a ritenerlo necessario quando l’accertamento sia particolarmente incisivo o complesso . In ogni caso, chiedere un incontro o presentare una memoria difensiva prima della chiusura delle indagini è nell’interesse del contribuente: – Si possono fornire chiarimenti e documenti che magari non erano stati considerati dai verificatori. – Si può contestare eventuali errori procedurali (ad es. vizi nel PVC – processo verbale di constatazione). – Se l’ufficio ignora completamente il contraddittorio obbligatorio laddove previsto, si potrà eccepire in contenzioso la nullità dell’accertamento per violazione del diritto di difesa.

Va segnalato che dal 2020 l’obbligo di contraddittorio preventivo è stato formalizzato per alcuni accertamenti (ad esempio per gli induttivi basati su studi di settore o ISA). Anche senza obbligo legale stringente, partecipare al contraddittorio è un’occasione da non perdere: consente di mettere agli atti le prove a favore prima che l’atto sia emesso.

Interpelli e ruling preventivi: molti contribuenti si chiedono se sia possibile prevenire il problema chiedendo un interpello all’Agenzia delle Entrate sulla propria residenza fiscale (o su quella della società estera). Purtroppo la risposta dell’Amministrazione è generalmente negativa: – L’interpello ordinario non è ammesso sulla questione di fatto della residenza fiscale, perché non è una norma tributaria da interpretare ma un accertamento fattuale . – L’interpello anti-abuso/disapplicativo potrebbe teoricamente essere usato per chiedere di non applicare la presunzione di cui all’art. 73 co.5-bis TUIR. Tuttavia, l’Agenzia ha più volte dichiarato inammissibili questi interpelli: ritiene che la determinazione della residenza sia troppo legata a valutazioni di fatto che non possono essere cristallizzate ex ante . Ad esempio, nella risposta a interpello n. 27/2022 e n. 164/2023, l’Agenzia ha ribadito che non fornirà mai un “nulla osta” preventivo sulla residenza o sull’esterovestizione . – Esiste unicamente, per grandi gruppi, la possibilità di un ruling internazionale sull’investimento estero (previsto dal decreto internazionalizzazione del 2015) o di aderire alla cooperative compliance se si è grandi contribuenti: strumenti che offrono un dialogo preventivo col Fisco. Ma sono ipotesi residuali e non garantiscono comunque un giudizio definitivo sulla residenza .

Pertanto, la via maestra è farsi trovare preparati in caso di accertamento, piuttosto che sperare in un interpello risolutivo. L’assenza di un pronunciamento ex ante significa che ogni caso verrà valutato ex post, e lì occorrerà presentare tutte le prove a proprio favore.

Pianificazione e “best practice” sin dall’inizio: il modo più efficace per difendersi è prevenire le contestazioni con una pianificazione accorta quando si decide di trasferire la sede all’estero. Ciò implica adottare sin da subito comportamenti coerenti e dare sostanza reale all’operazione: – Struttura operativa locale: assicurarsi che la società estera abbia una base operativa vera nel Paese scelto – un ufficio fisico, magari anche piccolo ma attrezzato, personale (anche part-time o in outsourcing) che curi l’attività sul posto, un numero di telefono locale attivo, etc. . – Governance mista: coinvolgere amministratori o manager locali di fiducia nel consiglio di amministrazione o nella gestione, evitando che tutti i decisori siano domiciliati in Italia . Ad esempio, nominare come co-amministratore un professionista residente sul posto, oppure delegare alcuni poteri gestionali a un direttore locale. – Riunioni e decisioni all’estero: tenere regolarmente le riunioni del CdA nel Paese estero, con verbali firmati in loco e possibilmente presenza fisica dei membri (anche utilizzando videoconferenze ma connessi dall’estero). Le decisioni strategiche (approvazione bilanci, investimenti, assunzioni importanti) dovrebbero risultare assunte all’estero . – Contabilità e professionisti locali: mantenere i libri contabili presso la sede estera, far seguire la contabilità e gli adempimenti fiscali locali a un commercialista locale, e se possibile far certificare il bilancio da revisori nel Paese estero . Ciò conferisce credibilità fiscale internazionale. – Evitare legami eccessivi con l’Italia: ad esempio, limitare o eliminare del tutto eventuali uffici o personale in Italia per conto della società estera; se la società estera possiede beni in Italia (es. immobili, partecipazioni), considerare se sia opportuno cedere questi beni o comunque gestirli con logiche di mercato per non dare l’idea di una base economica rimasta in Italia . In generale, ridurre la presenza “visibile” in Italia della società estera: ogni legame troppo stretto (conto bancario italiano, amministratore unico che vive in Italia, clienti quasi tutti italiani, ecc.) è un potenziale indizio di esterovestizione. – Documentazione di supporto: creare un “dossier” in cui raccogliere continuativamente le evidenze della vita estera: contratti, fatture, ricevute, biglietti aerei, scontrini, tutto ciò che possa essere utile un domani a dimostrare la sostanza estera. È più facile farlo in corso d’opera che ricostruire anni dopo a memoria.

Queste best practice fungono da “assicurazione”: se arriverà un accertamento, avrete già costruito gran parte della difesa. Al contrario, chi si limita a trasferire la sede legale ma continua a operare esattamente come prima dall’Italia, senza modificare nulla salvo la carta intestata, avrà vita difficile a dimostrare il contrario quando sarà contestato.

Assistenza legale specializzata: visto il tecnicismo della materia e i potenziali risvolti penali, è altamente consigliabile farsi affiancare da professionisti esperti di fiscalità internazionale sia nella fase di verifica (in sede di contraddittorio con l’Agenzia) sia nell’eventuale contenzioso . Un avvocato tributarista potrà: – Valutare la correttezza formale dell’operato del Fisco (notifica atti, rispetto del contraddittorio, motivazione dell’avviso, ecc.) e sollevare le dovute eccezioni. – Predisporre memorie difensive ben articolate, citando norme e sentenze di legittimità pertinenti a supporto della vostra posizione . – Assistere nel tentativo di composizione in acquiescenza o accertamento con adesione, se opportuno, negoziando eventualmente il riconoscimento di elementi favorevoli (ad esempio la non applicazione di sanzioni penali in cambio di pagamento delle imposte). – Seguire il ricorso in Commissione Tributaria/Corte di Giustizia Tributaria e successivi gradi, impostando sia la difesa di merito (i fatti che dimostrano la residenza estera effettiva) sia le questioni procedurali e di diritto (es. violazione di norme comunitarie, vizi dell’atto). – Coordinare la difesa tributaria con quella penale, qualora parta un procedimento penale in parallelo (vedi oltre), in modo da non pregiudicare una sede con dichiarazioni rese nell’altra, e valutare se sussistono condizioni per definire il penale (pagamento del dovuto, cause di non punibilità, ecc.).

In definitiva, la strategia difensiva ruota attorno a un concetto: sostanza sulla forma. Bisogna convincere il giudice (o prima ancora l’ufficio) che, al di là delle apparenze formali, la realtà operativa corrisponde a quanto dichiarato (estero) e non a quanto sospettato dal Fisco (Italia). Ciò avviene combinando fatti verificabili e argomentazioni giuridiche solide.

Procedura: difendersi in accertamento e nel contenzioso tributario

Affrontare una contestazione di esterovestizione richiede di muoversi efficacemente sia nella fase amministrativa (accertamento) sia nella successiva fase giudiziale (ricorso tributario), se necessario. Di seguito una panoramica dei passaggi procedurali e dei diritti del contribuente nelle varie fasi.

Fase di accertamento e indagine fiscale: Tutto inizia spesso con una verifica o un controllo fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate (talvolta avviato da segnalazioni o dallo scambio di informazioni con Paesi esteri). In questa fase: – Verifica fiscale: se subite un’ispezione (ad es. una verifica della Guardia di Finanza in azienda), prestate attenzione a cosa viene constatato. Fornite collaborazione ma senza ammissioni improprie. Se emergono domande sulla sede effettiva, iniziate a fornire spiegazioni e mostrare documenti chiave (es. contratti di sede estera, ecc.). – Processo Verbale di Constatazione (PVC): al termine della verifica, i verificatori redigono un verbale con i rilievi. Se nel PVC si contesta l’esterovestizione, avete diritto di presentare osservazioni scritte entro 60 giorni prima che l’ufficio emetta l’avviso di accertamento (questa sospensione è prevista dallo Statuto del Contribuente, art. 12 c.7, in caso di verifiche in loco). Usate quel tempo per presentare una memoria difensiva confutando punto per punto i rilievi. – Contraddittorio: come detto, chiedete espressamente di essere sentiti. Se l’ufficio vi invita a comparire, preparatevi con un dossier e magari con il vostro consulente, per spiegare le vostre ragioni. È utile far mettere a verbale le giustificazioni fornite e consegnare una copia dei documenti salienti. – Accertamento con adesione: una volta ricevuto (eventualmente) un avviso di accertamento, avete la possibilità di presentare istanza di accertamento con adesione (entro 60 giorni) per cercare un accordo col Fisco. In materia di esterovestizione, se avete argomenti forti, a volte l’ufficio può essere disponibile a rinegoziare parte della pretesa (es. riconoscere alcune spese deducibili, ridurre sanzioni) pur di evitare un lungo contenzioso. Tuttavia, spesso su profili di residenza fiscale l’Agenzia è rigida, perché li considera casi di evasione conclamata. Valutate con il legale se tentare un’adesione possa portare vantaggi: sospende i termini del ricorso e può essere un terreno di confronto, ma non sempre frutta uno sconto significativo. – Emissione dell’accertamento: se non si raggiunge un accordo, l’ufficio emanerà l’avviso di accertamento motivato. Questo atto accerta la residenza fiscale italiana per i periodi d’imposta contestati e recupera le relative imposte, con sanzioni e interessi. Può anche contenere la contestazione di eventuali reati tributari (segnalando la cosa alla Procura).

Fase di giudizio – Ricorso in primo grado (Corte di Giustizia Tributaria di 1° grado, ex CTP): Entro 60 giorni dalla notifica dell’accertamento, il contribuente deve proporre ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale (ora rinominata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado). Aspetti cruciali: – Redazione del ricorso: il ricorso va motivato in modo chiaro e dettagliato, elencando sia le censure di legittimità (errori di diritto, vizi procedurali dell’atto) sia le censure di merito (contestazione dei fatti accertati). Ad esempio: si potrà eccepire la violazione di norme sul contraddittorio, l’errata applicazione di art. 73 TUIR, o la mancata considerazione della Convenzione contro doppie imposizioni (se pertinente). Sul merito, occorre descrivere i fatti reali (es: “La società ha effettivamente operato in Svizzera avendo uffici, personale…”), supportandoli con riferimenti a documenti che si allegano. – Documenti allegati: è fondamentale allegare al ricorso quanti più documenti probatori possibili a supporto. In sede di giudizio tributario, infatti, vige il principio del libero convincimento del giudice tributario: più prove fornite (documenti, foto, contratti, perizie) più possibilità di convincere. A differenza del processo civile, sono ammesse anche testimonianze scritte (dichiarazioni sostitutive di atto notorio) perché il processo tributario è formalmente documentale. Non sono invece ammessi testimoni orali in udienza, quindi se servono testimonianze, conviene raccoglierle in dichiarazioni giurate da allegare. – Sospensione della riscossione: se le somme accertate sono elevate e la loro riscossione metterebbe in crisi il contribuente, si può presentare un’istanza di sospensione al giudice tributario, chiedendo di bloccare la riscossione in pendenza di giudizio, evidenziando il periculum (danno grave e irreparabile) e il fumus boni iuris (motivi validi del ricorso). Nei casi di esterovestizione, se l’importo è milionario, i giudici spesso concedono la sospensione almeno parziale. – Discussione in udienza: il caso verrà poi discusso davanti al collegio tributario. È importante, soprattutto in casi complessi come questo, depositare eventuali memorie illustrative pre-udienza per ribadire i punti chiave e replicare alle difese dell’Avvocatura dello Stato (che rappresenta l’Agenzia). In udienza, l’avvocato del contribuente può sottolineare gli aspetti salienti: ad esempio, che l’ufficio non ha prove solide se non indizi, mentre il contribuente ha dimostrato XY.

Sentenza di primo grado e gradi successivi (appello e Cassazione): La Corte Tributaria emetterà quindi la sentenza. Se l’esito è sfavorevole, il contribuente può appellarla entro 60 giorni alla Corte di Giustizia Tributaria di 2° grado (ex Commissione Regionale). L’appello può contestare sia errori di diritto che di fatto della prima sentenza, portando eventualmente nuove prove se emerse dopo (in appello l’integrazione probatoria è limitata, ma possibile in certi casi). Anche l’Agenzia può appellare se perde in primo grado.

Nel giudizio di appello, la strategia è affinare ulteriormente la difesa: spesso i giudici di secondo grado sono più esperti e attenti ai principi di diritto. Si può evidenziare se ci sono state violazioni di norme UE (cosa che potrebbe spingere eventualmente a un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, in teoria) o discordanza con precedenti di Cassazione.

Infine, dopo la sentenza d’appello, c’è la possibilità del ricorso in Cassazione (entro 60 giorni). In Cassazione però si discutono solo questioni di diritto: non è più possibile rimettere in discussione i fatti accertati dal giudice di merito, a meno che non siano affetti da vizi logici macroscopici. In un caso di esterovestizione, tipiche questioni di diritto da portare in Cassazione potrebbero essere: l’errata interpretazione dell’art. 73 TUIR, il mancato rispetto di una norma UE, la violazione delle regole sulle presunzioni, ecc. La Cassazione ha già emesso molte pronunce su questi temi, quindi il ricorso deve essere ben argomentato richiamando magari gli orientamenti giurisprudenziali favorevoli (come quelli riepilogati sopra). Se la Cassazione accoglie il ricorso, può rinviare a giudizio di merito o decidere la causa se non servono ulteriori accertamenti di fatto.

Costo e rischio del contenzioso: Va considerato che il contenzioso tributario, specie su temi così complessi, può durare diversi anni (3-5 anni facilmente fino alla Cassazione) e comporta costi (compenso legale, contributo unificato, eventuali consulenze tecniche). Di contro, la posta in gioco – in termini di imposte e sanzioni – spesso è alta, giustificando la battaglia legale. È comunque utile, quando possibile, mantenere aperto un canale con l’ufficio per valutare soluzioni transattive: ad esempio, talvolta l’Agenzia può rinunciare a far scattare denunce penali se il contribuente si mostra collaborativo e paga il dovuto (oltre a sanzioni amministrative ridotte). Ogni caso fa storia a sé, e va attentamente pesato con l’aiuto dei consulenti.

Conseguenze in caso di accertamento: sanzioni tributarie e profili penali

Le conseguenze di un’accertata esterovestizione sono molto serie, sia sul piano fiscale (imposte e sanzioni pecuniarie) sia su quello penale per i responsabili. Di seguito riassumiamo i principali effetti in caso di contestazione fondata.

Recupero delle imposte evase: se una società (o persona) formalmente residente all’estero viene considerata fiscalmente residente in Italia, il Fisco procederà a tassare in Italia tutti i redditi ovunque prodotti, come se il contribuente fosse sempre stato soggetto all’imposizione italiana (principio di tassazione mondiale). Ciò significa: – Per una società esterovestita, verrà calcolata l’IRES dovuta sugli utili globali della società (deducendo eventualmente imposte estere pagate, nei limiti del credito d’imposta da convenzione) e, se del caso, l’IVA su operazioni imponibili svolte come soggetto nazionale . Ad esempio, se una società ha realizzato utili per 100 all’estero e lì pagato imposta 5, e in Italia l’IRES sarebbe 24, verrà chiesto di pagare la differenza (19) come imposta evasa, salvo diverse disposizioni convenzionali . – Per una persona fisica esterovestita, il Fisco recupererà l’IRPEF su tutti i redditi personali (esteri e italiani) percepiti negli anni di finta non-residenza, dando eventualmente credito per le imposte estere pagate su quei redditi (nei limiti previsti dalle convenzioni) .

In entrambi i casi, c’è il rischio concreto di doppia imposizione se nel frattempo si sono pagate tasse all’estero. Le convenzioni contro le doppie imposizioni in genere prevedono che l’Italia riconosca un credito per l’imposta estera pagata sul medesimo reddito . Tuttavia, questo spesso non copre l’intero divario, specie se si tratta di paradisi fiscali dove le imposte pagate erano zero o minime . Nella difesa sarà importante documentare dettagliatamente quanto è già stato versato all’estero, per ridurre l’importo del dovuto italiano ed evitare che si paghi due volte sullo stesso reddito.

Sanzioni tributarie amministrative: insieme alle imposte, l’accertamento comporterà l’irrogazione di sanzioni amministrative tributarie, in base al D.Lgs. 471/1997 e seguenti: – Omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs. 74/2000) – Nel caso di società esterovestita, l’atto di accertamento di solito contesta la mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali in Italia. A livello amministrativo, l’omessa dichiarazione comporta una sanzione dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con minimo € 250 . Se invece una dichiarazione in Italia c’era ma incompleta (per es. il soggetto dichiarava solo alcuni redditi), si applicherebbe la sanzione per dichiarazione infedele (dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta). – Altre violazioni: possono cumularsi sanzioni per omessa dichiarazione degli investimenti esteri (quadro RW, D.L. 167/90) se il soggetto non aveva segnalato il possesso della società estera o dei conti esteri – sanzioni che vanno dal 3% al 15% degli importi non dichiarati (raddoppiate se Paese black-list). Inoltre, dal 2024 c’è la già citata sanzione di €200-1000 per anno per omessa iscrizione AIRE, nel caso di persona fisica . – Riduzione delle sanzioni: talvolta l’Agenzia, se riconosce che si tratta “solo” di una questione formale di residenza, applica la sanzione nel minimo edittale (es. 120%). In sede di accertamento con adesione o di ricorso, si possono ottenere ulteriori riduzioni (1/3 sulle sanzioni in adesione, oppure riduzioni per conciliazione giudiziale, etc.). Resta importante evidenziare eventuale buona fede o obiettive condizioni di incertezza per chiedere la non applicazione di sanzioni (art. 6 D.Lgs. 472/97), ma non è semplice in casi di esterovestizione conclamata.

Conseguenze penali tributarie: l’esterovestizione, in quanto volta a evadere imposte, può integrare diverse fattispecie di reato tributario previste dal D.Lgs. 74/2000: – Il caso tipico è la Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000) – se i redditi della società estera non sono mai stati dichiarati in Italia superando le soglie di punibilità (attualmente €50.000 di imposta evasa annua), l’amministratore (o chi ha diretto le operazioni) può essere imputato per questo reato . La Cassazione penale ha confermato che, quando una società estera è esterovestita, l’amministratore di fatto italiano risponde di omessa dichiarazione in Italia “per la società falsamente estera” . La pena prevista per l’omessa dichiarazione va da 2 a 5 anni di reclusione. – Potrebbe concorrere anche il reato di Dichiarazione infedele (art. 4) se, ad esempio, alcuni redditi erano dichiarati ma altri occultati. Tuttavia nei casi di totale mancata dichiarazione dei redditi societari, prevale l’art. 5. – Se per porre in essere l’esterovestizione si sono utilizzati mezzi fraudolenti (es. false fatturazioni intercompany, doppi bilanci, ecc.), potrebbero addirittura configurarsi i più gravi reati di Dichiarazione fraudolenta (art. 3 o 4, a seconda dei mezzi) qualora applicabili, sebbene normalmente l’esterovestizione agisca più sul piano omissivo che su quello attivo di frode. – Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000): questo reato scatta quando, per evitare il pagamento di imposte già dovute (o sanzioni), si compiono atti fraudolenti sui propri beni rendendoli non aggredibili dal Fisco. Può entrare in gioco ad esempio se, una volta fiutato l’accertamento o a seguito di esso, il contribuente trasferisce beni di valore (immobili, liquidità) sotto una società estera o un trust per sfuggire alla riscossione coattiva. È punito con reclusione da 6 mesi a 4 anni. La Cassazione ha chiarito però (sent. n. 30933/2019, Sez. III pen.) che non integra il reato di sottrazione fraudolenta il semplice conferimento dei propri beni in una società se il debitore ne mantiene la disponibilità tramite la partecipazione . In quella vicenda, un contribuente aveva conferito immobili personali in una società estera di cui deteneva tutte le quote: i giudici hanno escluso il fumus del reato art. 11, perché l’operazione, pur volta a schermare i beni, non li aveva realmente sottratti al patrimonio del debitore (egli ne era ancora proprietario indiretto) . Attenzione però: se invece i beni vengono distratti in modo da renderli davvero irraggiungibili (vendite simulate a terzi, trasferimenti a prestanome, svuotamento di conti), l’art. 11 sarà configurabile eccome. – Sequestro preventivo e confisca: nei procedimenti penali per i reati sopra menzionati, è prassi il sequestro preventivo per equivalente dei beni dell’indagato fino a concorrenza dell’imposta evasa. Quindi l’amministratore italiano coinvolto rischia il sequestro di conti, immobili, auto, ecc. per garantire la futura confisca delle somme evase . Anche la società estera, se riconosciuta fittizia, può vedersi sequestrare i beni (es. immobili) in Italia. In diversi casi noti, appena scatta l’indagine penale l’autorità giudiziaria blocca il patrimonio disponibile degli indagati per assicurare il pagamento dell’evasione.

Da notare che l’ordinamento italiano non considera reato l’elusione fiscale (abuso del diritto) quando questa è già stata contestata in via amministrativa (art. 10-bis L. 212/2000 prevede la non punibilità penale per i casi di abuso senza frode). Tuttavia, l’esterovestizione – come visto – è qualificata dalla Cassazione come evasione/evasione fraudolenta, non come mera elusione . Pertanto non ricade in quella esimente: se il Fisco vi contesta esterovestizione, procederà come per un’evasione tout court, e gli eventuali reati tributari saranno perseguiti.

In sintesi, le conseguenze possono essere devastanti: – Recupero delle imposte arretrate (anche di 5 anni indietro, o oltre in caso di omessa dichiarazione). – Sanzioni pecuniarie molto elevate (talora pari al doppio dell’imposta). – Procedimenti penali a carico degli amministratori/responsabili, con rischio di condanne detentive e sequestri patrimoniali. – Danno reputazionale: un’impresa scoperta esterovestita perde affidabilità verso banche, clienti, etc., e la notizia può finire sulla stampa locale.

Ciò evidenzia quanto sia importante muoversi con prudenza e in modo legale quando si pianificano delocalizzazioni societarie: le scorciatoie possono costare caro. Fortunatamente, con una difesa ben costruita è possibile – nei casi di reale sostanza all’estero – evitare o ridurre drasticamente queste conseguenze.

Domande frequenti (FAQ)

Di seguito alcune domande comuni in materia di esterovestizione, con relative risposte sintetiche, per chiarire gli ultimi dubbi pratici.

  • D: Una società estera con amministrazione di fatto in Italia può essere accusata di esterovestizione anche se non possiede partecipazioni o beni in Italia?
    R: Sì, è possibile. In tal caso non si applica la presunzione automatica del comma 5-bis dell’art. 73 TUIR (che richiede partecipazioni italiane per attivarsi), ma restano applicabili i criteri ordinari di residenza fiscale . Ciò significa che se di fatto la società è gestita dall’Italia (ad es. amministratore e uffici di fatto in Italia, affari condotti da qui), l’Agenzia Entrate può comunque accertarne la residenza italiana in base alla sede di direzione effettiva. La differenza è che senza la presunzione specifica, l’onere della prova iniziale spetta al Fisco (deve fornire indizi solidi), mentre al contribuente spetterà poi fornire la prova contraria. In sintesi: anche senza partecipazioni in Italia, una società esterovestita rischia l’accertamento, solo che il percorso probatorio è quello “generale” anziché basato su presunzioni legali.
  • D: Posso presentare un interpello all’Agenzia delle Entrate per avere certezza preventiva sulla residenza fiscale della mia società estera?
    R: In generale no, non è possibile ottenere un parere vincolante ex ante sulla propria residenza fiscale . L’Agenzia considera gli interpelli su tale materia inammissibili, in quanto la residenza è un fatto e non una disposizione tributaria da interpretare . Il cosiddetto interpello “disapplicativo” (per chiedere di non applicare la presunzione anti-esterovestizione) è stato sempre respinto dall’Agenzia . L’unica eccezione potrebbe essere un interpello nell’ambito di un grande investimento internazionale (ruling cooperativo), ma parliamo di situazioni molto particolari. Pertanto, il contribuente deve in pratica valutare da sé la propria situazione in base alle regole e affrontare l’eventuale verifica a posteriori, fornendo allora le prove. Non c’è modo di avere una “certificazione preventiva” di non esterovestizione.
  • D: Un certificato di residenza fiscale rilasciato dal Paese estero mi mette al riparo da accertamenti in Italia?
    R: No, non in automatico. Il certificato di residenza estero attesta che per lo Stato estero siete lì residenti, ma non vincola il Fisco italiano . Serve certamente a evitare doppie imposizioni (perché per applicare i benefici dei trattati spesso viene richiesto), ma in sede di accertamento l’Italia guarderà alla sostanza: se tutti gli indizi dimostrano che in realtà vivevate/operavate in Italia, il certificato verrà considerato un elemento secondario e superabile . Lo ha ribadito la Cassazione: «un certificato di residenza all’estero è solo un elemento formale e marginale» se i fatti concreti indicano una gestione in Italia . Quindi è utile averlo, ma va corroborato con altre prove (contratti di affitto, bollette estere, ecc.) per avere peso.
  • D: Se la mia società estera viene considerata fiscalmente residente in Italia, rischio di pagare le tasse due volte sugli stessi redditi (estero + Italia)?
    R: L’obiettivo del Fisco italiano è tassare in Italia i vostri redditi mondiali; però non può ignorare completamente quanto avete già pagato all’estero. In base alle convenzioni contro le doppie imposizioni, avete diritto a un credito d’imposta per le imposte estere pagate sui redditi che l’Italia sottopone a tassazione . Ad esempio, se la società ha pagato €10.000 di tasse all’estero e in Italia per quei redditi ne sarebbero dovuti €15.000, l’Italia vi chiederà la differenza (€5.000) . Se invece all’estero non avete pagato nulla (caso tipico dei paradisi fiscali), l’Italia potrà esigere l’intero ammontare come se nulla fosse stato versato . In pratica quindi, non si ha una doppia tassazione integrale, ma un’integrazione: si paga in totale il più alto tra il livello estero e quello italiano. Attenzione però: per ottenere il credito d’imposta dovete documentare accuratamente le imposte pagate fuori (certificati del fisco estero, ricevute). Inoltre, se il Paese estero non ha trattato con l’Italia, potrebbe essere più complesso ottenere questo riconoscimento.
  • D: Quali accorgimenti devo adottare per evitare di incorrere in contestazioni di esterovestizione?
    R: In generale, dare sostanza reale al trasferimento all’estero. Consigli pratici:
  • Mantenere un assetto operativo effettivo nel Paese estero: ufficio vero (anche piccolo), utenze e contratti intestati alla società lì, eventualmente personale o collaboratori locali .
  • Mix nella governance: evitare che tutti gli amministratori siano italiani residenti in Italia; nominare se possibile amministratori o procuratori residenti sul posto che partecipino effettivamente alla gestione .
  • Documentare le decisioni all’estero: tenere verbali dettagliati di ogni riunione importante, con luogo di svolgimento all’estero; conservare biglietti di viaggio che provino la presenza fisica degli interessati fuori Italia nelle date delle riunioni.
  • Limitare al minimo i legami con l’Italia: ad esempio, se la società estera interagisce con aziende italiane del vostro gruppo, fate che i rapporti siano a condizioni di mercato e non di comodo; se avete ancora beni personali in Italia, valutate di spostarli all’estero se coerente col trasferimento. Ogni ancora in Italia (casa, famiglia, auto, conti bancari) è un elemento che potrebbe generare sospetti.

In sintesi, ogni aspetto – sia strutturale che comportamentale – deve confermare che attività e interessi sono davvero radicati all’estero . Solo così potrete dimostrare che il trasferimento è genuino e non fittizio. Se invece la vostra vita/business restano in Italia e all’estero c’è solo una targhetta su una porta, sarà questione di tempo prima che il Fisco lo contesti.

Caso pratico: simulazione di contestazione e difesa

Per concretizzare i principi esposti, consideriamo un esempio pratico di contestazione e la possibile difesa dal punto di vista del contribuente.

Scenario: La Alfa S.r.l. è una società costituita a Londra nel 2021, con socio unico e amministratore il sig. Rossi, cittadino italiano residente vicino Milano. L’oggetto sociale è consulenza informatica. Nei fatti, il sig. Rossi svolge consulenze per aziende italiane via remoto; la società Alfa ha un piccolo ufficio in un business center di Londra, usato saltuariamente. Tutti i clienti pagano su un conto bancario della società a San Marino. Il sig. Rossi risulta iscritto all’AIRE dal 2021 come residente nel Regno Unito, ma trascorre gran parte del tempo in Italia (dove ha famiglia e dove lo vedono spesso i clienti). Nel 2024 l’Agenzia delle Entrate avvia un controllo: emergono fatture emesse da Alfa Srl a diverse società italiane. Viene contestato che Alfa Srl è esterovestita, essendo in realtà gestita e operante in Italia. L’ufficio notifica un avviso di accertamento per gli anni 2021-22, indicando: – Residenza fiscale di Alfa Srl in Italia ai sensi art. 73 TUIR (sede di direzione effettiva in Italia). – Recupero di €300.000 di IRES non versata, oltre IVA su alcune operazioni interne, sanzione 150% e interessi. – Segnalazione per omessa dichiarazione (reato art. 5 D.Lgs. 74/2000).

Difesa del contribuente (sig. Rossi): Avviato il contenzioso, il sig. Rossi – con il supporto di un avvocato tributarista – imposta così la difesa: 1. Eccezioni preliminari: si contesta che non è stato attivato il contraddittorio prima dell’accertamento (in effetti l’ufficio non ha inviato invito a comparire né PVC). Questo potrebbe configurare un vizio procedurale rilevante, dato che trattasi di imposte sui redditi (non armonizzate) – qui la giurisprudenza è oscillante, ma si prova a far leva sull’obbligo derivante da buona fede e Statuto Contribuente. 2. Merito – sostanza estera: si sostiene che Alfa Srl ha una presenza reale a Londra. Viene prodotta copia del contratto di affitto dell’ufficio nel business center, con relative bollette UK. Si allegano contratti di consulenza con due clienti britannici (anche se marginali rispetto al fatturato totale) a riprova che esiste attività fuori Italia. Si evidenzia che la società ha pagato imposte in UK (aliquota 19% per 2021) – allegando dichiarazioni fiscali inglesi – e quindi non aveva un risparmio d’imposta significativo (questo per sostenere che non vi era un fine esclusivamente fiscale, anche se la Cassazione dice che non rileva ai fini evasione, può influenzare come elemento di buona fede). 3. Prova della direzione estera: per confutare l’asserzione che tutte le decisioni erano in Italia, il sig. Rossi presenta i verbali assembleari e di CDA di Alfa Srl, firmati in originale a Londra (facilmente predisposti retroattivamente, ma comunque datati e con timbri di un notaio UK che li ha vidimati). Porta anche estratti conto bancari che mostrano spese di vitto e alloggio a Londra in occasione di riunioni con un commercialista locale. Inoltre, una dichiarazione del fiduciario londinese che ospita la sede, attestante che il sig. Rossi era fisicamente presente diverse volte l’anno per gestire l’azienda. 4. Argomentazione giuridica: la difesa argomenta che Alfa Srl non è una costruzione artificiosa: esiste un ufficio, qualche cliente in UK, e l’amministratore si è anche trasferito (formalmente) in UK. Richiama la libertà di stabilimento UE e la dottrina Cadbury Schweppes, sostenendo che l’operato societario non è “puramente artificiale” ma ha un minimo di sostanza economica, sufficiente a legittimare la scelta imprenditoriale. Sottolinea che la normativa anti-esterovestizione va applicata col bilancino nell’UE: se la società ha una vita effettiva, l’accertamento sarebbe una violazione del diritto UE. 5. Richiamo convenzione: poiché Italia e UK (all’epoca 2021) avevano ancora il trattato contro doppie imposizioni in vigore, si invoca la tie-breaker rule per le persone giuridiche: articolo che prevede che in caso di doppia residenza di una società, la si consideri residente dove si trova la sede di direzione effettiva o attraverso procedure amichevoli tra Stati. Si fa notare che l’Agenzia non ha attivato alcuna procedura di accordo con l’HMRC inglese e unilateralmente dichiara la residenza in Italia. Questo viene dipinto come contrario al trattato. 6. Prova contraria degli indizi del Fisco: uno ad uno si smontano gli elementi presuntivi indicati nell’accertamento: – Il Fisco dice “tutti i clienti sono italiani”: la difesa mostra che uno dei clienti, seppur di poco peso, è UK, e altri italiani comunque interagivano anche con l’ufficio di Londra (email e call fatte con fuso orario UK, etc.). – Il Fisco evidenzia “conto bancario a San Marino”: la difesa replica che ciò era dovuto a ragioni operative (San Marino è usato come clearing internazionale, ma i fondi poi venivano girati su conto UK per spese). Si porta estratto del conto UK. – Il Fisco nota “famiglia di Rossi in Italia”: la difesa minimizza questo fatto sostenendo che Rossi, essendo single (ipotizziamo), aveva interessi soprattutto nel lavoro che ormai era rivolto all’estero, e la presenza in Italia era dovuta solo a un periodo di pandemia o necessità occasionali. 7. Conclusione difensiva: si chiede l’annullamento dell’accertamento per mancanza dei presupposti, in subordine una drastica riduzione di imponibile e sanzioni riconoscendo la buona fede e l’esimente dell’obiettiva incertezza (visto il quadro post-Brexit, etc.).

Esito possibile: In questo scenario simulato, molto dipende dalla valutazione probatoria del giudice. Se i documenti prodotti appaiono poco convincenti o artificiosi, e in effetti il grosso dell’attività era concentrato in Italia, è probabile che l’esterovestizione venga confermata. La società Alfa Srl verrebbe quindi trattata come residente in Italia nel 2021-22, con obbligo di pagare le imposte e relative sanzioni (magari ridotte al minimo in considerazione del contenzioso in buona fede). Il sig. Rossi rischierebbe sul penale per omessa dichiarazione, ma potrebbe puntare ad attenuanti o patteggiamento, specie se nel frattempo paga il dovuto (pagando tutte le imposte evase prima della dichiarazione dibattimentale si ottiene una causa di non punibilità per alcuni reati tributari, anche se per l’omessa dichiarazione attualmente l’esimente opera solo se paghi integralmente i debiti tributari entro il termine della dichiarazione successiva, condizione qui non rispettata).

Se invece la difesa riesce a far emergere zone grigie – ad esempio che l’amministratore effettivamente viveva metà settimana a Londra, che la società aveva costi significativi in UK a riprova di attività locale – il giudice tributario potrebbe dare ragione al contribuente, annullando l’accertamento per mancanza di prova di esterovestizione. In tal caso, anche il penale decadrebbe (perché verrebbe meno il fatto alla base).

L’esempio mostra come, in assenza di segnali netti di sostanza, difendersi sia arduo. Se Alfa Srl avesse fin dall’inizio avuto 2-3 dipendenti a Londra, un ufficio sempre aperto e metà dei clienti esteri, probabilmente neppure sarebbe stata contestata; o, in caso, avrebbe ottime chance di vittoria in giudizio.

Tabelle riepilogative

Di seguito alcune tabelle riassuntive dei punti chiave in materia di residenza fiscale e indici di esterovestizione:

Criteri di collegamento per la residenza fiscale delle società (prima e dopo la riforma 2024)

CriterioFino al 2023 (normativa previgente)Dal 2024 (D.Lgs. 209/2023) – Normativa vigente
Sede legaleLuogo indicato nell’atto costitutivo o statuto sociale (criterio formale). Basta la sede legale in Italia per essere considerati residenti (purché per >183 giorni/anno).(Invariato) Sede risultante da atto costitutivo/statuto. Resta criterio sufficiente di collegamento se in Italia per la maggior parte dell’anno .
Sede di direzione effettivaTradizionalmente intesa come “sede dell’amministrazione”, ossia luogo da cui partono le decisioni amministrative e gestionali di vertice.Definita espressamente come il luogo in cui avviene continuamente e in modo coordinato l’assunzione delle decisioni strategiche sull’azienda (place of effective management) . Se tale luogo è in Italia, la società è residente (criterio invariato, ma chiarito dalla definizione).
Oggetto principale / Attività“Oggetto principale” dell’attività sociale, determinato dall’atto costitutivo/statuto (o in mancanza, dall’attività effettivamente esercitata). Se l’oggetto principale si realizza in Italia, la società è residente .Gestione operativa prevalente: introdotta dal 2024, guarda alla attività d’impresa quotidiana svolta prevalentemente in Italia . È un criterio più concreto rispetto al generico “oggetto sociale”. Se la maggior parte dell’attività operativa si svolge in Italia, la società è considerata residente. (Di fatto questo nuovo criterio sostituisce e specifica il precedente oggetto principale).
NotaI tre criteri sono alternativi: ne basta uno perché scatti la residenza fiscale italiana . Il principio è quello della tassazione mondiale per i soggetti residenti. In caso di doppia residenza con altro Stato, si applicano le regole dei trattati (tie-breaker).(Immutato): la presenza in Italia di sede legale o sede effettiva o attività prevalente comporta residenza fiscale in Italia. In caso di doppia residenza, rimangono determinanti le convenzioni internazionali (che per le società tipicamente fanno prevalere la sede di direzione effettiva).

Indicatori di trasferimento “genuino” vs “fittizio” (contribuente persona fisica)

AspettoTrasferimento reale (genuino)Trasferimento fittizio (di comodo)
Iscrizione anagraficaCancellazione dall’anagrafe italiana e iscrizione all’AIRE tempestiva. Eventuale mantenimento di conti bancari e utenze all’estero intestati al contribuente .Iscrizione AIRE tardiva o assente. Contribuente rimasto iscritto in Italia per lungo tempo dopo il presunto espatrio . Magari presenza ancora di conti bancari e utenze attive in Italia.
Abitazione principaleCasa principale all’estero, con contratto di affitto o acquisto regolare, utenze (luce, gas, ecc.) intestate e consumi effettivi in loco .Casa di proprietà (o disponibile) in Italia ancora utilizzata regolarmente dal contribuente . Magari l’abitazione estera è solo saltuaria o di facciata (es. casa di parenti, Airbnb a tempo).
Presenza fisicaIl contribuente trascorre oltre 183 giorni all’anno all’estero (anche non continuativi). Viaggi frequenti verso l’Italia solo per vacanze brevi o visite occasionali .Il contribuente continua a passare molti mesi in Italia (magari >183 giorni sommando permanenze prolungate) . Esempi: figli ancora a scuola in Italia; lunghi periodi in Italia “non dichiarati”.
Interessi economiciAttività lavorativa e/o impresa svolta prevalentemente nel Paese estero. Conti bancari, investimenti finanziari e patrimonio principalmente localizzati all’estero. Se persona, anche la famiglia si è trasferita con lui/lei .Restano in Italia gran parte degli affari e interessi: cariche sociali in aziende italiane, proprietà di imprese o immobili in Italia non dismesse, conti bancari cospicui in Italia, ecc. La famiglia (coniuge, figli) è rimasta in Italia . In sintesi, il centro degli interessi vitali parrebbe ancora italiano.
Documentazione fiscaleIl contribuente presenta dichiarazioni dei redditi nel nuovo Stato, paga lì le imposte dovute sui propri redditi. Dispone di licenze, iscrizioni fiscali (es. partita IVA locale se dovuta) coerenti col trasferimento .Il contribuente non risulta attivo fiscalmente all’estero (ad es. non presenta dichiarazioni in loco, perché magari non aveva realmente redditi colà). In compenso emergono documenti italiani incompatibili con la residenza estera dichiarata (utenze, contratti, spese mediche rimborsate in Italia, ecc.) .

N.B.: Molti di questi indici sono valutati anche per le società attraverso le persone che le controllano (soci e amministratori). Ad esempio, se i soci/amministratori di una società estera risiedono in Italia e qui hanno famiglia e interessi, la società sarà più facilmente ritenuta esterovestita. Viceversa, se i decision-makers si trasferiscono stabilmente all’estero, anche la società ne riceve un’indicazione di sostanza estera.

Conclusione

Le contestazioni per uso di società di comodo all’estero rappresentano una materia insidiosa, in cui il confine tra lecito risparmio d’imposta e condotta elusiva/evasiva è sottile. L’ordinamento italiano, sostenuto dai principi internazionali, mette a disposizione del Fisco strumenti robusti per smascherare esterovestizioni e colpire duramente chi tenta di sottrarsi alle proprie obbligazioni tributarie. D’altro canto, il contribuente ha ancora spazi di difesa importanti, basati sul principio di realtà: se realmente l’attività è svolta altrove, ciò può (e deve) essere provato e riconosciuto.

Dal punto di vista del debitore che si trovi sotto accertamento, è fondamentale non scoraggiarsi e attivarsi prontamente: analizzare in dettaglio la contestazione, raccogliere le prove a discarico, verificare il rispetto delle garanzie procedurali (contraddittorio, motivazione, termini), e impostare una strategia integrata fiscale-penale. Come abbiamo visto, non tutte le contestazioni sono fondate: in diversi casi i contribuenti sono riusciti a dimostrare la legittimità delle proprie scelte e a far valere i propri diritti, soprattutto quando l’Amministrazione aveva agito in modo troppo automatico o ignorando la sostanza delle cose .

In definitiva, una contestazione per esterovestizione può essere respinta con solide argomentazioni giuridiche e prove concrete . Una pianificazione preventiva oculata, unita a una difesa tempestiva e competente, permette di tutelare l’impresa o il contribuente, dimostrando la legittimità delle proprie operazioni e riducendo al minimo i rischi fiscali e penali. Sempre meglio agire in anticipo (dotandosi di sostanza economica e consulenza qualificata) che dover correre ai ripari: la miglior difesa contro le contestazioni fiscali internazionali resta una corretta pianificazione e trasparenza sin dall’origine. In ogni caso, se vi trovate a fronteggiare un’accusa di aver usato una società di comodo all’estero, sappiate che esistono strumenti e precedenti per far valere le vostre ragioni – specie quando esse sono supportate dai fatti. Procedete con rigore, fatti alla mano e con l’assistenza di esperti: la vostra difesa comincia da una preparazione solida e informata.

Fonti: DPR 917/1986 (TUIR), artt. 2 e 73; D.Lgs. 74/2000, artt. 4, 5, 11; D.Lgs. 209/2023 (riforma fiscale internazionale); Cass. civ. Sez. Trib. nn. 34723/2022, 3386/2024, 23150/2022, 35284/2023; Cass. pen. Sez. III n. 30933/2019; Direttiva (UE) “ATAD3” 2021/0434 (Unshell); Circolare Agenzia Entrate 20/E/2024; Convenzioni contro doppie imposizioni (es. Italia-Emirati 2021); altre sentenze e documenti come citati nelle note.

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Le società di comodo costituite in giurisdizioni estere vengono spesso considerate dall’Agenzia delle Entrate come strumenti per occultare redditi, spostare utili o aggirare il fisco italiano. In particolare, se non svolgono un’attività reale, il rischio è che vengano qualificate come esterovestite o interposte fittizie, con conseguente tassazione in Italia.

👉 Prima regola: dimostra la sostanza economica e operativa della società estera, distinguendola da una semplice scatola vuota.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Società estere senza dipendenti, uffici o mezzi propri;
  • Sedi in Paesi a fiscalità privilegiata (black list);
  • Gestione effettiva dall’Italia nonostante la sede legale estera;
  • Mancanza di contratti e documentazione operativa;
  • Interposizione fittizia tra clienti/fornitori e società italiane.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Tassazione in Italia dei redditi della società estera;
  • Recupero delle imposte con sanzioni e interessi;
  • Applicazione delle regole sulle società non operative;
  • Sanzioni per dichiarazione infedele;
  • Responsabilità penale in caso di frode o false dichiarazioni fiscali.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Esistenza di una struttura operativa reale: uffici, personale, mezzi;
  • Documentazione contrattuale e contabile: ordini, fatture, bilanci esteri;
  • Residenza effettiva degli amministratori e luogo delle decisioni societarie;
  • Applicabilità di convenzioni contro le doppie imposizioni;
  • Motivazione dell’accertamento: il Fisco ha elementi concreti o solo presunzioni?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Bilanci e registri contabili della società estera;
  • Contratti con clienti e fornitori;
  • Documenti relativi a uffici, dipendenti e asset operativi;
  • Estratti conto bancari della società;
  • Verbali assembleari e prove delle decisioni prese all’estero.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la reale operatività della società estera;
  • Contestare la riqualificazione come società di comodo se priva di fondamento;
  • Eccepire vizi dell’accertamento: motivazione carente, irregolarità nella notifica, decadenza;
  • Richiedere autotutela se la contestazione ignora documentazione già prodotta;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
  • Difesa penale mirata in caso di accuse per frode fiscale internazionale.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza la struttura e le attività della società estera;
📌 Verifica la fondatezza della contestazione dell’Agenzia delle Entrate;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, in sede penale;
🔁 Suggerisce strategie preventive per la gestione trasparente di società estere ed evitare accuse di esterovestizione.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e società estere;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni di esterovestizione e società di comodo;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sull’uso di società di comodo all’estero non sempre sono fondate: spesso si basano su presunzioni generiche e non su prove reali.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la sostanza economica delle operazioni, evitare la riqualificazione come società fittizia e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.

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