Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché alcune cessioni verso Paesi a fiscalità privilegiata sono state considerate fittizie? In questi casi, l’Ufficio presume che le operazioni di vendita siano state solo simulate per trasferire utili all’estero o per ridurre il carico fiscale in Italia. La conseguenza è il recupero delle imposte con sanzioni e interessi, oltre al rischio di contestazioni penali nei casi più gravi. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa ben documentata è possibile dimostrare la reale esistenza delle operazioni.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta cessioni fittizie verso Paesi black list
– Se le fatture di vendita non sono supportate da contratti, ordini o documentazione di trasporto
– Se le società acquirenti estere sono prive di struttura reale e considerate “scatole vuote”
– Se i corrispettivi sono incongrui rispetto ai valori di mercato
– Se vi sono discrepanze tra i flussi finanziari e le merci effettivamente movimentate
– Se le operazioni appaiono simulate per spostare utili in giurisdizioni a bassa tassazione
Conseguenze della contestazione
– Recupero delle imposte dirette e IVA sulle operazioni riqualificate come fittizie
– Applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele e abuso del diritto
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Maggiori controlli sulle transazioni internazionali dell’impresa
– Possibile segnalazione penale per frode fiscale nei casi più rilevanti
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la reale esistenza delle operazioni con contratti, fatture, bolle doganali e documentazione di trasporto
– Produrre prove della sostanza economica delle società estere coinvolte
– Contestare presunzioni basate su indizi generici e non supportate da prove concrete
– Evidenziare vizi di motivazione o difetti procedurali dell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento della contestazione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare gli atti di cessione e la documentazione societaria e fiscale
– Verificare la legittimità della contestazione alla luce delle normative nazionali e internazionali
– Redigere un ricorso fondato su elementi documentali e vizi formali dell’accertamento
– Difendere l’impresa davanti ai giudici tributari e, se necessario, in sede penale
– Tutelare il patrimonio aziendale e i rapporti internazionali da conseguenze fiscali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione delle sanzioni e degli interessi applicati
– Il riconoscimento della legittimità delle operazioni commerciali realmente avvenute
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: le operazioni con Paesi a fiscalità privilegiata sono sottoposte a controlli fiscali particolarmente stringenti. È fondamentale predisporre una documentazione chiara e completa per dimostrare la regolarità delle transazioni.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscalità internazionale – spiega come difendersi in caso di contestazioni su cessioni fittizie verso Paesi black list e come tutelare i tuoi diritti.
👉 La tua azienda ha ricevuto una contestazione per presunte cessioni fittizie verso Paesi a fiscalità privilegiata? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo gli atti, confronteremo i dati contestati e costruiremo la strategia difensiva più efficace per proteggere i tuoi interessi.
Introduzione
Le operazioni transfrontaliere che coinvolgono paesi a fiscalità privilegiata (i cosiddetti paradisi fiscali) sono da tempo sotto stretta osservazione del Fisco italiano . L’Agenzia delle Entrate considera sospette quelle strutture che trasferiscono fittiziamente all’estero redditi o patrimoni al solo scopo di sottrarli alla tassazione nazionale . Negli ultimi anni vi è stato un giro di vite normativo: la cooperazione internazionale (scambio automatico di informazioni – CRS, accordi FATCA con gli USA, ecc.) rende più difficile celare asset oltreconfine , mentre la legislazione italiana ha introdotto presunzioni legali in favore del Fisco che invertono l’onere della prova a carico del contribuente . In altre parole, chi realizza operazioni con paesi “black list” deve essere pronto a dimostrare la legittimità e sostanza economica delle stesse, altrimenti il Fisco potrà riqualificarle e tassarle in Italia.
Questa guida avanzata – aggiornata ad agosto 2025 – esamina come difendersi da contestazioni fiscali relative a cessioni fittizie verso paradisi fiscali o altre manovre elusive analoghe. Adottiamo il punto di vista del debitore-contribuente che si trova a fronteggiare un avviso di accertamento per presunte operazioni di evasione/elusione internazionale. Il taglio sarà tecnico-giuridico ma divulgativo: la guida è rivolta tanto a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti) quanto a privati e imprenditori coinvolti in verifiche fiscali internazionali .
Dapprima delineeremo il quadro normativo italiano di riferimento: criteri di residenza fiscale, obblighi di monitoraggio (Quadro RW), normative anti-evasione specifiche per investimenti offshore (presunzioni legali su trasferimenti in paradisi fiscali, disciplina Controlled Foreign Companies – CFC, divieto di abuso del diritto) e relative sanzioni tributarie. In seguito passeremo in rassegna le principali tipologie di operazioni contestate dall’Amministrazione finanziaria, tra cui: utilizzo di fatture false con società estere, operazioni triangolari con interposti in paesi off-shore, costituzione di trust opachi in giurisdizioni “schermo”, interposizione fittizia di persone o entità per occultare i reali beneficiari, ed esterovestizione della residenza fiscale di società o persone fisiche . Per ciascun ambito analizzeremo sia i profili tributari (imposte evase, sanzioni amministrative) sia, ove rilevanti, i profili penali (reati tributari ex D.Lgs. 74/2000), richiamando le sentenze più aggiornate di Corti di Giustizia Tributaria e Corte di Cassazione. Verranno illustrate le possibili strategie difensive, ad esempio come fornire la prova contraria per vincere una presunzione legale, come dimostrare la reale sostanza economica di un’entità estera, o come contestare vizi procedurali e difetti di prova negli accertamenti .
Non mancheranno tabelle riepilogative per condensare le informazioni chiave (es. criteri di residenza fiscale, principali norme anti-paradisi fiscali, sanzioni e termini di prescrizione) e alcune simulazioni pratiche di casi-tipo italiani, per tradurre la teoria in esempi concreti di difesa del contribuente . In chiusura, una sezione di Domande e Risposte frequenti affronterà dubbi comuni – ad esempio la differenza tra elusione ed evasione, gli strumenti per regolarizzare spontaneamente la propria posizione, o l’impatto del pagamento del debito tributario sul procedimento penale – fornendo chiarimenti operativi.
Importante: le condotte descritte in questa guida non sono lecite se prive di sostanza economica e finalizzate unicamente a evitare le tasse italiane. L’ordinamento distingue però tra pianificazione fiscale consentita (entro i limiti delle norme) ed abuso/elusione (aggiramento artificioso delle norme) o evasione (violazioni fraudolente delle leggi tributarie) . Dal 2015 il legislatore prevede espressamente che l’abuso del diritto fiscale (elusione) non costituisce reato e non dà luogo a sanzioni penali, ma solo al recupero delle imposte . Viceversa, le condotte di evasione in senso proprio (es. occultamento di redditi, false fatture, dichiarazioni fraudolente od omesse) restano soggette a sanzioni tributarie e – al superamento di determinate soglie – anche a sanzioni penali . Pertanto, se da un lato il contribuente ha diritto di organizzare le proprie attività nella forma fiscalmente meno onerosa possibile (tax planning lecito), dall’altro operazioni prive di sostanza reale e volte solo a mascherare la ricchezza possono essere riqualificate dal Fisco (principio di substance over form) e sanzionate severamente . Nei paragrafi seguenti vedremo come prepararsi e difendersi legalmente in tali situazioni, facendo valere i propri diritti di contribuente pur nel rispetto della legge.
Quadro normativo: residenza fiscale, monitoraggio e norme anti-paradisi fiscali
Per comprendere le contestazioni relative a operazioni con paradisi fiscali occorre partire dalla normativa italiana su residenza fiscale e investimenti esteri. Di seguito riepiloghiamo i punti chiave del quadro normativo, incluse le disposizioni speciali introdotte per contrastare l’uso indebito di regimi fiscali privilegiati .
Criteri di residenza fiscale
Il concetto di residenza fiscale è cruciale: i soggetti fiscalmente residenti in Italia sono tassati sui redditi ovunque prodotti (worldwide taxation), mentre i non residenti sono tassati solo sui redditi di fonte italiana . La legge italiana (D.P.R. 917/1986, TUIR) fissa criteri oggettivi per individuare la residenza:
- Persone fisiche: ai sensi dell’art. 2 TUIR, una persona è residente in Italia se, per la maggior parte dell’anno (almeno 183 giorni), soddisfa anche uno solo di questi criteri: (a) è iscritta nelle anagrafi comunali dei residenti; oppure (b) ha in Italia il domicilio (sede principale degli interessi e affari); oppure (c) ha in Italia la residenza (dimora abituale) . È sufficiente uno solo dei criteri perché il soggetto sia considerato residente e tassato in Italia su tutti i redditi prodotti nel mondo.
- Società ed enti: l’art. 73 comma 3 TUIR dispone che sono residenti in Italia le società che, per oltre metà del periodo d’imposta, presentano almeno uno di questi collegamenti: sede legale in Italia; sede dell’amministrazione (sede effettiva) in Italia; oggetto principale dell’attività in Italia . Anche qui basta uno solo dei parametri. In particolare, la sede dell’amministrazione coincide con la sede effettiva, ossia il luogo in cui vengono prese le decisioni operative e si svolge la direzione aziendale . L’oggetto principale si riferisce invece al luogo dove si svolge prevalentemente l’attività economica. Questi criteri privilegiano la sostanza sulla forma: ad esempio, una società con sede legale estera ma che di fatto è amministrata dall’Italia (o qui svolge la maggior parte degli affari) sarà comunque considerata residente fiscale italiana . Ciò può portare a casi di doppia residenza (Italia ed estero) risolti dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni tramite il criterio del place of effective management (centro di direzione effettiva).
Tabella 1 – Criteri di collegamento per la residenza fiscale (artt. 2 e 73 TUIR)
Criterio | Persone fisiche (art. 2 TUIR) | Società/Enti (art. 73 TUIR) |
---|---|---|
Iscrizione anagrafica | Iscritto all’Anagrafe residenti (per >183 giorni) | n.d. (non rilevante per società) |
Domicilio (centro interessi) | Italia: interessi vitali e affari in Italia per >183 giorni | n.d. |
Residenza (dimora abituale) | Italia: presenza fisica abituale per >183 giorni | n.d. |
Sede legale | n.d. | Italia: sede legale/statutaria in Italia |
Sede dell’amministrazione | n.d. | Italia: direzione e gestione effettiva in Italia |
Oggetto principale | n.d. | Italia: attività principale svolta in Italia |
Effetto fiscale | Se ≥1 criterio è soddisfatto, il soggetto è residente fiscale in Italia (tassazione sui redditi mondiali). In caso di conflitto di residenza con altro Stato, prevalgono i criteri delle Convenzioni (es. centro interessi vitali per persone; sede effettiva per società) . |
Nota: per le persone fisiche contano anche elementi come la presenza della famiglia, l’abitazione e il centro degli interessi economici. Per le società, i criteri operano in alternativa e privilegiano la sostanza (sede effettiva, attività) sulla forma (sede legale) .
Obblighi di monitoraggio fiscale (Quadro RW)
I residenti fiscali italiani devono dichiarare al Fisco le attività patrimoniali e finanziarie estere detenute, compilando il Quadro RW nella dichiarazione dei redditi. Questo obbligo di monitoraggio fiscale (introdotto dal D.L. 167/1990) si applica alle persone fisiche residenti, agli enti non commerciali e alle società semplici, per i beni e investimenti all’estero di cui siano titolari effettivi . In particolare, vanno indicati in RW (anche a fini di imposta patrimoniale):
- Conti correnti e depositi bancari esteri
- Partecipazioni in società non residenti; titoli, obbligazioni e fondi esteri
- Immobili situati all’estero
- Polizze assicurative estere a contenuto finanziario
- Metalli preziosi detenuti all’estero
- Criptovalute e attività digitali detenute su exchange esteri (dal 2022 incluse nel monitoraggio RW)
Il monitoraggio RW è un obbligo dichiarativo, correlato però a imposte patrimoniali su tali asset: ad esempio l’IVIE (0,76% sugli immobili esteri) e l’IVAFE (0,2% sulle attività finanziarie estere), nonché la nuova IVCA sulle cripto-attività (0,2%) . Le sanzioni per omessa compilazione del Quadro RW sono elevate: dal 3% al 15% dell’importo non dichiarato per anno, raddoppiate 6%–30% se l’attività si trova in Paesi black list . È possibile sanare l’omissione con ravvedimento operoso, riducendo significativamente le sanzioni (fino a 1/8 del minimo entro 2 anni) . Ad esempio, omettere un conto estero con saldo €100.000 per due anni espone a una sanzione base tra €6.000 e €30.000 annui (se il Paese è non collaborativo); con ravvedimento entro due anni la sanzione scende anche a poche centinaia di euro annue .
Esempio: Mario, residente in Italia, ha un conto in Svizzera non dichiarato con saldo medio di €200.000. Se scoperto dal Fisco, subirebbe una sanzione del 6-30% annuo (poiché la Svizzera fino a pochi anni fa era considerata a fiscalità privilegiata) sul valore non dichiarato. In due anni potrebbe dover pagare sanzioni per €24.000–€120.000. Se invece Mario regolarizza spontaneamente prima del controllo (ravvedimento operoso), la sanzione si riduce a meno di €5.000 totali, evitando guai peggiori .
Oltre alle sanzioni, la mancata dichiarazione di attività estere in paradisi fiscali attiva pesanti presunzioni legali di evasione (si veda oltre, art. 12 D.L. 78/2009) e consente al Fisco termini di accertamento più lunghi, fino a 10 anni . Dunque, il monitoraggio RW è un pilastro fondamentale della normativa anti-evasione internazionale italiana.
Norme anti-evasione per investimenti in paradisi fiscali
Il legislatore ha introdotto disposizioni mirate a contrastare l’occultamento di imponibili tramite paradisi fiscali. Si tratta di norme che creano presunzioni legali relative (quindi superabili con prova contraria) o regimi di tassazione speciale per attività estere . Le principali sono riepilogate nella seguente tabella.
Tabella 2 – Principali norme italiane anti-evasione internazionale (paradisi fiscali)
Norma | Contenuto sintetico | Effetti per il contribuente |
---|---|---|
Art. 2, co. 2-bis TUIR (Residenza persone fisiche) | Se un cittadino italiano trasferisce la residenza in Stati o territori a regime fiscale privilegiato (individuati da apposito decreto) ed è iscritto all’AIRE, è presunto residente in Italia, salvo prova contraria . | Il soggetto deve dimostrare di avere all’estero il centro effettivo dei propri interessi (famiglia, lavoro, dimora, patrimonio) per vincere la presunzione. In mancanza di prova contraria, resterà considerato residente e tassato in Italia sui redditi ovunque prodotti . (Nota: presunzione introdotta per contrastare finte emigrazioni in paradisi fiscali). |
Art. 73, co. 5-bis TUIR (Esterovestizione societaria) | Presunzione (relativa) di residenza in Italia per società/enti formalmente esteri che: (a) detengono il controllo di società italiane e (b) sono a loro volta controllati da soggetti italiani oppure hanno organi amministrativi composti in maggioranza da residenti in Italia . | La società estera è considerata fiscalmente residente in Italia (tassata su redditi mondiali) salvo prova contraria del contribuente . In pratica l’Agenzia Entrate può presumere la residenza italiana in base a tali indizi formali (schema controllante-controllata, CdA italiano); sta poi al contribuente dimostrare che la sede dell’amministrazione è all’estero (es. decisioni prese e uffici effettivi all’estero) . |
Art. 12, D.L. 78/2009 (Investimenti esteri non dichiarati) | Gli investimenti e attività finanziarie detenuti in Stati a fiscalità privilegiata e non dichiarati nel Quadro RW si presumono costituiti con redditi non tassati in Italia . Inoltre, per tali attività scatta il raddoppio dei termini di accertamento (10 anni) e sanzioni raddoppiate sulle imposte evase (dal 240% al 480%) . | Il Fisco può imputare a tassazione in Italia importi pari al valore delle attività estere non monitorate, come se fossero redditi evasi. Il contribuente può difendersi solo provando che i fondi esteri hanno origine lecita e già tassata (o esente) – es. redditi dichiarati, risparmi accumulati quando si era non residenti, eredità, donazioni, ecc. . In mancanza di prova, scatta la tassazione presuntiva e le pesanti sanzioni raddoppiate. |
Trust esteri (presunzioni e interposizione) | La L. 160/2019 (Bilancio 2020) ha introdotto presunzioni sui trust esteri: se un trust è istituito in Paesi senza adeguato scambio info e ha almeno un disponente e un beneficiario residenti in Italia (o se riceve beni immobili/diritti in Italia), è presunto residente in Italia ai fini fiscali . Inoltre, se il trust è fittiziamente interposto – cioè il disponente mantiene il controllo effettivo dei beni – i redditi del trust sono imputati direttamente al disponente o beneficiari italiani, ignorando la separazione patrimoniale (art. 37, co.3, DPR 600/1973) . | Un trust estero opaco in paradiso fiscale può essere attratto a tassazione in Italia come ente residente, con obbligo di dichiarare i redditi mondiali . In più, se il trust è solo schermo fittizio (es. disponente = vero gestore o può revocare il trust), il Fisco può ignorarlo e riattribuire redditi/patrimoni al disponente o beneficiario, tassandoli in capo a loro . I beneficiari individuati devono inoltre indicare in RW la quota di patrimonio estero del trust; i beneficiari discrezionali dichiareranno solo quanto ricevono (o secondo prassi almeno segnalare l’esistenza del trust) . |
Art. 167 TUIR (Controlled Foreign Companies – CFC) | I redditi prodotti da società controllate estere localizzate in Paesi a fiscalità privilegiata (tassazione effettiva < 50% di quella italiana) sono imputati per trasparenza al socio controllante residente, a meno che la società estera svolga un’attività economica effettiva mediante una struttura organizzativa adeguata (esimente del business purpose) . Norma allineata alla Direttiva UE ATAD, prende di mira società estere con redditi passivi (interessi, royalties, dividendi, servizi infragruppo) non supportati da reale sostanza economica. | Il socio italiano deve dichiarare in Italia gli utili della controllata estera ogni anno (anche se non distribuiti) e pagarci le imposte italiane . Può evitare la tassazione solo provando che la controllata non è una costruzione artificiosa, ossia che ha una presenza economica genuina (personale, uffici, attività commerciale effettiva) oppure che i suoi redditi non sono prevalentemente passivi ma derivano da reali attività industriali/commerciali . In assenza di tali prove (da fornire tramite interpello all’AdE), si applica la tassazione per trasparenza. |
Il filo conduttore di queste norme è agevolare il Fisco nella lotta all’erosione della base imponibile, spostando sul contribuente l’onere di dimostrare la legittimità della propria pianificazione estera . Si tratta comunque di presunzioni relative: il contribuente può presentare prova contraria, ma se le prove non sono convincenti l’Amministrazione finanziaria vince la contestazione in base alla norma . Ad esempio, per confutare la presunzione di residenza ex art. 2 co. 2-bis TUIR (italiano trasferito in paradiso fiscale) bisognerà esibire documentazione sulla vita effettiva all’estero: contratto di lavoro, bollette, affitti, iscrizione ad associazioni locali, evidenze che il centro degli interessi familiari ed economici è realmente fuori dall’Italia . Analogamente, per “battere” la presunzione di esterovestizione societaria ex art. 73 co.5-bis serviranno prove della reale gestione all’estero: verbali di CdA svolti all’estero, uffici con dipendenti sul posto, contratti firmati all’estero, timbri di ingresso/uscita dal Paese per gli amministratori italiani (a dimostrare trasferte), ecc. .
Va sottolineato che tali presunzioni non coprono ogni ipotesi di elusione internazionale. Ad esempio, l’art. 73 co.5-bis si applica solo a società estere che abbiano partecipazioni in società italiane; se invece una società estera non controlla società italiane ma il Fisco la ritiene comunque amministrata dall’Italia, l’Agenzia potrà contestare l’esterovestizione anche al di fuori della presunzione di legge, utilizzando i normali mezzi probatori (indizi e presunzioni semplici) a suo carico . In altri termini, le autorità fiscali conservano sempre il potere di accertare la sede effettiva di società estere caso per caso, anche quando non ricadono esattamente nelle fattispecie presuntive, purché riescano a dimostrare che la sostanza economica è in Italia . Ad esempio, attraverso indagini della Guardia di Finanza sul luogo dove si svolge realmente l’attività d’impresa.
Completa il quadro una norma generale anti-elusione: l’art. 10-bis della L. 212/2000 (Statuto del Contribuente), introdotto dal D.Lgs. 128/2015, che definisce l’abuso del diritto fiscale. Si ha abuso quando il contribuente realizza operazioni prive di sostanza economica che, pur rispettando formalmente le norme, gli conferiscono vantaggi fiscali indebiti. In tali casi, l’Agenzia delle Entrate può disconoscere quei vantaggi (riqualificando le operazioni secondo la loro sostanza economica) . Tuttavia – ed è fondamentale – non si applicano sanzioni amministrative né penali se il comportamento è qualificato solo come abuso del diritto (elusione) e non come violazione fiscale specifica . Quindi, se un’operazione col paradiso fiscale viene contestata come elusiva (abuso) e non come evasione vera e propria, l’esito sarà il recupero delle imposte ma senza sanzioni tributarie e senza riflessi penali . (Ovviamente restano dovuti interessi per il tardivo pagamento). La distinzione è sottile e spesso contestata: operazioni complesse possono essere viste dal Fisco come evasione sostanziale mascherata da lecita pianificazione. L’approccio recente della Cassazione – come vedremo – è considerare alcune condotte (es. esterovestizione) non tanto un’elusione in senso tecnico, quanto un caso di applicazione diretta delle regole di residenza fiscale, a prescindere dal disegno elusivo . In ogni caso, in sede di difesa conviene far valere, ove possibile, la mancanza di dolo o di violazione espressa di norme, per ricondurre la vicenda nell’alveo meno grave dell’abuso del diritto .
Sanzioni e conseguenze in caso di accertamento
Quando il Fisco contesta operazioni con paradisi fiscali, le conseguenze avvengono su un doppio binario: da un lato le sanzioni tributarie (accertamento di maggiori imposte e sanzioni amministrative), dall’altro potenziali sanzioni penali (denuncia per reati tributari) se i fatti integrano ipotesi previste dal D.Lgs. 74/2000 .
Sul piano tributario, innanzitutto il contribuente rischia il recupero delle imposte ritenute evase. Ad esempio: IRES/IRAP non dichiarate su redditi spostati all’estero mediante esterovestizione, oppure IVA indebitamente detratta tramite fatture false, ecc. . Oltre alle imposte, vengono applicate pesanti sanzioni amministrative tributarie. In generale: – per dichiarazione infedele (omessa indicazione di redditi) la sanzione va dal 90% al 180% dell’imposta evasa; – per dichiarazione omessa la sanzione base va dal 120% al 240% dell’imposta (minimo €250) ; – in caso di attività estere occultate con presunzione ex art. 12 D.L. 78/2009, le sanzioni salgono al 240% – 480% dell’imposta evasa ; – per violazioni del monitoraggio RW la sanzione è 3–15% annuo (raddoppiata per Paesi black list) dell’importo non dichiarato .
Ad esempio, una contestazione di esterovestizione societaria può portare al recupero di tutta l’IRES, IRAP e IVA non versata sui redditi realizzati all’estero dalla società, con sanzioni amministrative fino al 240% dell’IRES evasa . Inoltre, l’Agenzia iscriverà a ruolo gli importi accertati e, se non pagati, potrà avviare misure cautelari ed esecutive per recuperarli (fermo amministrativo di beni mobili registrati, ipoteche su immobili, pignoramenti di conti correnti e crediti) .
È fondamentale ricordare che i termini di accertamento per redditi esteri non dichiarati sono più lunghi del normale: tipicamente l’accertamento fiscale va notificato entro il 5° anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ovvero 7° se dichiarazione omessa); ma per attività in paradisi fiscali (ex art. 12 D.L. 78/2009) il termine si estende a 10 anni . Ciò significa, ad esempio, che nel 2025 possono ancora essere accertati redditi esteri occultati relativi all’anno d’imposta 2015.
Sul piano penale, il contribuente incorre in responsabilità se la condotta contestata rientra tra i reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000 e supera le soglie di punibilità ivi stabilite. I possibili reati connessi a operazioni con l’estero includono :
- Dichiarazione fraudolenta mediante uso di artifici o di fatture false (artt. 3 e 2 D.Lgs. 74/2000): es. costituire una società estera fittizia usata per emettere fatture inesistenti o creare costi fittizi deducibili in Italia. Soglie: imposta evasa > €30.000 e elementi attivi sottratti > 5% del totale o > €1,5 milioni (per l’art. 3); per l’uso di false fatture (art. 2) la soglia è l’utilizzo di > €100.000 di elementi fittizi .
- Dichiarazione infedele (art. 4): omettere di dichiarare redditi esteri rilevanti, senza però utilizzare fatture false o altri artifici fraudolenti, integra questo reato se l’imposta evasa > €100.000 e gli elementi attivi sottratti > 10% del totale o > €2 milioni .
- Omessa dichiarazione (art. 5): non presentare affatto la dichiarazione (ad esempio fingendosi non residente quando invece lo si è) è reato se l’imposta evasa > €50.000 annui .
- Emissione di fatture false (art. 8): chi gestisce una società “cartiera” (fittizia) – magari estera – e emette documenti falsi per consentire evasioni altrui, commette questo reato. Soglia: totale importo delle fatture emesse > €100.000 annui .
- Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10): se, per nascondere l’evasione, si occultano o distruggono libri e scritture contabili (es. tenere conti esteri “segreti” fuori bilancio) .
- Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11): tipicamente trasferire beni a un trust o a terzi per sfuggire alla riscossione coattiva. Se un contribuente, dopo aver maturato un debito tributario > €50.000, compie atti fraudolenti sui propri beni (come vincolarli in un trust o simularne la vendita) per rendere inefficace la riscossione, commette questo reato . (La soglia sale a €200.000 se l’atto fraudolento avviene dopo un accertamento definitivo).
Le pene variano a seconda del reato e della gravità: nei casi più gravi, dichiarazione fraudolenta o emissione di false fatture, la reclusione massima è 8 anni; per dichiarazione infedele o omessa, massimo 3–4 anni; per sottrazione fraudolenta fino a 6-7 anni in ipotesi aggravate . Oltre alla reclusione, le società coinvolte possono subire la responsabilità amministrativa D.Lgs. 231/2001 per i reati tributari commessi nel loro interesse, con sanzioni pecuniarie e interdittive a carico dell’ente . Inoltre, in un procedimento penale il PM può chiedere misure cautelari reali come il sequestro preventivo dei beni fino a concorrenza delle imposte evase (finalizzato alla successiva confisca) .
Esiste un principio di “doppio binario” sanzionatorio: il contribuente può essere punito sia con sanzioni amministrative tributarie sia con sanzioni penali per il medesimo fatto, senza che ciò violi il ne bis in idem, purché i due sistemi perseguano finalità diverse e vi sia proporzionalità complessiva . La Cassazione e la Corte EDU hanno infatti ritenuto compatibili le sanzioni tributarie e penali in materia fiscale, a condizione di un coordinamento (ad es. possibilità per il giudice penale di tenere conto in sentenza di quanto già pagato come sanzione amministrativa) .
Dal punto di vista difensivo, pertanto, occorre muoversi su entrambi i fronti: in sede tributaria per annullare o ridurre l’accertamento (riducendo il danno economico e spesso eliminando il presupposto del penale) e in sede penale per evitare condanne, puntando su argomenti come l’assenza di dolo, la buona fede, o sfruttando cause di non punibilità. Nei prossimi capitoli analizzeremo le peculiarità difensive per ciascuna tipologia di operazione contestata, tenendo presente questo duplice profilo .
Fatture false e sovrafatturazioni con l’estero: evasione tramite operazioni fittizie
Una delle pratiche più comuni (e insidiose) legate ai paradisi fiscali è l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti per spostare redditi all’estero o creare costi fittizi deducibili in Italia. In pratica, un’impresa italiana collusa con soggetti esteri (spesso società di comodo situate in Paesi off-shore) documenta operazioni mai avvenute o gonfiate, così da trasferire utili fuori dal bilancio italiano riducendo l’imponibile domestico . Questa tecnica può assumere diverse forme:
- Operazioni oggettivamente inesistenti: vengono emesse fatture per vendite o servizi mai realmente effettuati (false al 100%). Ad esempio, una società estera “fantasma” fattura consulenze o beni a una società italiana, ma tali prestazioni non sono mai rese . Lo scopo è far figurare costi nella società italiana (abbattendo gli utili tassabili) e far uscire denaro verso l’estero, dove spesso i fondi poi rientrano occultamente al beneficiario reale.
- Operazioni soggettivamente inesistenti: il bene o servizio è stato effettivamente fornito, ma non dai soggetti indicati in fattura. C’è un’interposizione fittizia: tipicamente una società “cartiera” (o missing trader) fattura al cliente finale, mentre il vero fornitore resta nell’ombra . Questo schema è frequente nelle frodi IVA “carosello”: società fittizie (spesso estere) emettono fatture, non versano l’IVA e scompaiono, consentendo ai destinatari di detrarre un’IVA mai pagata a monte.
- Sovrafatturazione parziale: l’operazione reale c’è, ma viene gonfiato l’importo in fattura. Esempio: una società italiana importa beni per €100 ma il fornitore estero compiacente emette fattura di €150, così l’italiana paga €50 extra su un conto estero occulto del fornitore . In tal modo crea un costo maggiorato deducibile in Italia e contemporaneamente sposta €50 all’estero (che spesso poi recupera in nero tramite il fornitore offshore).
Tutte queste ipotesi costituiscono fatture false secondo la definizione di legge (art. 1, co.1, lett. a, D.Lgs. 74/2000). L’ordinamento italiano reprime severamente tali condotte, sia sul piano fiscale (disconoscendo i costi e sanzionando) sia sul piano penale (reati di dichiarazione fraudolenta e di emissione di fatture false). Vediamo come si presentano le contestazioni tipiche e quali difese sono possibili.
Quando scattano le contestazioni sulle fatture estere: di solito il Fisco (Agenzia Entrate o Guardia di Finanza) rileva anomalie quali fornitori esteri privi di struttura, pagamenti verso offshore non giustificati, incongruenze tra beni fatturati e giacenze di magazzino . Indici classici sono: fornitori situati in paradisi fiscali ma senza uffici né dipendenti, servizi “intangibili” fatturati dall’estero di difficile verifica (es. consulenze generiche, marketing), volumi di acquisto dichiarati non coerenti con la produzione o con lo stock disponibile . Ad esempio, la Cassazione ha affermato che segnali di operazioni inesistenti sono la mancanza di personale e mezzi adeguati in capo al fornitore che emette fattura, la non corrispondenza tra il soggetto formalmente emittente e chi in concreto svolge l’attività, nonché l’intreccio di rapporti tra le società coinvolte . Nelle frodi carosello spesso la GdF scopre che la società estera emittente è una “scatola vuota” e che la merce non è mai transitata come formalmente risultava .
Conseguenze fiscali tipiche: all’azienda italiana che utilizza fatture false viene contestato un duplice ordine di sanzioni : (1) il recupero integrale delle imposte evase, ossia IVA indebitamente detratta e deduzioni di costi fittizi non spettanti ai fini IRES/IRAP (più interessi); (2) l’applicazione di sanzioni amministrative pari al 90%–180% dell’imposta corrispondente ai costi indebiti (sanzione da dichiarazione infedele) o al 100% dell’IVA non versata, di regola . Inoltre, se le false fatture sono di importo rilevante, il caso viene segnalato alla Procura per i reati ex art. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture) e/o art. 8 (emissione di fatture false) D.Lgs. 74/2000 . Dal 2019 le pene per tali reati sono state inasprite: reclusione 4-8 anni sia per l’uso che per l’emissione di fatture false (soglie di punibilità: oltre €100.000 di fatture false utilizzate/emesse nell’anno) . Inoltre, la società può rispondere ex D.Lgs. 231/2001 con pesanti sanzioni pecuniarie e interdittive. In frodi IVA transnazionali di grande entità si applicano anche aggravanti europee (c.d. reati PIF) se il danno IVA supera €10 milioni, con attivazione di OLAF e Eurojust .
Esempio pratico 1 (sovrafatturazione import-export): la società italiana FoodImport S.r.l. importa caffè dall’America Centrale. In accordo con un fornitore compiacente in Costa Rica, gonfia le fatture: per 1.000 kg di caffè ricevuto, FoodImport riceve fattura per 1.500 kg, pagando la differenza extra su un conto estero segreto del fornitore. Così crea costi in più deducibili (€X) e contestualmente forma fondi neri all’estero. Il Fisco, tramite controlli incrociati, nota che il magazzino fisico della società non presenta traccia di quei 500 kg extra fatturati . Contesta quindi a FoodImport la dichiarazione fraudolenta (fatti imponibili fittizi per 500 kg, IVA indebitamente detratta), applicando sanzioni al 150% e denunciando l’amministratore per reato fiscale. FoodImport inizialmente nega, ma di fronte all’evidenza (documenti doganali, capacità di stoccaggio incompatibile con le quantità dichiarate, ecc.) opta per collaborare: ammette che quei 500 kg coprivano vendite in nero non fatturate (cercando così di derubricare l’illecito a semplice infedele dichiarazione). In sede penale, l’imprenditore – per evitare il carcere – paga tutte le imposte evase e patteggia la pena a 1 anno e 4 mesi (sospesa) . In sede tributaria ottiene una definizione agevolata con sanzioni ridotte a 1/3. Lezione appresa: per il futuro, FoodImport adotterà un modello di compliance e rinuncerà a tali pratiche, essendo il titolare quasi finito in prigione .
Possibili strategie difensive in caso di contestazione di fatture false o sovrafatturazioni:
- Contestare la prova dell’inesistenza dell’operazione: in sede tributaria, l’onere della prova iniziale grava sul Fisco, soprattutto nelle contestazioni di operazioni soggettivamente inesistenti. La Cassazione ha chiarito che l’Amministrazione deve provare sia la fittizietà del fornitore, sia che il contribuente sapesse o potesse sapere della frode legata a quel fornitore . Solo se il Fisco dimostra (anche tramite indizi) che l’azienda avrebbe dovuto avvedersi dell’anomalia (es. fornitore privo di struttura, amministratori prestanome, prezzi anormalmente bassi, ecc.), allora passa al contribuente l’onere di provare la propria diligente buona fede . Dunque, un primo fronte difensivo è sostenere che l’azienda ha agito con la dovuta diligenza: ad esempio mostrando di aver verificato la partita IVA del fornitore estero, di avere documenti di trasporto (DDT, CMR) e comunicazioni che attestano trattative reali, di aver effettuato pagamenti tracciati su conti non sospetti. Se si riesce a insinuare il dubbio che la prestazione magari c’è stata (anche solo parzialmente) o che comunque l’acquirente non poteva accorgersi dell’eventuale frode del fornitore, l’accertamento può essere annullato per carenza di prova. In materia IVA, la giurisprudenza UE richiede che solo chi sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare a una frode perde il diritto a detrazione dell’IVA; dunque provare la propria estraneità alla frode è decisivo per evitare le sanzioni. Secondo la Cassazione, ad esempio, spetta al Fisco dimostrare che il contribuente era consapevole dell’altrui frode; in difetto di tale prova, il contribuente va assolto da sanzioni . (Cass. 16279/2024 ha infatti annullato un accertamento proprio per mancanza di prova adeguata dell’inesistenza delle operazioni, sottolineando il principio del beneficio del dubbio a favore del contribuente ).
- Dimostrare la realtà (anche parziale) delle operazioni: un’ovvia linea difensiva è fornire evidenze dell’effettiva esecuzione delle prestazioni contestate. Ad esempio, se il Fisco sostiene che consulenze estere fatturate erano fittizie, si dovranno produrre i report o documenti risultanti da tali consulenze, le email intercorse, i progetti consegnati, ecc. Se si contestano forniture di beni mai arrivate, occorre esibire DDT, CMR di trasporto, foto della merce, registri di magazzino che attestino l’entrata/uscita dei prodotti . Anche se magari l’operazione era gonfiata, provare che qualcosa è avvenuto può ridimensionare l’addebito (da inesistenza totale a parziale). Nei casi di trasporti, ad esempio, se l’AdE eccepisce che i viaggi fatturati erano troppi rispetto ai mezzi posseduti, la difesa potrebbe sostenere che sono stati utilizzati sub-vettori terzi non indicati formalmente (producendo le relative fatture) . Oppure, se mancano tracce telematiche di taluni trasporti (es. pedaggi autostradali, Telepass), argomentare che i viaggi potevano avvenire con mezzi non tracciati elettronicamente. Lo scopo è minare la certezza dell’inesistenza totale, facendo valere il principio del dubbio (in dubio pro contribuente).
- Eccepire vizi procedurali dell’accertamento: come in ogni difesa tributaria, è sempre utile esaminare l’atto impositivo alla ricerca di eventuali vizi formali. Ad esempio, la mancata attivazione del contraddittorio preventivo quando prevista (nel caso di verifiche su operazioni transfrontaliere, spesso l’ultimo Ufficio accertatore deve inviare un P.V.C. e far decorrere 60 giorni prima di emettere accertamento), oppure notifiche eseguite in modo non corretto. Se l’avviso presenta difetti di motivazione (es. si limita ad affermazioni generiche senza prove concrete) o non sono stati rispettati i termini perentori (come la notifica oltre i termini di decadenza), tali vizi procedurali possono portare all’annullamento dell’atto impugnato indipendentemente dal merito . Queste difese prettamente formali da sole non risolvono il problema di merito, ma possono far cadere l’accertamento costringendo il Fisco a ripartire da capo (se ancora nei termini) .
- Buona fede e assenza di dolo (in sede penale): se oltre all’accertamento fiscale è partito anche un procedimento penale per dichiarazione fraudolenta, un filone difensivo cruciale è dimostrare l’assenza di dolo. Ad esempio, provare che l’amministratore non era consapevole della frode (magari si è fidato di un intermediario), o che c’era confusione normativa. Tuttavia, in casi di frode organizzata queste difese soggettive raramente convincono, soprattutto se l’evasione è sistematica . È spesso più efficace agire per vie deflattive: come vedremo, pagare integralmente il dovuto prima del dibattimento penale estingue il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 13 D.Lgs. 74/2000 (causa di non punibilità) . Anche laddove non si riesca a rientrare nella non punibilità, il pagamento integrale delle imposte prima della sentenza costituisce un’attenuante rilevante (riduzione di pena fino alla metà) . Dunque, per il penale spesso la strategia migliore è correre ai ripari: saldare il debito tributario (magari aderendo all’accertamento con adesione) ed eventualmente patteggiare per ottenere una pena sospesa .
Trust esteri “opachi” e interposizione patrimoniale: rischi e difesa del contribuente
I trust sono strumenti giuridici tipici dei sistemi anglosassoni, recepiti in Italia dalla Convenzione dell’Aja del 1985 (ratificata con L. 364/1989) . Un trust consente a un disponente di trasferire beni a un trustee affinché li gestisca nell’interesse di determinati beneficiari o per uno scopo . Caratteristica fondamentale è la segregazione patrimoniale: i beni conferiti in trust formano un patrimonio separato che non appartiene né al disponente né al trustee (né ai beneficiari fino all’eventuale distribuzione) . In sé, il trust è lecito e ha usi pienamente legittimi – ad es. tutela di familiari disabili, passaggio generazionale, gestione di patrimoni complessi, scopi filantropici . Tuttavia, proprio la separazione patrimoniale lo rende suscettibile di abusi: un soggetto indebitato potrebbe esserne tentato per mettere al riparo i propri beni da creditori o dal Fisco, specie se il trust è istituito all’ultimo momento (“trust liquidatorio”) o in giurisdizioni off-shore poco trasparenti .
Trust “paradisiaci” e fisco italiano: un trust istituito in un paradiso fiscale (es. Bahamas, Panama, Jersey) e non dichiarato al Fisco italiano può generare varie contestazioni:
- Omessa indicazione nel Quadro RW: se il disponente o un beneficiario controlla di fatto il trust o ne ha disponibilità, avrebbe dovuto dichiararne gli asset esteri. In caso di mancato monitoraggio, scatta la sanzione del 3–15% annuo (raddoppiata 6–30% se Paese black list) sul valore dei beni non dichiarati .
- Redditi esteri non dichiarati: i redditi prodotti dal patrimonio nel trust (interessi, dividendi, plusvalenze su conti esteri intestati al trust) se non dichiarati né dal trust (in Italia) né dai beneficiari, possono essere recuperati a tassazione. L’Agenzia Entrate può contestare omessa dichiarazione di redditi di capitale al beneficiario qualora ritenga il trust fiscalmente trasparente o interposto. Nel caso di trust opaco estero, se considerato entità separata non residente, i redditi esteri non sarebbero imponibili in Italia; ma spesso il Fisco contesta che il trust in realtà è residente in Italia (vedi oltre) o che il disponente ne è l’effettivo titolare, tassandolo di conseguenza .
- Residenza fiscale del trust: come visto in Tabella 2, se il trust ha elementi di collegamento con l’Italia (disponente e beneficiari italiani) ed è in uno Stato non collaborativo, il Fisco può presumere che la sede dell’amministrazione del trust sia in Italia . Ciò implica che il trust avrebbe dovuto dichiarare in Italia i propri redditi mondiali (come ente autonomo, soggetto a IRES se opaco). La contestazione tipica è il “trust estero esterovestito”: formalmente costituito offshore ma di fatto gestito dall’Italia o comunque assoggettabile alla legge italiana .
- Interposizione fittizia (trust simulato): l’ipotesi più insidiosa è quando il Fisco considera il trust un mero schermo fittizio, disconoscendone l’effetto segregativo. Succede se il disponente, pur avendo formalmente trasferito i beni al trustee, mantiene disponibilità o controllo di quei beni (es. è anche trustee, o si riserva poteri di revoca/direzione). In tal caso, ai sensi dell’art. 37, comma 3, DPR 600/1973, l’Amministrazione finanziaria ignora il trust e imputa i redditi direttamente al disponente o ai beneficiari effettivi . Ad esempio, i proventi finanziari su conti intestati al trust vengono considerati redditi del disponente se questi ha continuato a gestirli liberamente.
- Atto in frode ai creditori / reato di sottrazione fraudolenta: se il trust viene costituito dopo che il disponente ha maturato debiti tributari certi e esigibili (es. dopo la notifica di un avviso di accertamento o di cartelle esattoriali), l’operazione può essere considerata un mezzo fraudolento per evitare il pagamento delle imposte dovute. In sede civile, l’Agenzia Entrate può agire con l’azione revocatoria per far dichiarare il trust inefficace verso di sé (art. 2901 c.c., se il trust è posteriore al credito ed è dolosamente pregiudizievole) . In sede penale, se il debito tributario supera €50.000, la creazione del trust può integrare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) . La Cassazione penale ha più volte ravvisato tale reato nei casi di trust autodichiarati o con trustee compiacenti istituiti subito dopo un accertamento, evidenziandone la natura simulata . (La soglia per il reato sale a €200.000 di imposte non pagate se l’uso del trust avviene dopo notifica di accertamento definitivo, costituendo l’ipotesi aggravata).
In sintesi, un trust estero “sospetto” può essere attaccato su più fronti dal Fisco: tributario (tassazione dei redditi non dichiarati, sanzioni per omesso monitoraggio, accertamento di interposizione) e penale (se emerge un profilo fraudolento di sottrazione di asset) . Vediamo ora come il contribuente può difendersi.
Esempio pratico 2 (trust estero discrezionale non dichiarato): Luigi, imprenditore italiano, nel 2018 costituisce il “Sunshine Trust” alle Bahamas, trust discrezionale opaco, trasferendovi €2 milioni in titoli. Non dichiara nulla in RW confidando nella riservatezza locale. Nel 2025 l’Agenzia (grazie allo scambio automatico CRS) scopre il conto bancario del trust. Contesta a Luigi: omessa dichiarazione RW per €2 mln (sanzioni 6-30% annuo) e presunzione che quei €2 mln siano redditi evasi da tassare in Italia (art. 12 D.L. 78/2009). Inoltre, rileva che Luigi è sia disponente sia beneficiario economico (può revocare il trust e ne trae vantaggio finale): quindi riqualifica il trust come interposto, imputando a Luigi i redditi 2018-2024 generati dal patrimonio (circa €150k di interessi/dividendi non dichiarati). Luigi ricorre, sostenendo che essendo un trust discrezionale, lui come beneficiario non aveva obblighi RW né diritto ai redditi finché il trustee non decide; inoltre che i €2 mln originavano da dividendi su cui aveva già pagato le imposte a suo tempo. Fornisce documenti bancari che tracciano quell’origine lecita. La Corte di Giustizia Tributaria gli dà parzialmente ragione: considera non dovuto il raddoppio delle sanzioni (non essendo provato che i fondi fossero frutto di evasione) e riduce la sanzione RW al minimo; tuttavia conferma l’omessa indicazione RW in violazione formale. Riguardo ai redditi, riconosce che trattandosi di trust opaco i redditi esteri non erano imponibili in capo a Luigi (nessuna imputazione automatica), ma conferma la residenza italiana del trust e quindi tassa quei €150k direttamente sull’ente trust, recuperandoli dagli eventuali beni in Italia del trust stesso. In parallelo Luigi, per prudenza, aveva attivato una definizione agevolata con l’Ufficio pagando spontaneamente imposte e interessi sui €150k, evitando l’innesco di un procedimento penale. Morale: sebbene Luigi sia riuscito a mitigare le sanzioni e a evitare condanne, l’operazione con trust estero gli è costata comunque un pesante esborso e anni di contenzioso.
Strategie difensive per trust off-shore contestati:
- Prova della sostanza economica autonoma: la difesa principale consiste nel dimostrare che il trust aveva una vita propria, indipendente dal disponente. Se il trust è genuino – ad es. istituito molti anni prima, con un trustee indipendente che amministra secondo clausole precise, e beneficiari che non coincidono col disponente – sarà più difficile per il Fisco dipingerlo come schermo fittizio. Bisogna evidenziare la sostanza economica: portare documentazione su decisioni prese dal trustee senza interferenze, eventuali investimenti gestiti professionalmente, verbali del trustee, rendiconti periodici, ecc. Se il trust risulta irreversibile (disponente senza poteri di revoca né di controllo) e con finalità non meramente fiscali (es. protezione familiare), queste circostanze giocano a favore del contribuente.
- Contestare la residenza fiscale in Italia del trust: se l’Agenzia applica la presunzione di residenza del trust (L. 160/2019) occorre fornire prova contraria. Ad esempio, dimostrare che il trust è amministrato effettivamente all’estero: esibire documenti che mostrino come le decisioni importanti sono prese fuori dall’Italia (corrispondenza del trustee, luogo delle riunioni, consulenti esteri coinvolti). Se possibile, presentare anche una interpretazione restrittiva: ad esempio, se il trust è stato istituito prima del 2020 o in un Paese nel frattempo rimosso dalle black list, sostenere che la presunzione non sarebbe applicabile ratione temporis o loci. In generale però la norma del 2020 è piuttosto stringente, e la Corte Costituzionale ne ha già confermato la legittimità, ritenendola una misura anti-evasione ragionevole (ha respinto censure per presunta discriminazione verso cittadini italiani all’estero) .
- Dimostrare l’assenza di interposizione fittizia: se si è contestato che il trust è schermo fittizio (interposizione di persona ai sensi dell’art. 37, co. 3 DPR 600/73), bisogna dimostrare che in realtà il disponente non ha più controllo sui beni conferiti. Ad esempio: il trustee è davvero indipendente? Si possono portare lettere di patronage, comunicazioni in cui il trustee rifiuta istruzioni del disponente, testimonianze di terzi che attestano l’autonomia del trustee, etc. Se il disponente è anche trustee (trust autodichiarato) la situazione è critica, poiché tale assetto è considerato di per sé indizio di simulazione dalla giurisprudenza . In tal caso la difesa può puntare su aspetti procedurali (notifiche, sequestri viziati) o tentare soluzioni negoziali (patteggiamento penale con pena sospesa, v. oltre) .
- Difendersi dall’accusa di reato ex art. 11 D.Lgs. 74/2000: se viene contestata la sottrazione fraudolenta per aver istituito il trust post-debito, la difesa penale si concentrerà sull’assenza dell’elemento fraudolento. Argomenti possibili: il trust aveva ragioni genuine (es. tutela di un figlio disabile) e non scopo fiscale; i beni conferiti nel trust non erano comunque sufficienti a soddisfare tutti i debiti (quindi il trust non ha realmente pregiudicato il Fisco in modo decisivo); il disponente non ha simulato vendite a terzi ma ha usato uno strumento legale (trust) pubblicamente noto, dunque mancherebbe l’intento ingannatorio (dolo di frode) . Si può anche sostenere che il debito tributario non era definitivo (pendenze in contenzioso) e quindi il disponente riteneva in buona fede di non dover pagare in quel momento. Da notare però che la giurisprudenza è severa con i trust costituiti dopo l’inizio di verifiche fiscali: ad esempio, trust autodichiarati post-accertamento sono stati considerati fraudolenti a priori (Cass. pen. n. 36047/2022) . Se la posizione è indifendibile sul merito, conviene esplorare riti alternativi in sede penale: es. patteggiamento, magari restituendo parte del “maltolto” per ottenere la sospensione condizionale .
- Transigere col Fisco in sede tributaria: anche per i trust, si può valutare di chiudere la vicenda pagando il dovuto tramite accertamento con adesione o eventuali definizioni agevolate previste dalla legge . Ad esempio, se è contestata l’omessa dichiarazione RW, si può proporre un ravvedimento post factum per ridurre le sanzioni; se ci sono redditi esteri non dichiarati, provare a trovare un accordo sulle imposte da versare ottenendo in cambio lo stralcio (o la riduzione) delle sanzioni . Ciò ovviamente non risolve l’eventuale penale, ma un Fisco pienamente soddisfatto sul piano tributario potrebbe essere meno aggressivo in sede penale (anche se per legge, di fronte a reati tributari, l’Ufficio dovrebbe comunque sporgere denuncia a prescindere dal pagamento).
- Usare le Convenzioni contro le doppie imposizioni: se il trust possiede attivi in Paesi esteri con cui l’Italia ha trattati, va considerata la ripartizione della potestà impositiva. Ad esempio, un immobile in Francia detenuto dal trust produce redditi tassabili solo in Francia per la Convenzione bilaterale; quindi il Fisco italiano in teoria non può pretendere di tassarli (anche se magari contesta il trust). In difesa, invocare la Convenzione per spiegare che certi redditi esteri non furono dichiarati in Italia perché già tassati altrove può essere una scappatoia (limitata ai redditi, non all’obbligo RW) .
- Aggiornarsi sulle novità normative e giurisprudenziali: citare eventuali pronunce favorevoli al contribuente. Ad esempio la Cass. civ. n. 9745/2019 ha stabilito che i redditi di trust revocabili esteri vanno imputati al disponente; però altre decisioni (Cass. 25490/2016) hanno tassato il disponente comunque. Se esistono orientamenti contrastanti, si possono utilizzare per seminare dubbi interpretativi, prospettando magari anche questioni di legittimità costituzionale (ad es. se la norma del 2019 che equipara i trust opachi esteri a entità residenti con beneficiari italiani fosse considerata eccessiva) . Spesso mostrare che la materia è incerta e in evoluzione gioca a favore del contribuente – quantomeno nel dimostrare l’assenza di dolo e la confusione normativa, elementi utili in ambito penale.
- Tutela del patrimonio in pendenza di giudizio: se nel frattempo i beni nel trust sono stati sottoposti a sequestro preventivo penale o a misure cautelari fiscali, si può tentare ricorso al tribunale del riesame o in sede civile obiettando che il patrimonio è segregato per fini legittimi e non costituisce il profitto diretto di un reato (ad es. se contestano solo violazioni RW, sequestrare l’intero trust potrebbe essere eccessivo) .
In conclusione, la difesa di un trust off-shore passa per la trasparenza e la sostanza: più si riesce a dimostrare che il trust aveva vita e finalità proprie, e che il disponente/beneficiario non lo gestiva come un “conto segreto” personale, maggiori sono le chance di evitare riqualificazioni fiscali. Come sottolineato dalla Cassazione nella recente sentenza “King Trust” (Cass. Sez. Trib. 7 aprile 2025, n. 9096), ai fini dell’imposizione conta l’effettiva titolarità dei redditi, anche nei casi di interposizione reale . In quella vicenda, il trust estero fu considerato simulato perché il disponente ne mantenne il controllo ed era anche beneficiario, sicché la Corte ha confermato che i redditi andavano tassati a lui in Italia . Questo principio di substance over form è ormai cardine: il contribuente dovrà concentrare la propria difesa sul fornire elementi di sostanza economica reale a supporto delle proprie tesi. Infine, mai sottovalutare l’importanza di una consulenza specialistica: trust e fiscalità internazionale sono materie molto tecniche e, sin dalla pianificazione – prima ancora che in fase di contenzioso – andrebbero gestite con il supporto di esperti, per evitare errori che poi risultano difficili da sanare .
Interposizione fittizia di persone o società: prestanome e schermi nelle operazioni estere
Con interposizione fittizia si intende qualsiasi situazione in cui un soggetto o entità viene intestato solo formalmente di redditi o beni, al fine di schermare il vero titolare effettivo. È un concetto trasversale, già incontrato a proposito dei trust (il trust come interposto) e delle società esterovestite (società-schermo). Merita però una trattazione a sé perché ricorre in molte varianti: conti bancari esteri intestati a prestanome, società offshore usate come teste di legno, familiari o terzi compiacenti a cui vengono fittiziamente intestati utili o proprietà, ecc. L’obiettivo è sempre lo stesso: nascondere il collegamento di patrimoni o redditi al contribuente italiano realmente interessato.
L’ordinamento italiano, da lungo tempo, prevede strumenti per scardinare le interposizioni fittizie. Già l’art. 37, comma 3 del DPR 600/1973 stabilisce che «in caso di interposizione fittizia di persona, i redditi si considerano prodotti dal soggetto per conto del quale l’interposizione è stata attuata». Ciò consente al Fisco di ignorare l’intestazione formale e tassare il beneficiario effettivo. La giurisprudenza ha poi esteso il concetto anche all’interposizione reale (quando la struttura giuridica è valida ma usata per fini elusivi): ad esempio la Cassazione considera interposizione fiscale anche il caso in cui i redditi formalmente di una società estera in realtà arricchiscono un soggetto italiano, pur se la società esiste giuridicamente (c.d. interposizione reale negoziale). Di conseguenza, pure in tali casi i redditi vengono attribuiti al soggetto effettivo.
Esempi tipici di interposizione fittizia: – Conti bancari esteri intestati a terzi: il contribuente di fatto alimenta e dispone di fondi su un conto estero intestato formalmente a un amico/parente non residente. Se scoperto, il Fisco potrà imputare gli interessi e i capital gain al vero proprietario e sanzionare l’omessa dichiarazione RW. – Società estere schermo controllate dall’Italia: un classico è la società offshore (tipo una Ltd. caraibica) intestata a un fiduciario locale, ma di fatto gestita dal contribuente italiano. I contratti e l’operatività rivelano che l’italiano è il dominus occulto. L’interposizione può essere provata tramite email, testimonianze, flussi finanziari che riconducono all’italiano, etc., portando a tassare in capo a quest’ultimo i redditi sociali e a contestare la stabile organizzazione occulta o l’esterovestizione. – Finti soci o amministratori: in alcuni casi si nominano prestanome come soci o amministratori di società italiane o estere, per non figurare ufficialmente. Tuttavia, se l’amministrazione finanziaria dimostra che le decisioni e la proprietà sostanziale facevano capo a un altro soggetto, gli attribuirà i relativi redditi (dividendi occultati, utili extrabilancio, ecc.). – Interposti in operazioni immobiliari: può accadere che un italiano acquisti immobili all’estero intestandoli a una società off-shore o a un parente, tenendone però l’uso e il controllo. Anche qui, se emergono indizi (pagamenti fatti dall’italiano, poteri di disposizione, ecc.), i redditi e i valori patrimoniali saranno attribuiti all’italiano.
Difesa del contribuente: in presenza di contestazioni di interposizione, la difesa punta o a negare l’interposizione (dimostrando che l’entità o la persona interposta è davvero il soggetto economico autonomo) oppure, se ciò è difficile, a far valere eventuali lacune probatorie o vizi procedurali. Spesso i casi di interposizione si basano su presunzioni e indizi concatenati: la Cassazione richiede che tali presunzioni siano gravi, precise e concordanti, altrimenti non possono sorreggere da sole l’accertamento. Il contribuente può quindi cercare di smontare la “concordanza” degli indizi, fornendo spiegazioni alternative per ciascuno. Ad esempio, se il Fisco afferma che Tizio è il vero titolare dei conti di Caio perché vi sono bonifici da Tizio a Caio, la difesa può sostenere trattarsi di un prestito o altra operazione lecita, documentandola. Chiaramente, queste difese richiedono pezze giustificative solide.
In alcuni casi, il contribuente può anche far leva su aspetti procedurali: se l’accertamento di interposizione è scaturito da indagini finanziarie, va controllato che siano state autorizzate correttamente; se si basa su informazioni estere, verificare l’iter di cooperazione internazionale (richieste di informazioni, ecc.).
Nota: le contestazioni di interposizione spesso si accompagnano a quelle di esterovestizione o di evasione in genere. La linea tra interposizione lecita (es. intestare a un trust vero) e illecita (trust fittizio) è sottile e molto basata sui fatti. Fondamentale è farsi assistere per raccogliere tutte le prove contrarie possibili (contratti genuini, documenti di terzi, ecc.) per convincere i giudici che la struttura interposta aveva una ragion d’essere effettiva e non meramente elusiva.
Esterovestizione della residenza (società e persone fisiche)
Il termine esterovestizione indica la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di un soggetto (società o persona), con lo scopo di sottrarla al fisco italiano . Abbiamo già toccato vari aspetti di questo fenomeno parlando di società controllate estere e di persone AIRE in paradisi fiscali. Qui ricapitoliamo i profili specifici e gli orientamenti giurisprudenziali più recenti, nonché le strategie difensive ad hoc.
Esterovestizione societaria
Quando un’azienda è considerata “esterovestita”? In breve, quando è formalmente costituita e residente all’estero, ma secondo il Fisco ha in realtà la sede effettiva in Italia . In pratica, l’azienda appare estera (spesso con sede in Svizzera, Lussemburgo, Irlanda, Panama, ecc.), ma la gestione decisionale, gli affari e/o gli azionisti di controllo sono in Italia. L’esterovestizione societaria viene tipicamente contestata in situazioni come: holding o sub-holding costituite in paesi a fiscalità privilegiata che possiedono imprese italiane; società estere di comodo che raccolgono utili dall’Italia (es. attraverso royalty o servizi infragruppo) riducendo il reddito tassabile italiano; casi in cui imprenditori italiani spostano formalmente la sede legale della propria azienda all’estero (Spagna, UK, Slovenia, ecc.) ma continuano a operare prevalentemente dall’Italia .
Strumenti del Fisco per accertarla: oltre alla presunzione di legge (art. 73 co.5-bis TUIR, già vista), il Fisco svolge indagini fattuali sul caso concreto. Vengono esaminati elementi come: dove vengono prese le decisioni (email interne, agende degli amministratori, luogo delle riunioni societarie); dove sono ubicati amministrazione e uffici; chi sono i soci e gli amministratori (nazionalità, residenza); dove operano i dipendenti; da dove partono gli ordini ai fornitori e le direttive ai clienti . Spesso la Guardia di Finanza effettua accertamenti anche all’estero (in collaborazione con autorità locali) per appurare se la sede estera è un ufficio vero o un semplice recapito postale. Indizi frequenti di esterovestizione: amministratori formalmente stranieri ma meri fiduciari, mentre le decisioni sono prese da uno staff italiano; conti bancari esteri movimentati quasi esclusivamente con bonifici da/verso l’Italia; mancanza di personale proprio all’estero; contratti della società estera firmati in Italia o con controparti italiane; utilizzo di infrastrutture italiane (server, magazzini) come fossero proprie. Emblematico è il caso in cui l’azienda estera non ha neppure un numero di telefono attivo o un sito web locale, e i clienti italiani continuano a interfacciarsi con la “vecchia” struttura italiana .
Conseguenze: se l’esterovestizione è accertata, la società estera viene riqualificata come residente in Italia per i periodi d’imposta contestati. Ciò comporta che tutti i suoi redditi, ovunque prodotti, diventano imponibili in Italia (evitando ovviamente doppie tassazioni tramite il credito per imposte estere eventualmente già pagate). Spesso i redditi della società estera erano tassati molto meno (o per nulla) all’estero: l’Agenzia recupera quindi la differenza d’imposta. Le imposte coinvolte sono principalmente l’IRES e l’IRAP non pagate, e talvolta l’IVA se viene contestata l’esistenza di una stabile organizzazione occulta in Italia. Le sanzioni amministrative possono arrivare sino al 240% dell’imposta evasa . Inoltre, come già accennato, i casi più eclatanti possono sfociare in denunce penali: ad esempio per omessa dichiarazione (se la società non ha presentato dichiarazioni in Italia pur essendo considerata ivi residente) o per dichiarazione fraudolenta (se vi sono stati artifici per celare la residenza, come false comunicazioni sociali). Sul piano civilistico, potrebbe anche profilarsi l’invalidità di atti societari compiuti all’estero in frode alla legge italiana, ma raramente si giunge a tanto in tribunale; il focus resta sulle conseguenze tributarie .
Linee difensive per la società accusata di esterovestizione:
- Prova contraria alla presunzione (se applicata): in caso di presunzione ex art. 73 (5-bis) TUIR, occorre fornire ampia documentazione per dimostrare che la sede dell’amministrazione è realmente all’estero. Ad esempio: contratti di affitto di uffici esteri, buste paga di personale locale, foto dei locali e delle insegne, verbali di CdA e assemblee tenuti all’estero, timbri sui passaporti attestanti la presenza periodica degli amministratori italiani nel paese estero , contratti con fornitori e professionisti del luogo, iscrizioni a registri d’impresa esteri, eventuali licenze locali. Se disponibile, predisporre perizie o attestazioni di professionisti esteri (es. un notaio locale che certifichi l’operatività effettiva della sede). La prova contraria deve far emergere che lo schema non è “artificioso”: se ad esempio una holding maltese ha investimenti internazionali reali, un board che si riunisce a La Valletta trimestralmente, un CFO maltese, ciò denota sostanza economica autentica e aiuta a difendersi .
- Sfruttare eventuali ruling o interpelli: se il contribuente aveva ottenuto un ruling o parere preventivo dall’Agenzia che validava la struttura (caso raro ma possibile, ad es. accordo preventivo su transfer pricing internazionale), conviene esibirlo. Altrimenti, si può far presente se ci sono state interlocuzioni pregresse con l’Agenzia sulle stesse operazioni (es. una richiesta di chiarimenti cui l’ufficio non aveva poi fatto seguito), per evidenziare la propria buona fede e trasparenza. Non è una difesa risolutiva, ma segnala che non si è agito di nascosto.
- Verificare la motivazione e la procedura dell’accertamento: la contestazione di esterovestizione deve essere adeguatamente motivata con precisi elementi di fatto. Se l’atto si limitasse a notare che la società ha soci italiani e nulla più, potrebbe essere vago e censurabile per difetto di motivazione. Inoltre occorre controllare la correttezza delle notifiche: spesso gli avvisi vengono notificati presso una sede in Italia – ma formalmente la società è estera. Potrebbero sorgere questioni di giurisdizione: di solito l’Agenzia notifica gli atti ai soci o amministratori italiani (contestando loro maggiori dividendi percepiti o indeducibilità di costi infragruppo), ma se invece notifica alla società estera in Italia bisogna valutarne la legittimità .
- Contestare l’eventuale qualificazione come stabile organizzazione occulta: a volte il Fisco, in subordine o alternativa all’esterovestizione, contesta che la società estera avesse in Italia una stabile organizzazione non dichiarata. Ciò comporta di per sé la tassazione in Italia dei redditi attribuibili alla S.O. occulta, anche se non si arriva a spostare la residenza dell’intera società. La difesa, in tal caso, consisterà nel dimostrare che in Italia non c’era una sede d’affari fissa della società estera né personale che operava in Italia con poteri di rappresentanza di essa . Ad esempio, se l’accusa è che l’ufficio italiano di una controllata fungeva da stabile organizzazione, si può evidenziare che quell’ufficio operava per altra società italiana e non per la estera, o che non aveva potere di concludere contratti per la società estera. Nel caso citato HLB San Marino, inizialmente la GdF contestò l’esterovestizione, poi l’Agenzia ripiegò sull’ipotesi di stabile organizzazione in Italia di una società francese, ma il giudice tributario non l’ha ritenuta configurabile . In generale, se non sussiste l’esterovestizione (perché la società estera è davvero indipendente), allora non può sussistere nemmeno una S.O. occulta in Italia (dato che l’impresa è effettivamente estera). Viceversa, se ci fosse davvero una S.O. in Italia, sostenere che la società è interamente estera sarebbe contraddittorio. Insomma, smontare l’una ipotesi aiuta a escludere anche l’altra .
- Distinguere elusione da evasione: una difesa giuridica raffinata è sostenere che, in linea con l’orientamento più recente (Cass. Sez. Trib. 2 ottobre 2024 n. 25917), l’esterovestizione di per sé non configura abuso, ma va inquadrata esclusivamente nella disciplina sulla residenza fiscale . Ciò significa che se i criteri di residenza ex art. 73 TUIR non sono soddisfatti (o non provati dal Fisco), non si può ricorrere a vaghi concetti di “elusione” per colpire la società. In sostanza: se formalmente la società non risulta residente in base ai tre criteri (legale, amministrazione, oggetto), il Fisco non può punirla solo perché “ha pagato meno tasse all’estero”; deve dimostrare la presenza di uno dei criteri in Italia . Questo aiuta a evitare che si travalichino le norme con approcci anti-abuso generici. In giudizio quindi si può eccepire che l’Ufficio, non riuscendo a provare la residenza secondo i criteri legali, stia impropriamente invocando un abuso del diritto che la Cassazione oggi esclude come fattispecie autonoma in casi di residenza (spostando tutto sul piano della verifica oggettiva dei criteri di collegamento).
- Imputare i crediti d’imposta per le tasse pagate all’estero: qualora l’esterovestizione venga confermata e si ridetermini il carico fiscale in Italia, bisogna fare attenzione a richiedere il credito per eventuali imposte già pagate all’estero sui medesimi redditi. Ad esempio: se una società rumena viene considerata residente in Italia per il 2019 e aveva pagato imposte in Romania (flat tax 10% su utile 100), e in Italia l’IRES sullo stesso utile sarebbe 24, l’Agenzia deve riconoscere un credito per i 10 versati in Romania (in base alla Convenzione o unilateralmente) . Ciò non evita il contenzioso ma almeno riduce il quantum dovuto. Verificare quindi che nell’avviso di accertamento l’Ufficio abbia tenuto conto di tali crediti; altrimenti, eccepirlo in ricorso.
- Strategie penali (omessa dichiarazione): se ai rappresentanti della società esterovestita viene contestato il reato di omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000), una possibile difesa è invocare l’incertezza normativa oggettiva sulla residenza, specialmente per periodi precedenti il 2015 quando la nozione di abuso del diritto non era tipizzata per legge . Ad esempio, i manager possono sostenere: “Ritenevamo legittimamente che la sede fosse all’estero, su parere dei consulenti”. Non è una difesa semplicissima, ma può aiutare a escludere il dolo ove la situazione giuridica fosse realmente controversa. In parallelo, se possibile, pagare le imposte evase prima del dibattimento: per l’omessa dichiarazione, infatti, l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede che il pagamento integrale di imposta, sanzioni e interessi prima dell’apertura del dibattimento estingue il reato . Quindi, valutare seriamente l’opzione di regolarizzare e pagare (magari tramite adesione) così da bloccare anche il penale .
- Considerare l’impatto sui soci e amministratori: ricordare che se la società estera viene resa “italiana”, i soci persone fisiche potrebbero subire la tassazione dei dividendi pregressi come se percepiti da una società italiana (con credito per eventuali ritenute subite all’estero). Anche eventuali plusvalenze su partecipazioni possono essere riviste. Bisogna dunque difendersi anche su questo fronte se l’accertamento coinvolge la sfera del socio.
Nota: la Cassazione ha distinto tra esterovestizione “di diritto” (quando c’è un atto formale di trasferimento sede all’estero) ed esterovestizione “di fatto” (quando senza atti formali la gestione è all’estero) . In pratica, però, per l’esito conta poco: il giudizio verte comunque su dov’era la sede effettiva. Si può al più rilevare qualche vizio formale (es. se la società estera non ha mai comunicato l’Italia come sede secondaria, ecc., si può insinuare che l’Italia stia forzando la mano). Ma sostanzialmente, ciò che rileva è la realtà economica della localizzazione.
Esterovestizione delle persone fisiche
Questo aspetto è affine all’interposizione di residenza già vista. L’Italia contrasta le finte residenze estere di persone fisiche tramite l’art. 2 co.2-bis TUIR: il cittadino italiano che si iscrive all’AIRE e trasferisce la residenza in un Paese black list è presunto residente in Italia, salvo prova contraria . La difesa, analogamente, consiste nel dimostrare che il centro degli interessi del soggetto è effettivamente all’estero: fornire prove di un lavoro stabile all’estero, famiglia e figli residenti all’estero, attività sociali fuori Italia, ecc., e al contempo minimizzare la presenza fisica in Italia (non superare i famosi 183 giorni sul territorio, documentare viaggi frequenti all’estero, evitare di mantenere l’abitazione principale in Italia, etc.) . Spesso, però, chi si sposta in un paradiso fiscale (tipici i casi di sportivi o VIP trasferiti a Montecarlo, piloti, cantanti) mantiene legami in patria difficili da occultare. In giudizio possono pesare evidenze come il luogo di residenza della famiglia stretta (coniuge e figli), dove i figli vanno a scuola, quante proprietà possiede ancora in Italia, la frequenza di utilizzo di carte di credito o Telepass in Italia . La Cassazione è molto netta sul punto: ad esempio ha ritenuto residente in Italia un contribuente iscritto AIRE nel Regno Unito perché, pur avendo lì un formale domicilio, tornava spessissimo in Italia e qui aveva i legami affettivi ed economici predominanti .
Una possibile difesa è contestare la legittimità costituzionale della presunzione di residenza ex art. 2 co.2-bis, sostenendo che violi la parità di trattamento (discriminerebbe cittadini italiani rispetto a stranieri). In passato, però, la Corte Costituzionale ha più volte ritenuto la presunzione ragionevole e proporzionata allo scopo anti-evasione . Dunque c’è poco spazio su questo fronte.
Forse l’unico appiglio tecnico è verificare se il Paese estero in questione era effettivamente nella lista nera per l’anno di trasferimento. Ad esempio, fino al 2014 Monaco era black list; poi con gli accordi sullo scambio di informazioni ne è uscita. Quindi un soggetto trasferitosi a Montecarlo nel 2016 non dovrebbe essere presunto residente (infatti oggi il Principato di Monaco non è più considerato “privilegiato” ai fini di tale norma). Bisogna quindi controllare la lista dei Paesi a fiscalità privilegiata AIRE vigente all’epoca (DM 4/5/1999 e succ. mod.) e vedere se il Paese in oggetto era incluso: se no, la presunzione non opera . (Resteranno però applicabili i criteri generali di cui sopra, e il Fisco potrebbe sempre provare la residenza di fatto con i soliti indizi, ma senza beneficio di presunzione).
Strumenti deflattivi del contenzioso tributario
Di fronte a un accertamento dell’Agenzia delle Entrate per operazioni con l’estero, il contribuente ha a disposizione diversi strumenti “deflattivi” per evitare o ridurre il contenzioso. Si tratta di procedure che possono portare a una soluzione concordata o a una mitigazione delle sanzioni, scongiurando una lunga causa in tribunale. Ecco le principali opzioni:
- Autotutela: se l’accertamento presenta errori palesi (ad es. scambio di persona, calcoli manifestamente sbagliati, doppia imposizione evidente, ecc.), il contribuente può presentare istanza di annullamento in autotutela all’ufficio emittente. In autotutela l’Amministrazione ha il potere di annullare o rettificare i propri atti senza bisogno di giudice, in presenza di errori evidenti o illegittimità. Va detto che l’autotutela è discrezionale: l’ufficio non è obbligato a ritirare l’atto, e la richiesta non sospende i termini di ricorso . Tuttavia, tentare l’autotutela in casi lampanti può risolvere rapidamente (es. se l’ufficio riconosce l’errore) o almeno costituire un documento utile da esibire poi in giudizio a riprova della propria buona fede.
- Accertamento con adesione: è la procedura principe per cercare un accordo bonario col Fisco. Il contribuente può presentare istanza di adesione entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso (o anche dopo, se riceve invito a comparire). L’istanza sospende per 90 giorni il termine per fare ricorso, e consente di avviare un contraddittorio con l’ufficio . In sede di adesione si discute la pretesa e si può arrivare a concordare una riduzione delle imposte accertate e delle sanzioni. Se l’accordo si perfeziona (firma e pagamento), le sanzioni amministrative sono automaticamente ridotte ad 1/3 del minimo previsto per legge. L’adesione comporta rinuncia al ricorso, ma evita la lite. È utile soprattutto se ci sono margini negoziali (es. dubbi valutativi, imponibili non certi, ecc.). Va valutato caso per caso: presentare istanza di adesione anche solo per prendere tempo (sospensione dei termini) può essere consigliabile , a meno che non si tema di “scoprire le carte” col Fisco. Nel dubbio, meglio farsi assistere da un tributarista nelle riunioni di adesione.
- Mediazione tributaria: per gli atti di valore contenuto (fino a €50.000 di solo tributo, esclusi sanzioni e interessi, valore elevabile a 100.000 con la L. 130/2022, ma soggetto a decreti attuativi) è obbligatorio presentare un’istanza di reclamo-mediazione prima di poter andare in giudizio. Si tratta di un reclamo all’ufficio legale dell’Agenzia (diverso dall’ufficio accertatore), che può formulare una proposta di mediazione con riduzione delle sanzioni al 35% del minimo. Se entro 90 giorni non si concilia, l’istanza vale come ricorso. Nelle materie complesse (esterovestizione, trust, ecc.) spesso il valore supera quella soglia, ma in caso contrario conviene tentare perché la riduzione sanzioni al 35% è allettante.
- Conciliazione giudiziale: anche dopo aver fatto ricorso, è sempre possibile trovare un accordo con l’ufficio in corso di processo. La conciliazione può essere fuori udienza (su iniziativa delle parti) o in udienza davanti al giudice tributario. Se avviene in primo grado, le sanzioni sono ridotte al 40% del minimo; se in secondo grado, al 50%. La conciliazione chiude la lite con un verbale omologato dal giudice e il pagamento concordato. È uno strumento utile quando, nel frattempo, emergono elementi nuovi o l’ufficio comprende la fondatezza parziale delle ragioni del contribuente. Ad esempio, in cause su operazioni estere, può capitare che a metà giudizio l’Ufficio accetti di rinunciare alle sanzioni (o ridurle al minimo) se il contribuente paga le imposte. Attenzione: conciliando si rinuncia alle ulteriori impugnazioni, quindi va ponderata se si è convinti di vincere totalmente in Cassazione.
- Acquiescenza all’accertamento: è la scelta di non impugnare l’avviso di accertamento e pagare quanto richiesto entro 60 giorni, usufruendo così della riduzione delle sanzioni ad 1/3. È raccomandabile solo se si ritiene che l’accertamento sia corretto o poco contestabile, poiché una volta pagato non si torna indietro. Può convenire quando l’Agenzia ha già applicato sanzioni molto elevate (es. 150%): pagando in acquiescenza si riducono a 50%, con un grande risparmio. In materia di paradisi fiscali, però, raramente si accetta integralmente: spesso c’è margine di trattativa o ricorso.
- Definizioni agevolate speciali: periodicamente il legislatore introduce condoni o sanatorie. Ad agosto 2025, ad esempio, risultano possibili la definizione agevolata delle liti tributarie pendenti (prevista dalla Legge di Bilancio 2023 per i ricorsi pendenti al 1° gennaio 2023, con pagamento ridotto in base al grado di giudizio) e la conciliazione agevolata in Cassazione. Sono misure transitorie: il contribuente dovrà valutare se rientra tra i casi definibili (ad es. se aveva un ricorso pendente su esterovestizione entro il 2022, potrebbe chiuderlo pagando il 90% del solo tributo se in primo grado, etc.). Tenersi aggiornati su eventuali nuove sanatorie è utile.
In ogni caso, presentare ricorso entro 60 giorni dalla notifica dell’atto rimane fondamentale per non perdere il diritto alla difesa . Si può contestualmente chiedere al giudice tributario la sospensione dell’atto, se vi è rischio di danno grave dall’esecuzione immediata . La sospensiva in genere viene concessa se l’importo è molto elevato rispetto alle capacità del contribuente, o se si ravvisano vizi seri nell’atto. Nel frattempo, come visto, è possibile attivare parallelemente uno degli strumenti deflattivi sopra (adesione, conciliazione, ecc.) per provare a risolvere la controversia.
Strategie di pianificazione fiscale lecita e prevenzione
La miglior difesa è prevenire le contestazioni attraverso una corretta pianificazione fiscale lecita. Alcuni principi e strategie chiave per operare con l’estero rimanendo nel lecito:
- Trasparenza verso il Fisco: dichiarare spontaneamente gli asset detenuti all’estero (Quadro RW), rispettare gli obblighi di comunicazione, e in caso di dubbio chiedere interpello all’Agenzia Entrate. Mostrare trasparenza riduce il rischio di verifiche aggressive e, se avvengono, pone il contribuente in una luce migliore (niente occultamento deliberato). Ad esempio, se si apre un conto o una società estera, menzionarla nella dichiarazione dei redditi può evitare la presunzione automatica di evasione.
- Sostanza economica delle entità estere: se si decide di operare tramite una società estera in un Paese a bassa tassazione, è fondamentale dotarla di sostanza reale: uffici, personale, un business vero nel Paese in questione. In assenza di tali elementi, la società sarà facilmente attaccabile come schermo fittizio. Come evidenziato, aprire una società a Dubai o a Panama non è illecito di per sé, ma diventa un problema se è solo una scatola vuota che funge da collettore di redditi generati altrove . Bisogna perciò pianificare un’operatività genuina all’estero: ad esempio, se un e-commerce vuole delocalizzare in Emirati, dovrà davvero spostare parte dell’attività a Dubai (magazzino, personale locale, gestione ordini sul posto) e magari il titolare stesso trasferire la residenza lì, altrimenti l’esterovestizione è quasi certa .
- Documentazione accurata delle transazioni infragruppo: molte contestazioni nascono da operazioni tra società correlate (italiana ed estera) con prezzi di trasferimento non allineati a valori normali. È essenziale predisporre Transfer Pricing documentation per provare che i prezzi praticati sono di mercato. Inoltre, curare contrattualistica e documenti di supporto per ogni servizio infragruppo o pagamento estero: contratti, relazioni tecniche, report di consulenza, documenti di trasporto, ecc. In caso di verifica, poter esibire un dossier completo aiuterà a provare la legittimità delle operazioni.
- Utilizzare regimi agevolativi leciti in Italia: se l’obiettivo è ridurre il carico fiscale, considerare i regimi di favore che l’ordinamento italiano già offre, invece di rischiose manovre estere. Ad esempio: il regime forfettario per le piccole partite IVA; il regime impatriati (art. 16 D.Lgs. 147/2015) se si vuole trasferire la residenza portando attività dall’estero (sconto 70% del reddito per 5 anni); il regime dei nuovi residenti “non-dom” (flat tax €100k) per attrarre paperoni stranieri o ex emigrati rientrati (che esenta da RW e IVIE/IVAFE per i redditi esteri coperti) . Sfruttare queste norme consente risparmi legittimi evitando liti. Se un imprenditore italiano vuole espandersi, potrebbe valutare paesi UE a fiscalità moderata (es. Irlanda, Cipro) dove però si risiede davvero o si apre filiali sostanziali, anziché usare paradisi puri non cooperativi.
- Tenere traccia formale delle decisioni e dei flussi finanziari: molti casi di abuso vengono scoperti perché restano tracce evidenti (mail, bonifici, movimenti di magazzino incongruenti). Paradossalmente, anche fare le cose in regola lascia tracce – ma positive. Conviene quindi formalizzare adeguatamente tutte le operazioni: tenere verbali di assemblea e CdA per scelte importanti (specie se riguardano rapporti estero-Italia), conservare la corrispondenza commerciale, utilizzare conti correnti dedicati e movimenti tracciati anche nelle società estere, evitare contanti o passaggi informali. In caso di accertamento, poter fornire un archivio ordinato di delibere, contratti, fatture e giustificativi scoraggia il Fisco dal presumere frodi.
In generale, l’adozione di buone pratiche di compliance fiscale internazionale – es. dichiarare volontariamente gli asset esteri, dotare le entità estere di effettiva operatività, tenere traccia formale delle decisioni di gestione – è il modo migliore per prevenire contestazioni o quantomeno per trovarsi in posizione di forza qualora si venga verificati . Per i casi già insorti, l’ordinamento offre comunque strumenti di “rimedio” (ravvedimenti, definizioni agevolate, pagamento con effetti estintivi del reato) che, se ben utilizzati, possono ridurre drasticamente le conseguenze negative .
In sintesi, operare con l’estero non significa operare fuori legge, ma occorre farlo con trasparenza e sostanza reale. Se un’operazione è realmente avvenuta ed economicamente giustificata, vi saranno le basi per difenderla con successo anche di fronte ad accertamenti severi. Viceversa, se ci si avventura in manovre borderline o chiaramente elusive, è saggio riconoscerlo per tempo e rientrare nei ranghi – ad esempio sanando le violazioni prima che scattino profili penali, o trovando un accordo col Fisco per il passato . Il punto di vista del debitore deve essere pragmatico: l’obiettivo è tutelare il proprio patrimonio, la continuità dell’impresa e la libertà personale, scegliendo di volta in volta la strategia legale più efficace – che talvolta significa combattere strenuamente in giudizio, altre volte negoziare una soluzione di compromesso .
Domande frequenti (FAQ)
D.1: Cosa si intende esattamente per “paradiso fiscale” nella normativa italiana?
R.: Non esiste una definizione univoca di paradiso fiscale in una singola norma italiana. In genere si fa riferimento a Stati con regimi fiscali privilegiati, ovvero con aliquote molto basse o nulle su certe categorie di reddito, spesso caratterizzati anche da scarsa trasparenza bancaria e societaria. In passato l’Italia adottava elenchi di “paesi black list” fissati per decreto (es. DM 4/5/1999 per le CFC, DM 21/11/2001 per presunzione di residenza persone fisiche, DM 23/1/2002 per indeducibilità costi) . Oggi, dopo l’adeguamento a direttive UE e standard OCSE, si parla più genericamente di paesi a bassa fiscalità (tassazione effettiva inferiore al 50% di quella italiana) o di paesi non cooperativi sullo scambio di informazioni . Ad esempio, la lista UE delle giurisdizioni non cooperative (EU blacklist) nel 2025 includeva Stati come Panama, Isole Vergini, etc. In questa guida usiamo il termine “paradiso fiscale” in senso lato, per indicare giurisdizioni con tassazione nulla o minima e forte segretezza bancaria, tipicamente utilizzate in schemi elusivi/evasivi .
D.2: Qual è la differenza tra elusione fiscale ed evasione fiscale internazionale?
R.: La differenza sta nel mezzo con cui si riduce il carico fiscale e nella liceità formale della condotta. L’elusione (oggi chiamata abuso del diritto) consiste nello sfruttare le norme – spesso tramite operazioni artificiose ma formalmente regolari – per ottenere risparmi d’imposta contrari allo spirito della legge. Nel contesto internazionale, un esempio di elusione è spostare la sede di una società in Irlanda (dove la tassazione è più bassa) pur mantenendo parte dell’attività in Italia, ma rispettando tutte le formalità richieste; oppure capitalizzare eccessivamente una controllata in un paradiso fiscale così che raccolga utili non distribuiti (tassati quasi zero all’estero). Formalmente non si viola alcuna norma, ma il Fisco può contestare l’abuso riqualificando l’operazione (percependo il vantaggio fiscale come indebito) – senza sanzioni penali, trattandosi appunto di elusione . L’evasione, invece, implica la violazione diretta di norme tributarie: ad esempio omettere di dichiarare redditi esteri, utilizzare fatture false, simulare operazioni inesistenti. Nell’evasione c’è il dolo di occultare materia imponibile, ed è punita con sanzioni amministrative (più severe) e spesso penali. Molte operazioni con paradisi fiscali iniziano come pianificazione aggressiva (zona grigia tra elusione ed evasione) ma, per come sono implementate, sfociano nell’evasione vera e propria. Ad esempio: costituire una società offshore è potenzialmente lecito (se ha sostanza), ma se poi la si usa per emettere fatture false diventa un illecito. In sintesi: elusione = risparmio d’imposta indebito ma ottenuto senza violare espressamente la legge (oggi sanzionato solo con il recupero delle imposte); evasione = risparmio d’imposta illegale, ottenuto violando la legge (sanzionato con multe salate e possibili reati) .
D.3: Sono un consulente italiano che lavora da remoto per società estere e ho aderito al regime residenti non dom (flat tax €100k). Devo compilare il Quadro RW per i conti all’estero?
R.: Il regime dei nuovi residenti non-dom (art. 24-bis TUIR) consente, a chi trasferisce la residenza in Italia, di pagare un’imposta sostitutiva forfettaria di €100.000 sui redditi prodotti all’estero, in luogo della tassazione ordinaria. Chi opta per questo regime è esonerato dagli obblighi di monitoraggio (Quadro RW) e dal pagamento di IVIE/IVAFE sulle attività estere coperte dall’opzione . Quindi se i tuoi conti esteri rientrano nell’ambito della flat tax €100k (e l’opzione è attiva), non devi dichiararli in RW. Attenzione però: se hai attività estere non coperte dall’opzione (perché hai escluso un certo Paese dall’opzione, o perché hai revocato l’opzione su un asset specifico), allora per quelle vale l’obbligo RW ordinario. Da notare che altri regimi agevolati per chi viene in Italia, come quello degli impatriati, non esonerano dal Quadro RW: gli impatriati godono di uno sconto sul reddito di lavoro prodotto in Italia, ma sui conti/beni esteri devono dichiarare normalmente .
D.4: Ho ricevuto un accertamento per esterovestizione della mia società estera: quali sono i passi immediati da fare?
R.: In sintesi: (a) analizza subito l’atto e i motivi (meglio con un avvocato tributarista esperto in internazionale); (b) raccogli tutta la documentazione che prova l’effettività dell’operatività estera (contratti, bilanci, verbali, foto uffici, ecc. – vedi sopra) da esibire eventualmente; (c) valuta se presentare istanza di accertamento con adesione per aprire un dialogo con l’ufficio (ciò sospende i termini per ricorrere e consente di discutere) ; (d) prepara comunque il ricorso da depositare entro 60 giorni se non si definisce prima; (e) chiedi eventualmente la sospensiva al giudice tributario per bloccare misure di riscossione durante la pendenza del ricorso ; (f) parallelamente, se la somma contestata è molto elevata e non hai liquidità, inizia a pensare a misure per tutelare il patrimonio lecitamente (es. piani di rateazione col Fisco, analisi del cash flow per pagare, evitare distrazioni di beni che però potrebbero essere viste male). Inoltre, verifica se nell’accertamento vi è cenno a profili penali: se sì (es. frasi tipo “si ravvisa reato ex art…”), contatta subito anche un avvocato penalista e valuta se pagare il dovuto e autodenunciarti per evitare guai (vedi domanda D.6 sulla causa di non punibilità ex art. 13 D.Lgs. 74/2000) . Riassumendo: agisci tempestivamente, non sottovalutare l’accertamento (gli importi lievitano con interessi e sanzioni) e costruisci da subito, con i consulenti, una strategia chiara di difesa. Spesso un approccio risoluto e ben documentato già nelle prime controdeduzioni all’ufficio può portare a un parziale ripensamento da parte dell’Agenzia, o comunque ti mette in posizione più solida in giudizio .
D.5: Quali prove devo fornire per dimostrare che la mia società estera non è esterovestita?
R.: Devi dimostrare che almeno uno dei tre criteri di collegamento all’Italia manca per la maggior parte dell’anno. In pratica, devi mostrare che: (i) la sede dell’amministrazione non è in Italia ma nel Paese estero (cioè le decisioni gestionali sono prese all’estero); (ii) l’oggetto principale dell’attività non si svolge in Italia ma all’estero; (iii) ovviamente la sede legale è già all’estero. Quindi, le prove includono: contratti con clienti/fornitori esteri; fatture emesse verso soggetti esteri; evidenze che i ricavi sono generati fuori Italia (ad es. per una società di e-commerce estera, statistiche che mostrano che la maggior parte degli utenti o del fatturato è extra-Italia); documentazione che il management opera all’estero (verbali di CdA firmati all’estero, email di lavoro che mostrano operatività in orari del fuso estero, ecc.); struttura locale: contratto di affitto di un ufficio all’estero, bollette/utenze pagate lì, eventuali dipendenti assunti in loco (o, se non dipendenti diretti, contratti di servizio con società locali per funzioni amministrative); movimenti bancari: avere conti nel Paese estero e usarli per pagare stipendi/affitti lì; iscrizione della società a registri d’impresa locali, eventuali licenze o permessi in loco. Inoltre, se hai amministratori o soci italiani, mostrare che comunque dedicavano tempo sul posto (biglietti aerei, ricevute di hotel per le riunioni all’estero). In sostanza devi ricostruire il quadro di un’azienda vera e operante in quel Paese. Più prove coerenti fornisci in tal senso, più puoi convincere il giudice che non si tratta di un’entità fittizia “managed and controlled” dall’Italia, ma di un’entità autentica. Tieni conto che la prova è “libera”: vale tutto, anche foto dei locali, organigrammi, presentazioni di business fatte all’estero, dichiarazioni giurate di terzi (visto che nei processi tributari la testimonianza orale diretta non è ammessa) . L’importante è presentare un insieme di elementi convergenti e credibili.
D.6: Se pago tutte le tasse richieste in un accertamento, evito il processo penale?
R.: Dipende dal tipo di violazione contestata. Il pagamento integrale delle imposte prima del dibattimento penale è una causa di non punibilità (art. 13 D.Lgs. 74/2000) per i reati di dichiarazione fraudolenta, infedele, omessa e di omesso versamento di IVA/ritenute . Quindi, se l’accertamento riguarda ad esempio redditi esteri non dichiarati (dichiarazione infedele) o l’uso di fatture false (dichiarazione fraudolenta), pagando tutto il dovuto prima del processo penale eviti la condanna . Questa causa di non punibilità non si applica però al reato di emissione di fatture false né ad alcuni reati minori (occultamento di documenti, sottrazione fraudolenta) . Tuttavia, anche in questi casi, pagare il dovuto rappresenta un’attenuante importante (può ridurre la pena fino alla metà) ed è spesso condizione per ottenere un patteggiamento favorevole . Ricorda inoltre che pagare l’accertamento subito evita l’aggravarsi del debito per interessi e riduce le sanzioni amministrative (in adesione c’è lo sconto sulle sanzioni). Dunque, se hai la liquidità o beni liquidabili, valutare il pagamento è sempre saggio. Ovviamente devi pagare tutto: imposta, interessi, sanzioni amministrative (queste ultime vanno versate anch’esse per estinguere il reato, anche se magari in adesione vengono ridotte) . Fai attenzione ai tempi: “prima del dibattimento” significa entro la data in cui, in tribunale, si apre la fase dibattimentale (cioè dopo l’eventuale udienza preliminare o comunque dopo il rinvio a giudizio). Meglio farlo appena vieni a conoscenza dell’indagine, e comunque entro la prima udienza dibattimentale utile . Bisogna poi depositare in giudizio le quietanze di pagamento integrale, così da ottenere dal giudice la dichiarazione di non doversi procedere. Se invece paghi più tardi (dopo l’inizio del dibattimento ma prima della sentenza definitiva), il giudice potrà solo diminuire la pena, non annullarla .
D.7: Ho un piccolo e-commerce e vorrei aprire una società a Dubai per pagare meno tasse. È lecito o rischio l’esterovestizione?
R.: Aprire una società negli Emirati non è di per sé illecito. Diventa un problema se la società di Dubai viene usata solo come “schermo” mentre tutta la tua attività rimane in Italia. Se vuoi farlo legalmente, dovresti davvero trasferire l’attività a Dubai: cioè avere lì una presenza sostanziale (un ufficio o magazzino, dipendenti o collaboratori locali, magari i server se fai e-commerce, gestire da lì le spedizioni), e tu stesso dovresti valutare di trasferirti o quantomeno nominare un manager in loco con poteri reali . Se invece apri la società a Dubai ma continui a operare dall’Italia (gestendo ordini e clienti dall’Italia, magari la merce parte dall’Italia), sei praticamente certo che l’Agenzia ti contesterà l’esterovestizione o almeno l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia . In quel caso pagheresti comunque le tasse qui, con interessi e sanzioni, vanificando il vantaggio. Dunque, è una scelta che ha senso solo se hai intenzione genuina di spostare una parte significativa del business fuori dall’Italia. Inoltre, considera che se resti residente fiscale in Italia e possiedi la società estera, entrano in gioco le regole CFC: se la società a Dubai ha profitti tassati quasi zero e non ha una struttura economica adeguata, potresti doverli dichiarare comunque in Italia (imputazione per trasparenza) . Per evitare l’applicazione CFC dovresti dimostrare che la società svolge realmente attività commerciale a Dubai (con uffici, personale, clienti reali e non fittizi). In pratica: è fattibile aprire società offshore, ma serve sostanza. Se l’idea è solo aprire la società estera e continuare tutto come prima in Italia, allora sì, rischi l’accertamento. Viceversa, se trasferisci anche te a Dubai e dal 2024 vivi stabilmente lì, allora potresti configurarlo come un effettivo trasferimento di residenza (occhio però che Dubai è in white list per le persone fisiche attualmente, avendo accordi di scambio info, ma la tassazione è zero quindi resta “borderline”; l’Italia potrebbe comunque monitorare attentamente). Insomma, fallo solo con un piano ben studiato e investendo nei costi necessari a creare sostanza all’estero. Spesso, per piccoli business online, il gioco non vale la candela rispetto a restare in Italia e magari ottimizzare con regimi agevolati interni (forfettario, patent box se sviluppi software, ecc.) .
D.8: Ho costituito un trust per i miei figli molti anni fa. Ora l’Agenzia delle Entrate mi chiede documenti su di esso. Devo preoccuparmi?
R.: Non necessariamente, ma preparati. Se il trust è irreversibile (il disponente non ha poteri) e fu istituito molti anni fa, magari nemmeno all’estero ma con trustee italiano (un trust interno), potrebbe trattarsi di un controllo di routine – ad esempio vogliono verificare se andava pagata qualche imposta di donazione all’epoca o se i redditi del trust sono dichiarati correttamente. Tu fornisci quanto richiesto (atto istitutivo, eventuali inventari di beni conferiti, bilanci se esistono, ecc.). Se invece è un trust estero opaco e magari avevi posizioni in Svizzera o in un paradiso, l’AdE potrebbe star cercando di capire se c’è materia imponibile (tipo redditi non tassati o omesso monitoraggio). In tal caso, fatti assistere da un fiscalista: rispondi entro il termine dato, in modo cooperativo ma senza confessare più del dovuto. Ad esempio, se chiedono “fornisci trustee, beneficiari e Stato estero del trust X”, tu rispondi puntualmente a quello. Non è detto che sfoci in un accertamento: a volte si accontentano di capire la situazione. Se però emergono criticità (es. trust alle Bahamas con te come disponente e beneficiario), aspettati che possano contestare interposizione. Preoccuparsi no, ma gioca d’anticipo: rivedi col consulente se quel trust è in regola (hai fatto il monitoraggio RW? I redditi del trust sono stati dichiarati, se imponibili? Se no, valuta un ravvedimento prima che accertino) . Meglio regolarizzare spontaneamente prima di un eventuale atto formale, perché poi le sanzioni non sono più riducibili col ravvedimento e i margini di manovra calano .
D.9: Ho scoperto di aver ereditato dal nonno un conto cifrato in Liechtenstein non dichiarato. Posso sanare senza incorrere in guai penali?
R.: Al 2025, non c’è una voluntary disclosure aperta (le VD del 2015 e 2017 permettevano di regolarizzare patrimoni esteri pagando sanzioni ridotte e con protezione penale). Però puoi comunque usare il ravvedimento operoso ordinario: presentare una dichiarazione integrativa per le annualità ancora emendabili (ultimi 5 anni per RW) indicando quei valori e pagando la sanzione ridotta (circa lo 0,5% per ogni anno se il ravvedimento è entro 2 anni, quindi ~1,5-2% dell’importo totale) . Questo sistema sana l’aspetto amministrativo del monitoraggio. Per i redditi generati dal conto (interessi, dividendi, ecc.), anche quelli andrebbero dichiarati integrativamente e vanno versate imposte + interessi + sanzioni ridotte (la sanzione per infedele 90% ridotta a 1/8 se entro 2 anni, quindi ~11%) . Sul fronte penale, se i redditi evasi annualmente superavano €50k di imposta è tecnicamente omessa dichiarazione – ma usando il ravvedimento prima di qualsiasi contestazione riduci molto il rischio: la giurisprudenza considera il ravvedimento un segno concreto di pentimento, e potresti rientrare nei casi di particolare tenuità del fatto (se imposta evasa < €100k e altre condizioni). Inoltre, se paghi tutto, per l’omessa dichiarazione la causa di non punibilità ex art. 13 si applica (di solito citata per infedele, ma anche per omessa vale pagando prima del dibattimento) . Ti consiglierei di procedere con un ravvedimento assistito da un professionista: c’è da ricostruire gli interessi maturati, presentare quadri RW tardivi e relative imposte. Attenzione: se l’Agenzia ti ha già messo nel mirino (es. hai ricevuto una lettera di compliance) e tu ti ravvedi dopo, potresti non evitare le sanzioni piene. Ma se davvero nessuno sapeva di quel conto (tranne te ora), agire spontaneamente è la via migliore. Non c’è garanzia al 100% in sede penale, ma onestamente per un’eredità del nonno e senza tue condotte fraudolente, è difficile che ti perseguano penalmente se regolarizzi e paghi tutto .
D.10: La mia società italiana ha ricevuto fatture da una società di Hong Kong per consulenze, che ora l’Agenzia contesta come false. Io però ho effettivamente ricevuto dei report via email da quel consulente. Cosa devo fare?
R.: Devi provare che quelle prestazioni ci sono state davvero e che tu ignoravi eventuali irregolarità del consulente. Per prima cosa, raccogli tutte le comunicazioni con la società di Hong Kong: email, i report consegnati, eventuali contratti o proposal, log di videoconferenze, qualunque output concreto. Dimostra che il servizio aveva un contenuto e ti è stato fornito (es. un’analisi di mercato, un progetto, ecc.). Se hai effettuato pagamenti tracciati (bonifico su un conto intestato alla società HK), mettili in evidenza – hai anche dichiarato quel pagamento al Fisco tramite il quadro degli acquisti esteri? Se sì, è un punto a favore. Purtroppo molte società di Hong Kong sono gusci usati per far uscire soldi. Se la GdF dice che è fittizia probabilmente avranno notato che l’azienda HK non ha dipendenti né struttura. La tua difesa sarà: “Io, committente, ho ricevuto la prestazione e l’ho pagata regolarmente; se il fornitore estero a sua volta l’ha subappaltata o non aveva struttura, io non potevo saperlo”. In base ai principi di buona fede, un imprenditore deve sì fare attenzione, ma non può spingersi a indagare oltre un certo limite . Sottolinea di aver agito in modo normale: la società era a HK, l’hai trovata tramite contatti, magari aveva un sito web (forniscine traccia), presentati i dettagli disponibili. Se avevi referenze su di loro, allegale. L’obiettivo è togliere l’idea che fosse un “cartiere” creato da te stesso. Certo, se poi risultasse che la società di HK era collegata a te (es. stesso gruppo) allora diventa difficile difendersi. Ma se era indipendente, punta tutto su questo. In parallelo, prepara un eventuale piano B: se proprio l’Agenzia dimostra che era finta (tipo scopre che i report erano copiati da internet, o che il conto di destinazione era riconducibile a te), valuta se ti conviene transare e pagare per chiudere (specie per evitare il penale). Fai verificare al tuo legale se l’importo è sopra soglia di reato (€100k): se sì, e le tue prove a favore sono deboli, considera seriamente il ravvedimento o il pagamento integrale (vedi D.6) per non incappare in denunce penali . In ogni caso, se fai ricorso, fallo molto dettagliato e documentato, citando magari anche giurisprudenza a supporto: Cass. 16279/2024, Cass. 5339/2020 e altre hanno ribadito che spetta al Fisco provare che il destinatario fosse consapevole della frode . Se loro non lo provano adeguatamente, potresti spuntarla, o quantomeno evitare sanzioni penali.
Conclusione
Le operazioni con l’estero – dalle più semplici strutture di risparmio fiscale alle più complesse architetture elusive – oggi sono oggetto di un controllo stringente. L’Italia si è dotata di norme e strumenti incisivi per contrastare l’erosione della base imponibile verso i paradisi fiscali: presunzioni legali a favore del Fisco, scambio di informazioni internazionale, estensione dei termini di accertamento, inasprimento di sanzioni . Dal canto suo la giurisprudenza, sia tributaria che penale, ha via via affinato principi che privilegiano la sostanza economica sulla forma giuridica, smascherando trust simulati, residenze fittizie e società schermo .
In questo contesto, la difesa del contribuente richiede un approccio altamente professionale e documentato. Abbiamo visto che è possibile difendersi con successo, a condizione di agire tempestivamente, conoscere a fondo la normativa e gli orientamenti dei giudici, e fornire elementi concreti a supporto della propria posizione . L’adozione di buone pratiche di compliance fiscale internazionale – ad esempio dichiarare spontaneamente gli asset esteri, dotare le entità estere di effettiva operatività, tenere traccia formale delle decisioni di gestione – è la migliore prevenzione e mette il contribuente in posizione di forza qualora sottoposto a verifica . Per i casi già in corso, l’ordinamento offre comunque strumenti di “rimedio” (ravvedimenti, definizioni, pagamento con effetti estintivi del reato) che, se ben utilizzati, possono attenuare drasticamente le conseguenze negative .
In conclusione, operare con l’estero non significa essere fuori legge, ma bisogna farlo con trasparenza e sostanza reale. Se un’operazione è concreta e giustificata economicamente, la si potrà difendere efficacemente anche di fronte ad accertamenti severi. Se invece si è spinto troppo oltre con manovre borderline o chiaramente elusive, è saggio riconoscerlo per tempo e rientrare nella legalità (ad esempio sanando le violazioni prima che scatti il penale, o trovando un accordo col Fisco per il pregresso) . Il contribuente-debitore deve essere pragmatico: l’obiettivo è tutelare il proprio patrimonio, la continuità aziendale e la libertà personale, scegliendo di volta in volta la strategia più efficace – talvolta significherà combattere strenuamente in giudizio, altre volte negoziare una soluzione .
Come recita un noto brocardo, “summum ius, summa iniuria”: cercare il massimo vantaggio fiscale spingendosi al limite della legalità può tradursi in un grave danno se poi interviene la legge. Meglio procedere con prudenza e consapevolezza, e quando necessario farsi assistere da esperti qualificati in diritto tributario internazionale. Questa guida ha fornito un quadro avanzato ma (si spera) chiaro delle problematiche e dei possibili rimedi: dalle fatture false ai trust opachi, dalle società esterovestite alle residenze fittizie, il messaggio chiave è che il contribuente – anche quando debitore contestato – ha strumenti per difendersi e far valere le proprie ragioni, purché si muova con cognizione di causa e tempestività .
Fonti normative e giurisprudenziali citate:
– D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), artt. 2, 44, 73, 167 (criteri di residenza, redditi di trust esteri, esterovestizione, CFC).
– D.L. 28 giugno 1990, n. 167 e succ. mod. (monitoraggio fiscale attività estere, Quadro RW).
– D.L. 1° luglio 2009, n. 78, art. 12 (presunzione investimenti paradisi fiscali = redditi evasi, raddoppio termini).
– L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis (divieto di abuso del diritto, disciplina elusione).
– D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2, 3, 4, 5, 8, 11, 13 (reati tributari: dichiarazione fraudolenta, infedele, omessa, emissione false fatture, sottrazione fraudolenta; estinzione reato tramite pagamento).
– Cassazione civile (Sez. Trib.): sent. n. 23150/2022 (esterovestizione di società cinesi: i criteri di residenza prescindono dalla finalità elusiva); sent. n. 25917/2024 (esterovestizione non è necessariamente abuso del diritto; va valutata secondo disciplina residenza); sent. n. 20002/2024 (esterovestizione società rumena – sede amministrazione ≠ luogo di direzione e coordinamento del gruppo); sent. n. 16279/2024 (fatture inesistenti: onere del Fisco provare concretamente l’inesistenza e la malafede del contribuente) ; sent. n. 5339/2020 e SS.UU. n. 21105/2017 (frodi carosello IVA: il Fisco deve provare la consapevolezza del destinatario, altrimenti il diritto a detrazione rimane salvo) ; sent. n. 9096/2025 (caso “King Trust”: trust estero discrezionale – principio dell’effettiva titolarità dei redditi, trust considerato interposto se disponente = beneficiario) .
– Cassazione penale: sent. n. 36047/2022 (trust autodichiarato post-debito configura reato di sottrazione fraudolenta ex art. 11 D.Lgs. 74/2000) ; sent. n. 11959/2021 (principio del ne bis in idem: confermata compatibilità doppio binario sanzionatorio tributario-penale se proporzionato e con finalità diverse) .
– Circolare Agenzia Entrate n. 28/E/2006 (presunzione esterovestizione ex art. 73 co.5-bis, onere della prova e finalità); Circolare AE n. 38/E/2013 (trust esteri, beneficiari discrezionali e obblighi RW); Risposte a interpello AE nn. 144 e 145 del 28/05/2025 (trust esteri, soggettività tributaria e interposizione).
– Sentenza Corte di Giustizia Trib. Reg. Lombardia 27 luglio 2023, n. 2439/2023 (società francese partecipata da italiana non esterovestita: presenza di business effettivo in loco).
– Direttiva (UE) 2016/1164 (ATAD) e D.Lgs. 142/2018 (recepimento italiano, disciplina CFC e disincentivo ai paradisi fiscali).
– Normativa antiriciclaggio e CRS (Common Reporting Standard) per lo scambio automatico di informazioni finanziarie.
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate cessioni fittizie verso Paesi a fiscalità privilegiata? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate cessioni fittizie verso Paesi a fiscalità privilegiata?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?
Le operazioni con Paesi black list o a fiscalità privilegiata sono sottoposte a controlli particolarmente stringenti. L’Agenzia delle Entrate può ritenere che le cessioni dichiarate siano simulate o inesistenti, utilizzate per trasferire redditi all’estero o per dedurre costi non reali, contestando così evasione ed elusione fiscale.
👉 Prima regola: dimostra la realtà delle operazioni commerciali, con documentazione completa e tracciabile.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Fatture emesse a società estere senza reale consegna di beni o servizi;
- Prezzi anomali rispetto a quelli di mercato;
- Utilizzo di società estere prive di struttura operativa;
- Operazioni circolari con ritorno di capitali in Italia;
- Mancanza di documentazione doganale o bancaria che confermi le transazioni.
📌 Conseguenze della contestazione
- Recupero delle imposte (IVA, IRES, IRAP) sulle operazioni fittizie;
- Indeducibilità dei costi derivanti dalle fatture contestate;
- Sanzioni dal 90% al 200% delle maggiori imposte accertate;
- Interessi di mora;
- Rischio di procedimenti penali per dichiarazioni fraudolente o false fatturazioni.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Contratti commerciali: esistono ordini e accordi reali con le controparti estere?
- Documentazione di trasporto o doganale: conferma l’effettiva consegna dei beni?
- Pagamenti tracciabili: i corrispettivi sono stati realmente versati?
- Attività della società estera: è operativa o solo di comodo?
- Motivazione dell’accertamento: il Fisco ha fornito prove concrete o solo presunzioni?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Contratti e ordini di acquisto/vendita;
- Documenti doganali e di trasporto (CMR, bolle, DDT);
- Estratti conto bancari con i pagamenti ricevuti;
- Bilanci e certificazioni della società estera;
- Relazioni tecniche e comunicazioni commerciali.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la sostanza economica delle operazioni con prove documentali;
- Contestare la presunzione di fittizietà se basata solo su elementi indiziari;
- Eccepire vizi procedurali: notifica irregolare, motivazione insufficiente, decadenza dei termini;
- Richiedere autotutela se la documentazione era già stata fornita;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per annullare o ridurre l’accertamento;
- Difesa penale mirata se viene ipotizzato reato di frode fiscale.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza le cessioni contestate e i rapporti con i Paesi a fiscalità privilegiata;
📌 Verifica la correttezza della ricostruzione dell’Agenzia delle Entrate;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, in sede penale;
🔁 Suggerisce strategie preventive per gestire rapporti con l’estero in modo trasparente e sicuro.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e operazioni con Paesi black list;
✔️ Specializzato in difesa di imprese contro contestazioni di cessioni fittizie ed evasione fiscale;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulle cessioni fittizie verso Paesi a fiscalità privilegiata non sempre sono fondate: spesso derivano da presunzioni e controlli documentali incompleti.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la realtà delle operazioni, evitare la riqualificazione come evasione e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti su cessioni estere inizia qui.