Agenzia Delle Entrate Accerta Uso Illecito Di Società Veicolo: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché la società veicolo utilizzata è stata considerata uno strumento illecito di pianificazione fiscale? In questi casi, l’Ufficio presume che la società sia stata costituita al solo scopo di trasferire beni, utili o operazioni al fine di ridurre il carico fiscale, senza un reale motivo economico. La conseguenza è il recupero delle imposte, con applicazione di sanzioni, interessi e nei casi più gravi anche responsabilità penale. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa adeguata è possibile dimostrare la legittimità e la sostanza economica delle operazioni.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta l’uso illecito di una società veicolo
– Se la società non ha una reale struttura organizzativa o dipendenti
– Se i beni vengono trasferiti a valori incongrui rispetto al mercato
– Se le operazioni non hanno una giustificazione economica ma solo fiscale
– Se i flussi di utili vengono dirottati verso la società veicolo senza ragioni operative
– Se la società è localizzata in Paesi a fiscalità privilegiata ed è ritenuta una “scatola vuota”

Conseguenze della contestazione
– Riqualificazione delle operazioni come elusive o abusive
– Recupero delle imposte dirette e indirette ritenute indebitamente risparmiate
– Applicazione di sanzioni per abuso del diritto e dichiarazioni infedeli
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Possibile apertura di procedimenti penali per frode fiscale nei casi più gravi

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare che la società veicolo aveva reali motivi economici e gestionali
– Produrre contratti, bilanci e documentazione che giustifichino la sostanza delle operazioni
– Contestare la riqualificazione come abuso del diritto se vi sono state finalità organizzative o finanziarie legittime
– Evidenziare vizi di motivazione, errori di diritto o difetti procedurali nell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la struttura societaria e le operazioni contestate
– Verificare la legittimità della contestazione secondo la normativa tributaria e societaria
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi dell’accertamento
– Difendere la società e gli amministratori davanti ai giudici tributari
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da conseguenze sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della legittimità delle operazioni realizzate con la società veicolo
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: le contestazioni sull’uso illecito di società veicolo possono avere riflessi fiscali e penali. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e ben documentata.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni sull’uso illecito di società veicolo e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta a un contribuente l’uso illecito di una società veicolo, sta sostanzialmente accusando il contribuente di aver utilizzato una società (spesso definita società schermo o società di comodo) allo scopo prevalente di ottenere indebiti vantaggi fiscali. In altri termini, pur rispettando formalmente le norme, il contribuente avrebbe posto in essere un schema artificioso volto ad aggirare il fisco (il cosiddetto abuso del diritto). Tali contestazioni rientrano nell’ambito dell’elusione fiscale, distinta dall’evasione: nell’elusione il contribuente opera entro i confini formali della legge ma in modo contrario alla sua ratio, ottenendo benefici fiscali indebiti, mentre nell’evasione viola direttamente norme fiscali (omettendo dichiarazioni, annotando falsi, ecc.).

Questa guida avanzata – aggiornata ad agosto 2025 – offre un’analisi approfondita di come difendersi in caso di accertamento per abuso del diritto mediante società veicolo. È rivolta ad avvocati, imprenditori e privati, con linguaggio giuridico ma di taglio divulgativo, e adotta la prospettiva del debitore/contribuente che deve fronteggiare la contestazione. Verranno esaminati i riferimenti normativi italiani (dallo Statuto del Contribuente alle più recenti riforme), la giurisprudenza di legittimità più aggiornata, nonché gli strumenti difensivi (sia processuali sia deflattivi del contenzioso) disponibili. La guida comprende tabelle riepilogative, sezioni domande & risposte (FAQ) e simulazioni pratiche di scenari tipici in cui l’Agenzia delle Entrate può ravvisare un abuso tramite società veicolo, con indicazione delle possibili strategie difensive.

In breve: di fronte a un accertamento per uso illecito di società veicolo, il contribuente deve comprendere la natura della contestazione (abuso/elusione e non frode fiscale), conoscere i propri diritti procedurali (es. il contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio) e valutare i vari strumenti di reazione – dal dialogo con l’Ufficio (adesione, istanza di autotutela) al ricorso in Commissione Tributaria (ora Corte di Giustizia Tributaria) – per far valere le proprie ragioni. Fondamentale sarà dimostrare l’inesistenza dell’abuso, evidenziando le eventuali valide ragioni economiche delle operazioni contestate e/o smontando le presunzioni del Fisco. Nei paragrafi che seguono, approfondiremo tutti questi aspetti in dettaglio.

Normativa e principi generali sull’abuso del diritto fiscale

Per inquadrare correttamente il fenomeno, occorre partire dalla normativa italiana in tema di elusione fiscale (abuso del diritto) e dal significato di società veicolo o società schermo nell’ordinamento tributario.

Statuto del Contribuente, art. 10-bis: la disciplina generale dell’abuso del diritto è oggi contenuta nell’art. 10-bis della Legge 212/2000 (introdotto dal D.Lgs. 128/2015). Tale norma definisce come abusive le operazioni prive di sostanza economica che, ancorché formalmente nel rispetto delle norme fiscali, consentono al contribuente di ottenere vantaggi fiscali indebiti. In altre parole, si ha abuso del diritto quando l’operazione è essenzialmente priva di una valida ragione economica diversa dal risparmio d’imposta e mira principalmente a un vantaggio fiscale non voluto dal legislatore . La norma specifica che tali operazioni abusive non sono penalmente punibili (non costituiscono reato tributario), ma restano applicabili le sanzioni amministrative tributarie ove ne ricorrano i presupposti . Inoltre, l’art. 10-bis prevede importanti garanzie procedurali, come vedremo, imponendo all’Agenzia di formulare per iscritto al contribuente la contestazione di abuso e di attendere le sue controdeduzioni (diritto al contraddittorio). Se l’abuso viene confermato, gli atti posti in essere sono “non opponibili” al Fisco, il quale li riqualifica secondo la loro sostanza economica, richiedendo le maggiori imposte dovute.

Società veicolo o “società schermo”: non è un termine tecnico giuridico unico, ma nella prassi indica una società (di capitali o altra forma giuridica) costituita o utilizzata principalmente come strumento per conseguire un certo fine, spesso di natura fiscale. Un esempio tipico è la special purpose vehicle (SPV) creata per realizzare un’operazione straordinaria (es. acquisizione societaria mediante debito, c.d. leveraged buy-out), oppure la società meramente intestataria di beni o redditi altrui (società interposta). Quando queste società sono prive di autonoma sostanza economica e servono solo a ridurre il carico fiscale complessivo, si parla di società schermo. La Corte di Cassazione ha definito la società schermo come “una costruzione di puro artificio, diretta al raggiungimento di un mero beneficio fiscale indebito, attraverso la creazione di catene di società prive di effettività economica” . In sostanza, si tratta di entità giuridiche utilizzate come schermi per celare il reale soggetto che consegue i redditi o per mascherare operazioni che altrimenti sarebbero tassate in modo più oneroso.

Va sottolineato che l’abuso del diritto è una figura “residuale”: opera solo se non ricorre una violazione specifica di norme tributarie. Se il comportamento integra invece una vera e propria evasione (ad esempio emissione di false fatture, omessa dichiarazione di ricavi, simulazione assoluta), l’Amministrazione contesterà quelle violazioni specifiche – spesso con rilievo penale – e non si fermerà alla clausola generale antiabuso . L’abuso copre quindi condotte borderline, formalmente lecite ma sostanzialmente elusive. Ad esempio, costituire una società estera in un paradiso fiscale e non dichiararne gli utili in Italia può configurare evasione (se si occulta la residenza fiscale effettiva) oppure elusione (se formalmente la residenza estera è rispettata ma la struttura è di puro artificio): la linea di demarcazione dipende dalla concretezza dell’aggiramento e dalla presenza o meno di violazioni puntuali.

Interposizione fittizia (art. 37, co.3, DPR 600/1973): una norma chiave, antecedente e tuttora in vigore, riguarda la possibilità per il Fisco di “guardare attraverso” schermi societari o fiduciari. L’art. 37, comma 3, del DPR 600/1973 prevede infatti che in sede di accertamento “sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti, quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona” . Questa disposizione consente all’Amministrazione di ignorare la soggettività separata di un ente o di una persona interposta, attribuendo i redditi direttamente al soggetto che ne dispone effettivamente. La giurisprudenza ha chiarito che non rileva distinguere tra interposizione fittizia (meramente simulata) e interposizione reale: ciò che conta è individuare chi sia il vero dominus dell’operazione economica . Se una società di capitali è in realtà eterodiretta e usata da una persona fisica per veicolare redditi propri, l’art. 37, co.3, permetterà di tassare quei redditi in capo alla persona fisica. Anche eventuali sanzioni tributarie potranno colpire direttamente quest’ultima, poiché le violazioni – pur commesse formalmente dall’ente interposto – vanno riferite all’autore effettivo del comportamento elusivo . Importante: l’ambito originario di applicazione di questa norma è l’imposizione diretta, ma la Cassazione ne ha esteso i principi anche ad altri tributi come l’IVA, laddove vi sia un utilizzo distorto di soggetti interposti (configurando sostanzialmente un rapporto di mandato senza rappresentanza ai fini IVA) .

Validità delle operazioni e libertà di scelta: l’ordinamento riconosce comunque al contribuente la libertà di scegliere tra diverse operazioni o regimi previsti dalla legge, anche se ciò comporta un carico fiscale inferiore. L’art. 10-bis, comma 4, Statuto Contribuente, ribadisce che è sempre salva la libertà di opzione tra regimi diversi previsti dalla legge e tra operazioni che comportino un diverso carico fiscale. In pratica, non ogni scelta fiscale vantaggiosa è un abuso: lo diventa solo se si costruisce una forma giuridica anomala priva di sostanza economica allo scopo essenziale di aggirare la norma. Se invece il contribuente sfrutta un’agevolazione offerta espressamente dal legislatore, o adotta una delle alternative che la legge gli consente (ad esempio optare per un regime fiscale agevolato invece di uno ordinario), ciò rientra nella normale pianificazione fiscale lecita. La linea viene superata quando si crea uno “schema di puro artificio”, cioè una struttura artificiale che il legislatore non aveva previsto né voluto, allo scopo di ottenere benefici altrimenti non spettanti .

Onere della prova: nelle contestazioni di abuso del diritto l’onere probatorio è tendenzialmente a carico dell’Amministrazione finanziaria, che deve individuare e dimostrare gli elementi dell’operazione che rivelano l’intento elusivo (mancanza di sostanza economica, vantaggio fiscale indebito, assenza di valide ragioni extrafiscali). Tale prova può essere data anche tramite presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti, specie in casi di interposizione. Una volta che il Fisco abbia fornito un quadro presuntivo serio dello schema abusivo, spetta al contribuente l’onere di provare l’eventuale esistenza di reali ragioni economico-giuridiche dell’operazione e, in certi casi, di dimostrare fatti contrari (ad es. che le imposte dovute sono state effettivamente assolte dal soggetto interposto) . La Cassazione, ad esempio, ha di recente stabilito che provata dall’Ufficio l’esistenza di uno schema di interposizione (società interposta), non compete all’Agenzia l’ulteriore onere di dimostrare il mancato versamento d’imposta da parte dell’interposto; sarà invece il contribuente “interponente” a dover provare che l’imposta (es. IVA) è stata regolarmente assolta dal soggetto interposto . In sintesi, il Fisco deve provare il carattere abusivo dell’operazione (finalità fiscale prevalente e struttura artificiosa); il contribuente per difendersi dovrà provare l’esistenza di sostanza economica e di motivazioni extrafiscali non marginali, o comunque confutare gli elementi addotti dall’Ufficio.

Nessuna sanzione penale, ma sanzioni amministrative possibili: come accennato, l’abuso del diritto non configura reato (non si applicano le sanzioni penali tributarie). Tuttavia, l’Amministrazione in sede di accertamento può irrogare sanzioni amministrative (tipicamente, la sanzione per dichiarazione infedele per le maggiori imposte dovute in conseguenza del disconoscimento dello schema elusivo). Ad esempio, se tramite la società veicolo il contribuente ha ridotto indebitamente l’IRPEF dovuta, l’atto di accertamento recupererà l’imposta evasa e applicherà la sanzione amministrativa (oggi dal 90% al 180% della maggior imposta, salvo cause di non punibilità). Sono però possibili esimenti o attenuanti: lo Statuto del contribuente prevede che non siano applicate sanzioni quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata della norma tributaria (art. 10, co.3, L.212/2000) o se il contribuente si è conformato a indicazioni ufficiali dell’amministrazione finanziaria (circolari, risoluzioni) poi modificate. Nel caso dell’abuso, vi è stata discussione sull’applicabilità o meno delle sanzioni amministrative: attualmente, in base all’art. 10-bis, comma 13, L.212/2000, le operazioni abusive “restano ferme” ai fini delle sanzioni amministrative tributarie, ove ne ricorrano i presupposti (cioè se l’atto originario del contribuente ha comportato un’imposta inferiore a quella dovuta secondo la riqualificazione). Quindi, in linea generale, l’accertamento per abuso comporta sanzioni amministrative (salvo, ad esempio, che il contribuente avesse presentato una istanza di interpello prospettando l’operazione all’Agenzia prima di porla in essere: in tal caso se l’Agenzia non risponde o dà ragione al contribuente, non si applicano sanzioni). Più avanti illustreremo l’istituto dell’interpello anti-abuso come strumento preventivo.

Società veicolo e “abuso”: casi tipici contestati dal Fisco

In questa sezione esamineremo le principali situazioni in cui l’Agenzia delle Entrate può ravvisare un abuso del diritto tramite utilizzo di società veicolo. Distinguere i casi tipici è utile per capire come impostare la difesa. Ci concentreremo su tre macro-scenari:

  • (A) Società veicolo utilizzate da persone fisiche per celare redditi/proventi personali (società schermo interposte a fini di risparmio d’imposta).
  • (B) Società veicolo utilizzate in operazioni straordinarie d’impresa (fusioni, scissioni, acquisizioni) per ottenere vantaggi fiscali indebiti.
  • (C) Società esterovestite o schermi societari esteri per spostare fittiziamente la residenza fiscale o i redditi all’estero.

Vedremo per ciascun caso alcuni esempi concreti tratti dalla giurisprudenza, distinguendo quando l’operazione è stata ritenuta abusiva e quando invece si è riconosciuta la legittimità dell’operato del contribuente (presenza di valide ragioni economiche).

A. Società schermo per persone fisiche (interposizione soggettiva)

Un primo caso classico è quello della persona fisica (spesso imprenditore o professionista) che interpone una società tra sé e i proventi della propria attività, allo scopo di beneficiare di una tassazione inferiore o di schermare il patrimonio. Le modalità possono variare:

  • Società “di famiglia” per incassare compensi: Ad esempio un professionista costituisce una srl unipersonale a cui fa fatturare tutte le prestazioni professionali, lasciando l’utile nella società (tassato al 24% IRES) invece di dichiararlo come reddito personale (tassato ad aliquote IRPEF fino al 43%). Se la società non svolge una reale attività autonoma (è solo il professionista sotto altra veste), l’Agenzia può contestare un’abusiva interposizione fittizia: i redditi saranno attribuiti al professionista stesso ex art. 37, co.3 DPR 600/73, con richiesta della differenza d’imposta IRPEF e relative sanzioni per infedele dichiarazione. La Cassazione ha più volte avallato tali recuperi d’imposta, affermando ad esempio che una società priva di effettiva autonomia, utilizzata al solo fine di ottenere un risparmio fiscale personale, configura abuso del diritto .
  • Società che detiene beni ad uso personale: Un caso frequente è l’intestazione di beni come immobili, auto di lusso, imbarcazioni a una società invece che alla persona fisica che di fatto ne gode. L’obiettivo spesso è duplice: dedurre i costi di gestione a livello societario (riducendo il reddito tassabile) e non far emergere un arricchimento in capo alla persona. Anche qui l’Agenzia può sostenere che la società è un mero schermo senza attività propria: i costi dedotti dalla società verranno ripresi a tassazione (indeducibilità per mancanza di inerenza) e inoltre l’uso personale del bene sarà qualificato come beneficio in natura al socio (dividendo o compenso in natura, quindi tassabile). Se, ad esempio, una società posseduta da un individuo ha come unica attività la proprietà di una villa data in godimento gratuito al socio, il Fisco può contestare un utilizzo indebito dello schermo societario. Un caso concreto: la Cassazione ha ritenuto elusiva l’operazione con cui una società posseduta da privati, che di fatto non svolgeva impresa ma si limitava a concedere in uso gratuito ai soci un immobile (un capannone), veniva posta in liquidazione e tramite una scissione trasferiva il capannone ai soci senza corrispettivo. Tale schema è stato giudicato un abuso del diritto in quanto ha permesso ai soci di ottenere la disponibilità del bene sociale eludendo la tassazione che sarebbe derivata da una distribuzione diretta (dividendo o liquidazione tassabile) .
  • Società e gestione di attività soggette a requisiti personali: A volte la persona fisica non potrebbe svolgere direttamente una certa attività per vincoli legali, e cerca di farlo tramite società. Se la legge richiede requisiti personali non aggirabili, l’interposizione societaria può essere considerata un abuso. Un esempio è l’associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro: è vietato in alcuni settori (come la rivendita di generi soggetti a licenza personale, es. tabacchi). Se Tizio, privo di licenza, finanzia di fatto l’attività di Caio (titolare della licenza) e ne condivide utili tramite una società, l’operazione potrebbe essere contestata come nulla o elusiva perché aggira il divieto legale. In un caso del 2025, la Cassazione ha confermato che stipulare contratti di associazione in partecipazione vietati dalla legge di settore costituisce abuso e ha annullato l’atto impositivo solo perché l’Ufficio non aveva attivato il dovuto contraddittorio (tema di procedura di cui diremo) . Dunque attenzione: se una società è usata per “coprire” una persona che in realtà svolge un’attività a titolo individuale senza averne i requisiti, l’assetto può essere smascherato.

In tutti questi casi (società di comodo che incassa redditi altrui, società schermo patrimoniale, etc.), la difesa del contribuente sarà molto difficile se la società non ha substance. Una possibile linea difensiva è dimostrare che la società svolgeva effettivamente un’attività propria e non era una semplice pass-through. Ad esempio, nel caso del professionista con Srl, si dovrebbe provare che la Srl aveva mezzi, organizzazione e rischi propri tali da giustificare un’autonoma capacità d’impresa (scenario raro se l’unico “attivo” è il professionista stesso). Altre difese riguardano aspetti procedurali: contestare vizi dell’accertamento, la mancata prova da parte del Fisco di presupposti gravi/precisi/concordanti, o invocare l’esimente dell’incertezza normativa (se, ad esempio, il contribuente si era basato su una prassi o una consulenza che riteneva lecita la struttura). Tuttavia, la giurisprudenza recente è piuttosto chiara: “una società priva di effettiva attività economica, inserita a catena solo per ottenere vantaggi fiscali, configura abuso del diritto” e legittima l’Amministrazione a disregardare la società. Addirittura la Cassazione (sent. 33457/2023) ha affermato che non occorre distinguere tra interposizione simulata o reale ai fini fiscali: se c’è gestione occulta di una società da parte di persone fisiche (ad es. familiari che continuano a gestire una società ceduta a un prestanome), i redditi possono essere imputati a queste persone comunque . In tale pronuncia, riguardante un caso di frode IVA con società “cartiera” usata da due soci per compensazioni indebite, la Corte ha confermato l’attribuzione ai soci occultamente gestori dei maggiori redditi e delle relative sanzioni.

Un ulteriore profilo da menzionare è la “ristretta base societaria”: in società a ristretta base (pochissimi soci, spesso familiari), vige una presunzione in base alla quale gli utili extracontabili accertati alla società si presumono distribuiti proporzionalmente ai soci (a fini IRPEF). Questa non è esattamente abuso del diritto, ma è una presunzione anti-evasiva consolidata. Dunque, se il Fisco scopre che una società a 2-3 soci ha evaso imposte sociali, oltre a pretendere IRES evasa dalla società, spesso notifica accertamenti IRPEF ai soci per utili non dichiarati (salvo prova contraria dei contribuenti). Anche ciò va tenuto presente dal “debitore” persona fisica coinvolto in società veicolo: l’uso di una società non mette al riparo il socio dalle pretese fiscali sugli utili occulti.

Riassumendo, quando l’Agenzia accerta che una società è stata usata come alter ego di una persona, per eludere le aliquote progressive o fruire indebitamente di deduzioni/detrazioni, l’operazione sarà considerata abusiva. Il contribuente per difendersi dovrà puntare sulla sostanza economica (se c’è) o su vizi formali dell’accertamento. Ad esempio, potrebbe contestare che l’Ufficio non ha provato il “totale asservimento” dell’interposta all’interponente; oppure che esistevano ragioni extrafiscali (es. protezione patrimoniale, limitazione responsabilità) che però – attenzione – se non accompagnate da reale attività economica difficilmente saranno ritenute “non marginali”. La giurisprudenza infatti tende a vedere come abusiva la pura finalità di risparmio d’imposta o di segregazione patrimoniale senza altro contenuto economico. Nel dubbio, è sempre opportuno prima di implementare strutture del genere valutare strumenti preventivi (come l’interpello) di cui diremo nella sezione difese.

B. Operazioni societarie straordinarie (fusioni, scissioni, cessioni) con società veicolo

Le società veicolo sono spesso impiegate in operazioni straordinarie di impresa, e non sempre con intento elusivo: molte volte rispondono a logiche finanziarie o organizzative genuine (es. isolare un asset, facilitare un finanziamento, coinvolgere un nuovo investitore). Tuttavia, il confine con l’abuso del diritto è sottile quando l’operazione comporta risparmi d’imposta significativi. L’Agenzia delle Entrate è particolarmente attenta a schemi quali:

  • Merger Leveraged Buy-Out (MLBO): Si tratta dell’acquisizione di una società (target) mediante indebitamento attraverso una società veicolo (newco), seguita dalla fusione tra veicolo e target. L’effetto fiscale è che gli interessi passivi sul debito di acquisizione riducono l’imponibile della società target (post-fusione) e spesso si compensano utili con perdite pregresse. In passato il Fisco ha contestato molti LBO come operazioni elusive, sostenendo che l’unica finalità era far dedurre interessi e utilizzare perdite, ottenendo un risparmio altrimenti non spettante . La giurisprudenza, però, ha assunto negli anni un orientamento più equilibrato: un’operazione di LBO non è abusiva se sorretta da valide ragioni economiche, come la riorganizzazione degli assetti societari e di controllo, l’ingresso di nuovi soci e la necessità di ottenere finanziamenti bancari garantiti dai flussi della target . Ad esempio, la Cassazione (sent. 16559/2025) ha escluso la natura elusiva di un MLBO in cui una newco, partecipata dai vecchi soci e da un nuovo investitore qualificato, acquistava la società operativa con debito bancario e si fondeva in essa: ciò in quanto l’operazione era finalizzata a un effettivo mutamento dell’assetto di controllo (ingresso del nuovo socio di maggioranza) e imposta dalle esigenze dei finanziatori (che richiedevano la fusione per rafforzare le garanzie) . In questo caso, pur essendovi un risparmio fiscale (deducibilità interessi, uso di perdite), esso è stato ritenuto secondario rispetto alle ragioni extrafiscali (reperimento capitale e cambio governance). La stessa Agenzia delle Entrate, con la Circolare 6/E del 2016, aveva riconosciuto la liceità fiscale degli LBO quando rispondono a esigenze finanziarie reali, arrivando a raccomandare ai propri Uffici di abbandonare le contestazioni abusive sul mero “debt push down” degli interessi salvo casi di artificiosità evidente (ad esempio LBO circolari dove non vi è vero cambio di controllo) . Di contro, resta possibile la contestazione di abuso se l’LBO è puramente auto-finanziato dagli stessi soci con un giro artificiale: ad esempio, se i soggetti che controllavano la target prima dell’operazione rimangono sostanzialmente in controllo dopo, limitandosi l’operazione a trasformare utili futuri in oneri deducibili senza altri effetti economici, allora mancando un “change of control” sostanziale l’operazione può essere riqualificata come elusiva . Quindi, la presenza di un significativo mutamento nella compagine sociale (nuovi investitori terzi, diluizione dei precedenti soci) è spesso discriminante tra LBO lecito e LBO abusivo . In ogni caso, se vi viene contestato un LBO come abuso, la linea difensiva migliore è dimostrare analiticamente le valide ragioni extrafiscali: es. migliorare l’efficienza aziendale, garantire la continuità generazionale, accrescere il valore aziendale con nuovi capitali, ecc., supportandole con documenti (piani industriali, delibere bancarie, patti parasociali con nuovi soci) che provino che senza quell’operazione l’obiettivo non sarebbe stato raggiunto. La giurisprudenza dal 2019 in poi è ricca di decisioni in cui LBO complessi sono stati ritenuti legittimi proprio in virtù di concrete ragioni organizzative . Ad esempio, Cass. 869/2019 e 868/2019 hanno affermato la piena legittimità di un leveraged buy-out finalizzato all’ingresso di nuovi soci e realizzato con finanziamento bancario senza compromettere l’equilibrio finanziario della società obiettivo .
  • Leveraged Cash-Out / Dividend Washing: Schema vicino al LBO, consiste nel far pervenire liquidità ai soci attraverso operazioni societarie invece che per via di dividendi tassati. Un esempio è: i soci di Alfa S.p.A. rivalutano le partecipazioni (pagando un’imposta sostitutiva), poi cedono le azioni rivalutate a una Newco (società veicolo) partecipata anche da loro, incassando un corrispettivo elevato ma a tassazione ridotta (capital gain magari esente al 95% se il socio è società, o al 26% se persona fisica). La Newco finanzia l’acquisto indebitandosi e poi si fonde con Alfa, trasferendo su Alfa i debiti contratti. In sostanza i soci hanno “monetizzato” gli utili di Alfa trasformandoli in ricavo da cessione partecipazioni, evitando la tassazione piena del dividendo (che per persone fisiche sarebbe al 26% o a tassazione marginale se distribuzione di riserve). L’Agenzia tende a vedere questo tipo di operazioni come elusive, sostenendo che i soci avrebbero dovuto prelevare utili con ritenuta e che tutta la manovra è volta solo a evitare le imposte sui dividendi . Occorre però verificare i dettagli: se ad esempio l’ingresso di un investitore istituzionale è realmente avvenuto e l’operazione ha comportato un cambiamento nella struttura societaria (non una mera autoristrutturazione), possono valere le stesse considerazioni fatte per l’LBO. In una vicenda decisa dalla Corte di Giustizia Tributaria di Reggio Emilia nel 2025, riguardante proprio un cash-out con cessione di partecipazioni rivalutate a una SPV partecipata anche da un private equity, è stato riconosciuto che non vi era abuso perché l’operazione mirava a far crescere l’azienda con nuovi capitali e a riorganizzarne la proprietà, e non soltanto a trasformare dividendi in capital gain . In altri casi, però, in assenza di elementi sostanziali, la Cassazione ha ravvisato abuso. Ad esempio, la sent. Cass. 10305/2024 ha negato a una società “cassaforte” estera il beneficio dell’esenzione da ritenuta sui dividendi, ritenendola una società schermo interposta tra la società italiana e i beneficiari effettivi, priva di attività economica e creata al solo scopo di fruire indebitamente della convenzione contro le doppie imposizioni (in quel caso, la costruzione era considerata di puro artificio) . Questo per evidenziare che anche in ambito di pianificazione internazionale (holding estere, società di comodo estere) si applica il concetto di abuso: l’UE ha introdotto direttive anti-abuso (ATAD, Direttiva 2015/121 anti treaty shopping) e in Italia esistono norme come l’art. 44 co.2-bis TUIR sui dividendi a soggetti esteri controllati da italiani, che di fatto disconoscono i vantaggi se la società estera non ha sostanza.
  • Conferimento + cessione di partecipazioni (o scissione seguita da cessione): Un altro schema monitorato dal Fisco è il seguente: un imprenditore individuale o una società possiede un certo asset (es. un immobile, o un ramo d’azienda) la cui vendita sarebbe tassata in modo oneroso (come plusvalenza ordinaria). Allora prima conferisce l’asset in una nuova società (operazione fiscalmente neutra, senza realizzo di plusvalenze), poi cede le partecipazioni della nuova società al compratore finale. In tal modo la plusvalenza si manifesta sulle quote e può godere di regimi più favorevoli (per le società, l’95% dell’eventuale plusvalenza è esente per il regime PEX; per le persone fisiche, la cessione partecipazioni qualificate oggi è tassata al 26%). Uno schema analogo è la scissione: la società A scinde un asset in favore della beneficiaria B (scissione neutra fiscalmente), poi i soci di A cedono B al terzo acquirente, realizzando un capital gain su partecipazioni invece che far vendere l’asset ad A. Queste operazioni non sono di per sé vietate – anzi il legislatore prevede regimi di neutralità per favorire riorganizzazioni – ma se l’unico scopo è la “riqualificazione” di una plusvalenza per pagarci meno tasse, l’Agenzia può contestare l’abuso del diritto (aggiramento dell’art. 86 TUIR sulle plusvalenze ordinarie). La giurisprudenza in tema è casistica: occorre vedere se vi erano ragioni economiche oltre al risparmio d’imposta. Ad esempio, conferire immobili in società e cederne le quote può essere lecito se c’è un disegno di riorganizzazione patrimoniale o di coinvolgimento di nuovi soci; viceversa, farlo pochi mesi prima di vendere a terzi può apparire come una mera trasformazione di una vendita di immobile in vendita di quote. Nel 2024 la Cassazione ha affrontato casi simili: ad esempio, nella scissione liquidatoria già citata (Cass. 27905/2024), la Corte ha ritenuto che una scissione seguita da assegnazione di beni ai soci era elusiva perché la società scissa era inattiva e l’operazione mirava solo a far pervenire il capannone ai soci senza tassazione . Un altro caso emblematico è la scissione totale asimmetrica seguita da cessione: alcuni soci si separano con una scissione portandosi asset e poi vendono le loro quote; anche qui l’Agenzia spesso presume un abuso (vedendo l’operazione unitaria come vendita occultata). La difesa, per il contribuente, consisterà nel dimostrare che la scissione aveva una logica indipendente (ad es. separare litigi tra soci, isolare linee di business) e che la successiva cessione rientrava in un disegno imprenditoriale genuino, non deciso a tavolino fin dall’inizio per eludere tasse. Da segnalare, comunque, che con l’introduzione dell’art. 10-bis Statuto, l’Amministrazione deve contestare formalmente l’abuso con riferimento a queste operazioni e non può applicare sanzioni se ritiene che il contribuente abbia ragionevoli motivi (in caso di esimente).

In generale, per fusioni, scissioni, trasformazioni e altre operazioni societarie: la norma antiabuso impone un controllo sulla sostanza economica. Indici di mancanza di sostanza possono essere, ad esempio, società veicolo senza attività (costituite poco prima e liquidate subito dopo l’operazione), circolarità nei passaggi (es. patrimonio che esce e rientra agli stessi soggetti), incongruenze economiche (operazioni complesse e costose che non producono vantaggi economici se non il risparmio fiscale). È importante evidenziare che il contribuente ha diritto di scegliere forme giuridiche più convenienti se queste hanno una loro dignità economica: ad esempio, costituire una holding e fruire della participation exemption sui dividendi può essere fatto se risponde a esigenze organizzative (gestione centralizzata partecipazioni, tutela di patrimoni, passaggio generazionale). L’Agenzia non può sindacare la scelta in sé – tutelata dalla libertà di iniziativa economica – ma può colpire gli usi distorti: p.es., creare catene societarie inutili solo per muovere utili in forma di dividendi esenti potrebbe essere contestato come costruzione artificiosa (come nel caso dei trattati internazionali con società conduit).

Difendersi nei casi di operazioni straordinarie: qui la documentazione e la pianificazione emergono fondamentali. Se l’Agenzia contesta l’abuso, il contribuente dovrà produrre tutto il materiale (delibere, pareri, studi di fattibilità, corrispondenza con banche/investitori) che attesti quali erano gli obiettivi non fiscali perseguiti e perché l’operazione contestata era necessaria o almeno funzionale a quegli obiettivi. Ad esempio, in un leveraged cash-out contestato, se si prova che bisognava liquidare un socio uscente e che l’operazione è stata decisa principalmente per ragioni di governance e finanziarie – con il risparmio fiscale come effetto collaterale – si potranno convincere i giudici dell’assenza di abuso . Molto utile in giudizio è anche richiamare le pronunce favorevoli: come visto, Cassazione e Corti di merito hanno ormai creato un orientamento secondo cui l’abuso non ricorre se l’operazione è spiegabile altrimenti che col mero intento fiscale . Citare sentenze come Cass. 16559/2025 (MLBO lecito per riorganizzazione) o Cass. 868-869/2019, o altre di merito (es. CT Reg. Lombardia 2018 sul cash-out), può aiutare a sostenere la propria tesi.

C. Società esterovestite e schermi transnazionali

Un ulteriore scenario rilevante è l’esterovestizione, ossia la fittizia localizzazione all’estero di società o residenze per godere di regimi fiscali più favorevoli. Qui siamo al confine tra elusione ed evasione: se la società estera è solo di facciata ma l’effettiva direzione è in Italia, la legge (art. 73 TUIR) la considera comunque residente in Italia (quindi evasione se non ha dichiarato in Italia). Spesso tuttavia vengono creati schemi più complessi per rendere difficile l’accertamento: ad esempio, una holding in un Paese a bassa tassazione che detiene partecipazioni di società italiane e incassa dividendi, dichiarando di non avere stabile organizzazione in Italia. L’Agenzia può contestare che la holding è società schermo estera priva di sostanza (nessun ufficio, nessun dipendente, amministrata di fatto dall’Italia) e disconoscere i benefici convenzionali o un regime di esenzione. Un caso concreto riguarda l’applicazione dei trattati contro doppie imposizioni e della direttiva madre-figlia: la Corte di Cassazione ha negato a una società estera il beneficio di esenzione su dividendi italiani perché considerata una conduit company (schermo interposto): la definizione data – già citata – è quella di società “costruzione di puro artificio” priva di attività economica, volta solo a ottenere vantaggi fiscali . Questa pronuncia (Cass. 10305/2024) di fatto applica in ambito interno i principi anti abuso europei (direttiva 2015/121/UE e giurisprudenza “Danish Cases” della Corte di Giustizia UE), affermando che i benefici convenzionali possono essere negati quando il percettore estero è un soggetto fittizio e i beneficiari effettivi dei redditi risiedono in Italia. Dunque, per un contribuente italiano coinvolto, ciò significa che i dividendi pagati alla società estera saranno riqualificati come pagati direttamente ai soci italiani (con ritenute o tassazione integrale in Italia).

Altre situazioni: Società estere con amministratori italiani, sedi fittizie presso società di consulenza, ecc. L’Agenzia può avvalersi di scambi di informazioni internazionali per raccogliere evidenze (es. la mancanza di sostanza). Difendersi da un’accusa di esterovestizione richiede di provare la realtà estera: ad es. dimostrare che la società estera svolge attività nel suo Paese, che ha management locale, uffici, che le decisioni non sono prese in Italia. Se l’esterovestizione viene accertata come tale, non si parla neanche più di abuso ma di applicazione diretta delle norme sulla residenza fiscale, con recupero di tutte le imposte evase (e possibili profili penali per omessa dichiarazione estero). Se invece si resta sul piano dell’abuso del diritto (ovvero il contribuente ha formalmente rispettato le regole di collegamento ma l’operazione appare artificiosa), si potrà ricadere nel 10-bis. Per esempio, il conferimento di assets italiani in una società estera controllata per vendere poi le quote con tassazione nulla (schema usato in passato) è oggi contrastato dal 10-bis: l’Agenzia contesterà che l’operazione è priva di valide ragioni economiche e finalizzata solo a evitare la tassazione italiana della plusvalenza.

Trust e altri veicoli: Non sono oggetto principale di questa guida, ma merita un cenno il fatto che anche altri veicoli giuridici (trust, associazioni, fondazioni) possono essere usati come schermi. Il Fisco applica criteri analoghi: guarda alla sostanza (chi dispone realmente dei beni e redditi) e in presenza di trust “fittizi” o interposti attribuisce i redditi al disponente o beneficiario (art. 73 TUIR e varie circolari). La difesa in questi casi è molto tecnica (dimostrare l’effettiva autonomia patrimoniale e gestionale del trust, ecc.) e fuori dallo scopo specifico di questa trattazione, ma il concetto di fondo coincide: evitare costruzioni di pura forma.

Conclusione sezione casi tipici: La tabella seguente riepiloga alcuni esempi di utilizzo di società veicolo e l’esito fiscale che tipicamente ne deriva secondo la normativa e la giurisprudenza:

ScenarioDescrizioneEsito fiscale tipico se contestatoRiferimenti
Società schermo per personaSocietà priva di autonoma attività usata per incassare redditi o possedere beni di un individuo (es. professionista o socio unico).Redditi imputati direttamente alla persona fisica ex art. 37 co.3 DPR 600/73; disconoscimento dei vantaggi (costi indeducibili, ecc.) e sanzioni a carico della persona.Cass. 33457/2023: società usata da persone fisiche, irrilevante distinguere interposizione fittizia o reale . Cass. 18092/2023: onere sanzioni direttamente alla persona.
LBO senza cambio di controlloSoci costituiscono una newco indebita che acquista la loro società con debito, poi si fonde, ma i soci restano di fatto in controllo (nessun nuovo investitore reale).Contestazione di abuso del diritto: indeducibilità degli interessi passivi “artificiosi”, riqualificazione dell’operazione eventualmente come distribuzione di utili ai soci.Cass. 21614/2021 (esclusa deducibilità interessi in LBO circolare). Circ. AE 6/E-2016: raccomanda contestazione se stessi soci controllano target .
LBO/MLBO con valide ragioniLBO attuato con ingresso di terzi investitori e con effettiva riorganizzazione (es. banca impone fusione, nuovi soci di maggioranza).Non configurabile abuso: l’operazione ha sostanza economica (finanziamento altrimenti non ottenibile, cambio governance). I vantaggi fiscali (interessi dedotti, perdite utilizzate) sono effetti collaterali leciti.Cass. 16559/2025: MLBO non abusivo con riorganizzazione assetti di controllo ; Cass. 869/2019 e 868/2019: LBO legittimo se finalizzato a ingresso nuovi soci .
Scissione/Conferimento prima di cessioneAsset trasferito in nuova società (scissione o conferimento), poi venduto tramite cessione quote, riducendo la tassazione sulla plusvalenza.Se privo di ragioni extrafiscali forti (operazione effettuata solo per vendere), configurabile abuso: la plusvalenza non godrà del regime di favore ma verrà tassata secondo la sostanza (come cessione dell’asset). Possibile applicazione di imposta sostitutiva evasa, sanzioni infedeltà.Cass. 27905/2024: scissione societaria di società inattiva per assegnare immobile ai soci è elusiva . Cass. 24498/2015: conferimento + cessione partecipazioni senza valide ragioni è abuso (precedente su conferimenti frazionati).
Società esterovestitaSocietà formalmente estera ma gestita e operante in Italia, usata per accumulare utili con tassazione estera minore.Residenza fiscale riqualificata in Italia (tassazione integrale in Italia degli utili non dichiarati, con sanzioni e interessi; potenzialmente profili penali). In alternativa, disconoscimento di benefici convenzionali se società considerata schermo (ritenute applicate).Cass. 10305/2024: definizione società schermo estera come costruzione artificiosa per beneficio fiscale . Normativa: art. 73 TUIR (criteri residenza) e Clausole antiabuso trattati/direttive UE.

Nota: la tabella semplifica casi complessi; ogni situazione reale va valutata nei dettagli. Ad esempio, un LBO potrebbe combinare elementi leciti e profili dubbi, una scissione potrebbe avere più scopi oltre a quello fiscale, ecc. Ciò che il Fisco e i giudici guardano è il quadro d’insieme: “l’operazione economica che ha come elemento predominante ed esclusivo lo scopo di eludere il fisco costituisce condotta abusiva, la quale non ricorre qualora l’operazione possa spiegarsi altrimenti che con il mero intento di risparmio d’imposta” (Cass., principi consolidati ). Questa frase riassume l’essenza dell’abuso del diritto: se un’operazione sta in piedi anche senza il risparmio fiscale (perché ha vantaggi economici propri), allora non è abusiva; se invece senza il vantaggio fiscale non avrebbe senso economico, allora è presumibilmente un abuso.

Procedura di accertamento dell’Agenzia: diritti del contribuente (il “contraddittorio”)

Indipendentemente dal merito (cioè dal tipo di schema contestato), un aspetto fondamentale su cui il contribuente può e deve vigilare è il rispetto della procedura da parte dell’Amministrazione finanziaria nell’emissione dell’accertamento per abuso del diritto. La normativa antielusiva, fin dalla versione precedente (art. 37-bis DPR 600/73) e ancor più con l’art. 10-bis L.212/2000, prevede precise garanzie procedurali per il contribuente, la cui omissione comporta la nullità dell’atto.

Obbligo di preventiva contestazione e confronto: L’Agenzia delle Entrate, se intende contestare un’operazione come abusiva, deve notificare al contribuente una formale comunicazione (talora chiamata “invito a fornire chiarimenti” o “contestazione di operazioni abusive”) in cui descrive i motivi per cui reputa applicabile la disciplina antiabuso e l’indebito vantaggio ottenuto. Il contribuente ha per legge 60 giorni per rispondere con osservazioni e giustificazioni. Solo dopo aver valutato le risposte (o in caso di mancata risposta) l’Ufficio può emettere l’avviso di accertamento. Questo iter, analogo a quello previsto nei commi 4 e 5 dell’abrogato art. 37-bis DPR 600, è oggi sancito dall’art. 10-bis, commi 7 e seguenti, dello Statuto. La sua importanza è stata più volte ribadita: la Corte di Cassazione ha affermato che il contraddittorio endoprocedimentale specifico previsto in materia di abuso del diritto è obbligatorio sia che l’Ufficio contesti l’elusione ai sensi della norma generale (oggi art. 10-bis, ieri anche solo principi generali) sia che applichi la norma antiabuso tipizzata allora vigente (37-bis) . In una recente ordinanza (Cass. 10705/2025), la Suprema Corte ha annullato un accertamento per abuso proprio perché l’Ufficio, inizialmente qualificata la vicenda come elusiva, aveva poi cercato di trasformarla in una diversa violazione per sottrarsi all’onere del contraddittorio – tentativo giudicato inammissibile in quanto mutava la causa petendi dell’accertamento . Insomma, se l’Agenzia contesta abuso del diritto, deve instaurare il dialogo preventivo col contribuente sulle ragioni economiche delle operazioni, altrimenti l’atto è nullo.

Dal 2020 in avanti, l’obbligo di contraddittorio preventivo è divenuto tendenzialmente generale per gli accertamenti fiscali (in attuazione di principi UE e sentenze della Corte Costituzionale). Ma in materia di abuso era già espressamente previsto. È quindi buona prassi che, se si riceve un Processo Verbale di Constatazione (PVC) dalla Guardia di Finanza o un esito di controllo da cui emergono profili di abuso, il contribuente presenti fin da subito le proprie controdeduzioni difensive, chiedendo all’Ufficio il contraddittorio. Spesso l’Agenzia invia direttamente un “invito a comparire” o una “lettera di compliance” prima dell’avviso: è fondamentale partecipare e depositare memorie, perché è in quella sede che si può talvolta convincere l’Ufficio (o porre le basi per la futura difesa in contenzioso).

Chiarezza della contestazione: L’atto deve indicare chiaramente quali operazioni sono ritenute abusive, qual è il vantaggio fiscale contestato e perché le ragioni economiche addotte (se addotte) sono ritenute non valide o marginali. In difetto di motivazione adeguata, l’accertamento potrebbe risultare viziato. Ad esempio, se il Fisco si limita a dire “si ritiene abuso del diritto ex art. 10-bis” senza spiegare il come e perché, ciò lede il diritto di difesa. In sede di ricorso si potrà eccepire nullità per motivazione carente. Tuttavia, frequentemente gli avvisi di accertamento su questo tema sono molto analitici (spesso ripercorrono schemi, citano giurisprudenza, ecc.).

Atto impositivo e sanzioni: Dopo il contraddittorio (o in sua assenza, decorso il termine), l’Agenzia emette l’avviso di accertamento. In base all’art. 10-bis, l’atto deve anche riportare che trattasi di operazione abusiva e indicare che si provvede a disconoscere i vantaggi indebiti “senza applicazione di sanzioni penali tributarie” (ovviamente) e facendo salve le sanzioni amministrative. Nell’accertamento verranno quindi ricalcolate le imposte come se la società veicolo o lo schema non fosse stato posto in essere. Esempi: se imputazione di redditi a persona fisica, quell’importo sarà aggiunto al suo reddito imponibile con la relativa IRPEF; se indeducibilità di interessi da LBO, verrà aumentato il reddito della società di quell’importo; se disconoscimento di esenzione dividendi a società estera, verrà chiesta la ritenuta non operata, ecc. Le sanzioni amministrative tipiche saranno: dichiarazione infedele (oggi al 90% delle imposte non versate, aumentabile in caso di importi ingenti) oppure omesso versamento di ritenute se il caso è di ritenute non fatte, e così via. Da notare che spesso, se un caso è definito come abuso del diritto dall’Agenzia, quest’ultima applica (di norma) la sanzione in misura ordinaria e non aggravata, e non applica quella per operazioni simulate (che sarebbe più grave): riconoscendo che il contribuente ha operato formalmente secondo legge, non viene accusato di frode, dunque niente raddoppi di sanzione.

Ruolo della Guardia di Finanza: In accertamenti complessi come quelli su LBO o esterovestizioni, spesso a svolgere la verifica iniziale è la Guardia di Finanza – Nucleo di polizia economico-finanziaria, che redige un PVC. Nel PVC potranno emergere sia eventuali violazioni penali (es. false comunicazioni, se ci sono) sia il profilo elusivo. Il contribuente, ricevuto il PVC, può presentare osservazioni entro 60 giorni alla Direzione Regionale o Provinciale dell’Agenzia prima che questa emetta atto (è la procedura “PVC collegato ad adesione” di cui diremo, reintrodotta di recente con possibili vantaggi). Anche qui: non tacere – è opportuno sfruttare ogni sede per far valere le proprie ragioni.

Termini di decadenza: Gli accertamenti per abuso seguono i termini ordinari di decadenza (generalmente il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, ovvero settimo se dichiarazione omessa). Non c’è un raddoppio dei termini come per l’evasione fraudolenta (salvo che l’abuso nasconda in realtà reati, ma allora verrebbe riqualificato in quel senso). Pertanto, ad esempio, entro fine 2025 potranno essere notificati avvisi per l’anno d’imposta 2020 (dichiarazione presentata nel 2021). Il contribuente deve fare attenzione ai termini: se riceve un invito al contraddittorio a fine anno su annualità in scadenza, i 60 giorni di attesa possono essere abbreviati dall’ufficio utilizzando la facoltà di emettere prima l’avviso in casi di urgenza di evitare decadenza (come previsto dall’art. 10-bis, co. 5). In tal caso, comunque, l’obbligo di contraddittorio è temperato ma l’ufficio deve dimostrare l’urgenza.

Riassumendo i diritti del contribuente nella fase di accertamento:

  • Diritto al contraddittorio: essere informato in anticipo della contestazione di abuso e poter rispondere (in forma scritta e/o orale) prima dell’atto definitivo . La mancata attivazione rende nullo l’atto .
  • Diritto di conoscere i motivi specifici: l’avviso deve motivare su quali atti negoziali sono considerati privi di sostanza economica e quali vantaggi indebiti hanno prodotto.
  • Divieto di mutare in corsa la contestazione: l’Ufficio non può, in sede contenziosa, “cambiare veste” alla pretesa (es. sostenere che c’era una violazione diversa) per sanare un proprio difetto procedurale. Il giudizio deve vertere sull’abuso contestato in atto, o questo verrà annullato (principio affermato in Cass. 10705/2025) .
  • Diritto alla non autoincriminazione: anche se invitato a fornire chiarimenti, il contribuente non è obbligato a collaborare e il silenzio non può costituire autonoma prova a suo sfavore (può però far presumere mancanza di valide ragioni se nessuna viene addotta, attenzione). Se si risponde, è bene farlo con cautela, eventualmente con l’ausilio di un professionista, perché le risposte entreranno nel fascicolo e potranno essere usate a supporto o confutazione.
  • Possibilità di adesione durante il procedimento: in questa fase pre-atto, il contribuente può anche proporre una definizione per accertamento con adesione (se l’ufficio è disponibile) o una mediazione, evitando il contenzioso. Su questi strumenti deflativi ci soffermiamo nella prossima sezione.

In conclusione, l’accertamento per abuso del diritto è un procedimento dove forma e sostanza contano entrambe: la sostanza dell’operazione per il merito, la forma (procedurale) per la validità dell’atto. Un contribuente ben assistito potrà sollevare sia difese di merito (l’operazione non è abusiva per XYZ motivi) sia eccezioni procedurali (atto nullo per difetto di contraddittorio, motivazione carente, ecc.). Talvolta, vincere sul “vizio di forma” è più semplice, e ottiene comunque l’annullamento della pretesa. Dunque, verificare sempre se l’Agenzia ha rispettato i passi obbligati: se così non fosse, quella diventa una solida ragione di ricorso.

Strategie di difesa: strumenti deflativi e contenziosi

Passiamo ora dal cosa difendere (i motivi sostanziali e procedurali appena visti) al come difendersi concretamente. Il contribuente, dopo aver ricevuto un avviso di accertamento che contesta un abuso del diritto mediante società veicolo, ha davanti a sé diverse opzioni di reazione. Alcune permettono di evitare o chiudere rapidamente la lite (c.d. strumenti deflativi del contenzioso); altre implicano l’avvio di un ricorso giurisdizionale dinanzi alle Commissioni/ Corti tributarie.

È importante valutare attentamente pro e contro di ciascuna strategia, tenendo conto dell’ammontare in gioco, della solidità delle proprie argomentazioni, dei costi e tempi di un eventuale giudizio, nonché delle possibili sanzioni ridotte in caso di definizione agevolata. Illustreremo di seguito i principali strumenti di difesa a disposizione dal punto di vista del contribuente (debitore):

  • L’autotutela presso l’ufficio accertatore (per ottenere l’annullamento o la rettifica dell’atto senza ricorrere al giudice).
  • L’accertamento con adesione (definizione concordata dell’accertamento, con abbattimento sanzioni).
  • Il reclamo e mediazione tributaria (procedura obbligatoria sino al 2023 per le liti minori, ora non più obbligatoria ma comunque possibile su base volontaria).
  • L’acquiescenza o definizione agevolata (accettazione dell’atto con pagamento delle sanzioni ridotte).
  • Il ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria (ex Commissioni Tributarie), con eventuale conciliazione giudiziale in corso di causa.
  • Strumenti di tutela anticipata come l’interpello anti-abuso (in sede preventiva, da attivare prima di compiere l’operazione, ma lo citiamo perché è un’importante possibilità per evitare a monte il contenzioso).

Vediamo ciascuno di questi strumenti nel dettaglio, anche tramite una tabella riepilogativa.

Istanza di autotutela

L’autotutela è il potere dell’Amministrazione finanziaria di correggere o annullare spontaneamente i propri atti quando si accorga di errori o illegittimità evidenti. È prevista dall’art. 2-quater D.L. 564/1994 e da norme di attuazione interne all’Agenzia. In pratica, il contribuente può presentare un’istanza all’ufficio che ha emesso l’accertamento, esponendo le ragioni per cui ritiene l’atto errato o ingiusto e chiedendone l’annullamento (totale o parziale) in via di autotutela .

Quando utilizzarla: L’autotutela è indicata soprattutto se nell’accertamento ci sono errori palesi e documentabili. Ad esempio, errori di calcolo nell’importo, scambio di persona (atto intestato al soggetto sbagliato), mancata considerazione di documenti decisivi forniti, oppure se sono intervenuti fatti nuovi (es. una sentenza definitiva favorevole al contribuente sul medesimo tema, oppure un indirizzo di prassi che riconosce la non abusività di quell’operazione). Nell’ambito dell’abuso del diritto, l’autotutela potrebbe essere accolta se il contribuente porta all’attenzione elementi che l’Ufficio ignorava e che cambiano il quadro (ad esempio, prova di valide ragioni economiche che non erano state esposte in precedenza, o un chiarimento normativo).

Nel caso citato prima dell’LBO finito in Cassazione nel 2025, l’Agenzia aveva adottato un autotutela parziale in corso di causa, riducendo l’accertamento alla luce dei propri stessi chiarimenti sopraggiunti e riconoscendo parzialmente la validità dell’operazione (in linea con la Circ. 6/E) . Questo dimostra che l’autotutela può avvenire anche d’ufficio quando l’Amministrazione si rende conto di aver ecceduto nella pretesa.

Come procedere: L’istanza di autotutela va redatta in forma libera, preferibilmente su carta intestata del contribuente o del suo difensore, e indirizzata all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’atto (ad es. Direzione Provinciale XX – Ufficio Accertamento). Deve contenere i riferimenti dell’atto (numero, data, anno d’imposta), l’esposizione dei motivi per cui si ritiene l’accertamento errato o ingiusto, l’eventuale documentazione a supporto, e la richiesta esplicita di annullare/riformare l’atto in autotutela . È bene inviarla via PEC o raccomandata A/R per avere prova della presentazione.

Limiti: Bisogna ricordare che l’autotutela non sospende i termini per fare ricorso . Ciò significa che, anche presentando istanza di autotutela, il contribuente deve comunque (a scanso di sorprese) predisporre il ricorso entro 60 giorni dall’atto, a meno che ottenga nel frattempo un provvedimento espresso di annullamento. L’ufficio infatti non è obbligato a rispondere né ad annullare, nemmeno in presenza di un errore: l’autotutela è discrezionale . In pratica l’Amministrazione spesso la esercita per errori materiali o casi clamorosi di illegittimità, mentre difficilmente annulla un atto su questioni di merito controverse (preferisce far decidere al giudice). Pertanto, l’istanza di autotutela va tentata perché non costa nulla e talvolta porta a soluzioni (ad esempio correzioni di importi, sgravio di sanzioni evidenti), ma senza farci totale affidamento. È sconsigliabile presentare l’autotutela e non ricorrere, sperando in una risposta positiva: se poi non arriva o è negativa, trascorsi i termini il contribuente perde la possibilità di impugnare (l’atto diventa definitivo).

Esito dell’istanza: Se accolta, l’ufficio emana un provvedimento di annullamento (o rettifica) dell’accertamento, notificandolo al contribuente. Se parzialmente accolta, potrebbe ridurre la pretesa (in tal caso conviene far comunque partire l’adesione o ricorso per la parte restante, salvo soddisfazione completa). Se respinta (o silenzio), il contribuente dovrà procedere col ricorso o altri strumenti deflativi.

In sintesi, l’autotutela è uno strumento di buon senso: se, ad esempio, l’Ufficio ha chiaramente sbagliato a non considerare un documento, o se una successiva circolare dell’Agenzia stessa (o sentenza a sezioni unite) afferma principi che danno ragione al contribuente, un’istanza ben motivata può risolvere la questione senza contenzioso. Tenete però presente i limiti sopra esposti.

Accertamento con adesione

L’accertamento con adesione (disciplinato dal D.Lgs. 218/1997) è uno strumento che consente a contribuente e Ufficio di raggiungere un accordo sull’ammontare delle imposte accertate, evitando la causa. In pratica, è una trattativa: l’ufficio può ridurre le pretese (ad esempio riconoscere parzialmente le ragioni del contribuente, o eliminare alcuni rilievi) e il contribuente accetta di pagare quanto concordato, beneficiando di un forte sconto sulle sanzioni.

Quando e come si attiva: Una volta ricevuto l’avviso di accertamento, il contribuente ha 60 giorni per proporre istanza di accertamento con adesione alla Direzione che ha emesso l’atto. L’istanza, anche qui in carta semplice, chiede espressamente di essere ammessi a definizione con adesione e può indicare sinteticamente i punti su cui si vuole discutere. La notifica dell’istanza sospende per 90 giorni i termini per proporre ricorso (tempo in cui si svolgerà la procedura di adesione). L’Ufficio convocherà il contribuente (entro 15 giorni di solito) per un contraddittorio orale, durante il quale si esamineranno gli elementi del caso.

Nel caso di abuso del diritto, l’adesione può essere un momento di confronto proficuo: il contribuente può far valere le proprie ragioni economiche e l’Ufficio, se comprende che la tesi originaria di elusività è parzialmente debole, potrebbe ridurre l’importo accertato o ricondurre la sanzione al minimo. Da notare che tecnicamente l’accertamento con adesione non implica un’ammissione di colpa da parte del contribuente: è un accordo bonario. Pertanto, è lecito perseguirlo anche solo per convenienza economica, pur ritenendosi nel giusto, se l’alternativa è un lungo contenzioso incerto.

Vantaggi: In caso di adesione, le sanzioni vengono ridotte a 1/3 del minimo previsto (se l’atto riguarda imposte sui redditi, IVA, ecc. – questo era il regime ordinario). Ad esempio, una sanzione per infedele dichiarazione del 90% scende al 30%. Inoltre non si pagano interessi di mora futuri. A seguito dell’accordo viene redatto un atto di adesione con le somme dovute: il contribuente deve versare entro 20 giorni almeno un terzo del totale, e può rateizzare il resto (fino a 8 rate trimestrali se l’importo > €50.000). L’atto di adesione chiude definitivamente la questione per l’anno e i tributi oggetto, precludendo ulteriori pretese.

Possibili sviluppi recenti: La riforma fiscale in corso (legge delega 111/2023) ha ipotizzato di potenziare gli strumenti deflativi. Si parla di reintrodurre l’adesione ai PVC (verbali di constatazione) con sanzioni ridotte addirittura a 1/6, e di migliorare l’adesione ordinaria. Già ora, in base a prassi, se durante l’adesione emergono nuovi elementi, l’Ufficio potrebbe utilizzare l’adesione “integrativa” (ex art. 8-bis D.Lgs.218/97) per includere aspetti non considerati originariamente (ma che magari spuntano fuori a favore del contribuente). Questi dettagli però sono tecnici: ciò che conta è che l’adesione è un tavolo negoziale che spesso porta a soluzioni di compromesso. Ad esempio, l’Ufficio potrebbe dire: “Riconosciamo che c’era un certo valido motivo economico, quindi riduciamo l’imponibile accertato del 50% e applichiamo sanzione su quello 1/3 del minimo”. Sta al contribuente valutare se l’accordo conviene rispetto a un ricorso.

Quando conviene aderire? Dipende dalla forza del proprio caso e dal valore in gioco. Se il contribuente è convinto di avere ragione al 100% e ha elementi solidissimi (es. una sentenza della Corte Costituzionale in favore, oppure un caso totalmente in linea con altri vinti in Cassazione), potrebbe propendere per fare ricorso e puntare all’annullamento integrale. Tuttavia, nei casi di abuso spesso c’è un’area grigia e i giudizi possono essere incerti: qui l’adesione offre la certezza di chiudere con uno “sconto” sulle richieste. Anche l’aspetto psicologico conta: liberarsi di un contenzioso, evitare anni di tribolazioni e possibili esborsi maggiori se si perde.

Esempio pratico: Società Alfa riceve accertamento che nega deducibilità per €100.000 di interessi passivi da operazione reputata elusiva, con maggior IRES €24.000 e sanzione €21.600 (90%). Se Alfa fa adesione, magari l’ufficio accetta di ridurre l’imponibile a €60.000 (riconoscendo parziale economicità) e la sanzione al 1/3 del minimo sul nuovo imponibile (€7.200). Alfa pagherà dunque €60.000×24% = €14.400 di imposta + €7.200 sanzione + interessi legali, totale intorno a €22.000. Se andasse in giudizio rischierebbe di pagarne €45.600 (tra imposta e sanzione piena) oltre interessi se perdesse, oppure zero se vincesse. L’adesione elimina questo rischio con un esborso moderato. È una scelta caso per caso.

Procedura di adesione e punti da notare: Durante le riunioni in ufficio, è importante mantenere un atteggiamento collaborativo ma fermo sui punti di diritto a proprio favore. Tutto ciò che si dice può portare l’ufficio a capire meglio (nel bene e nel male) la situazione. Se emergono fatti nuovi favorevoli, si possono far mettere a verbale. Se l’accordo non si trova, nessun verbale viene sottoscritto e il contribuente potrà comunque fare ricorso (le posizioni espresse in adesione non lo vincolano poi in giudizio). Attenzione: se ci si accorda, l’adesione non è impugnabile; se non ci si accorda, l’accertamento originario resta valido e impugnabile. Infine, va ricordato che la legge (D.Lgs.218/97) prevede altre forme particolari di adesione: ad esempio adesione in corso di istruttoria (poco usata) e la menzionata adesione ai PVC che la delega fiscale vuole reintrodurre, utile se il contribuente vuol chiudere sin dalla fase di verifica.

Reclamo e mediazione tributaria

Il reclamo/mediazione tributaria era – fino al 2023 – una procedura obbligatoria per le controversie di valore non elevato, finalizzata a evitare l’avvio di un processo. In particolare, per gli atti di valore fino a €50.000 notificati fino al 2023 era necessario presentare un “reclamo” all’Ufficio prima di poter adire la Commissione Tributaria . Dal 4 gennaio 2024 questa procedura è stata abrogata in forza del D.Lgs. 156/2022 (attuativo della riforma della giustizia tributaria) . Dunque, attualmente, non è più obbligatorio proporre il reclamo per le nuove liti: il contribuente può ricorrere direttamente in giudizio anche per importi modesti .

Tuttavia, nulla vieta che il contribuente e l’Ufficio raggiungano comunque un accordo prima del giudizio (in forma di mediazione volontaria). Anzi, la prassi suggerisce che, pur eliminando l’obbligo formale, l’Amministrazione è sempre disponibile a valutare soluzioni transattive per importi limitati. Difatti, la ratio dell’istituto era deflattiva: le Direzioni provinciali spesso, in sede di reclamo obbligatorio, accoglievano parzialmente le ragioni del contribuente per evitare la causa (offrendo riduzioni delle sanzioni, o riliquidando l’imposta).

Oggi (2025), se l’atto è stato notificato entro fine 2023 ed è <=50.000 euro, permane l’obbligo di reclamo secondo la disciplina previgente. Se notificato dal 2024 in poi, invece, si può presentare ricorso diretto. In questo secondo scenario, nulla impedisce di allegare al ricorso una proposta di conciliazione (che è lo strumento conciliativo in corso di causa, di cui parleremo) o di contattare l’ufficio per trovare un accordo stragiudiziale.

Come funzionava il reclamo obbligatorio: Vale la pena di riepilogarlo brevemente (anche perché per gli atti 2023 è ancora in vigore): il contribuente presentava entro 60 giorni un’istanza di reclamo all’ufficio, che valeva anche come ricorso se non accolto. L’Ufficio aveva 90 giorni per rispondere; se accoglieva parzialmente, formulava una proposta di mediazione con rideterminazione di imposte e sanzioni (per legge, in caso di mediazione le sanzioni venivano ridotte al 35% del minimo). Se il contribuente accettava, la lite si chiudeva. Se non rispondeva o rifiutava, dopo 90 giorni il reclamo si “trasformava” in ricorso e la causa proseguiva in Commissione.

Vantaggi della mediazione (anche volontaria): in sede di mediazione l’Agenzia spesso applica lo sconto sanzioni previsto (oggi formalmente non obbligatorio, ma potrebbe concederlo): di solito, sanzioni ridotte al 35%. Ciò è persino più vantaggioso dell’adesione (che dà 1/3 = ~33%), quindi molto simile. Inoltre, l’accordo di mediazione può prevedere anche una riduzione della base imponibile o della pretesa, secondo quanto pattuito.

Mediazione volontaria nel 2025: se un contribuente con una piccola contestazione per abuso (es. €10.000 di imposte) vuole evitare la causa, può comunque inviare una sorta di “proposta di mediazione” all’ufficio contestualmente al ricorso, dicendo: “sono disposto a definire versando questo importo”. L’ufficio, specie per importi modici, ha interesse a chiudere (anche per statistica interna). Se l’accordo avviene, si redige atto di conciliazione (essendo ormai in fase di ricorso, tecnicamente è una conciliazione giudiziale).

In conclusione, se ci troviamo di fronte a importi contenuti, vale la pena esplorare la via dell’accordo bonario con l’ufficio, anche ora che il reclamo non è più obbligatorio. Ci si può avvalere del fatto che il dirigente può approvare riduzioni (entro certi limiti) per evitare cause.

Acquiescenza (definizione agevolata dell’accertamento)

L’acquiescenza è la scelta di non impugnare l’avviso di accertamento e pagarlo beneficiando di una riduzione delle sanzioni. Diversa dall’adesione (dove c’è trattativa), qui il contribuente sostanzialmente accetta la pretesa così com’è (o magari dopo un eventuale sgravio in autotutela) e paga entro i termini di legge. L’art. 15 del D.Lgs. 218/97 prevede che se non si propone ricorso entro 60 giorni e si versa tutto quanto dovuto, le sanzioni si riducono ad 1/3 (un terzo) di quelle irrogate. Ad esempio, sanzione 90% diventa effettiva 30%. Questo istituto è utile quando: l’accertamento è fondato e il contribuente preferisce chiudere presto; oppure quando l’Ufficio, magari su istanza del contribuente, rivede l’atto in autotutela parziale correggendo gli errori e il contribuente ritiene equo pagare il residuo (usufruendo dello sconto sanzioni).

Nel caso di abuso del diritto, l’acquiescenza può essere un’opzione se, ad esempio, l’importo non è alto e non conviene intraprendere lite, oppure se in autotutela l’ufficio riduce l’atto a una cifra accettabile. Bisogna fare attenzione ai tempi: per avere l’abbattimento a 1/3 occorre pagare entro i 60 giorni (o rateizzare ma attivando la definizione). Oltre, l’atto diventa definitivo con sanzioni piene e affidato a riscossione.

Differenza adesione vs acquiescenza: nell’adesione c’è possibilità di discutere e modificare l’atto, nelle acquiescenza no (prendere o lasciare). Se si è riusciti a ottenere già un buon risultato in adesione o autotutela, l’acquiescenza è semplicemente l’atto finale di pagamento col beneficio.

Ricorso in Commissione (Corte di Giustizia Tributaria) e conciliazione giudiziale

Se non si trova un accordo in via amministrativa, non resta che la strada del ricorso giurisdizionale. Il contribuente ha 60 giorni dalla notifica dell’avviso (estesi di 90 se ha presentato istanza di adesione, come detto) per depositare il ricorso presso la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente (nuova denominazione delle ex Commissioni Tributarie Provinciali). Nel ricorso vanno indicati i motivi di impugnazione – che nel nostro caso saranno presumibilmente: erronea applicazione della disciplina antiabuso (se riteniamo che l’operazione non fosse elusiva), carenza di motivazione o vizio procedurale (es. difetto di contraddittorio), eventuali altri vizi formali (notifica, sottoscrizione), e quant’altro il caso suggerisce. È altamente consigliato farsi assistere da un difensore abilitato (avvocato tributarista o commercialista) data la complessità della materia.

Sospensione dell’atto: Presentando ricorso, l’accertamento non viene automaticamente sospeso negli effetti esecutivi. Dal 2020 la riscossione frazionata prevede che, decorsi 60 giorni dalla notifica, l’Agenzia Entrate Riscossione può iniziare a riscuotere 1/3 delle imposte accertate (non delle sanzioni, solo imposta) in pendenza di giudizio, e in caso di esito sfavorevole aumentare poi la riscossione. Dunque, il contribuente potrebbe trovarsi richiesto di pagare una parte già durante il processo. Per evitare ciò (specie se la somma è rilevante e potrebbe causare danno grave all’azienda o alla persona), si può chiedere alla Corte una sospensione cautelare dell’atto. Nella memoria di costituzione o con istanza separata, si presenta istanza motivata di sospensione indicando il danno grave e irreparabile che deriverebbe dal pagamento immediato e le ragioni fondate del ricorso. La Corte fisserà un’udienza in tempi brevi e deciderà se sospendere l’esecutività dell’accertamento fino alla decisione di merito. Nei casi di abuso del diritto, trattandosi di aspetti giuridici complessi, spesso i giudici sono sensibili a concedere la sospensione quando vedono che il ricorso non è pretestuoso.

Il processo tributario: Senza entrare qui nel dettaglio del rito, ricordiamo che dal 2023 il processo tributario ha introdotto importanti novità: la figura del giudice monocratico per le liti fino a €3.000, la possibilità per il contribuente di ottenere spese di lite maggiorate in caso di soccombenza dell’Agenzia su mancato contraddittorio, e anche la possibilità (in appello) che il giudice riformi la decisione se l’Amministrazione non si costituisce. Inoltre, dal 2022 è ammessa la prova testimoniale per iscritto (novità che potrebbe avere applicazioni limitate in tema di abuso, ma utile se ci sono testimoni su certe operazioni).

Conciliazione giudiziale: Una volta incardinato il giudizio, le parti possono comunque trovare un accordo in qualsiasi momento prima della sentenza di primo o di secondo grado. La conciliazione può essere fuori udienza (con atto sottoscritto dalle parti da depositare in segreteria) oppure in udienza (davanti al giudice che prende atto). Il vantaggio principale è una ulteriore riduzione delle sanzioni: la legge prevede (dopo le modifiche del 2023) che in caso di conciliazione le sanzioni sono ridotte al 60% se l’accordo avviene in primo grado, o al 50% in secondo grado . Tradotto: si paga solo il 40% (in primo grado) o 50% (in appello) della sanzione irrogata. Questo incentivo si somma all’eventuale riduzione dell’imposta concordata. Ad esempio, se in giudizio l’Agenzia capisce che rischia di perdere, potrebbe offrire di abbattere l’imposta accertata del 30% e applicare sanzione al 40%: il contribuente, valutato il rischio/beneficio, può aderire e il giudice omologa la conciliazione. Attenzione però: con la conciliazione la controversia si chiude definitivamente, rinunciando ad ulteriori impugnazioni (per la parte conciliata).

Costi e tempi: Fare ricorso ha un costo (bolli, contributo unificato se valore oltre €3.000, parcella del difensore) e soprattutto un tempo di definizione che può essere lungo. In primo grado una causa può durare da 6 mesi a 2 anni mediamente; in appello anche di più; in Cassazione altri anni. Se i temi sono innovativi, si potrebbe avere convenienza a spingersi in Cassazione per ottenere un principio, ma nella maggior parte dei casi il contribuente punta a risolvere prima. Ecco perché spesso, nel corso del giudizio, si torna a valutare la conciliazione o altre definizioni (specialmente se compaiono normative di definizione agevolata contenziosi – provvedimenti straordinari che talvolta il legislatore emana).

Possibili esiti: Se il contribuente vince totalmente in primo grado, l’accertamento è annullato e l’Agenzia deve restituire l’eventuale importo già riscosso (oltre interessi). L’Agenzia però può appellare in secondo grado. Se il contribuente perde, può decidere se appellare: in materia di abuso si tratta di questioni spesso giuridiche, quindi appellabili e potenzialmente portabili fino in Cassazione. Da notare che dal 2023 è stata introdotta la figura del “rinvio obbligatorio in mediazione/appello” per le cause sotto €50.000: in appello, prima di procedere, la Corte tributaria di secondo grado deve valutare se proporre una conciliazione. Questo rafforza ancora l’idea di evitare il prosieguo.

In definitiva, la strada del ricorso è quella da intraprendere quando non si è trovato accordo e si ritiene di avere buone possibilità legali. Nel nostro contesto, potrebbe accadere ad esempio se l’Agenzia è rimasta intransigente su una certa contestazione di abuso e il contribuente, suffragato magari da solide sentenze a favore, decide di far valere le proprie ragioni in giudizio. Dovrà mettere in campo, nel ricorso, tutta l’argomentazione tecnica: dall’analisi economica dell’operazione (per provare la sostanza economica) alla confutazione dell’impostazione giuridica dell’Ufficio, citando la normativa, le circolari (ad es. Circ. 6/E 2016 se aiuta il caso), e i precedenti giurisprudenziali favorevoli.

Esempio di motivo di ricorso sul merito: “Erronea applicazione art. 10-bis L.212/2000 – Insussistenza di abuso del diritto. L’operazione di scissione contestata era motivata da valide ragioni economiche (come da documento allegato) e non aveva quale scopo predominante il risparmio d’imposta, di conseguenza la ripresa fiscale risulta illegittima alla luce dei principi affermati da Cass. n. 27870/2024 e n. 27905/2024 , nonché in violazione del comma 3 del citato art. 10-bis.”. A ciò un buon difensore aggiungerà l’analisi del perché il risparmio fosse secondario (numeri alla mano) e magari che comunque l’operazione rientra nella libertà di scelta ex comma 4.

Rischio oneri del processo: va ricordato infine che se si perde il ricorso, il giudice può condannare alle spese legali a favore dell’Agenzia (tipicamente qualche migliaio di euro a seconda del valore). Se invece si vince, normalmente vengono riconosciute le spese a favore del contribuente (che vanno però recuperate in concreto). Questo è un altro elemento da valutare nel decidere se conciliare o no durante la causa.

Interpello anti-abuso (prevenzione)

Prima di passare alle FAQ finali, spendiamo due parole su uno strumento che può evitare a monte situazioni spiacevoli: l’interpello probatorio anti-abuso (art. 11, co.1, lett. c) L.212/2000). Si tratta della possibilità per il contribuente di sottoporre preventivamente all’Agenzia una certa operazione prospettata, illustrandone il funzionamento e chiedendo se configuri o meno abuso del diritto. L’Agenzia deve rispondere entro 90 giorni. Se risponde riconoscendo che non c’è abuso, la sua risposta vincola gli uffici (quell’operazione non potrà essere contestata se attuata conformemente all’interpello). Se risponde che c’è abuso, il contribuente ovviamente sa che se la fa verrà ripreso, quindi potrà optare per una struttura diversa. Se non risponde nei termini, vige il silenzio-assenso (nessun abuso). L’interpello anti-elusivo è quindi uno scudo: il contribuente ottiene certezza sul trattamento fiscale prima di agire.

È chiaro che l’interpello va presentato prima di realizzare l’operazione (non serve a sanatoria dopo). Nel contesto di società veicolo, sarebbe opportuno utilizzarlo per operazioni straordinarie complesse o pianificazioni al limite: ad esempio, prima di fare un LBO controverso, o una scissione con assegnazione ai soci, si può inviare interpello all’AE-DRE competente spiegando il progetto, le ragioni economiche e chiedendo conferma che non integrerà abuso. L’Agenzia nelle sue risposte può anche dire: “riteniamo che lo schema presenti profili abusivi se realizzato così” – un warning che consente di modificarlo.

Certo, vi sono considerazioni pratiche: spesso le operazioni societarie devono essere fatte in tempi rapidi o si vuole evitare di scoprire le carte al Fisco in anticipo. Ma nei casi di genuina incertezza sulla portata della norma, l’interpello è uno strumento previsto e tutela anche da sanzioni (difatti se il contribuente segue la risposta AE, non può essere sanzionato; se l’AE non risponde e l’operazione era poi contestata, il fatto di aver interpellato e ricevuto silenzio-assenso è una forte difesa).

In sede difensiva post-fatto, evidenziare che l’operazione era talmente dubbia da essere oggetto di interpello mai risposto (se avvenuto) può essere un punto a favore del contribuente, a dimostrazione dell’obiettiva incertezza, utile perlomeno per chiedere l’esclusione delle sanzioni.

Di solito, per operazioni standardizzate l’Agenzia ha fornito anche linee guida (es. con circolari), per cui l’interpello è necessario solo in situazioni nuove o borderline.

Domande frequenti (FAQ)

Di seguito una serie di domande e risposte che riassumono in modo sintetico i punti chiave della guida, offrendo chiarimenti immediati su dubbi comuni di contribuenti e professionisti alle prese con accertamenti per abuso del diritto tramite società veicolo.

D: Cosa si intende esattamente per “società veicolo” e perché l’Agenzia delle Entrate la considera illecita in certi casi?
R: Per società veicolo si intende una società utilizzata essenzialmente come strumento per raggiungere uno scopo specifico. In sé non è illecita: è normale creare società per esigenze legittime (ad es. SPV per un progetto finanziario). Diventa un uso “illecito” agli occhi del Fisco quando la società appare come schermo artificioso privo di reale attività, inserito solo per ottenere un vantaggio fiscale che altrimenti non sarebbe spettato. In tali casi la società è detta anche società schermo. La Cassazione la definisce una “costruzione di puro artificio diretta al raggiungimento di un mero beneficio fiscale indebito” . Quindi l’Agenzia non contesta la società in sé, ma il suo uso abusivo finalizzato all’elusione d’imposta.

D: Quali sono gli indizi che l’Agenzia guarda per dire che una società veicolo è usata in modo abusivo?
R: Alcuni indizi tipici: (a) La società non ha una propria struttura economica (niente dipendenti, sede fittizia) e non svolge attività effettiva di mercato; (b) È partecipata o controllata dagli stessi soggetti che ne beneficiano economicamente; (c) Viene inserita in una “catena” societaria poco prima di una certa operazione e magari eliminata subito dopo; (d) L’operazione nel suo complesso non produce vantaggi economici apprezzabili se non il risparmio fiscale (es. passaggi infragruppo senza una logica di business); (e) Forma giuridica incoerente: ad esempio, costituire una società estera in un paradiso fiscale che però non ha sostanza locale e serve solo a incanalare utili. Se emergono questi elementi, l’Ufficio presume che la società sia interposta o di comodo e tende a riqualificare il tutto in base alla sostanza.

D: In cosa consiste esattamente la contestazione di “abuso del diritto” da parte dell’Agenzia? È reato?
R: L’abuso del diritto (o elusione fiscale) non è un reato, è una violazione amministrativa. La contestazione tipica è: “Con la costituzione/uso della società X, il contribuente ha ottenuto un risparmio d’imposta indebito di €…, quindi si disconosce l’operazione ai sensi dell’art. 10-bis L.212/2000”. In pratica l’Agenzia ricalcola le imposte come se la società veicolo non esistesse o l’operazione fosse stata fatta nella forma “normale”: ad esempio, se contesta che attraverso la società si sono trasformati dividendi in capital gain tassati meno, ridetermina le imposte dovute sui dividendi. All’accertamento segue una sanzione amministrativa (di norma per dichiarazione infedele). Non c’è implicazione penale perché l’abuso implica rispetto formale delle norme, quindi niente violazione penale. Ovviamente, se dal caso emergono invece elementi di frode o evasione (falsi, documenti inesistenti), l’Agenzia può trasmettere atti alla Procura per reati tributari, ma quella è un’altra storia. Nella pura contestazione di abuso, paradossalmente l’Ufficio sta dicendo: “Hai usato la legge in modo distorto; formalmente regolare, ma sostanzialmente no”.

D: Cosa rischio concretamente se mi accusano di abuso del diritto con società veicolo?
R: Rischi essenzialmente un esborso economico: ti verranno richieste le maggiori imposte che, secondo il Fisco, hai evitato indebitamente (più interessi) e ti verranno applicate sanzioni amministrative generalmente pari al 90% della maggiore imposta (riducibili se definisci o se hai attenuanti). Inoltre, se non paghi spontaneamente, dopo l’accertamento partirà la riscossione coattiva: cartella, possibile iscrizione di ipoteche o fermi su beni, pignoramenti, ecc., come per ogni debito tributario. Non c’è, come detto, un risvolto penale (salvo casi estremi in cui l’abuso mascherava evasioni: ma allora ti contesterebbero direttamente il reato, non l’abuso). Quindi il rischio è economico e finanziario: dover versare importi anche ingenti e affrontare le procedure di recupero. Va aggiunto che un accertamento definitivo per abuso può comportare danni reputazionali (es: risultare in banche dati di “grandi evasori” se le cifre sono alte) o complicazioni nei rapporti con il Fisco (maggiori controlli in futuro). Ma il nucleo è il pagamento delle somme dovute. Importante: se fai ricorso, l’obbligo di pagare è sospeso solo parzialmente (di solito 1/3 dell’imposta può essere chiesto in attesa sentenza) e puoi chiedere sospensione al giudice. In caso di esito positivo del ricorso, ovviamente decadi da ogni obbligo di pagamento e ottieni rimborso di quanto eventualmente versato.

D: Abuso del diritto e sanzioni – sono sempre dovute? Ci sono casi in cui non si pagano?
R: Le sanzioni amministrative tributarie, in linea di massima, si applicano anche nelle contestazioni di abuso (lo dice espressamente la legge). Tuttavia, esistono situazioni in cui il contribuente potrebbe evitarle: per esempio se c’era incertezza normativa oggettiva (caso raro da far valere) oppure se aveva presentato un interpello illustrando l’operazione. Se l’Agenzia non ha risposto all’interpello entro 90 gg, vale il silenzio-assenso e quindi non può poi applicare sanzioni perché il contribuente si è conformato a una “posizione” dell’amministrazione. Anche in sede di contenzioso, il giudice potrebbe escludere le sanzioni riconoscendo che il contribuente aveva una buona fede o che la questione era dibattuta. Ad esempio, in passato, prima dell’art. 10-bis, molti casi di elusione erano privi di sanzione perché si discuteva se la condotta fosse illecita: ora la norma c’è, quindi la sanzione tendenzialmente c’è. Però ricorda: definendo l’accertamento in adesione o conciliazione, le sanzioni vengono ridotte (1/3 in adesione, 40% in conciliazione). E con il pagamento in acquiescenza entro 60 giorni, scendono a 1/3 anch’esse. Quindi il carico sanzionatorio può essere notevolmente alleggerito scegliendo le opzioni deflative giuste.

D: Qual è la differenza tra elusione (abuso del diritto) ed evasione fiscale, in parole semplici?
R:Evasione è violare la legge fiscale: ad esempio non dichiarare dei redditi, dedurre fatture false, indicare costi fittizi, trasferire la residenza all’estero ma in realtà stare in Italia (quindi dichiarando il falso). È punita con sanzioni pesanti e anche penalmente se supera certe soglie, perché c’è un inganno o un’omissione contraria alla norma.
Elusione/Abuso è usare formalmente le norme a proprio vantaggio in modo improprio: cioè compiere atti leciti sulla carta (es. fusioni, cessioni, costituzione società) però con il motivo prevalente di risparmiare tasse, e senza che quegli atti abbiano una sostanza economica vera. In apparenza rispetti tutte le regole, ma ne abusi perché le combini solo per ottenere un risultato fiscale. L’esempio classico: dividere artificialmente un’azienda in due società solo per rientrare sotto soglia di ricavi e ottenere un regime fiscale agevolato per entrambe, senza vera esigenza economica di separarle. Non stai violando nessuna singola norma, ma stai tradendo lo spirito delle norme fiscali (che quel regime agevolato lo pensavano per piccole imprese autonome, non per grandi imprese spezzate artificiosamente). Quindi l’Amministrazione ti riporta al “giusto”: somma le due società e ti toglie il regime. Questa è elusione. In sintesi: l’evasore rompe la legge, l’elusore gioca con le regole per eluderne l’effetto. Entrambe le condotte sono perseguibili, ma in modo diverso. Con l’abuso del diritto oggi anche l’elusione è normata, mentre prima era solo un principio giurisprudenziale.

D: Come posso dimostrare che la mia operazione aveva ragioni economiche valide e non era un abuso?
R: Devi raccogliere e presentare tutte le prove e argomentazioni che evidenziano la sostanza economica e l’utilità extra-fiscale dell’operazione. Qualche suggerimento: – Prepara un dossier cronologico con documenti: verbali di assemblea, delibere del CdA, pareri professionali ottenuti all’epoca, business plan, corrispondenza con banche o partner, contratti con terzi conseguenti all’operazione. Tutto ciò che mostra che l’operazione rispondeva a esigenze non fittizie. Ad es., se hai fatto una scissione per riorganizzare il gruppo in due rami diversi perché c’erano due linee di business e magari investitori interessati a una sola di esse, porta lettere di manifestazione d’interesse, documenti che già prima indicavano quella strategia. – Metti in luce gli effetti economici reali: per esempio, a seguito di quell’operazione la società ha migliorato la sua posizione finanziaria? È entrato un nuovo socio con capitale? L’utile operativo è cresciuto? C’è stata una sinergia? Se sì, quantificalo o descrivilo. Questo contrasta l’idea che si sia fatto tutto “per niente” tranne le tasse. – Se l’Agenzia sostiene “potevi ottenere lo stesso risultato pagando più imposte”, spiega perché la via scelta era invece necessaria o comunque ragionevole. Ad es., “avrei potuto prelevare utili come dividendi pagando il 26%, ma nessuna banca mi avrebbe finanziato perché voleva la fusione LBO; senza fusione niente investitore e niente crescita aziendale”. – Presenta eventuali confronti di mercato: se operazioni simili le fanno anche altri per ragioni di business, farlo presente (magari con articoli di stampa economica) può far capire che non sei il solo ad aver usato quella struttura per motivi extra-fiscali. – E soprattutto, contesta puntualmente le affermazioni del Fisco: se dicono “questa società era inattiva”, replica con i dati di bilancio, attività svolte, fatturato se c’è stato. Se dicono “i soci erano gli stessi prima e dopo”, evidenzia se c’è stata una variazione (anche minima) nella governance o nei pesi decisionali. – Può aiutare citare circolari o risoluzioni dell’Agenzia che riconoscono certe operazioni come lecite se fatte per certe ragioni (ce ne sono, ad esempio su scissioni). – Infine, la giurisprudenza: allega (in copia) o cita sentenze favorevoli in casi analoghi, per far vedere che la tua situazione somiglia a quella giudicata lecita da Cassazione o CTR. Ad esempio: “Cassazione ha ritenuto non abusiva la scissione con cui una società ha separato immobili per migliorarne la gestione (Cass. n. XYZ)”: se il tuo caso è simile, sottolinealo.

In sintesi: devi convincere che l’intento economico era significativo e che il vantaggio fiscale ottenuto è solo un effetto collaterale, magari nemmeno voluto. Usa dati oggettivi e non solo affermazioni. Se possibile, fai redigere anche una memoria tecnica da un esperto (commercialista, professore) che attesti la ragionevolezza economica dell’operazione: può avere un certo peso.

D: L’Agenzia non mi ha inviato la comunicazione di abuso prima dell’accertamento, posso far annullare l’atto?
R: Sì, molto probabilmente. Come spiegato, il contraddittorio preventivo è obbligatorio in materia di abuso del diritto . La mancata attivazione comporta la nullità dell’accertamento (lo conferma la Cassazione e si ritiene non sanabile in giudizio) . Quindi se non hai ricevuto né un PVC dalla Guardia di Finanza che prospettava l’abuso né un formale invito a presentare osservazioni dall’Agenzia, e ti è arrivato direttamente l’avviso di accertamento, hai un forte argomento procedurale per contestarne la validità. Fai valere questo vizio già in ricorso introduttivo come motivo principale, perché spesso i giudici risolvono la causa su questo senza nemmeno entrare nel merito. Fai attenzione solo che l’obbligo sussiste se l’atto è effettivamente basato sull’abuso: verifica cosa c’è scritto nell’accertamento. Se l’ufficio ha ipocritamente inquadrato la contestazione come “altro” (es. recupero per difetto di documentazione, ecc.) tentando di eludere la procedura, lo puoi far emergere evidenziando che sostanzialmente stanno colpendo un’operazione elusiva ma senza aver seguito l’iter. In ogni caso, la difesa su questo punto è sacrosanta. Fa eccezione il caso in cui l’atto sia stato notificato a ridosso della scadenza dei termini: la norma consente in casi di particolare urgenza (decadenza imminente) di emettere l’atto senza attendere 60 giorni, ma comunque l’ufficio deve aver inviato la comunicazione e motivare l’urgenza. Se non l’ha proprio inviata, il vizio rimane.

D: Ho ricevuto l’accertamento: è meglio tentare un accordo (adesione) o andare subito in ricorso?
R: Dipende. Valuta: importo, chances di vincere, liquidità disponibile, propensione al rischio. Se l’importo è molto elevato e una sconfitta sarebbe insostenibile finanziariamente, forse conviene provare un accordo per ridurre il danno ed eliminare l’incertezza. Se invece l’importo è gestibile e ritieni di avere ottime probabilità di vittoria (magari hai già un caso identico vinto da altri in Cassazione), potresti voler ricorrere per annullare tutto. Spesso una via di mezzo è: presentare istanza di accertamento con adesione (così sospendi intanto i termini) e durante il confronto capire l’atteggiamento dell’Ufficio. Se li vedi rigidi e non disposti a concessioni ragionevoli, allora tanto vale prepararsi al ricorso. Se mostrano apertura e offrono un forte sconto (magari togliendo sanzioni e abbattendo base imponibile), puoi chiudere con adesione in modo conveniente. Tieni anche conto che l’adesione ti fa risparmiare un bel po’ di sanzioni (1/3 del minimo invece che 100%). In giudizio potresti dover pagare il 100% se perdi, o 40% se concili in quella sede. L’adesione è leggermente più vantaggiosa sul fronte sanzionatorio e ti evita le spese legali di un processo. D’altro canto, col processo hai la chance di azzerare tutto se vinci. Una regola empirica: se sei sicuro di meno del 50% di vincere, meglio cercare accordo; se sei molto fiducioso (70-80% in su) e la posta è alta, vai in giudizio. Non ultimo: valuta i tempi. Vuoi chiudere la vicenda in pochi mesi (adesione) o sei disposto a 3-5 anni di lite? C’è anche un fattore stress da considerare. In ogni caso, non c’è scelta irreversibile: puoi iniziare con adesione e, se fallisce, procedere col ricorso. Ricorda solo di rispettare i termini (l’adesione li sospende ma se salta l’accordo hai 30 giorni dal verbale negativo per fare ricorso).

D: Posso evitare che in futuro mi accada di nuovo – c’è modo di “blindare” certe operazioni?
R: Sì, la chiave è la trasparenza preventiva: come detto, utilizzare l’interpello anti-abuso prima di fare operazioni dubbie. Se hai in mente una pianificazione fiscale aggressiva, interpellare l’Agenzia può sembrare controintuitivo (“se chiedo magari mi dicono di no e sto fermo”), ma ti dà certezza. In alternativa, puoi consultare approfondimenti dottrinali e le circolari dell’Agenzia su casi simili per strutturare in modo più solido l’operazione. Ad esempio, se devi fare un passaggio generazionale, forse usare un trust o un patto di famiglia ha meno rischi di abuso che non fare scatole societarie vuote. Inoltre, segui le novità normative: il legislatore a volte introduce regimi ad hoc (come la recentissima possibilità di assegnazione agevolata beni ai soci nel 2023/24) che consentono di raggiungere scopi fiscali con copertura normativa esplicita, così eviti vie elusive. Quindi la prevenzione sta nel progettare bene la propria fiscalità, evitando schemi fai-da-te solo perché “un amico l’ha fatto” – magari l’ha fatto e poi ha avuto guai. In pratica: agisci in modo che la tua società veicolo abbia sempre una ragion d’essere concreta (funzionale a business, finanziaria, legale, ecc.), e documenta tutte le ragioni. Così se anche arriverà un controllo, sarai pronto a difenderti con sostanza. Se invece l’operazione serviva solo a risparmiare tasse, chiediti se ne vale la pena: oggi o domani il Fisco quel risparmio tenterà di riprenderselo.

D: Ho paura che contestare l’Agenzia (fare ricorso) peggiori la mia posizione o mi attiri antipatie – è possibile?
R: No, non avere questo timore. Il contenzioso tributario è un tuo diritto e l’Agenzia non può “punirti” per averlo esercitato. I funzionari hanno la loro posizione, se sbagliano c’è il giudice apposta. Non c’è ritorsione (sarebbe illecito). Al contrario, se non difendi i tuoi diritti, rischi di pagare più del dovuto. L’importante è fare una difesa seria e motivata. Certo, presentare ricorsi pretestuosi o in malafede non è consigliabile: ma se credi di aver ragione o che l’ufficio abbia esagerato, far valere le tue ragioni è assolutamente legittimo. L’Agenzia gestisce migliaia di contenziosi, non ce l’ha con te personalmente se ne avvii uno. Anzi, a volte vedere un ricorso ben impostato può indurli a proporre transazioni. Quindi difenditi senza timore reverenziale: eventualmente, come abbiamo spiegato, puoi provare la via dell’accordo prima, ma se non va, il giudice è lì proprio per risolvere il conflitto in modo imparziale.

D: In una situazione di abuso con società, possono esserci conseguenze penali?
R: Di per sé no, perché l’abuso del diritto esclude la punibilità penale (lo dice l’art. 10-bis). Tuttavia, fai attenzione: se l’operazione abusiva è stata accompagnata da falsità o omissioni dichiarative, allora si esce dall’abuso e si entra nell’evasione. Esempio: costituisci una società estera per fatturare dall’estero e non addebiti IVA in Italia (schema elusivo), ma non dichiari neanche quei ricavi in Italia sapendo che la società è fittizia – qui hai omesso di dichiarare redditi in Italia, il che è reato se supera soglie. Oppure usi fatture false intercompany per spostare utili – quello è reato di frode fiscale. Quindi la condotta abusiva pura non è criminale, ma i metodi fraudolenti sì. Se hai mantenuto tutto trasparente (la società ha dichiarato in Italia quel che doveva, i passaggi sono reali anche se elusivi), al massimo pagherai le imposte e sanzioni. Quindi generalmente, no, non temi sanzioni penali in un accertamento per abuso a meno che l’Agenzia scopra che dietro l’abuso c’era proprio un’evasione mascherata. In quell’ipotesi però cambierebbe proprio la contestazione giuridica (ti contesterebbero dichiarazione fraudolenta, non l’art.10-bis). Insomma, se stiamo parlando di abuso del diritto, il piano è amministrativo e tale rimane.

D: L’Agenzia ha ragione sul fatto che c’è stato un risparmio d’imposta, non posso negarlo, ma io non sapevo fosse considerato illecito – posso invocare la buona fede?
R: La buona fede “soggettiva” purtroppo non evita la contestazione di abuso, ma può servire per chiedere la non applicazione delle sanzioni (o la loro diminuzione). La legge antiabuso è abbastanza oggettiva: se l’operazione è priva di sostanza economica e dà un vantaggio indebito, è abuso a prescindere dall’intento psicologico del contribuente. Però, se tu mostri di aver agito in base a un certo orientamento (es. avevi chiesto un parere a un professionista che ti disse che andava bene, o c’era una circolare poco chiara), puoi sostenere che c’era “incertezza normativa oggettiva” e quindi chiedere la non punibilità sul piano sanzionatorio. Non è facile, perché l’incertezza deve essere su scala generale, non tua personale. Comunque, la buona fede in senso lato aiuta spesso in sede di accordo: un contribuente cooperativo che spiega di non aver avuto intenzione di frodare ma di aver solo scelto una strada che credeva lecita magari ottiene dall’ufficio un trattamento sanzionatorio di favore (tipo sanzioni minime). In giudizio, l’art. 6 comma 2 del D.Lgs. 472/97 dice che se il contribuente dimostra di aver commesso il fatto (violazione) per “obiettive condizioni di incertezza sulla portata delle norme” non sono irrogate sanzioni. Nel contesto abuso, qualcuno prova ad applicarlo, ma devi provare che la norma fiscale era di per sé incerta (e dopo il 2015 con art.10-bis questo argomento ha perso forza perché ora la norma c’è, prima si poteva dire che l’abuso non era codificato). In sintesi: la buona fede non ti esonera dal pagare le tasse evitate, ma può essere un elemento equitativo per ridurre/eliminare la punizione aggiuntiva. Nella pratica, il modo concreto di far valere la buona fede è: evidenziare eventuali precedenti ruling o prassi a favore, citare se la tua struttura era magari suggerita da qualche manuale, far testimoniare il consulente che ti aveva rassicurato (anche se non è prova legale, dà colore). Tutto ciò per dire “non c’è stata volontà di frode”. È un aspetto più morale che giuridico, ma a volte incide sulle decisioni di conciliazione.

D: Dopo l’accertamento per abuso, posso incorrere anche in controlli o accertamenti su altri fronti (es. conti bancari, altri tributi)?
R: È possibile. Se l’Agenzia durante l’istruttoria sull’abuso nota movimenti finanziari sospetti sui conti dei soci o altre incongruenze, potrebbe estendere i controlli (ad esempio fare accertamenti bancari). Oppure, se c’è di mezzo l’IVA (pensiamo a quelle operazioni con società filtro sull’IVA), potrebbe partire un controllo IVA o una verifica incrociata su altre annualità. Diciamo che un accertamento, specie se di importo elevato, può attirare attenzione anche su altre annualità o altri tributi collegati. Non è automatico, ma nemmeno raro. Se però tu hai tutto sommato la coscienza a posto su altri aspetti, non devi preoccuparti. Mantieni la cooperazione: ad esempio se in adesione l’ufficio ti chiede documenti anche di altre annualità per capire meglio il contesto, fornisci quello che hai (nei limiti della strategia difensiva). Un atteggiamento trasparente a volte evita che sospettino altro. Invece, se l’ufficio fiuta che dietro l’abuso c’è magari anche evasione, può inviare la palla alla Guardia di Finanza per un controllo più ampio. In conclusione, focalizzati su questo accertamento ma sii pronto eventualmente a gestire richieste sul contorno. Non c’è un rischio automatico di ulteriori sanzioni dal nulla: eventuali altri controlli avranno loro iter e garanzie, quindi se capitasse affronterai anche quelli.

D: Posso pagare a rate le somme dovute?
R: Sì. Se definisci tramite adesione o conciliazione, la rateazione è già prevista (fino a 8 rate trimestrali, o 16 se importo > €50k). Se invece perdi in giudizio o comunque l’accertamento diventa definitivo, quando arriva la cartella esattoriale puoi chiedere a Agenzia Entrate-Riscossione la dilazione standard (fino a 72 rate mensili, circa 6 anni, o 120 rate in casi di grave difficoltà). Anche durante il processo puoi sospendere 2/3 dell’imposta e poi rateizzare dopo. Quindi sì, c’è modo di rateizzare per non dover versare tutto in un’unica soluzione, compatibilmente con le regole generali. Ricorda però che per ottenere la riduzione sanzioni di 1/3 con acquiescenza, devi pagare entro 60 gg (o prima rata entro 60 gg e fare rateazione in quel momento). Idem per adesione: prima rata entro 20 gg dalla firma. Se salti quelle scadenze perdi i benefici e l’atto torna pienamente dovuto.

D: In conclusione, qual è il miglior consiglio se mi trovo davanti un accertamento per abuso societario?
R: Mantieni la calma e analizza lucidamente la situazione. Fai subito questi passi: 1) Controlla la regolarità formale (contraddittorio, motivazione); 2) Valuta la fondatezza nel merito (chiedendo magari un parere a esperto esterno: a volte chi ha ideato l’operazione può avere bias, un occhio nuovo può dire se effettivamente l’operazione era debole); 3) Decidi la strategia difensiva: se ci sono vizi formali, quelli vanno evidenziati subito; se ci sono margini per trattare, attiva adesione; 4) Prepara un piano B finanziario: cioè ipotizza di dover pagare qualcosa – come impatterebbe? riesci a sostenere una rateazione? Questo ti fa capire fin dove puoi spingerti nel contenzioso. 5) Segui i termini (60 giorni volano). E soprattutto non demoralizzarti: molti accertamenti per abuso, se ben difesi, vengono ridimensionati o annullati. L’importante è non lasciare passare il tempo e agire. Con l’aiuto di professionisti, esponi le tue ragioni: hai la possibilità di far valere la realtà economica su quella “fiscale” mostrata dall’Ufficio. E ricorda: anche il punto di vista del debitore/contribuente trova ascolto nei tribunali, perché in materia di abuso ci sono stati eccessi del Fisco in passato e i giudici lo sanno. Quindi se hai messo in piedi una struttura genuinamente utile, hai buone chance di farlo riconoscere.

Bibliografia e fonti normative essenziali:

  • Statuto dei Diritti del Contribuente (L. 212/2000), art. 10-bis, sulla disciplina dell’abuso del diritto (introdotto da D.Lgs. 128/2015).
  • DPR 600/1973, art. 37 comma 3, in tema di interposizione fittizia di beni e redditi.
  • D.Lgs. 546/1992, art. 17-bis (reclamo-mediazione) – abrogato dal 2024 dal D.Lgs. 156/2022 e D.Lgs. 130/2023.
  • D.Lgs. 218/1997, artt. 6-15, sull’accertamento con adesione, acquiescenza e conciliazione giudiziale.
  • Circ. Agenzia Entrate n. 6/E del 30.03.2016, “Operazioni di acquisizione con indebitamento (LBO)”, che riconosce condizioni di non elusività degli LBO .
  • Cassazione Civile SS.UU. n. 30055/2008 (storica sentenza che ha sancito l’abuso del diritto generale, pre-legge).
  • Cassazione Civile Sez. Trib. n. 132/2015 – Corte Costituzionale sent. 132/2015 (legittimità del contraddittorio obbligatorio nelle norme antiabuso) .
  • Giurisprudenza di legittimità recente citata: Cass. Sez. Trib. n. 33457/2023 (gestione occulta società, interposizione reale vs fittizia irrilevante) ; Cass. n. 16559 e 16567/2025 (MLBO con cambio controllo, no abuso) ; Cass. n. 10705/2025 (obbligo contraddittorio per abuso “innominato”) ; Cass. n. 27905/2024 (scissione liquidatoria abusiva) ; Cass. n. 10305/2024 (società schermo estera, definizione di costruzione artificiosa) ; Cass. nn. 868 & 869/2019 (leveraged buy-out legittimo con valide ragioni) ; Cass. n. 20846/2025 (onere prova interposizione in ambito IVA, inversione onere a carico contribuente) .

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestato l’uso illecito di società veicolo? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestato l’uso illecito di società veicolo?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

Le società veicolo vengono spesso utilizzate in operazioni straordinarie, come acquisizioni, fusioni o conferimenti, per agevolare la gestione finanziaria e patrimoniale. Tuttavia, quando l’Agenzia delle Entrate ritiene che tali società siano state create solo per occultare redditi, spostare utili o ottenere vantaggi fiscali indebiti, procede a contestazioni di elusione o abuso del diritto.

👉 Prima regola: dimostra che la società veicolo aveva una funzione economica reale e concreta, non solo fiscale.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Società costituite ad hoc senza reale operatività;
  • Operazioni di conferimento seguite da cessioni per evitare plusvalenze;
  • Fusioni o scissioni ritenute prive di sostanza economica;
  • Interposizione fittizia tra soggetti per spostare redditi o patrimoni;
  • Utilizzo della società veicolo solo per accedere a regimi fiscali agevolati.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Riqualificazione delle operazioni come simulate o elusive;
  • Recupero delle imposte con interessi e sanzioni;
  • Sanzioni fino al 200% dell’imposta accertata;
  • Responsabilità patrimoniale di soci e amministratori;
  • Possibili profili penali in caso di frodi fiscali complesse.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Atto costitutivo e statuto della società veicolo: indicano finalità economiche concrete?
  • Documentazione delle operazioni: contratti, bilanci, perizie;
  • Flussi finanziari: i movimenti sono tracciati e coerenti con le operazioni dichiarate?
  • Motivazioni extrafiscali: l’operazione aveva scopi gestionali, patrimoniali o strategici?
  • Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia ha fornito prove concrete o solo presunzioni?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Bilanci e registri contabili della società veicolo;
  • Contratti e atti notarili delle operazioni straordinarie;
  • Perizie di stima indipendenti;
  • Documentazione bancaria dei flussi finanziari;
  • Comunicazioni societarie e verbali assembleari.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la reale sostanza economica dell’operazione;
  • Contestare la riqualificazione come abuso del diritto se l’operazione era legittima;
  • Eccepire vizi formali dell’accertamento (motivazione insufficiente, decadenza dei termini, notifica irregolare);
  • Chiedere autotutela se la documentazione era già stata prodotta e ignorata;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per annullare l’accertamento;
  • Difesa penale mirata se vengono ipotizzati reati fiscali.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza la struttura e le operazioni della società veicolo;
📌 Verifica la fondatezza della contestazione fiscale;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, in sede penale;
🔁 Suggerisce strategie preventive per l’uso corretto e sicuro delle società veicolo.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in operazioni straordinarie e diritto tributario;
✔️ Specializzato in difesa di imprese e soci contro contestazioni su società veicolo;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sull’uso illecito di società veicolo non sempre sono fondate: spesso derivano da presunzioni o interpretazioni restrittive.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la legittimità economica delle operazioni, evitare la riqualificazione come abuso del diritto e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.

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La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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