Agenzia Delle Entrate Accerta Compensi Non Dichiarati Da Medici Convenzionati: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché alcuni compensi percepiti come medico convenzionato non sono stati dichiarati? In questi casi, l’Ufficio presume che i redditi corrisposti dal Servizio Sanitario Nazionale o da strutture convenzionate non siano stati interamente riportati nella dichiarazione fiscale, con conseguente evasione d’imposta. La conseguenza è il recupero delle somme, con applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è corretta: con una difesa mirata è possibile dimostrare la regolarità dei compensi dichiarati.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i compensi ai medici convenzionati
– Se vi sono difformità tra i dati trasmessi dal SSN (flussi CU) e quelli indicati nella dichiarazione dei redditi
– Se i rimborsi o i compensi integrativi non risultano riportati correttamente
– Se alcune somme sono state percepite tramite strutture accreditate ma non dichiarate come redditi professionali
– Se vi sono discrepanze tra i pagamenti registrati nei conti correnti e le fatture emesse
– Se l’Ufficio presume una sotto-dichiarazione sistematica dei compensi convenzionati

Conseguenze della contestazione
– Recupero delle imposte non versate sui compensi accertati
– Applicazione di sanzioni per omessa o infedele dichiarazione
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Rischio di ulteriori controlli su altre annualità e voci di reddito professionale
– Nei casi più gravi, segnalazioni per violazioni penali tributarie

Come difendersi dalla contestazione
– Produrre le certificazioni CU rilasciate dal SSN o dalle strutture convenzionate a supporto dei redditi dichiarati
– Dimostrare che alcune somme non costituiscono reddito imponibile ma rimborsi spese documentati
– Contestare gli errori materiali di trasmissione dei dati fiscali da parte degli enti erogatori
– Evidenziare vizi di motivazione, carenze probatorie o difetti formali dell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento o la riduzione della pretesa fiscale

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare le contestazioni e confrontarle con la documentazione fiscale disponibile
– Verificare la legittimità dell’accertamento e la corretta qualificazione dei compensi
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi formali dell’atto impositivo
– Difendere il medico davanti ai giudici tributari contro richieste fiscali indebite
– Tutelare la professione e il patrimonio personale da conseguenze sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione o la riduzione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della corretta tassazione dei compensi percepiti
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica. Se non si agisce in tempo, l’accertamento diventa definitivo.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e difesa dei professionisti sanitari – spiega come difendersi in caso di contestazioni su compensi non dichiarati da medici convenzionati e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Gli accertamenti tributari sui compensi non dichiarati percepiti dai medici convenzionati (medici di base, pediatri di libera scelta, medici di continuità assistenziale e specialisti accreditati con il Servizio Sanitario Nazionale, nonché professionisti sanitari convenzionati con strutture private) sono in aumento. L’Agenzia delle Entrate incrocia sempre più dati per individuare redditi occultati, confrontando ad esempio il numero di pazienti o prestazioni con le fatture emesse, nonché i compensi comunicati dalle ASL per attività in intramoenia . Dal punto di vista del medico (contribuente), ricevere un avviso di accertamento per ricavi presunti non dichiarati può destare forte preoccupazione: si rischiano ingenti sanzioni, contenziosi tributari e persino conseguenze penali in caso di evasione rilevante.

In questa guida – aggiornata ad agosto 2025 con riferimenti normativi e giurisprudenziali recenti – esamineremo in dettaglio come difendersi efficacemente da tali contestazioni. Verranno illustrati il quadro normativo italiano di riferimento, le tipologie di controlli e accertamenti utilizzati dall’Amministrazione finanziaria, le sanzioni amministrative e penali applicabili (inclusi i reati tributari eventualmente configurabili) e tutti i possibili rimedi difensivi a disposizione del contribuente. Adotteremo un taglio pratico ma rigoroso, rivolto sia a professionisti legali e tributaristi sia ai medici stessi e ad altri imprenditori o privati che si trovino in situazioni analoghe.

Troverete inoltre tabelle riepilogative, domande e risposte frequenti e simulazioni di casi pratici, per chiarire i punti chiave. L’obiettivo è fornire una panoramica avanzata – ma in linguaggio chiaro – degli strumenti di tutela del debitore (ossia del contribuente medico) in sede sia amministrativa sia contenziosa. Conoscere i propri diritti e le strategie difensive possibili è fondamentale per gestire al meglio un accertamento fiscale e, se del caso, ottenere ragione nelle sedi opportune.

Medici convenzionati: inquadramento e obblighi fiscali

Chi sono i “medici convenzionati” e come vengono tassati? I medici di medicina generale (MMG o medici di base), i pediatri di libera scelta, i medici di continuità assistenziale (guardia medica) e molti specialisti ambulatoriali operano in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Pur collaborando stabilmente con il servizio pubblico, non sono dipendenti pubblici, bensì liberi professionisti con rapporto di lavoro autonomo di tipo parasubordinato . Ciò significa che i compensi erogati dalle ASL/Aziende Sanitarie per la loro attività convenzionata costituiscono reddito di lavoro autonomo professionale ai fini fiscali (non redditi da lavoro dipendente). Questo principio, ribadito dalla Cassazione, inquadra i medici convenzionati come professionisti privati sotto il profilo tributario .

In pratica, quindi, un medico di base convenzionato con l’ASL dovrà dichiarare al Fisco tutti i compensi percepiti nell’anno dall’ASL stessa in base alla convenzione (es. quota capitaria per assistiti, indennità e incentivi vari) assieme ad eventuali altri redditi professionali (es. visite private). Analogamente, uno specialista accreditato presso una struttura pubblica o convenzionata dovrà dichiarare sia i compensi convenzionali che quelli derivanti da libera professione. Dal punto di vista fiscale, non vi è distinzione di trattamento tra compensi “convenzionati” e altri compensi professionali: entrambi concorrono al reddito imponibile IRPEF del medico e vanno inseriti nella dichiarazione annuale dei redditi (Modello Redditi PF, quadro RL o RE a seconda dei casi).

Va segnalata una particolarità: le ASL, pur non essendo veri datori di lavoro, fungono da sostituti d’imposta per alcuni compensi dei medici convenzionati. Esse operano di regola una ritenuta d’acconto IRPEF sui compensi corrisposti (salvo il caso di medici in regime forfettario) e rilasciano ogni anno un’apposita Certificazione Unica (CU) al medico, attestante i compensi pagati e le ritenute effettuate. Fino al 2023 vi era un po’ di incertezza normativa per i medici convenzionati che aderivano al regime forfettario (quindi non soggetti a ritenuta d’acconto né obbligati a fattura elettronica). Dal 2024, tuttavia, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che anche per i medici forfettari convenzionati permane l’obbligo per l’ente erogante di trasmettere la CU, in quanto il “foglio di liquidazione” rilasciato dalle ASL non transita nel Sistema di Interscambio e i relativi redditi non sono altrimenti tracciabili . Questo chiarimento (interpello AdE n. 132/2025) conferma che i compensi dei medici convenzionati, ancorché in regime forfettario, devono essere certificati e comunicati dall’ASL, per garantire la corretta dichiarazione. Molte aziende sanitarie nel 2024 non avevano inviato le CU ai medici forfettari confidando erroneamente nel nuovo esonero, ma l’Agenzia – riconoscendo l’incertezza interpretativa – ha invitato a sanare l’omissione senza sanzioni automatiche, in virtù del principio di tutela dell’affidamento ex art. 10 Statuto del Contribuente .

Dal lato del professionista, ciò implica che la maggior parte dei compensi convenzionati è già conosciuta all’Erario tramite le Certificazioni Uniche e le comunicazioni periodiche. Tuttavia, possono verificarsi omissioni dichiarative per varie ragioni, ad esempio: mancata emissione di ricevute per prestazioni private (medicina extramoenia), errori del consulente fiscale, interpretazioni errate di esenzioni, oppure – in casi meno giustificabili – occultamento deliberato di compensi aggiuntivi percepiti fuori busta (ad esempio collaborazioni con cliniche private non fatturate regolarmente). I liberi professionisti sanitari convenzionati con strutture private (es. un chirurgo in convenzione con una clinica accreditata, ma pagato a prestazione) sono anch’essi tenuti a fatturare e dichiarare tali compensi come redditi da lavoro autonomo. In sintesi: tutti i proventi derivanti dall’attività professionale medica, sia essa svolta in convenzione pubblica o in regime privato, sono soggetti a obbligo dichiarativo ai fini delle imposte sul reddito (salvo specifiche esenzioni per legge).

Dal punto di vista IVA, va ricordato che le prestazioni sanitarie rese dai medici sono generalmente esenti da IVA ai sensi dell’art. 10, n.18 DPR 633/72, quando di natura diagnostica, terapeutica e connessa alla tutela della salute. Pertanto, un medico di base o uno specialista non addebita IVA sulle visite e cure ai pazienti (né sulle quote SSN), ma resta comunque tenuto agli obblighi di fatturazione (o ricevuta fiscale) per le prestazioni rese ai privati. Fanno eccezione alcuni casi di consulenze tecniche o perizie medico-legali non connesse a diagnosi/terapia, le quali possono essere imponibili IVA . In ogni caso, l’esenzione IVA non esonera certo dal dichiarare il compenso ai fini delle imposte dirette.

Riassumendo, un medico convenzionato ha i seguenti obblighi fiscali principali:

  • Apertura della partita IVA (obbligatoria per svolgere l’attività libero-professionale in forma autonoma, anche se convenzionata ) e tenuta delle scritture contabili previste (spesso il regime “professionisti” semplificato).
  • Fatturazione e certificazione dei compensi: rilascio di fattura (anche elettronica se non esonerato) o ricevuta per ogni prestazione a pagamento resa ai pazienti privati; per i compensi da ASL, conservazione del foglio di liquidazione e CU annuale. (Nota: i medici di base e altri convenzionati SSN, per legge, sono esonerati dalla fatturazione elettronica verso l’ASL, continuando ad operare con i fogli cartacei di liquidazione ).
  • Dichiarazione dei redditi annuale: inclusione di tutti i compensi professionali percepiti (al lordo delle spese deducibili) nel Modello Redditi PF. Se il medico aderisce al regime forfettario, dichiarerà l’ammontare lordo dei ricavi nell’apposito quadro LM (senza deduzione di costi, salvo il forfettario); se in regime ordinario, dichiarerà nel quadro RE i compensi e i costi analiticamente. I compensi da convenzione ASL andranno comunque indicati tra i redditi di lavoro autonomo.
  • Versamento delle imposte: il medico deve versare l’IRPEF (o l’imposta sostitutiva del 15%/5% se forfettario) dovuta su tali redditi, al netto di ritenute subite e crediti d’imposta. Inoltre, è tenuto al versamento dell’IRAP se ricorrono le condizioni di “autonoma organizzazione” (come vedremo, spesso i medici di base riescono a evitarla dimostrando di non avere un’organizzazione autonoma significativa).
  • Contributi previdenziali ENPAM: parallelamente, i medici devono dichiarare all’Ente di previdenza (ENPAM) i redditi libero-professionali netti tramite il modello D, escludendo però quelli già derivanti da convenzione SSN su cui l’ASL applica contributi di Quota A . (Questo aspetto previdenziale può aver generato confusione: per ENPAM i compensi SSN non vanno dichiarati nel modello D , ma ciò non ha alcun effetto sugli obblighi fiscali verso l’Erario!).

In definitiva, i medici convenzionati sono fiscalmente assimilati a professionisti privati. Eventuali compensi non dichiarati costituiscono quindi evasione d’imposta a tutti gli effetti, salvo che il medico dimostri la sussistenza di cause esimenti o esenzioni specifiche. Vediamo ora come l’Agenzia delle Entrate individua tali omissioni e quali strumenti utilizza per quantificare i redditi occulti.

Accertamenti dell’Agenzia delle Entrate sui compensi non dichiarati

L’Amministrazione finanziaria dispone oggi di molteplici fonti informative e poteri istruttori per scovare ricavi non dichiarati dai professionisti. In particolare, per i medici convenzionati e in generale i professionisti sanitari, i controlli incrociati e le analisi del tenore di vita costituiscono strumenti chiave. Ecco le principali modalità con cui l’Agenzia delle Entrate procede all’accertamento dei compensi occultati:

  • Controllo automatizzato delle Certificazioni Uniche: come detto, le ASL e i sostituti d’imposta trasmettono all’Anagrafe tributaria le CU con i compensi corrisposti ai medici. Se il medico nella sua dichiarazione dei redditi non riporta quei importi (o li riporta in misura inferiore), il sistema informatico segnala l’anomalia. In tali casi l’Agenzia invia spesso una comunicazione di compliance (lettera di invito a correggere) o un avviso bonario per il recupero delle imposte dovute, prima ancora di emettere un accertamento formale. Per esempio, un medico di base che dimentichi di dichiarare 5.000 € indicati nella CU dell’ASL riceverà probabilmente un avviso bonario con richiesta di versamento spontaneo dell’imposta mancante più sanzione ridotta (10-20%) . Ignorare questo avviso comporterebbe poi l’iscrizione a ruolo e la notifica di una cartella di pagamento con sanzione piena al 30% . È dunque importante prestare attenzione a tali segnalazioni preliminari.
  • Incrocio dei dati delle prestazioni sanitarie: l’Agenzia può incrociare il volume di attività svolta dal medico con i compensi dichiarati. Ad esempio, per i medici di libera professione intramoenia (ospedalieri che svolgono attività privata in ospedale), vengono confrontati i compensi dichiarati con i registri delle prestazioni intramoenia forniti dall’ASL . Se un medico pubblico in intramoenia ha effettuato, poniamo, 100 visite private ma ne ha fatturate solo 60, il Fisco rileverà la discrepanza. Allo stesso modo, per i medici di base e pediatri convenzionati, si possono confrontare il numero di assistiti, prescrizioni o certificati rilasciati con i compensi extra dichiarati. Un esempio: incrociando le ricette specialistiche prescritte da un medico di base con le visite specialistiche private fatturate dallo stesso medico (che talvolta eroga anche visite a pagamento ai propri mutuati), possono emergere prestazioni non fatturate se le ricette indicano consulenze che non trovano corrispondenza nei redditi dichiarati .
  • Verifiche mirate presso studi medici: l’Amministrazione può disporre accessi e ispezioni nello studio professionale del medico (tramite funzionari o la Guardia di Finanza) per esaminare la contabilità, l’agenda appuntamenti, l’archivio pazienti e altri documenti . Durante queste verifiche, oltre a controllare le fatture emesse e i registri dei corrispettivi, i verificatori possono raccogliere elementi sulle prestazioni effettuate (ad esempio esaminando le cartelle cliniche o le agende di prenotazione) e confrontarli con le fatture. Se trovano incongruenze – ad esempio prestazioni annotate ma non fatturate – redigeranno un Processo Verbale di Constatazione (PVC) segnalando i ricavi non contabilizzati. Il contribuente ha diritto di partecipare attivamente al controllo, fornendo spiegazioni o documentazione integrativa.
  • Questionari, inviti e indagini finanziarie: anche senza accesso fisico, l’Ufficio può inviare questionari al medico o a terzi, chiedendo informazioni specifiche (per esempio a una clinica privata su compensi versati a un dato medico). Può inoltre convocare formalmente il contribuente con un invito al contraddittorio per fornire chiarimenti su determinate anomalie . Spesso ciò avviene quando dai data base emergono incoerenze (es. spese personali elevate a fronte di redditi bassi dichiarati, oppure movimenti bancari non giustificati) . Infine, l’Agenzia – previa autorizzazione – può avviare vere e proprie indagini finanziarie sui conti bancari del medico: ottenere dagli istituti di credito l’elenco di tutti i movimenti su conti correnti, depositi e carte intestati al contribuente e ai familiari stretti, per verificare entrate sospette. Questa è una delle armi più efficaci per individuare compensi in nero, specie quelli riscossi in contanti e poi versati in banca.

Come vengono quantificati i redditi occulti? La normativa tributaria prevede diversi metodi di accertamento del reddito non dichiarato. In base alla gravità delle irregolarità e alle prove disponibili, l’Ufficio può procedere con:

  • Accertamento analitico: si rettificano puntualmente i componenti di reddito noti. Ad esempio, se dall’incrocio con le CU emerge che il medico ha omesso 10.000 € di compensi, l’accertamento aggiungerà esattamente tale importo al reddito imponibile . Questo metodo si basa su dati certi (p.es. bonifici rintracciati, fatture emesse dalla clinica ma non dichiarate dal medico, ecc.). È il caso tipico in cui l’ente terzo comunica un pagamento non dichiarato: l’Agenzia notifica un accertamento parziale ex art. 41-bis DPR 600/73 per recuperare quelle somme specifiche senza attendere la fine del periodo .
  • Accertamento induttivo puro: se la contabilità del professionista è completamente inattendibile o vi è omessa dichiarazione, il Fisco può determinare il reddito in via globale, basandosi su qualunque indizio disponibile (art. 39 co.2 DPR 600/73) . Per esempio, può stimare i compensi in base al tenore di vita (redditometro) oppure in base ai versamenti bancari non giustificati. Questo metodo “extra-contabile” prescinde dai registri del contribuente ed utilizza presunzioni anche di secondo grado. La Cassazione ha ritenuto legittimo l’accertamento induttivo in presenza di comportamenti economicamente anomali e non spiegati dal contribuente . Ad esempio, se un medico risulta aver effettuato molte visite senza alcun compenso, l’ufficio può presumere che in realtà le abbia effettuate a titolo oneroso (dato il carattere antieconomico del lavoro gratuito sistematico) . Attenzione però: non ogni scostamento o stranezza giustifica un’induzione arbitraria. Le presunzioni devono essere gravi, precise e concordanti. Inoltre, non è ammessa una “doppia presunzione” (presumere prima che la prestazione fosse onerosa e poi che sia stata pagata) senza riscontri oggettivi , salvo che i fatti noti rendano quella conclusione altamente verosimile . La giurisprudenza recente è più rigorosa nell’ammettere presunzioni sulle prestazioni gratuite: è sì inusuale che un professionista lavori gratis, ma può accadere per amicizia o cortesia, e l’onere della prova in caso di contestazione ricade sul Fisco .
  • Accertamento analitico-induttivo: è una via intermedia (art. 39 co.1 lett. d DPR 600/73) in cui, pur esistendo una contabilità formale, si evidenziano elementi intrinsecamente inattendibili che legittimano presunzioni parziali . Per un professionista, tipico esempio è il confronto con gli ISA (Indici Sintetici di Affidabilità): se il medico presenta indici gravemente inferiori ai valori normali del settore e non fornisce giustificazioni, l’ufficio può presumere ricavi non dichiarati. Oppure, se un dentista ha acquistato materiali per 1000 cure ma ha fatturato solo 500 prestazioni, si presume che 500 prestazioni siano state effettuate “in nero”. Nel caso dei medici convenzionati, l’accertamento analitico-induttivo potrebbe scaturire ad esempio dal confronto tra numero di pazienti e fatture: se risultano in cura 200 pazienti privati ma solo 100 ricevute emesse, si potrà ricostruire induttivamente un certo ammontare di compensi evasi.
  • Accertamento sintetico sul reddito complessivo (redditometro): è un metodo che agisce non sui singoli ricavi professionali, ma sull’intero reddito personale del contribuente. Se uno stile di vita dispendioso (acquisto di auto di lusso, immobili, ecc.) risulta incompatibile coi redditi dichiarati, l’Agenzia può determinare sinteticamente un maggior reddito complessivo ai fini IRPEF. Questo strumento è stato utilizzato in passato anche per liberi professionisti ritenuti sotto-dichiaranti. Tuttavia, il redditometro è stato oggetto di revisioni e, per i periodi recenti, la sua applicazione è stata sospesa in attesa di nuovi decreti attuativi. Resta comunque un potenziale strumento di pressione: ad esempio, se un medico dichiara 20.000 € annui ma spende 50.000 € in viaggi e beni, potrebbe ricevere un invito a giustificare la differenza (eredita, vincite, risparmi) prima di subire un accertamento sintetico.
  • Indagini finanziarie e presunzioni bancarie: come accennato, uno dei mezzi più incisivi è l’esame dei conti correnti del medico. La legge (art. 32 DPR 600/73) prevede una presunzione legale relativa: tutti i versamenti sul conto non giustificati si presumono ricavi non dichiarati. Questo vale per qualunque contribuente (imprese, professionisti e anche privati, in ottica redditometro) . Il contribuente può vincere la presunzione dimostrando la natura non reddituale di quei movimenti (es. trasferimenti tra conti propri, donazioni familiari già tassate, indennità esenti, ecc.). Invece, dopo l’intervento della Corte Costituzionale n. 228/2014, i prelevamenti dal conto non sono più presunti compensi per i lavoratori autonomi . In altre parole, per un medico che opera come professionista, solo i versamenti non giustificati fanno presumere ricavi in nero, mentre i prelievi di contante non possono (di regola) essere considerati costi occulti destinati ad attività produttiva di reddito . Questo perché il medico potrebbe aver prelevato contante per spese personali non inerenti la professione (spesa familiare, acquisto beni ad uso proprio, etc.), non essendo un imprenditore che reinveste in produzione. La Cassazione ha più volte ribadito che, limitatamente ai professionisti, i prelevamenti bancari non giustificati non costituiscono di per sé prova di maggior reddito professionale . Purtroppo in passato non tutti i giudici di merito si erano allineati e vi sono state pronunce contraddittorie. Una sentenza penale del 2019 arrivò perfino a condannare un professionista presumendo evasione da prelievi di conto, suscitando critiche poiché in contrasto col principio costituzionale (Cass. pen. n. 13334/2019). Oggi comunque la giurisprudenza di legittimità prevalente e la legge stessa (dopo la modifica normativa) escludono l’utilizzo dei prelievi come base per accertare maggiori compensi in capo ai medici e professionisti .

In sintesi, se l’accertamento si basa su dati bancari, il medico dovrà spiegare ogni versamento anomalo (ad esempio dimostrando che taluni contanti versati derivavano da redditi già tassati o da risparmi) – altrimenti tali somme verranno sommate al reddito come compensi non dichiarati. Non sarà invece tenuto a giustificare i prelievi dal conto personale, a meno che l’Amministrazione non provi diversamente che quei prelievi finanziavano spese nell’ambito dell’attività. Questo costituisce un importante punto a favore del contribuente professionista .

Basti un esempio pratico: Tizio è un medico specialista convenzionato con una casa di cura privata. Dalle indagini emerge che sul suo conto bancario ha versato in contanti 50.000 € in un anno, a fronte di soli 30.000 € di fatture emesse. Se Tizio non fornisce spiegazioni convincenti (es. “era denaro ereditato e detenuto in casa, poi versato in banca”), l’Agenzia presumerà 50k – 30k = 20k di compensi professionali sottratti a tassazione e li recupererà a tassazione . Viceversa, se Tizio avesse prelevato 20.000 € dal conto senza giustificarne l’uso, tale circostanza non potrebbe automaticamente fondare un accertamento di maggior reddito (perché per un medico un prelievo potrebbe essere destinato a qualsiasi spesa privata).

Prima di passare alla difesa, ricapitoliamo in tabella le principali fonti di informazione usate dal Fisco per individuare compensi non dichiarati e le relative presunzioni applicate:

Fonte di controlloCosa verificaPresunzione/applicazione
Certificazioni Uniche (ASL, cliniche)Compensi dichiarati vs. compensi certificati dal sostitutoOmessa dichiarazione di importi certificati → recupero analitico (differenza imponibile nota)
Sistema Tessera Sanitaria (spese mediche detraibili comunicate)Prestazioni rese a pazienti privati (numero e importo)Anomalo se pazienti dichiarano spese mediche presso il medico e il medico non dichiara redditi corrispondenti (indizio di evasione parziale)
Registri intramoenia ASLPrestazioni intramoenia vs. compensi dichiaratiDisallineamento → redditi non dichiarati dall’attività libero-professionale intramoenia
Banca Dati Fatture (SdI) / Fatture elettronicheCorrispettivi fatturati dal medico (se tenuto a FE)Se il medico è soggetto a fatturazione elettronica, l’Agenzia conosce tutte le fatture emesse; eventuali compensi extra contanti sarebbero del tutto in nero (da scovare via altre evidenze)
Agenda appuntamenti, cartelle clinichePrestazioni effettuate vs. fatture emessePrestazione effettuata ma non fatturata → presunzione di compenso in nero, salvo prova che fosse gratuita (onere del medico)
Conti correnti bancari/postaliVersamenti non giustificatiPresunzione legale: ogni versamento inspiegato = compenso non dichiarato (rebuttable con prova contraria)
Conti correnti bancari/postaliPrelievi non giustificatiNON presunti compensi (per i professionisti), post sent. Corte Cost. 228/2014 . Per imprese invece prelievo inspiegato = costo in nero → ricavo in nero corrispondente.
Redditometro (spese personali)Spese per consumi, investimenti, risparmio vs. reddito dichiaratoScostamento notevole e ingiustificato → accertamento sintetico del maggior reddito complessivo (non specifico dei soli compensi professionali, ma includente questi ultimi)

Come si vede, i medici convenzionati sono soggetti a un controllo a 360 gradi: da una parte i flussi ufficiali (CU, tessera sanitaria) permettono all’Erario di rilevare facilmente compensi “ufficiali” dimenticati in dichiarazione; dall’altra, per il sommerso puro, si fa ricorso a strumenti investigativi e presuntivi.

Sanzioni amministrative e profili penali in caso di evasione

Quando l’Agenzia accerta compensi non dichiarati, il medico-contribuente si trova esposto a conseguenze sanzionatorie di due tipi: amministrative tributarie (sanzioni pecuniarie, maggiori imposte e interessi) e, nei casi più gravi, penali tributari (denuncia per reato di evasione fiscale). Analizziamo entrambi i profili.

Sanzioni amministrative e recupero imposte

In ambito tributario, l’accertamento comporta innanzitutto il recupero delle imposte evase (IRPEF, addizionali, IRAP se dovuta, ecc.) oltre agli interessi legali maturati. A ciò si aggiunge la sanzione amministrativa pecuniaria per dichiarazione infedele od omessa. Le sanzioni sono previste dal D.Lgs. 471/1997 e variano in base alla violazione:

  • Dichiarazione infedele: si ha quando il contribuente presenta la dichiarazione dei redditi ma omette di indicare una parte dei compensi percepiti (oppure indica indebite deduzioni/detrazioni). La sanzione amministrativa ordinaria è dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta sui redditi non dichiarati . Esempio: se su 50.000 € di compensi evasi il medico doveva 20.000 € di IRPEF, la sanzione base sarà 18.000 € (90% di 20k) ma può arrivare fino a 36.000 € (180%). In genere l’ufficio applica il minimo edittale ridotto di 1/3 se il contribuente non presenta ricorso (acquiescenza, v. oltre). Circostanze attenuanti possono ridurre la sanzione: ad es. se l’ammontare non dichiarato è inferiore al 3% del dichiarato o sotto 30.000 €, la sanzione può essere ridotta di 1/3 (art. 7 D.Lgs. 472/97).
  • Omessa dichiarazione: se il medico non ha presentato affatto la dichiarazione annuale (ipotesi più estrema di evasione totale), la sanzione va dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di 250 €. Anche qui, riduzioni se il ritardo è entro 90 giorni (tardiva dichiarazione) o in caso di circostanze particolari. Fortunatamente, i medici convenzionati raramente omettono totalmente la dichiarazione, più spesso si tratta di infedele (dichiarazione presentata ma incompleta).
  • Violazioni IVA: se il medico è tenuto a dichiarazione IVA (non per le prestazioni esenti, ma se svolge anche attività imponibili) e omette ricavi, si applicano analoghe sanzioni (90%-180% dell’IVA evasa). In molti casi però i medici operano solo in esenzione IVA, quindi il problema principale riguarda l’IRPEF.
  • Violazioni IRAP: qualora l’Ufficio ritenga che il medico fosse soggetto a IRAP (per autonoma organizzazione) e il medico non abbia versato tale imposta, può recuperarla con sanzione del 30% per omesso versamento per ciascun anno. Spesso però la questione IRAP finisce in contenzioso, perché molti medici convenzionati contestano l’assoggettabilità stessa all’IRAP (come vedremo, la giurisprudenza spesso dà loro ragione in assenza di una struttura organizzativa autonoma). In tal caso, più che di “compensi non dichiarati” si tratta di imposta non dichiarata su compensi dichiarati, scenario un po’ diverso.

Le sanzioni amministrative, se non ci sono cause di non punibilità, sono dovute indipendentemente dall’intentionalità. Anche un errore onesto comporta la sanzione (magari in misura minima), salvo riuscire a invocare l’esimente dell’errore inevitabile su indicazioni ufficiali (art. 6 co.2 D.Lgs. 472/97) o altre cause di esclusione. In proposito, l’art. 10 Statuto del Contribuente tutela il contribuente che abbia fatto affidamento su istruzioni ufficiali poi rivelatesi sbagliate: le sanzioni (e interessi) vengono annullate se la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza normativa. Ad esempio, nel caso dei medici forfettari convenzionati, se un medico non aveva dichiarato i compensi ASL confidando, in buona fede, che non servisse la CU (a causa della norma del 2024 mal compresa), potrebbe chiedere la non applicazione della sanzione, forte del fatto che la stessa Agenzia ha riconosciuto l’incertezza e invitato a non sanzionare automaticamente le omissioni rettificate . Chiaramente si tratta di situazioni limite da valutare caso per caso.

Oltre alle sanzioni proporzionali, l’avviso di accertamento indicherà anche gli interessi di mora calcolati sulle imposte evase, dal giorno in cui erano dovute (in genere dal termine di saldo dell’anno) fino alla data dell’avviso. Il tasso di interesse è stabilito annualmente (attualmente intorno al 4% annuo). Gli interessi non subiscono riduzioni e vanno pagati interamente.

Va segnalato che il mancato pagamento dell’accertamento entro i termini comporta l’iscrizione a ruolo e l’avvio della riscossione coattiva da parte dell’Agente della Riscossione (ex Equitalia). L’avviso di accertamento emesso dal 2018 in poi vale già come titolo esecutivo trascorsi 60 giorni dalla notifica, per cui, se non pagato né impugnato, può portare direttamente a misure cautelari ed esecutive (fermo amministrativo dell’auto, ipoteca sugli immobili, pignoramenti) senza necessità di ulteriore cartella . In caso di impugnazione, la riscossione è sospesa solo per i 2/3 dell’imposta, mentre il 1/3 può essere riscosso provvisoriamente. Approfondiremo oltre questi aspetti nel capitolo sul contenzioso.

Reati tributari: quando scatta il penale

L’ordinamento italiano prevede specifici reati in materia di dichiarazioni fiscali fraudolente o omesse (D.Lgs. 74/2000). Nel contesto dei medici convenzionati, le ipotesi configurabili, in presenza di compensi occultati, sono principalmente due:

  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): si verifica quando nella dichiarazione annuale vengono indicati elementi attivi inferiori a quelli reali (oppure elementi passivi fittizi), a scopo di evasione, superando certe soglie di rilevanza. Affinché l’infedele dichiarazione sia reato, la legge richiede due condizioni cumulative: imposta evasa superiore a 100.000 € e ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione superiore al 10% di quanto dichiarato, o comunque oltre 2.000.000 € . Se queste soglie sono superate (soglie aggiornate al ribasso dalla riforma del 2019, prima erano 150.000 € e 3 milioni ), scatta il penale. Ad esempio, un medico che dichiara 50.000 € ma in realtà ne ha incassati 1.000.000 € in nero, evadendo poniamo 430.000 € di IRPEF, supera ampiamente sia i 100k di imposta evasa sia i 2 milioni di base sottratta: risponde del reato di dichiarazione infedele. La pena prevista è la reclusione da 2 anni a 4 anni e 6 mesi , aumentata rispetto al passato (prima era 1-3 anni). Da notare che per la punibilità penale non conta la sanzione amministrativa (che scatta sempre sopra zero), ma il superamento di queste soglie. Dunque, piccoli importi evasi non portano in tribunale penale, restando sanzionati solo in via amministrativa.
  • Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): è il reato di chi, obbligato a presentare la dichiarazione annuale, non lo fa affatto, sempre con fine di evasione. Anche qui c’è una soglia: imposta evasa superiore a 50.000 € . La pena va da 2 a 5 anni di reclusione (aumentata anche questa nel 2019, prima era 1,5-4 anni ). Nell’ipotesi di un medico, l’omessa dichiarazione integrale è poco frequente (a meno di situazioni di totale “sommerso”). Ma se accadesse – ad esempio un medico convenzionato che non presenta la dichiarazione dei redditi da più anni, occultando centinaia di migliaia di euro – l’area penale è certamente rilevante (basta superare 50k di imposta non dichiarata per anno).

Altri reati del catalogo potrebbero teoricamente toccare un medico evasore in casi particolari: la dichiarazione fraudolenta (art. 2 o 3) potrebbe configurarsi se vi è uso di fatture false o altri artifici per evadere, ma ciò è poco comune nel contesto del medico che semplicemente non fattura i pazienti (lì si parla di evasione “semplice”, non di frode organizzata). Un caso diverso potrebbe essere se il medico, per giustificare entrate, finge false fatture di altri fornitori: ma entriamo in ipotesi remote. Più rilevante, semmai, l’art. 10-bis (omesso versamento di ritenute) se il medico, in veste di sostituto, non versa le ritenute operate su stipendi di dipendenti (ma molti medici di base non hanno dipendenti, al più collaboratori occasionali). Per completezza, i reati di emissione di fatture false, occultamento di documenti contabili, ecc., sono meno pertinenti all’attività medica individuale.

Importante è capire che la sfera penale scatta solo in presenza di dolo specifico di evasione e oltre certe soglie quantitative. Il medico deve cioè aver volontariamente occultato ricavi per evadere. Errori contabili o interpretazioni errate (ad esempio ritenere esente un’indennità) difficilmente daranno luogo a procedimento penale, specialmente se l’imposta evasa non supera le soglie. Anche la giurisprudenza richiede la prova del dolo specifico: ad esempio, la consapevolezza di non dichiarare compensi e la volontà di evadere il fisco. L’“entità” dell’omissione può di per sé costituire indizio di dolo (e.g. sottratti il 70% dei ricavi, sarà difficile sostenere la buona fede) , ma resta un elemento da provare.

Se l’Agenzia delle Entrate, durante un accertamento, ravvisa profili di reato (es. scopre 500.000 € di compensi non dichiarati in 3 anni), ha l’obbligo di segnalazione alla Procura della Repubblica. Di solito l’iter è: la Guardia di Finanza, nel corso della verifica fiscale, redige un verbale conclusivo in cui contesta anche la violazione penale e trasmette il fascicolo al PM. Il procedimento penale è autonomo dal contenzioso tributario: può iniziare prima, durante o dopo l’accertamento fiscale, e seguire il suo corso (indagini, eventuale rinvio a giudizio) indipendentemente dal pagamento delle somme evase. Tuttavia, il nostro ordinamento prevede (all’art. 13 D.Lgs. 74/2000) una causa di non punibilità penale se il contribuente corregge il tiro pagando tutto il dovuto. In particolare, la non punibilità per intervenuta adesione e pagamento è stata estesa nel 2019 anche ai reati di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione: se i debiti tributari, comprensivi di sanzioni e interessi, vengono estinti integralmente prima dell’apertura del dibattimento penale di primo grado, il reo non è punibile . Ciò significa che un medico indagato per infedele dichiarazione che provveda a versare tutte le imposte evase con relative sanzioni amministrative prima che inizi il processo, può ottenere l’archiviazione o il proscioglimento per avvenuto ravvedimento operoso postumo. Attenzione: questa causa di non punibilità non si applica ai reati di omesso versamento IVA o ritenute (artt. 10-bis e 10-ter, che hanno proprie soglie e condizioni), ma per infedele e omessa dichiarazione sì. La Cassazione ha confermato annullando condanne quando risultava che l’imputato aveva completamente pagato il dovuto e il giudice non ne aveva tenuto conto . Dunque, pagare il debito tributario non salva dalle sanzioni amministrative (ovviamente) ma può evitare la condanna penale. Anche qualora si paghi troppo tardi per ottenere la non punibilità, il pagamento resta comunque un fattore attenuante importante ai fini della determinazione della pena e della concessione della sospensione condizionale.

Oltre alla reclusione, una condanna per reati tributari comporta anche pene accessorie (art. 12 D.Lgs. 74/2000): ad esempio l’interdizione dagli uffici direttivi di imprese o l’incapacità di contrattare con la PA per 1-3 anni, e la confisca dei beni equivalenti all’importo evaso. Fortunatamente, per i professionisti sanitari, a meno di evasioni eclatanti, è frequente che un’eventuale condanna penale (spesso ad esempio patteggiata) venga sospesa condizionalmente se si tratta di pena contenuta e primo reato. Ma è chiaro che finire in un procedimento penale è evento da evitare: meglio adottare per tempo rimedi deflativi o strategie difensive efficaci per ridurre l’imposta evasa sotto soglia o convincere l’autorità della propria buona fede.

Per completezza, riportiamo uno schema riassuntivo dei reati tributari rilevanti e delle soglie di punibilità (valori aggiornati al 2025):

Reato tributario (D.Lgs. 74/2000)CondottaSoglia di punibilitàPena prevista
Dichiarazione infedele (art. 4)Dichiarare elementi attivi inferiori al reale (o passivi fittizi), con dolo di evasioneImposta evasa > 100.000 € e elementi attivi sottratti > 10% del dichiarato o > 2.000.000 €Reclusione 2 a 4 anni e 6 mesi (fino al 2019 era 1-3 anni)
Omessa dichiarazione (art. 5)Non presentare la dichiarazione dovuta, con dolo di evasioneImposta evasa > 50.000 €Reclusione 2 a 5 anni (fino al 2019 era 1,5-4 anni)
Dichiarazione fraudolenta (art. 2 o 3)Uso di fatture false/mezzi fraudolenti per evadereImposta evasa > 30.000 € (art. 2) o > 30.000 € e attivi sottratti > 5% del dichiarato o > 1,5 mln (art. 3)Reclusione 4 a 8 anni (art.2, con attenuante 18 mesi-6 anni se <100k fatture false) ; 3 a 8 anni (art.3)
Emissione di fatture false (art. 8)Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistentiReclusione 4 a 8 anni (attenuante se importi < 100k €: 18 mesi-6 anni)
Occultamento/distruzione di contabilità (art. 10)Occultare o distruggere scritture obbligatorie per evadereReclusione 3 a 7 anni (aumentata da 2020)
Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis)Non versare ritenute operate, entro il termine dichiarazione sostitutoImporto omesso > 150.000 €Reclusione 6 mesi – 2 anni
Omesso versamento IVA (art. 10-ter)Non versare l’IVA dovuta annuale entro termine acconto anno successivoIVA omessa > 250.000 €Reclusione 6 mesi – 2 anni

(N.B.: le soglie e pene sopra indicate includono gli aggiornamenti della L.157/2019 e D.L.124/2019 conv., che hanno inasprito il regime penale tributario – la cosiddetta “stretta” anti-evasione.)

Come si evince, i medici convenzionati, a meno di somme davvero ingenti, rischiano più frequentemente l’art. 4 che non l’art. 5 (perché presentano comunque una dichiarazione, ancorché infedele). Rischiano invece l’art. 5 coloro che, privi di sostituto d’imposta o non soggetti a CU, provano a sottrarsi del tutto al fisco (ipotesi residuale, ma non impossibile per chi opera solo privatamente).

Esempio pratico: un medico specialista in regime di accreditamento presso cliniche private, negli anni 2021-2022 non ha emesso fatture per circa 300.000 € di compensi ricevuti “fuori busta”. Se viene scoperto, supponiamo che l’imposta IRPEF evasa sia ~120.000 €. Avendo presentato comunque una dichiarazione (con altri redditi) ma omettendo quei compensi, si configura la dichiarazione infedele: l’imposta evasa supera 100k € e gli importi sottratti superano 2 milioni? No, poniamo abbia dichiarato 0 e omesso 300k: 300k > 2M? no, quindi in questo esempio non supera i 2 milioni ma supera di gran lunga il 10% del dichiarato (che era quasi zero). Dunque il reato sussiste. Il medico sarà denunciato e rischierà da 2 a 4,5 anni di reclusione, a meno che paghi tutto il dovuto prima: se riesce a pagare imposte+interessi+sanzioni amministrative prima del dibattimento, il reato verrà estinto . In ogni caso subirà l’accertamento con imposte e sanzioni al 90-180%.

Strategie di difesa: rimedi amministrativi “deflativi”

Di fronte a una contestazione del Fisco riguardante compensi non dichiarati, il contribuente ha a disposizione vari strumenti di difesa prima e in alternativa al contenzioso giudiziario. Questi rimedi, detti “deflativi del contenzioso”, mirano a risolvere o ridurre la pretesa tributaria in via amministrativa, evitando di dover necessariamente ricorrere al giudice. Vediamoli in ordine di possibili tempistiche di intervento.

Ravvedimento operoso e correzione spontanea

Il primo consiglio, se il medico si accorge di aver commesso un errore od omissione prima che il Fisco glielo contesti formalmente, è di valutare il ravvedimento operoso. Il ravvedimento (art. 13 D.Lgs. 472/97) consente di sanare spontaneamente le violazioni fiscali versando l’imposta dovuta con sanzioni ridotte e interessi, purché ciò avvenga prima che l’irregolarità sia già contestata o che siano iniziati accessi/verifiche. Nel caso di compensi non dichiarati, il medico potrebbe presentare una dichiarazione integrativa per gli anni in questione, dichiarando i redditi omessi, e pagare la maggiore imposta con sanzione ridotta (la riduzione dipende dal ritardo: ad esempio, se entro un anno, sanzione 1/10 del 90%, se oltre un anno ma entro due, 1/8, etc.). Il vantaggio è enorme: si evitano le sanzioni piene e soprattutto si evita un formale avviso di accertamento.

Esempio: il dott. Rossi si rende conto nel 2025 di non aver dichiarato 20.000 € percepiti da una clinica nel 2023. Nessun controllo è ancora partito. Facendo ravvedimento “lungo” (oltre 90 giorni ma entro il 2025), pagherà la maggiore IRPEF sul 2023 più una sanzione ridotta al 15% circa (1/6 del 90%) . Se aspettasse l’accertamento, subirebbe il 90% pieno. Pertanto, quando possibile, il ravvedimento è fortemente consigliato – anche perché dimostra la buona fede del contribuente, riducendo pressoché a zero il rischio penale (chi si ravvede prima di controlli evidenzia mancanza di dolo).

Il ravvedimento resta consentito anche se sono arrivate comunicazioni di irregolarità (avvisi bonari): in tal caso, di fatto, pagando nei 30 giorni dall’avviso si applicano già le sanzioni ridotte per legge (es. 20%). Attenzione però: se l’Ufficio ha già notificato un PVC o inviato un invito formale al contraddittorio per un certo periodo d’imposta, il ravvedimento per quell’anno non è più ammesso nella forma ordinaria. Tuttavia, pagare prima possibile può essere comunque letto come collaborazione attiva, utile in eventuali successive fasi (es. in sede penale come attenuante).

Autotutela

L’autotutela è il potere/dovere dell’Amministrazione di annullare o rettificare i propri atti errati o illegittimi, anche senza attendere il giudice. Il contribuente può presentare un’istanza di autotutela all’ufficio spiegando gli errori contenuti nell’accertamento e chiedendone l’annullamento (totale o parziale). Occorre però sottolineare che l’autotutela è discrezionale: l’Agenzia la esercita solo se riconosce un errore oggettivo (es: scambio di persona, doppia imposizione dello stesso reddito, calcoli palesemente sbagliati, ecc.) oppure nuovi elementi decisivi. Nel contesto dei compensi non dichiarati, casi tipici che possono giustificare l’autotutela sono, ad esempio: l’accertatore ha attribuito al medico redditi che erano già stati dichiarati da un’associazione professionale; oppure ha contato due volte lo stesso compenso; oppure non era a conoscenza di un elemento liberatorio (es: un versamento sul conto in realtà proveniva da una vendita patrimoniale documentata, non da un’attività medica).

Se sussistono queste condizioni lampanti, è opportuno scrivere all’ufficio fornendo le prove e chiedendo l’annullamento dell’atto in autotutela. L’Amministrazione spesso esamina tali istanze, specie se l’evidenza dell’errore è immediata. Ad esempio, se la stessa Agenzia ha emesso due avvisi per la medesima somma su due periodi diversi (un palese duplicato), interverrà in autotutela. Non illudiamoci però: l’autotutela non è un modo di discutere nel merito la valutazione operata dal Fisco. Se il medico ritiene di aver fatturato tutto e l’ufficio invece presume di no, difficilmente l’ufficio farà marcia indietro in autotutela sulla base delle sole dichiarazioni di parte. In simili casi di divergenza valutativa, bisogna passare semmai per l’adesione o il ricorso.

Un aspetto importante: la presentazione di un’istanza di autotutela non sospende i termini per fare ricorso né quelli per pagare. Quindi va fatta attenzione a non attendere l’esito oltre i 60 giorni dall’atto pensando di risolvere così, altrimenti si rischia di decadere dalla possibilità di impugnare. L’autotutela può comunque essere perseguita parallelamente ad altri rimedi.

Accertamento con adesione

L’accertamento con adesione (disciplinato dal D.Lgs. 218/1997) è forse il più efficace strumento deflativo a disposizione in questa materia. Consente di instaurare un confronto negoziale tra contribuente e ufficio, al fine di raggiungere un accordo sull’ammontare del reddito accertato e sulle imposte dovute, con un beneficio sanzionatorio.

Come funziona? Una volta notificato un avviso di accertamento (ancor prima di fare ricorso), il contribuente ha 60 giorni per impugnarlo, ma entro 30 giorni può presentare un’istanza di adesione all’ufficio . L’istanza sospende i termini di impugnazione per 90 giorni. L’ufficio è tenuto a convocare il contribuente per un incontro (il cosiddetto contraddittorio adesivo). Durante questo incontro – una sorta di “trattativa” fiscale – si discutono i rilievi: il contribuente può portare nuovi documenti, far valere errori, e proporre una soluzione transattiva.

Nel caso di compensi non dichiarati, spesso l’adesione porta a un ridimensionamento dell’evasione presunta. Ad esempio, se l’ufficio ha contestato €100.000 di ricavi in nero basandosi su presunzioni, il contribuente potrebbe dimostrare che €30.000 erano versamenti da risparmi familiari, convincendo così l’ufficio a ridurre la pretesa a €70.000. Oppure può emergere un diverso criterio di calcolo (es. l’ufficio attribuiva €X per ogni paziente non fatturato, ma si accorda per un importo inferiore sulla base di tariffe medie documentate dal contribuente). Nell’adesione entrambi le parti fanno concessioni, un po’ come in un patteggiamento: il contribuente rinuncia a contestare tutto in giudizio e accetta una base imponibile maggiore di quella dichiarata, l’ufficio rinuncia a parte delle sue pretese massime.

Il grande vantaggio dell’adesione è che le sanzioni amministrative vengono ridotte ad 1/3 del minimo previsto . Quindi, se era applicabile il 90%, si riduce al 30%. Inoltre, non si pagano le spese di notifica né gli interessi di ritardata iscrizione a ruolo. Si può anche ottenere una rateazione delle somme fino a 8 rate trimestrali (16 rate se importo > 50.000 €) .

Un esempio concreto: al dott. Verdi viene contestata dichiarazione infedele per €50.000 di compensi non fatturati, con 20.000 € di IRPEF evasa. Sanzione teorica 90% = 18.000 €. In sede di adesione, concorda per €30.000 (riconosce 30k di imponibile aggiuntivo). Dovrà pagare IRPEF su 30k (~12.000 €) e sanzione 1/3 del minimo sul 12.000 di imposta = 3.600 €. Contro i 18.000 iniziali è un bel risparmio, oltre a pagare su base ridotta. L’ufficio magari accetta perché ha evitato un contenzioso dall’esito incerto.

È importante presentarsi preparati al contraddittorio. Bisogna documentare tutto il possibile a proprio favore: estratti conto con evidenze di entrate non reddituali, eventuali dichiarazioni di pazienti (se pertinenti e ammesse), perizie di parte (es. su ricavi medi di mercato), normative di riferimento (es. che certe indennità erano esenti). Un atteggiamento collaborativo e trasparente spesso facilita un esito favorevole. Va detto che l’ufficio non è obbligato a fare sconti: se il contribuente non porta elementi credibili, difficilmente l’Agenzia abbasserà la pretesa solo per “far piacere”. Tuttavia, nella pratica, i funzionari sanno che un cattivo accordo è talora meglio di una buona causa: quindi preferiscono chiudere, magari riducendo le sanzioni e qualcosina sul merito, pur di incassare subito ed evitare l’incertezza del giudizio.

Da notare: dal 2020 è divenuto obbligatorio, in molti casi, un invito al contraddittorio prima dell’accertamento (art. 5-ter D.Lgs. 218/97). Se il medico riceve un invito a comparire con una proposta di accertamento, siamo di fatto già nella fase adesiva ante litteram. Presentarsi è fortemente consigliato . Se non ci si presenta, e poi si ricorre, non si potrà lamentare di non aver avuto contraddittorio (che è stato offerto). Al contrario, partecipando, si può già in quella sede ottenere uno sgravio o un accordo. Spesso l’invito contiene già una bozza di adesione con importi ridotti; se il contribuente la firma, l’accertamento non verrà nemmeno emesso. Dunque l’adesione può avvenire anche prima dell’avviso, su iniziativa dell’ufficio.

Una volta raggiunto l’accordo, si sottoscrive un atto di adesione. Da lì occorre pagare la prima rata (o l’intero) entro 20 giorni . L’atto di adesione non è impugnabile e chiude definitivamente la controversia per quel periodo. Non è neppure revocabile unilateralmente: se ci si pente dopo aver firmato, purtroppo non si può fare ricorso (l’adesione è un “contratto” fiscale) . Quindi prima di firmare assicurarsi di poter sostenere il pagamento concordato e di aver compreso bene i termini.

Acquiescenza e definizione agevolata

Un’altra opzione, qualora l’accertamento non sia totalmente sbagliato e gli importi non troppo gravosi, è accettare l’atto così com’è per godere di alcune riduzioni di sanzioni. In particolare, se il contribuente non presenta ricorso entro 60 giorni e paga integralmente quanto dovuto, beneficia della riduzione della sanzione ad 1/3 (anziché 1/2 come in adesione, qui è un po’ diverso l’automatismo). In verità, per gli avvisi emessi dal 2016 in poi, la disciplina è particolare: l’avviso stesso spesso già contiene la riduzione a 1/3 delle sanzioni se si paga entro 60 giorni – questa è chiamata acquiescenza (ex art. 15 D.Lgs. 218/97). Ad esempio, se l’atto indica 90% di sanzione, in calce riporterà “sanzioni ridotte a 30% se paghi entro 60 giorni senza ricorso”. Attenzione: l’acquiescenza può essere parziale su singoli rilievi (se l’atto ne contiene diversi) pagando solo quelli accettati con sanzioni ridotte, e ricorrendo sugli altri. L’importante è versare i relativi importi entro i termini.

L’acquiescenza in sostanza premia chi rinuncia al contenzioso subito. È utile se l’ufficio non concede adesione migliorativa o se il contribuente valuta di non avere chance in giudizio. Il vantaggio è la stessa riduzione sanzioni dell’adesione (1/3) ma senza trattativa – si accetta integralmente l’accertamento. Si ha diritto a dilazionare? Dopo la legge di stabilità 2015, sì: gli importi in acquiescenza possono essere rateizzati come quelli da adesione (fino a 8 rate, 16 se >50mila).

Va menzionata anche la possibilità di definire in modo agevolato alcune situazioni particolari previste da normative temporanee, le cosiddette “pacificazioni fiscali” (rottamazione, sanatorie, ecc.). Ad esempio, la Legge di Bilancio 2023 (L.197/2022) ha introdotto varie misure: la definizione agevolata delle liti pendenti (per chi aveva ricorsi in corso, con pagamento ridotto in base agli esiti di primo/secondo grado), la conciliazione agevolata in appello (sanzioni ridotte al 1/18) e la rinuncia agevolata ai ricorsi (sanzioni 1/18). Inoltre la “rottamazione-quater” ha permesso di estinguere cartelle esattoriali derivanti da accertamenti pagando solo l’imposta e interessi ridotti, senza sanzioni né interessi di mora . Queste misure hanno scadenze e condizioni precise e sono una tantum. Ad agosto 2025, la finestra per aderire a tali definizioni del 2023 è chiusa (era entro giugno 2023 per le liti pendenti). Tuttavia, il contribuente deve essere sempre attento perché periodicamente il legislatore offre opportunità di sanare posizioni fiscali con sconti sulle sanzioni o sugli importi. Aderire a queste misure non comporta ammissione di colpa fraudolenta né preclude futuri benefici : lo ha chiarito la prassi, e non può essere usato a sfavore del contribuente. In sostanza, se c’è una “pace fiscale”, approfittarne conviene senza troppi timori (ovviamente valutando con il proprio consulente la convenienza caso per caso).

Riassumendo i rimedi deflativi principali, ecco una tabella schematica:

RimedioQuando attivarloVantaggiNote
Ravvedimento operosoPrima che l’irregolarità sia contestata (o entro breve dall’omissione)– Niente avvisi né contenzioso<br>– Sanzioni ridottissime (fino a 1/10 o 1/8)<br>– Esclude in radice il rischio penale (paghi subito)Non ammesso dopo notifica PVC o formale avviso accertamento. Se già ricevuto avviso bonario, pagare entro 30 gg per sanzione 20%.
AutotutelaDopo ricezione atto (avviso, cartella), in qualsiasi momento, anche se definitivo– Annullamento totale/parziale dell’atto senza spese né sanzioni (se l’ufficio riconosce l’errore)L’istanza non sospende termini di ricorso/pagamento. L’accoglimento è discrezionale e raro salvo errori palesi.
Accertamento con adesioneEntro 30 gg dalla notifica avviso (o su invito ufficio prima dell’avviso)– Possibilità di negoziare su imponibile e imposta<br>– Sanzioni ridotte a 1/3<br>– Rateizzabile fino a 8 (o 16) trimestri<br>– Sospende termini ricorso (max 90 gg)Richiede attiva partecipazione e documentazione. Una volta firmato l’accordo, è definitivo e non impugnabile .
Acquiescenza (pagamento senza ricorso)Entro 60 gg dalla notifica avviso (se non si presenta ricorso)– Sanzioni ridotte a 1/3 (spesso già calcolate nell’atto)<br>– Rateizzabile come adesione<br>– Niente spese di giudizioSi accetta integralmente la pretesa. Perde efficacia se non si paga nei termini. Può essere limitata ad alcuni rilievi.
Definizioni agevolate speciali (condoni, rottamazioni, sanatorie)Finestra temporale fissata dalla legge (es. liti pendenti al…)– Riduzione drastica di sanzioni e interessi (talora annullati)<br>– Chiusura rapida della posizioneVariano caso per caso perimetro e scadenze. Necessario monitorare la normativa vigente. Ad es. definizione liti 2023, rottamazione cartelle ecc.

La difesa nel contenzioso tributario

Se non è stato possibile definire in via amministrativa la controversia (perché magari non si è trovato un accordo o si ritiene il rilievo infondato), il contribuente può ricorrere al giudice tributario per far valere le proprie ragioni. In questa sezione esaminiamo come impostare la difesa in giudizio, tenendo conto delle peculiarità dei casi di accertamento di compensi non dichiarati.

Il processo tributario: cenni e novità

Il ricorso va presentato alla Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado (nuova denominazione dal 2023 delle ex Commissioni Tributarie Provinciali) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnato (avviso di accertamento, cartella, diniego autotutela, etc.). Nel depositare il ricorso, è ora obbligatoria l’assistenza di un difensore abilitato (di norma un avvocato tributarista o un commercialista) salvo controversie di modestissimo valore. Per le controversie instaurate dal 2023 in poi, la riforma del processo tributario ha eliminato la fase del reclamo/mediazione obbligatoria per importi fino a 50.000 € : ciò significa che si può adire direttamente il giudice anche per le liti minori (prima bisognava presentare reclamo all’Agenzia ed attendere 90 giorni). Il legislatore ha però potenziato la possibilità di accordo conciliazione anche in corso di processo, pure in appello . Dunque, ad oggi (2025) il processo tributario prevede: ricorso, eventuale tentativo di conciliazione giudiziale in primo grado (o appello), sentenza di primo grado, appello alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado (ex Commissione Regionale) e infine ricorso per Cassazione.

Nel nostro caso, il medico ricorrente sarà tipicamente o il contribuente persona fisica (se l’attività è individuale) oppure una società semplice/associazione professionale se la struttura medica ha quella veste (alcuni medici operano associati, ma l’80% dei medici di base ad esempio è individuale).

Onere della prova e argomentazioni difensive

Nel contenzioso tributario vige un principio peculiare sull’onere della prova: l’accertamento dell’Agenzia è assistito da una presunzione di legittimità, ma se si basa su presunzioni semplici è necessario che esse siano “gravi, precise e concordanti” (come richiesto dal codice civile). In pratica, il Fisco deve in prima battuta motivare adeguatamente l’accertamento, indicando gli elementi sui quali si fonda la ripresa a tassazione (es. elenco versamenti non giustificati, statistiche su pazienti/fatture, ecc.). Una volta fatto ciò, l’onere passa al contribuente, il quale deve dimostrare l’inesistenza della materia imponibile che gli viene attribuita . Ad esempio, se l’ufficio produce i dati bancari con 100k € di versamenti non spiegati, toccherà al medico provare la natura non reddituale di quegli importi (per dire: 50k vendita immobile, 20k regalo parenti, 30k risparmi prelevati e ri-versati). Se resta silente o prova in modo insufficiente, la presunzione fiscale regge. Viceversa, se offre una spiegazione per ciascun movimento, l’ufficio dovrà confutarla o altrimenti il giudice annullerà l’accertamento.

In caso di accertamenti da studio di settore o ISA (Indicatori di affidabilità fiscale), oggi non più tanto frequenti, l’orientamento è che il solo scostamento dagli indici non costituisca presunzione grave: serve un contraddittorio rafforzato e ulteriori elementi. Lo stesso dicasi per gli accertamenti redditometrici: il contribuente può vincere la presunzione sul tenore di vita provando che le spese sono state finanziate da redditi esenti o risparmi accumulati in anni precedenti.

Nel caso specifico dei medici, alcune difese tipiche sono:

  • Prestazioni a titolo gratuito: Il medico può sostenere che alcune prestazioni considerate dall’ufficio erano gratuite (verso familiari, colleghi, indigenti, o errore di registrazione). Questa difesa fu accolta, ad esempio, in Cassazione n. 21972/2015 per un professionista che non aveva fatturato alcuni incarichi poi giustificati come gratuiti . Occorre però dare concretezza a tale affermazione: portare magari dichiarazioni scritte dei soggetti beneficiari, che confermino di non aver pagato; evidenziare rapporti di parentela o amicizia che rendono plausibile la gratuità; o dimostrare che erano prestazioni di modesta entità (es. un consulto veloce). Se il medico riesce a convincere il giudice che non è contro l’esperienza aver effettuato gratis quelle attività, la presunzione dell’ufficio cade.
  • Prova contraria su versamenti bancari: Come detto, i versamenti su conto si presumono compensi, ma il medico in giudizio può portare la prova contraria. Documenti fondamentali sono: atti di compravendita (se il versamento proveniva da vendita di un bene), estratti conto di altri conti (se si tratta di giroconto), lettere di parenti che attestino donazioni o restituzioni di prestiti, movimenti di prelievo precedente (ad esempio, prelevo 5k e dopo una settimana li verso su altro conto: è solo spostamento di liquidità). Il giudice tributario valuta queste prove liberamente. Anche le testimonianze non sono ammesse formalmente nel processo tributario (divieto di prova testimoniale), ma è possibile produrre dichiarazioni scritte di terzi. Non hanno pieno valore di prova legale, ma indiziario sì. Ad esempio, una dichiarazione giurata di un padre che attesta “ho donato io 10.000 € in contanti a mio figlio medico, che poi lui ha versato”, se credibile e non smentita, può bastare a esonerare quel versamento dall’imposizione.
  • Mancato contraddittorio preventivo: Se l’accertamento è stato emesso dal 1° luglio 2020 in poi senza che sia stato attivato il contraddittorio endoprocedimentale (quando obbligatorio), il contribuente può eccepire la violazione di legge. L’obbligo infatti scatta per accertamenti in materie “armonizzate” o comunque dal 2018 in base a Statuto (poi normato nel 2020). La giurisprudenza è oramai consolidata nel ritenere nullo l’accertamento emesso senza invito al contraddittorio laddove previsto . Dunque, se un medico si vede recapitare un avviso per ricavi non dichiarati (non con carattere d’urgenza, né di mera liquidazione automatica) senza aver ricevuto prima un invito ex art. 5-ter, potrebbe far valere questo vizio procedurale in ricorso. Spesso solo questa eccezione porta l’ufficio a dover rifare l’atto, e in alcuni casi ad abbandonare pretese mal fondate.
  • Inesistenza della pretesa impositiva: La difesa di merito per eccellenza: dimostrare che quei compensi contestati non esistono oppure sono già tassati altrove. Ad esempio: l’Agenzia presumeva ricavi non dichiarati dal confronto pazienti/fatture, ma il medico mostra che quei pazienti extra erano stati seguiti gratuitamente nell’ambito del SSN (o da un collega sostituto che li ha fatturati a suo nome). Oppure il medico prova che un certo importo accreditato sul suo conto era in realtà il rimborso di anticipo spese per conto di un collega (e il collega lo ha dichiarato). In tutti questi casi si tratta di portare pezze d’appoggio (ricevute, fatture di altri, dichiarazioni dei soggetti coinvolti).
  • Questioni giuridiche: talvolta la battaglia è su un punto di diritto: es. l’Ufficio considera tassabile una somma che il medico ritiene esente. Un caso noto riguarda i medici specializzati: le borse di studio percepite negli anni ‘80-’90 e il successivo risarcimento UE – ma è un tema specifico. Un altro esempio: IRAP e medici convenzionati – se l’Agenzia recupera IRAP, il medico può appellarsi alla giurisprudenza favorevole (Cass. 2016 a sezioni unite e succ.) che esclude l’autonoma organizzazione quando il medico ha solo un dipendente part-time di mera segreteria e strumenti base. Ci sono molte sentenze che confermano il diritto al rimborso IRAP di medici di base senza organizzazione significativa. Ad esempio, Cassazione ord. n. 11152/2021 ha stabilito che l’ausilio di una segretaria (peraltro prevista dalla convenzione SSN) non integra di per sé autonoma organizzazione e ha dato ragione al medico convenzionato per il rimborso IRAP . Anche il fatto di operare su più studi non basta se è per comodità e non per struttura imprenditoriale . Dunque il contribuente medico può impugnare un eventuale accertamento IRAP evidenziando che: il personale di segreteria rientra nell’ordinario “minimo indispensabile” secondo l’id quod plerumque accidit ; che l’ASL spesso impone di avere sostituti e collaboratori e ciò non deve penalizzare fiscalmente il medico; e citare le varie pronunce che hanno escluso IRAP per medici convenzionati privi di organizzazione autonoma. Se la commissione concorda, annullerà la parte di atto relativa all’IRAP.

In generale, la difesa nel merito dovrà essere rigorosa sui numeri: conviene produrre un prospetto analitico che confuti quello dell’ufficio. Se, ad esempio, l’ufficio ha calcolato “X pazienti non fatturati = €Y evasi”, il ricorrente dovrebbe presentare una tabella alternativa: elencare quei pazienti, indicare per ciascuno se e quando ha pagato (magari alcuni risultano paganti e fatturati in altra data, altri gratuiti, etc.), in modo da smontare o ridurre la base della pretesa. Il giudice tributario spesso adotta soluzioni equitative se percepisce che la verità sta nel mezzo: ad esempio, può ridurre forfettariamente l’ammontare accertato se ritiene che l’ufficio abbia esagerato ma qualcosa ci fosse. È meglio quindi dare al giudice una base per farlo, mostrando apertamente eventuali omissioni ma di entità minore. Se un medico riconosce di aver dimenticato qualcosa ma non quanto contestato, può sostenerlo in ricorso: “È vero, 10% di quei versamenti erano compensi, ma il restante 90% no”. Chiaramente deve argomentarlo. A volte infatti l’esito delle sentenze è di accertare una somma inferiore a quella originaria (parziale annullamento). Ciò succede se entrambe le parti forniscono elementi e il giudice fa una sintesi.

Conciliazione giudiziale e appello

Durante la pendenza del giudizio, fino all’udienza, le parti possono sempre trovare un accordo transattivo, la conciliazione giudiziale. In primo grado se le parti si accordano (magari su importo a metà strada), le sanzioni sono ridotte al 1/3 e si chiude il processo . In appello la conciliazione è ancora possibile, con sanzioni ridotte al 50% . La riforma 2022 ha incentivato i giudici stessi a farsi promotori di conciliazioni. Dunque, se durante la causa emergono spiragli, il medico attraverso il suo difensore può proporre una conciliazione: ad esempio paga il dovuto su A e B, e l’ufficio rinuncia al rilievo C privo di fondamento. Si formalizza un verbale o accordo e la lite finisce lì, con risparmio di tempo e denaro.

Se invece si arriva a sentenza e non è soddisfacente, si può ricorrere in appello in secondo grado entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. In appello non si possono introdurre nuovi documenti se non nei limiti ammessi (bisogna averli prodotti prima, a meno che non siano divenuti disponibili dopo). Quindi è bene già in primo grado mettere tutte le carte sul tavolo.

Infine c’è la Cassazione (entro 90 giorni dalla notifica della sentenza d’appello) ma lì si discutono solo questioni di legittimità (interpretazione di norme, vizi logici gravi), non il merito dei conteggi.

Considerazioni finali

Affrontare un contenzioso tributario su temi di evasione parziale richiede competenze tecniche: è consigliabile farsi assistere da professionisti esperti (tributaristi, avvocati) sin dalle fasi pre-contenziose. Il costo del contenzioso non è trascurabile, ma se le somme in ballo e i rischi (anche penali) sono elevati, vale la pena investire in una difesa adeguata. Spesso la sola presenza di un difensore preparato induce l’Ufficio a valutare meglio la posizione e talora a desistere da pretese infondate o cercare accordi ragionevoli.

Il contribuente, da parte sua, dovrebbe mantenere un atteggiamento collaborativo ma fermo sui propri diritti. Mostrare buona fede – ad esempio versando intanto la parte non controversa, o aderendo parzialmente – è ben visto anche in giudizio. E ricordiamo: pagare il dovuto prima possibile non peggiora la situazione anzi la migliora (si riducono interessi, sanzioni e forse si evitano guai penali). Non c’è “ammissione di colpa” nel definire una lite o nel sanare un debito: lo ha chiarito la stessa Agenzia, aderire a misure di definizione agevolata non equivale ad ammettere frodi e non dà adito a controlli a tappeto . È semplicemente l’esercizio di un diritto.

Con ciò, passiamo ora ad alcune domande frequenti che emergono in materia, con le relative risposte, così da ricapitolare i punti salienti in forma pratica.

Domande frequenti (FAQ) e casi pratici

  • Domanda: Per quanti anni indietro l’Agenzia delle Entrate può contestare compensi non dichiarati?
    Risposta: In generale, l’Amministrazione ha tempo fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (termine di decadenza) . Ad esempio, per la dichiarazione dei redditi 2020 (presentata nel 2021) potrà emettere accertamento fino al 31/12/2026. Se la dichiarazione non è stata presentata affatto, il termine si allunga a 7 anni (nell’esempio, omissione 2020 → accertabile fino al 31/12/2028). Queste regole unificate sono in vigore dal 2016. Novità: la riforma fiscale in corso ha previsto, per le dichiarazioni dal 2025, la riduzione di un anno dei termini ordinari di accertamento (da 5 a 4 anni) , come incentivo per i contribuenti “affidabili”. Fino al 2024 restano i 5 anni. Attenzione che eventuali circostanze possono prorogare tali termini: ad esempio, la notifica di un PVC penale (che comporta il c.d. raddoppio dei termini, oggi limitato ai casi in cui la denuncia per reato tributario sia presentata entro la scadenza ordinaria) . In pratica, se un reato rilevante è denunciato tempestivamente, l’accertamento può essere emesso entro il doppio del tempo, ma questa ipotesi è ormai poco frequente perché i termini base sono stati allungati a sufficienza. In sintesi: 5 anni dall’anno di dichiarazione (presto 4) o 7 anni se la dichiarazione fu omessa. Oltre, scatta la decadenza e nulla è dovuto.
  • Domanda: Ho scoperto di non aver dichiarato alcuni compensi l’anno scorso. Posso rimediare ora ed evitare sanzioni?
    Risposta: Sì. Se l’Agenzia non ti ha ancora contestato nulla, puoi utilizzare il ravvedimento operoso. Significa presentare una dichiarazione integrativa per l’anno in questione, includendo i compensi dimenticati, e pagare la maggiore imposta dovuta con una sanzione ridotta. Quanto ridotta dipende da quanto sei in ritardo: ad esempio, se effettui il ravvedimento entro un anno dall’omissione, la sanzione (ordinariamente 90%) scende a un nono (1/9) quindi 10% ; se entro due anni, 1/8 (~11,25%); oltre due anni, 1/7 (~12,86%). Ci sono formule specifiche ma, in ogni caso, è molto più conveniente che aspettare un accertamento (dove sarebbe 90% pieno). Importante: il ravvedimento è possibile solo se non hai già ricevuto notifiche di avvio controlli per quell’anno (es. un PVC, un avviso). Se hai già ricevuto un avviso bonario, puoi comunque pagare con sanzione ridotta (tipicamente 20%) nei 30 giorni. Evitare la sanzione del tutto è possibile solo in rarissimi casi di “errore scusabile” per incertezza normativa, ma è un percorso complesso. Il ravvedimento invece è un diritto automatico se rispetti i tempi. Dunque, ti conviene senz’altro ravvederti spontaneamente: pagherai il dovuto con poco aggiunto e la vicenda finisce lì, senza altre conseguenze né rischio penale (il ravvedimento, comportando pagamento, estingue il reato per infedele/omessa dichiarazione se era configurabile).
  • Domanda: Ho ricevuto un avviso di accertamento che mi contesta compensi non dichiarati per 40.000 €. L’Ufficio li ha ricavati dai miei movimenti bancari. Cosa posso fare ora?
    Risposta: In questa situazione hai diverse opzioni. Primo, verifica se effettivamente quei movimenti bancari corrispondono a ricavi non dichiarati o se vi sono giustificazioni. Ad esempio, se tra quei 40.000 € di versamenti sul conto ce n’erano alcuni che non riguardavano la tua attività (es: bonifico di un familiare, rimborso prestito, trasferimento da altro tuo conto), raccogli le prove. Potresti allora presentare un’istanza di accertamento con adesione entro 30 giorni e andare a discutere con l’ufficio spiegando queste voci. Se porti evidenze convincenti, c’è buona probabilità che l’ufficio riduca l’importo contestato (es. riconoscendo che 15.000 € erano estranei al reddito). Raggiunto un accordo, pagherai il dovuto (sanzioni ridotte a 1/3). Se l’ufficio invece non accetta le tue ragioni o offre uno sconto insufficiente, potrai comunque presentare ricorso (entro 60 giorni dalla notifica, prorogati di 90 se hai fatto adesione). Nel ricorso ribadirai le tue giustificazioni e magari aggiungerai documenti. Il giudice valuterà. Nel frattempo, potresti anche scegliere di pagare parzialmente l’importo non contestabile (ad esempio, se ammetti che 10.000 € erano effettivamente ricavi non dichiarati, potresti pagare spontaneamente la quota relativa – con sanzioni ridotte se paghi entro 60 giorni in acquiescenza). Ciò ridurrà l’eventuale contenzioso solo alla parte dubbia, e magari l’ufficio su quella deciderà di lasciar perdere. In sintesi: prima tenta la via amministrativa (adesione); se non soddisfa, ricorri portando le prove che quei 40.000 € non erano tutti reddito. Assicurati di rispettare i termini e, se possibile, fatti assistere da un tributarista per quantificare e argomentare bene le tue difese (le presunzioni bancarie sono superabili con prove contrarie, ma serve ordine e precisione nel presentarle).
  • Domanda: Quando scatta esattamente il penale per evasione fiscale sui compensi non dichiarati? Devo preoccuparmi nel mio caso?
    Risposta: Il penale scatta in due circostanze principali, come abbiamo visto: per dichiarazione infedele o per omessa dichiarazione. Nel tuo caso (accertamento da 40.000 € di imponibile occultato) probabilmente rientri nella dichiarazione infedele, perché comunque una dichiarazione l’avevi presentata. Perché vi sia reato di dichiarazione infedele, occorre che l’imposta evasa superi 100.000 € e che i compensi non dichiarati superino il 10% del dichiarato o 2 milioni €. Con 40.000 € omessi, è molto improbabile: anche se tu avessi dichiarato 0 (il 10% di 0 è 0, ma c’è la soglia assoluta di 2 mln € che non raggiungi), e l’imposta evasa sarà magari sui 18.000 € (meno di 100k). Quindi non rientreresti nel penale. In generale, per stare tranquilli: se l’imposta evasa sta sotto 100.000 € per anno, non c’è reato di infedele, a prescindere dall’importo occultato. E se per caso non avessi presentato affatto la dichiarazione in un anno, il reato di omessa scatta solo se l’imposta evasa > 50.000 €. Anche lì, 40.000 € di imponibile generano imposta molto sotto 50k, quindi niente penale. Riassumendo: no soglia, no reato. Per completezza, esistono reati anche per altri comportamenti (frode, false fatture) ma nel caso di chi semplicemente non fattura alcuni compensi, quelli citati sono i possibili. Se uno non ha superato quelle soglie, avrà sanzioni amministrative ma non penali. E aggiungo: anche se sfori di poco la soglia, spesso la Procura valuta il dolo ecc. Ad ogni modo, se dovessi mai sconfinare, sappi che hai la possibilità di estinguere il reato pagando tutto (imposte, sanzioni, interessi) prima del processo . Quindi la strategia in ottica penale è sempre: collabora, sistema il dovuto, e difficilmente vestirai la casacca a strisce.
  • Domanda: Il mio commercialista ha commesso un errore e non ha dichiarato dei compensi: posso far annullare la sanzione perché è colpa sua?
    Risposta: Purtroppo, nei rapporti col Fisco, sei tu contribuente il responsabile in prima battuta. La legge prevede la responsabilità personale per le violazioni tributarie: non importa se l’errore lo ha fatto il consulente, la sanzione amministrativa viene comunque irrogata a tuo carico. Non c’è un esonero automatico. Potrai semmai rivalsare civilmente sul commercialista (fargli causa per danni da inadempimento) se l’errore è dovuto a sua negligenza, ma intanto al Fisco devi pagare tu. L’unico caso in cui si può evitare la sanzione è se l’errore del consulente era scusabile in base a indicazioni fuorvianti ufficiali (es: l’Agenzia aveva dato un’interpretazione poi cambiata). Ma se, ad esempio, il tuo consulente si è “dimenticato” di inserire alcuni redditi o ha sbagliato compilazione, questo non vincola l’Amministrazione. Quindi nel breve termine dovrai pagare le sanzioni (magari ridotte in adesione); poi potrai richiedere al consulente di risarcirti. Tieni presente però che devi provare il suo errore e la sua colpa. Spesso conviene trovare un accordo bonario: ad esempio, il consulente potrebbe rinunciare al compenso o pagarti parte della sanzione. Ma legalmente, agli occhi del Fisco, “l’ignoranza o l’errore del commercialista non scusa il contribuente”. In sede penale, invece, la situazione è un po’ diversa: se davvero l’errore è stato del consulente e tu puoi dimostrare di aver agito in buona fede affidandoti a lui, questo può escludere il dolo specifico di evasione da parte tua. In parole povere, potresti evitare la condanna penale (perché non c’era volontà di evadere, ma colpa del consulente). Resta però che le imposte vanno pagate e le sanzioni amministrative pure (salvo casi eccezionali). Quindi il consiglio è: paga il meno possibile col ravvedimento/adesione, poi vedi di farti compensare dal professionista se è suo l’errore.
  • Domanda: Se aderisco a una “pace fiscale” o faccio conciliazione in tribunale col Fisco, sto ammettendo di essere un evasore? Questo può causarmi problemi o ulteriori controlli?
    Risposta: No, stai tranquillo. Utilizzare gli strumenti di definizione agevolata messi a disposizione dalla legge non costituisce ammissione di frode né può essere utilizzato contro di te in sede penale o altrove . Ad esempio, la legge sullo stralcio delle liti fiscali 2023 ha esplicitamente previsto che la definizione non implica riconoscimento di colpevolezza, ma è solo una scelta economica. Anche la giurisprudenza conferma che il patteggiamento fiscale o l’adesione non equivalgono a confessione di reato. Quanto ai controlli futuri: non c’è nessuna norma che preveda “chi concilia poi è soggetto a verifica”. Anzi, paradossalmente, chi definisce una lite versa soldi all’Erario e quindi potrebbe essere considerato più collaborativo di chi trascina i ricorsi. L’Agenzia ha tutto l’interesse a chiudere le partite: non “punisce” chi aderisce con ulteriori accertamenti automaticamente. Certo, se uno aderisce e poi continua a evadere in futuro, nulla impedisce al Fisco di scoprire di nuovo. Ma non perché hai aderito, bensì perché magari i dati lo rivelano. In sintesi: nessuna ritorsione né stigma legale. Se c’è una sanatoria o una conciliazione conveniente, aderire è tuo diritto e non ti pregiudica. Ricorda semmai che quell’atto definito non potrà più essere impugnato o rinegoziato, ma questo è normale. Per il resto, puoi guardare a questi strumenti con serenità: sono fatti apposta per ridurre i conflitti, non per schedare “pentiti”.
  • Domanda: L’Agenzia mi chiede di pagare l’IRAP sui compensi convenzionati, ma io so che i medici di base non devono pagarla se hanno solo la segretaria. Come mi difendo?
    Risposta: Hai ragione: c’è una copiosa giurisprudenza a favore dei medici convenzionati (e in generale dei professionisti) secondo cui l’IRAP non è dovuta se manca un’autonoma organizzazione. Nel tuo caso specifico, se hai solo una segretaria part-time e uno studio modesto, rientri nelle situazioni considerate non soggette a IRAP perché l’ausilio di una segretaria è considerato normale supporto, non organizzazione imprenditoriale . La Cassazione ha più volte affermato che per i medici convenzionati del SSN l’eventuale struttura minima richiesta (la segretaria, lo studio professionale) non comporta autonoma organizzazione, specie se reddito e produttività non aumentano in conseguenza di tale supporto . Ci sono state anche cause relative a medici con più studi, dove si è deciso che avere due ambulatori (magari in comuni diversi per convenzione) non implica IRAP se servono solo a essere più vicino ai pazienti e non a incrementare il business . Inoltre alcune sentenze (anche di Corte Costituzionale) hanno stabilito che l’ASL non può trattenere IRAP sui compensi intramoenia dei medici dipendenti, perché il soggetto passivo in quel caso è l’ASL stessa . Nel tuo caso, presumo tu sia un medico di base convenzionato in forma autonoma. Se ti contestano IRAP per anni passati, puoi presentare istanza di rimborso (se hai pagato) o fare ricorso contro il diniego, allegando tutta la documentazione: evidenziare che la segretaria era imposta dalle norme convenzionali, che il suo costo era sostenuto in parte dall’ASL (spesso c’è un’indennità apposita), e che non avevi altri collaboratori né attrezzature significative di terzi oltre quelle fornite dall’ASL (tipo software regionale). Citare le sentenze pertinenti (ad es. Cass. 9451/2016 Sez. Unite, Cass. 20028/2018, Cass. 11152/2021 – quest’ultima proprio su medico di base con segretaria ). Se invece l’Agenzia ti ha notificato un avviso di accertamento IRAP, devi impugnarlo davanti al giudice tributario portando le stesse argomentazioni. Di solito, su IRAP e medici, le Corti di Giustizia Tributaria tendono ormai ad allinearsi all’orientamento di legittimità: quindi le probabilità di vittoria sono alte, a meno che tu abbia elementi di organizzazione extra (tipo 3 segretarie, 2 studi con attrezzature costose di proprietà, ecc.). Dato che sembri rientrare nel “caso classico” (un solo dipendente per mansioni esecutive, beni strumentali nella norma), puoi confidare in un accoglimento del ricorso. Preparalo bene eventualmente con un professionista, evidenziando come l’attività convenzionata sia sostanzialmente individuale e inserendo magari dati: numero pazienti, confronto reddito prima e dopo segretaria (se mostra che non è cambiato, come nel caso deciso dalla Cassazione ). Questo rafforza la tesi che la segretaria è solo di supporto e non incrementa la capacità produttiva autonomamente.
  • Domanda: Mi hanno trovato in casa 8 milioni di euro in contanti (frutto di evasione). Oltre al fisco, rischio altro?
    Risposta: Una domanda intrigante! Questo sembra il caso estremo – stile cronaca nera – di grosse somme in contanti non dichiarate. Ci sono stati casi eclatanti (ad es. un medico di base a Napoli con 8 milioni cash occultati, notizia del 2024 ). Allora, oltre alle conseguenze fiscali (ti accerteranno tutte le imposte evase su quegli importi, con le sanzioni e interessi), rischi penalmente certamente per il reato di dichiarazione infedele (8 milioni genereranno ben oltre 100k imposta evasa) e probabilmente anche accuse di riciclaggio o reimpiego se emergono sospetti che quel denaro derivi da reati diversi dall’evasione. Infatti, il mero possesso di ingenti somme non giustificate può far ipotizzare il reato di riciclaggio (come hanno fatto in alcuni casi), ma la Cassazione ha affermato che il solo possesso di molto contante non basta a provare il riciclaggio senza ulteriori elementi . Tuttavia, certamente la Procura indagherà: potrebbero contestarti il reato di dichiarazione infedele per ogni anno in cui hai accumulato quell’importo e forse l’associazione a delinquere se c’erano di mezzo terzi (lo dico perché in un caso del genere spesso si sospetta un sistema). Il fatto poi che siano contanti “a casa” peggiora la percezione, ma legalmente l’evasione fiscale resta il cuore del problema. In sintesi: rischi penalmente grosso (diversi anni di reclusione potenziali, anche se incensurato, data l’entità), finanziariamente di venire spogliato (confisca per equivalente di 8 milioni probabile, se non riesci a dimostrare provenienza lecita), e mediaticamente la gogna. Un consiglio tardivo sarebbe: appena trovano i soldi, meglio valutare la collaborazione e il pagamento integrale di quanto dovuto (magari attingendo proprio a quei contanti). Così almeno puoi aspirare alla non punibilità per pagamento (art.13) in sede fiscale e a attenuanti in eventuali altri reati. In casi così estremi, serve un pool di difensori: tributarista per la parte fiscale, penalista per difenderti nelle indagini penali collaterali. Ricorda infine che, se anche per assurdo il reato tributario non venisse contestato per decorso termini (ma con 8 milioni, no, i termini raddoppiano e ti beccano), rimarrebbe il tema di dimostrare che quei soldi non vengano da attività criminali (tipo tangenti, corruzione, ecc.). Quindi, situazione molto delicata. Spero non sia il tuo caso reale, ma se lo fosse… hai davanti una bella sfida legale.

Conclusione

La difesa da un accertamento dell’Agenzia delle Entrate per compensi non dichiarati richiede un approccio combinato: tecnico-giuridico da un lato e strategico-pratico dall’altro. Abbiamo visto come il punto di vista del medico (debitore) possa e debba essere portato all’attenzione dell’Amministrazione e, se necessario, del giudice, con tutti gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione. Fondamentale è giocare d’anticipo: mantenere una contabilità accurata, non sottovalutare gli avvisi bonari e le lettere di compliance, e ravvedersi subito in caso di errori, può evitare che un’irregolarità si trasformi in un incubo. Se però l’accertamento arriva, non bisogna farsi prendere dal panico né, all’opposto, lasciare correre: occorre valutare lucidamente le prove in mano al Fisco, confrontarle con le proprie e decidere se puntare su un accordo o su una contestazione formale.

Per i medici convenzionati, spesso “sotto tiro” per natura (gestendo molto contante e potendo sfuggire all’e-fattura), il consiglio è di documentare sempre il più possibile ogni entrata, anche non tassabile, e separare nettamente il flusso finanziario personale da quello dell’attività (avere conti dedicati). In questo modo, in caso di controlli, sarà molto più agevole difendersi mostrando la tracciabilità delle operazioni.

Inoltre, conoscere i propri diritti aiuta: sapere che si ha diritto a un contraddittorio preventivo, che si può aderire con sanzioni ridotte, che un invito a comparire non è una condanna ma un’opportunità, che un processo tributario ben condotto può ribaltare pretese infondate – tutto ciò permette di affrontare la vicenda con maggiore serenità.

Dal lato penale, abbiamo ribadito che solo i casi di evasione davvero marcata portano a conseguenze estreme: la stragrande maggioranza dei contenziosi tributari dei medici si risolve in sede amministrativa o al più davanti al giudice tributario, con esborso economico ma senza casellario giudiziale. Ciò non deve però indurre a leggerezza: evasione fiscale è una cosa seria e, oltre al danno erariale, può intaccare la reputazione personale e professionale del medico (si pensi ai procedimenti disciplinari presso gli Ordini, possibili in caso di condotte penalmente rilevanti). Dunque, la miglior difesa è sempre la prevenzione: adempiere correttamente. Qualora l’Agenzia contesti comunque, significa che qualcosa poteva essere frainteso o non segnalato: in tal caso, far valere le proprie ragioni con chiarezza e solidità è l’unica via.

In definitiva, il contribuente-medico oggi non è più un soggetto “invisibile” per il Fisco: i dati viaggiano e vengono incrociati, e prima o poi l’occhio del sistema può cadere su qualsiasi anomalia. Ma con una gestione fiscale prudente e, all’occorrenza, con una difesa competente e determinata, è possibile difendersi con successo anche dalle contestazioni più insidiose. Questa guida, attraverso norme, tabelle, sentenze e casi pratici, ha inteso fornire una mappa dettagliata per orientarsi in tale difesa. Armati di conoscenza e con i giusti consulenti al fianco, si può affrontare l’Agenzia delle Entrate a testa alta, facendo valere le proprie ragioni ed evitando esiti iniqui o sproporzionati. In fondo, come recita un antico adagio giuridico, “nemo potest esse iudex in propria causa”: l’ultima parola su una disputa spetta sempre a un arbitro terzo, il giudice, e non a chi la pretende. Con le dovute ragioni e prove, quell’ultima parola può senz’altro dare ragione anche al contribuente.

Fonti: Normativa di riferimento: DPR 600/1973, DPR 917/1986 (TUIR), D.Lgs. 74/2000, D.Lgs. 218/1997, L. 212/2000. Giurisprudenza rilevante: Cass. 31502/2018 (medici convenzionati natura rapporto), Cass. SU 9451/2016 (IRAP autonom. organiz.), Cass. 228/2014 Corte Cost. (presunzioni bancarie), Cass. 21972/2015 (prestazioni gratuite), Cass. 13334/2019 pen. (prelievi professionisti), Cass. 11152/2021 (IRAP medico base con segretaria) , Cass. 9985/2023 (indennità medici convenz.). Prassi: AdE Risposta interpello n.132/2025 (medici forfettari e CU) , Circ. AdE 17/E 2020 (contraddittorio obbligatorio) .

  • CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 aprile 2021, n. 11152 – In tema di IRAP, la circostanza che il professionista operi presso due o più strutture materiali non è sufficiente a configurare un’autonoma organizzazione, se tali strutture siano semplicemente strumentali ad un migliore e più comodo esercizio dell’attività professionale

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati compensi non dichiarati come medico convenzionato? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati compensi non dichiarati come medico convenzionato?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

I medici convenzionati con il SSN percepiscono compensi attraverso le ASL e possono ricevere ulteriori rimborsi o emolumenti accessori. L’Agenzia delle Entrate, tramite controlli incrociati con i flussi delle CU (Certificazioni Uniche) e i dati trasmessi dalle aziende sanitarie, può contestare omissioni o incongruenze rispetto alla dichiarazione dei redditi.

👉 Prima regola: verifica se i compensi contestati erano effettivamente percepiti o se erano già tassati alla fonte dal sostituto d’imposta.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Compensi da convenzione con il SSN non riportati in dichiarazione;
  • Rimborsi o indennità accessorie considerati redditi imponibili;
  • Errori nei dati CU trasmessi dalle ASL;
  • Differenze tra importi incassati e redditi dichiarati;
  • Pagamenti per attività integrative o prestazioni extra non contabilizzati.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Recupero IRPEF e addizionali sulle somme non dichiarate;
  • Sanzioni dal 90% al 180% delle imposte accertate;
  • Interessi di mora;
  • Possibili controlli su altri redditi professionali;
  • Riflessi previdenziali su contributi ENPAM.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • CU rilasciate dalle ASL: riportano importi effettivamente percepiti?
  • Trattenute fiscali operate: sono state correttamente effettuate dal sostituto d’imposta?
  • Natura delle somme: si tratta di rimborsi spese esenti o compensi imponibili?
  • Motivazione della contestazione: l’Agenzia ha specificato gli importi e le fonti dei dati?
  • Eventuali duplicazioni: i redditi sono stati conteggiati più volte?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Certificazioni Uniche rilasciate dalle ASL;
  • Estratti conto bancari con accrediti dei compensi;
  • Copie delle dichiarazioni dei redditi;
  • Comunicazioni ufficiali delle aziende sanitarie;
  • Documentazione dei rimborsi spese non imponibili.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare che i compensi erano già tassati alla fonte e quindi non imponibili nuovamente;
  • Contestare errori nei dati CU trasmessi dalle ASL;
  • Chiarire la natura delle somme come rimborsi o indennità esenti;
  • Eccepire vizi procedurali: notifica irregolare, decadenza dei termini, motivazione insufficiente;
  • Richiedere autotutela se l’accertamento si fonda su dati errati;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per ridurre o annullare la pretesa.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza i redditi contestati e i dati trasmessi dalle ASL;
📌 Verifica se le somme erano imponibili o già correttamente tassate;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione sicura dei redditi derivanti da convenzioni SSN.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali sui redditi da lavoro sanitario;
✔️ Specializzato in difesa di medici convenzionati e professionisti sanitari contro contestazioni tributarie;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sui compensi non dichiarati dei medici convenzionati non sempre sono fondate: spesso dipendono da errori delle ASL o da somme già tassate.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la corretta dichiarazione dei redditi, evitare duplicazioni e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sui compensi da convenzione inizia qui.

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Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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