Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché alcune operazioni tra società collegate sono state considerate fatturazioni incrociate indebite? In questi casi, l’Ufficio presume che le fatture emesse e ricevute tra le società dello stesso gruppo siano state utilizzate per gonfiare i costi o abbattere imponibili, senza una reale operazione sottostante. La conseguenza è il recupero delle imposte, con applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: esistono margini difensivi per dimostrare la genuinità delle operazioni infragruppo.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta le fatturazioni incrociate
– Se le operazioni fatturate non hanno un effettivo contenuto economico o commerciale
– Se i servizi resi non sono documentati da contratti, relazioni o prove concrete
– Se le fatture sono considerate strumenti per trasferire utili o perdite tra società collegate
– Se i valori indicati non rispettano il principio di libera concorrenza (transfer pricing)
– Se emergono incongruenze tra i dati contabili e i flussi finanziari reali
Conseguenze della contestazione
– Indeducibilità dei costi ritenuti inesistenti o non inerenti
– Recupero dell’IVA detratta indebitamente
– Applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele o operazioni inesistenti
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Rischio di segnalazioni penali per emissione o utilizzo di fatture false nei casi più gravi
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’effettività delle prestazioni con contratti, documenti, report e corrispondenza
– Produrre prove della congruità economica delle operazioni infragruppo
– Contestare la riqualificazione come “fatture inesistenti” quando si tratta di rapporti reali e documentati
– Evidenziare vizi di motivazione o difetti procedurali nell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento della contestazione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i rapporti infragruppo e la documentazione fiscale e contrattuale disponibile
– Verificare la legittimità della contestazione rispetto alla normativa tributaria e societaria
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi dell’accertamento
– Difendere le società coinvolte davanti ai giudici tributari
– Tutelare il gruppo societario da conseguenze fiscali e penali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione delle sanzioni e degli interessi applicati
– Il riconoscimento della legittimità delle operazioni documentate
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto secondo la legge
⚠️ Attenzione: le contestazioni sulle fatturazioni incrociate sono considerate a rischio elevato dall’Agenzia delle Entrate. È fondamentale predisporre prove solide per dimostrare la realtà delle operazioni.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni sulle fatturazioni incrociate tra società collegate e come tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
Le fatturazioni incrociate tra società collegate rappresentano un fenomeno complesso e delicato nel diritto fiscale e commerciale italiano. Si tratta, in sostanza, di operazioni di fatturazione reciproca tra imprese legate da rapporti partecipativi o da un medesimo controllo (consociate, controllate, consorzi, ecc.), spesso prive di una reale giustificazione economica. Tali fatture “incrociate” possono assumere diverse forme: ad esempio, fatture per operazioni inesistenti (mai avvenute in concreto), sovrafatturazioni (importi gonfiati rispetto al valore reale) o fatture soggettivamente false (che documentano operazioni effettive ma intercorse con soggetti diversi da quelli indicati). Lo scopo di questi schemi può essere quello di generare costi fittizi per ridurre il reddito tassabile, creare crediti IVA indebiti, spostare utili occulti all’interno di un gruppo o persino distrarre attivi da una società in difficoltà .
Dal punto di vista del Fisco, le fatturazioni incrociate tra imprese collegate sono un campanello d’allarme: l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza le inquadrano spesso come potenziali operazioni elusive o fraudolente, attuando controlli incrociati su contabilità e movimentazioni bancarie. Quando vengono riscontrate anomalie evidenti – ad esempio mancanza di documenti di trasporto, fornitori “cartiere” privi di struttura, pagamenti di importo sproporzionato o circolari – l’amministrazione finanziaria tende a presumere una simulazione dell’operazione . In pratica, il rischio è che ogni operazione sospetta tra società collegate venga contestata come falsa sino a prova contraria. Se queste contestazioni risultano fondate, le conseguenze per il contribuente sono gravissime: non solo dal lato fiscale (recupero di imposte, sanzioni amministrative, indeducibilità dei costi e indetraibilità dell’IVA), ma anche sul piano penale (configurazione di reati tributari puniti con la reclusione, come la dichiarazione fraudolenta e l’emissione di fatture false) . Inoltre, si possono innescare effetti civili e patrimoniali: sequestri preventivi dei beni, azioni di recupero da parte di creditori e possibili ricadute in termini di responsabilità patrimoniale di altre società del gruppo o dei loro amministratori.
Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – offre un’analisi approfondita della normativa italiana applicabile alle fatturazioni incrociate tra società collegate, con un taglio avanzato ma un linguaggio il più possibile chiaro e divulgativo. Verranno illustrati i vari profili giuridici (tributario, penale, civile) rilevanti in queste vicende, fornendo anche strategie difensive efficaci dal punto di vista del debitore (che può essere l’imprenditore coinvolto, l’amministratore accusato o la società sotto verifica). Per rendere la trattazione completa e trasversale, faremo riferimento a fonti autorevoli – incluse le più recenti sentenze di legittimità – e agli ultimi interventi normativi (come la riforma del 2024 del sistema sanzionatorio tributario). Saranno inoltre presenti tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione Domande & Risposte per chiarire i dubbi più comuni. L’obiettivo finale è fornire a professionisti, imprenditori e privati gli strumenti necessari per riconoscere queste situazioni e difendersi efficacemente di fronte a contestazioni di fatture incrociate false o sospette.
Società collegate e fatturazioni “incrociate”: quadro generale
Prima di entrare nel dettaglio delle contestazioni, è utile definire cosa intendiamo per società collegate e perché possano generarsi fatture incrociate fra di esse. Nel lessico comune, rientrano in questa categoria tutte le imprese con legami di gruppo o accordi contrattuali stretti: ad esempio società controllate da un medesimo soggetto, consociate appartenenti a un gruppo multinazionale, società consortili costituite da più aziende, joint venture, cooperative collegate, ecc. Dal punto di vista legale, ciascuna società ha una propria personalità giuridica e autonomia patrimoniale, ma i rapporti infragruppo sono frequenti e spesso fisiologici (si pensi alle prestazioni di servizi intragruppo, al cash pooling, alla ripartizione di costi comuni tramite ribaltamenti interni, ecc.). La legge italiana non vieta le transazioni economiche tra società collegate – anzi, in molti casi esse rispondono a logiche economiche lecite, come l’ottimizzazione di funzioni centralizzate (es. una capogruppo che addebita alle controllate servizi di amministrazione) . Tuttavia, proprio questa contiguità di interessi e la possibile mancanza di una reale contrapposizione negoziale rendono tali transazioni sospette agli occhi del Fisco quando assumono connotati anomali.
Le fatturazioni incrociate indicano situazioni in cui due o più società legate tra loro si scambiano reciprocamente fatture, spesso in modo circolare o ripetuto, senza un’effettiva logica di mercato. Un esempio emblematico è quello delle operazioni a “saldo zero”: merci o servizi che rimbalzano tra varie società per tornare infine al punto di partenza, con valori identici in entrata e in uscita, così da annullarsi a vicenda . In tali schemi – ad esempio emersi nel settore della compravendita di energia elettrica – l’unico scopo è creare costi fittizi deducibili e crediti IVA, senza che vi sia alcun reale trasferimento di beni né alcun profitto effettivo . Altre forme di fatturazioni incrociate includono i giri di fatture tra società diverse per giustificare spostamenti di denaro: tipicamente una società “A” emette fatture a “B” (generando un costo per B e un ricavo per A), mentre contestualmente “B” fattura qualcos’altro ad “A”, in un gioco delle parti volto a riposizionare liquidità o utili nascosti. Spesso in questi casi almeno una delle due entità è una società cartiera (cioè un soggetto fittizio, privo di attività reale, usato come veicolo di frode) e l’operazione serve a creare fondi neri o evadere l’IVA.
Un contesto particolare è quello dei consorzi tra imprese e delle cooperative consortili, dove per natura vi sono continui scambi di fatture tra consorzio e consorziate. I consorzi, per finalità mutualistica, tendono a operare in pareggio redistribuendo costi e ricavi alle imprese aderenti. Questa caratteristica può generare incertezze sul corretto trattamento fiscale delle operazioni interne, i cosiddetti ribaltamenti di costi e ricavi . Ad esempio, è normale che in un consorzio stabile di appalti pubblici il consorzio fatturi al cliente l’intero corrispettivo e poi retroceda alle consorziate la loro parte di lavoro eseguito, trattenendo solo una quota per spese generali. Tale prassi è lecita se rispettosa dello scopo consortile; tuttavia, può essere travisata dal Fisco come occultamento di utili o creazione di costi artificiosi. La Cassazione ha chiarito, a tal proposito, che il perseguimento dello scopo consortile non esclude la possibilità di un margine di profitto proprio del consorzio, se previsto dallo statuto . Recentemente, è stata riconosciuta la legittimità del ribaltamento parziale dei ricavi: ad esempio, Cass. 17388/2024 ha affermato che se un consorzio senza personalità giuridica trattiene una quota per spese consortili, ciò è lecito e non costituisce occultamento di ricavi, riconoscendo la natura strumentale del consorzio rispetto alle imprese consorziate . Questa evoluzione giurisprudenziale dimostra come non ogni anomalia contabile tra società collegate sia indice di frode: occorre valutare la sostanza economica delle operazioni.
In sintesi, il confine tra pianificazione fiscale infragruppo (lecita o al più elusiva) e frode fiscale mediante false fatturazioni può essere molto sottile. Il contesto di società collegate richiede particolare attenzione: ciò che avviene “in famiglia” – cioè dentro un gruppo di imprese – è più difficile da scrutare per l’esterno e può prestarsi ad abusi. Per questo la legge predispone una serie di norme speciali, sia tributarie che penali, per reprimere le false fatturazioni, e pone oneri probatori specifici a carico dell’Amministrazione finanziaria e dei contribuenti coinvolti. Analizzeremo ora queste disposizioni normative in dettaglio, prima di passare agli schemi tipici di frode e alle strategie difensive disponibili.
Normativa italiana sulle false fatturazioni: profili tributari, penali e civili
Le operazioni di emissione o utilizzo di fatture false violano contemporaneamente più norme: generano illeciti tributari (con conseguenze in sede amministrativa e fiscale) e possono integrare reati penali tributari. Inoltre, in alcuni casi comportano effetti sul piano civilistico (ad esempio nella responsabilità per debiti aziendali all’interno di trasferimenti infragruppo). In questa sezione esamineremo il quadro normativo di riferimento nei suoi vari aspetti, per poi valutare come tali norme vengano applicate nelle contestazioni di fatturazioni incrociate.
Profili fiscali: divieto di deduzione dei costi da reato e sanzioni tributarie
Dal punto di vista tributario, il principio cardine è che i costi documentati da fatture false non sono deducibili dal reddito d’impresa e l’IVA esposta in tali fatture non è detraibile. In altri termini, se un’operazione viene qualificata come inesistente dall’Amministrazione finanziaria, le relative componenti negative di reddito vengono eliminate a tassazione e l’IVA sugli acquisti viene ripresa. Questo deriva da un duplice ordine di norme:
- Divieto di deducibilità dei costi da reato: previsto originariamente dall’art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993, che esclude dai costi deducibili quelli relativi ad attività costituenti reato. Fino al 2012 tale divieto veniva interpretato rigidamente: ogni fattura fittizia comportava l’indeducibilità del costo, anche se l’operazione sottostante si era in realtà svolta (ma con un soggetto diverso). Dal 2012, però, la normativa è cambiata in senso più favorevole al contribuente. La Cassazione ha definito “epocale” questa svolta: oggi, grazie alla modifica introdotta dal D.L. 16/2012, «i costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili se effettivamente sostenuti» . In pratica, se la fattura è falsa solo perché emessa da un soggetto diverso dal reale prestatore (frode soggettiva), ma la prestazione c’è stata davvero ed è inerente all’attività d’impresa, il costo può rimanere deducibile. Ciò ovviamente non vale se l’operazione è oggettivamente inesistente (mai avvenuta): in tal caso il costo è fittizio al 100% e va sempre disconosciuto.
- Indetraibilità dell’IVA su operazioni inesistenti: in materia di IVA, il principio generale (derivato sia dal diritto interno che da quello UE) è che non si può detrarre l’IVA su fatture relative a operazioni inesistenti, neppure se solo soggettivamente tali . La logica è che la falsità nel documento (ad es. indicazione di un soggetto diverso) rompe la catena di legittima rivalsa-detrazione, poiché l’Erario subisce un danno (il fornitore fittizio spesso non versa l’IVA). La Cassazione lo ha ribadito: “in tema d’IVA, è precluso il diritto alla detrazione nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo, poiché l’indicazione mendace di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo all’operazione effettiva” . Tuttavia, su impulso della Corte di Giustizia UE, la giurisprudenza domestica ha temperato questo rigoroso divieto introducendo un importante correttivo: occorre verificare la buona fede del cessionario (cioè dell’azienda acquirente). In una serie di pronunce recenti (Cass. 24471/2022, Cass. 35091/2023), i giudici tributari hanno affermato che per negare la detrazione IVA in caso di frode soggettiva l’Amministrazione deve provare anche la consapevolezza del destinatario della frode . In altre parole, se l’azienda acquirente ignorava in buona fede che il suo fornitore fosse una cartiera, non può esserle negato il diritto alla detrazione dell’IVA senza provare almeno indizi gravi di tale sua collusione . Questo orientamento – la cosiddetta teoria della “doppia prova” – tutela il contribuente incolpevole: se dimostra di aver agito con diligenza (es. verifiche su fornitore, prezzi di mercato pagati, pagamenti tracciati), potrà sostenere l’illegittimità dell’avviso di accertamento che recupera l’IVA, in mancanza di prova di una sua scientia fraudis .
Oltre alla rettifica delle imposte (imposte sui redditi e IVA) connessa alle fatture contestate, l’Agenzia delle Entrate irroga tipicamente una serie di sanzioni amministrative tributarie. Le principali, in caso di false fatturazioni, sono le seguenti:
- Sanzione per dichiarazione infedele (art. 1 D.Lgs. 471/1997): va dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta o del credito indebitamente esposto . Viene applicata quando il contribuente ha utilizzato fatture false nella dichiarazione dei redditi (deducendo costi fittizi) o IVA, alterando il risultato fiscale. Spesso l’Ufficio contesta questa sanzione “generale” più gravosa in alternativa a quelle specifiche, per colpire con un’unica percentuale tutta la maggiore imposta evasa.
- Sanzione del 90% dell’IVA indebitamente detratta (art. 6, co.6, D.Lgs. 471/1997): si applica specificamente all’IVA detratta su operazioni inesistenti . È tipica nei casi di frode soggettiva, quando il fornitore è fittizio e non ha versato l’IVA: l’acquirente che ha detratto quell’IVA si vede contestare il 90% dell’imposta a titolo di sanzione.
- Sanzione del 25%–50% dei costi indeducibili (art. 14, co.4-bis, L. 537/93): è una sanzione introdotta proprio per colpire la violazione del divieto di dedurre costi da reato . Se in accertamento viene disconosciuto un costo perché riferito a una fattura falsa, oltre alle sanzioni sulle imposte evase si aggiunge questa ulteriore penalità proporzionale sull’ammontare del costo indebito.
In teoria, queste sanzioni potrebbero sommarsi tra loro. In pratica, vige il principio del ne bis in idem in materia tributaria: per lo stesso fatto non si applicano duplicazioni di sanzioni. L’Ufficio quindi tende a scegliere la sanzione più grave e ad evitare cumuli eccessivi . Ad esempio, se viene contestata l’intera maggiore imposta con la sanzione al 90-180%, non si aggiungerà anche un altro 90% per l’IVA, potendo al più aggiungersi la sanzione del 25-50% sul costo (che colpisce un aspetto diverso). In ogni caso, il contribuente potrà far valere il principio del favor rei e il divieto di duplicazione nel contestare eventualmente sanzioni ridondanti.
Va ricordato che, prima che una violazione diventi definitiva, il contribuente può utilizzare strumenti deflativi come il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/1997) per sanare spontaneamente eventuali irregolarità. Il ravvedimento consente di pagare l’imposta dovuta con interessi e una sanzione ridotta (tanto più ridotta quanto più tempestivo è il ravvedimento) evitando le sanzioni piene. Nel caso delle false fatturazioni, è raro che l’azienda ricorra a ravvedimento – trattandosi di comportamenti fraudolenti spesso scoperti tramite verifiche – ma in alcune situazioni di errore non doloso o di coinvolgimento inconsapevole, regolarizzare prima di un controllo può evitare il peggio . Ad esempio, se una società si accorge che il proprio fornitore era una cartiera e di aver in buona fede detratto fatture fittizie, potrà pensare di autodenunciarsi versando le imposte, per poi far valere questa condotta come esimente o attenuante.
Infine, in sede di accertamento, il contribuente/dibitore ha diritto a tutte le garanzie procedimentali previste dallo Statuto del Contribuente (L. 212/2000). Ciò include, tra l’altro, il diritto al contraddittorio anticipato (soprattutto per accertamenti “a tavolino” in materia IVA), il diritto a una motivazione chiara e completa dell’atto impositivo e all’accesso agli atti istruttori. Ad esempio, la Corte di Giustizia UE e le Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 24823/2015) hanno stabilito che, in materia di IVA, se l’accertamento è emesso senza verifica in loco è nullo se l’ufficio non ha prima invitato il contribuente a fornire spiegazioni (violazione del contraddittorio) . Inoltre, se l’avviso di accertamento si fonda su un Processo Verbale di Constatazione (PVC) della GdF, tale PVC deve essere allegato o quantomeno conosciuto dal contribuente, pena violazione dell’art. 7 L. 212/2000 (difetto di motivazione) . Questi vizi formali possono costituire ottime armi difensive, indipendentemente dal merito. Pur se raramente l’incertezza normativa può essere invocata nei casi di false fatture (trattandosi di divieti chiari), qualche margine esiste su aspetti peculiari – ad esempio aliquote IVA applicabili a talune ri-fatturazioni infragruppo o criteri di inerenza di costi condivisi – in cui una buona fede interpretativa del contribuente potrebbe essere riconosciuta (art. 6, co.2, L. 212/2000) . In sintesi, il diritto tributario fornisce già molti appigli per difendersi sul piano amministrativo-fiscale, come vedremo dettagliatamente più avanti.
Profili penali: reati di dichiarazione fraudolenta e false fatturazioni (D.Lgs. 74/2000)
Parallelamente alle conseguenze fiscali, l’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti configurano specifici reati tributari previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000 n.74 (come modificato da vari interventi, da ultimo il D.L. 124/2019 e il D.Lgs. 75/2020 in recepimento delle direttive UE). Queste fattispecie penali mirano a colpire le forme più insidiose di evasione fiscale, quelle attuate mediante documentazione contabile fraudolenta che ostacola l’attività di accertamento. In particolare, le due figure di reato chiave nelle fatturazioni false incrociate sono:
- Art. 2 D.Lgs. 74/2000 – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti: è il reato commesso da chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, indica elementi passivi fittizi in una dichiarazione fiscale, avvalendosi di fatture false. In altre parole, riguarda il titolare/utilizzatore delle fatture inesistenti (es. la società che contabilizza fatture di acquisto false per abbattere l’utile imponibile o aumentare il credito IVA). La condotta si perfeziona al momento della presentazione della dichiarazione annuale contenente i dati falsi. È importante notare che il reato sussiste indipendentemente dal fatto che l’evasione si sia poi effettivamente consumata: la Cassazione ha chiarito che non è necessario che l’Erario subisca effettivo danno (e.g. pagamento di minor imposta), basta l’inganno insito nella dichiarazione fraudolenta presentata con dolo di evasione . In pratica, anche se il trucco viene scoperto e l’IVA negata in sede amministrativa, il solo aver presentato la dichiarazione infedele con fatture fittizie integra il reato. Quanto alle soglie di punibilità, l’art. 2 richiede che l’imposta evasa superi 100.000 € annui oppure che l’ammontare degli elementi fittizi superi 1.000.000 € (soglie abbassate con le riforme recenti). La pena prevista è la reclusione da 4 a 8 anni nei casi ordinari (dopo l’inasprimento del 2019), con diminuzione fino a un terzo se l’imposta evasa < 100.000 € . Va evidenziato che anche le operazioni soggettivamente inesistenti rientrano nel reato: ad esempio, se una società utilizza fatture emesse da una sua collegata per operazioni in realtà svolte da altra entità, ciò configura comunque il delitto di dichiarazione fraudolenta .
- Art. 8 D.Lgs. 74/2000 – Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti: è il reato “speculare” commesso da chi emette o rilascia documenti falsi (fatture) al fine di consentire a terzi l’evasione. Tipicamente riguarda la società cartiera o comunque il soggetto che “vende” fatture false ai beneficiari. Nel contesto di società collegate, può ricadere, ad esempio, sull’amministratore della società consortile che fattura costi fittizi alle consorziate, oppure sulla controllata che emette fatture a favore della capogruppo per operazioni mai avvenute. La soglia di punibilità è analoga (importo totale delle fatture false > 100.000 € annui, salvo modifiche), e la pena base è anch’essa la reclusione da 4 a 8 anni, riducibile fino a un terzo se l’ammontare non supera 100.000 € . La Cassazione ha precisato che il reato di emissione sussiste anche se non si riesce a individuare il reale prestatore sottostante o se poi l’evasione del cliente non si realizza: ciò che conta è aver creato documenti falsi con lo scopo di favorire l’altrui evasione . Dunque è punibile anche la “cartiera pura”, i cui amministratori emettono fatture fittizie a fronte di nessuna attività reale, a prescindere dall’utilizzo effettivo che il destinatario ne fa.
Oltre a questi due reati principali, possono rilevare ulteriori fattispecie penali connesse: ad esempio, il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 D.Lgs. 74/2000) se l’imprenditore nasconde le scritture per impedire la ricostruzione del volume d’affari reale; oppure reati non strettamente tributari come la bancarotta fraudolenta documentale (artt. 216-217 L.F.) se l’azienda poi fallisce e le false fatture hanno alterato le scritture contabili. In ipotesi di frodi carosello molto articolate, si configurano talvolta anche associazioni per delinquere finalizzate all’evasione IVA (art. 416 c.p. combinato con D.Lgs. 74/2000). Un reato introdotto di recente è l’autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.): l’imprenditore che, dopo aver evaso con false fatture, reimpiega i proventi in attività economiche può risponderne, come evidenziato da Cass. pen. sez. II n.9485/2025 . Va segnalato inoltre che, dal 2019, i reati di cui agli artt. 2 e 8 D.Lgs. 74/2000 fanno parte del catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa delle società (D.Lgs. 231/2001) . Ciò significa che, ad esempio, se un manager di una società emette fatture false nell’interesse o a vantaggio della stessa, anche la società può essere sanzionata con pesanti sanzioni pecuniarie e misure interdittive (come il divieto di contrattare con la P.A. ). In un’ottica difensiva, un’organizzazione che adotti efficaci modelli di controllo ex D.Lgs. 231 potrà evitare questa responsabilità, ma è un tema specialistico che esula dalla presente trattazione.
Un aspetto centrale nei reati di fatturazione falsa è l’elemento soggettivo: si richiede il dolo specifico di evasione, cioè la volontà di evadere le imposte. La difesa talvolta cerca di escludere questo elemento: ad esempio sostenendo che l’imprenditore credeva nella legittimità fiscale dell’operazione infragruppo e non aveva intenzione di frodare il Fisco. Qualora tale tesi sia credibile (assenza di arricchimento personale, consulenze fiscali fuorvianti, ruolo marginale), potrebbe mancare il dolo specifico e degradare il fatto a semplice violazione amministrativa . Nei fatti, però, invocare “non sapevo che fosse evasione” è difficile, a meno di provare un errore inevitabile o un ruolo di mera figura di paglia.
Per completezza, segnaliamo le pene accessorie previste in caso di condanna per i reati sopra indicati: interdizione dagli uffici direttivi delle imprese, incapacità di contrattare con la P.A., interdizione da professioni o arte, ecc. (art.12 D.Lgs. 74/2000). Tali sanzioni accessorie hanno durata fissa (da 1 a 3 anni) ma possono essere evitate se il condannato beneficia di particolari attenuanti. Ad esempio, la circostanza attenuante del pagamento del debito tributario (art. 13-bis D.Lgs. 74/2000, introdotta nel 2019) consente, a chi paga integralmente le imposte evase prima del giudizio, una riduzione di pena fino alla metà e la non applicazione delle pene accessorie . Ciò incoraggia il ravvedimento operoso postumo: come vedremo, pagare il dovuto prima o durante il processo penale può risultare determinante per ottenere condanne miti o perfino la non punibilità.
Profili civilistici: sequestri, responsabilità patrimoniale e art. 2560 c.c.
Le contestazioni di false fatturazioni tra società collegate hanno anche implicazioni civilistiche e patrimoniali rilevanti. In primis, quando vi è un procedimento penale in corso per reati tributari, è prassi che la Procura richieda ed ottenga dal GIP un sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni (ex art. 321 c.p.p.), fino a concorrenza del profitto del reato contestato. Nel caso della dichiarazione fraudolenta o dell’emissione di fatture false, il “profitto” coincide di solito con l’imposta evasa (IVA detratta o non versata) o con il vantaggio economico ottenuto. Ciò significa che l’autorità giudiziaria può congelare conti correnti, immobili o altri asset della società e, in solido, dei suoi amministratori o di eventuali beneficiari, per assicurare le somme. Ad esempio, in uno schema consorzio-cooperative che evadeva l’IVA, la Cassazione ha confermato il sequestro per equivalente dei beni della società utilizzatrice delle fatture e dei responsabili, pari all’IVA evasa, in vista di una futura confisca . Dal punto di vista del debitore, questa misura cautelare è dirompente: blocca la liquidità e può paralizzare l’operatività aziendale. È però possibile difendersi, presentando istanza di riesame al tribunale (o appello al Riesame) eccependo ad esempio che l’importo sequestrato eccede il profitto effettivo, oppure che manca il fumus commissi delicti (ad es. la contestazione penale è infondata). In alcuni casi, se il contribuente versa volontariamente parte del dovuto, si può chiedere la revoca o attenuazione del sequestro dimostrando l’intervenuto pagamento parziale: i giudici potrebbero acconsentire di liberare beni in misura proporzionata alla somma versata. La strategia migliore, comunque, è prevenire il sequestro pagando il più possibile il debito tributario o offrendo garanzie reali, così da convincere il PM e il GIP che non vi è necessità di congelare ulteriori beni.
Un secondo profilo attiene alla responsabilità patrimoniale tra società collegate. In linea di principio, ogni società risponde esclusivamente dei propri debiti con il proprio patrimonio (art. 2740 c.c.), e la personalità giuridica separata protegge le consociate o controllanti dal contagio dei debiti fiscali altrui. Tuttavia, ci sono situazioni in cui il velo societario viene superato o affiancato da norme di garanzia. Un caso classico è la cessione d’azienda tra società collegate: l’art. 2560 c.c. prevede che, nel trasferimento di un’azienda, l’acquirente risponda anche dei debiti dell’azienda ceduta se risultanti dai libri contabili obbligatori (salvo patto liberatorio con i creditori) . Questa norma impedisce che, attraverso un trasferimento d’azienda infragruppo, si possano lasciare i debiti (fiscali o verso fornitori) in capo alla vecchia società destinata magari al fallimento, trasferendo intanto l’attivo “pulito” alla nuova società. In caso di contestazioni di fatture incrociate, spesso lo schema sottostante è proprio quello di un trasferimento occulto di azienda: ad esempio la società A, oberata da debiti tributari, sposta i propri asset o il proprio business nella collegata B emettendo fatture di vendita di beni o servizi a valori sottostimati, allo scopo di svuotare A e continuare l’attività in B senza fardelli. Ebbene, se l’operazione viene qualificata come cessione di azienda o di un ramo d’azienda, il Fisco (o gli altri creditori) potranno invocare l’art. 2560 c.c. per chiamare B a rispondere in solido dei debiti fiscali di A. Va sottolineato che la norma richiede il rigoroso requisito formale dell’iscrizione a libro del debito perché sorga la responsabilità del cessionario . La giurisprudenza più recente ha adottato un’interpretazione restrittiva: Cass. 14020/2025 ha affermato che la responsabilità ex art. 2560, co.2, è una norma eccezionale e opera solo per i debiti annotati in contabilità, a nulla rilevando che l’acquirente ne fosse comunque a conoscenza . Ciò significa che, se un debito (ad esempio tributario) non era registrato nei libri di A, la società B acquirente non ne risponde ex lege, nemmeno se l’operazione di cessione era in frode ai creditori. Questa impostazione, criticata da taluni, tutela l’affidamento del cessionario sulle risultanze contabili, ma mette in guardia i creditori: non basta provare la mala fede, serve anche l’assenza di scritture regolari.
In pratica, dunque, per far valere la responsabilità solidale del cessionario, l’Amministrazione dovrà dimostrare che i debiti d’imposta risultavano dalle scritture di A (libro giornale, registri IVA, ecc.) prima della cessione, e che B ha acquisito un compendio aziendale e non meri beni isolati. Dal lato difensivo, la società collegata subentrata (B) potrà cercare di opporsi sostenendo che non si è trattato di una cessione d’azienda, ma di singole operazioni commerciali legittime, e che comunque i debiti non erano iscritti nelle scritture (onere della prova a carico dei creditori) . Inoltre, se la cessione è avvenuta a seguito di procedura concorsuale (es. concordato o fallimento), l’art. 2560 potrebbe non applicarsi, come chiarito di recente dalla Cassazione .
Un altro scenario: se una società consortile o una consociata viene utilizzata per emettere fatture false e poi lasciata fallire, i soci o le altre società del gruppo non ne rispondono automaticamente dei debiti tributari. Ad esempio, in un consorzio costituito come S.r.l., vale la regola generale: i consorziati non sono debitori verso Erario per le obbligazioni del consorzio, salvo abbiano prestato garanzie personali . Tuttavia, le autorità possono tentare altre strade: l’Agenzia delle Entrate potrebbe effettuare un accertamento per interposto soggetto, imputando i redditi evasi direttamente alle società che hanno beneficiato dell’evasione (in sostanza, sostenendo che il consorzio era una mera fictio e che il vero soggetto d’imposta erano le consorziate) . Inoltre, la legge prevede forme di solidarietà nelle sanzioni per chi ha concorso nella violazione: quindi amministratori o coobbligati potrebbero essere chiamati al pagamento delle sanzioni tributarie in solido . Anche sul piano civilistico/risarcitorio, se una società viene svuotata tramite false fatture e fallisce, i creditori (incluso il Fisco, magari insoddisfatto) possono agire contro gli amministratori o i complici per responsabilità aquiliana da fatto illecito (ex art. 2043 c.c.), chiedendo il risarcimento del danno causato dalla frode . Nel complesso, quindi, far “sparire” la società utilizzata per la frode non mette al riparo i restanti soggetti del gruppo: il rischio economico e reputazionale resta elevato per chi abbia tratto vantaggio dall’operazione illecita . Nel caso di consorzi negli appalti pubblici, va menzionato anche che spesso esistono clausole di responsabilità solidale verso il committente per gli obblighi fiscali e contributivi: ad esempio, le consorziate potrebbero dover versare in solido l’IVA dovuta dal consorzio appaltatore se ciò era previsto contrattualmente .
Riassumendo, le società collegate non rispondono in automatico delle obbligazioni altrui, ma schemi fraudolenti interni al gruppo possono comportare corresponsabilità indirette: attraverso norme come l’art. 2560 c.c., attraverso la chiamata in causa di coobbligati solidali nelle sanzioni, o tramite azioni revocatorie e risarcitorie. Dal punto di vista difensivo, conoscere questi profili è importante per tutelare il patrimonio: ad esempio, se si subisce un’azione revocatoria fallimentare che mira ad annullare pagamenti infragruppo sospetti, si potrà difendere dimostrando che quei pagamenti erano a valore di mercato e non pregiudizievoli per i creditori. Oppure, se l’Agenzia cerca di aggredire la società collegata per i debiti di un’altra, si dovrà verificare se i requisiti di legge (cessione d’azienda, debiti scritturati, ecc.) siano effettivamente presenti e contestare in caso contrario.
Dopo questo excursus normativo, passiamo a esaminare come si manifestano concretamente le fatturazioni incrociate fraudolente nelle diverse casistiche pratiche, per poi affrontare le strategie di difesa.
Schemi tipici di frode con fatture incrociate tra imprese collegate
Chiarito il quadro normativo, vediamo ora alcuni schemi ricorrenti mediante i quali le frodi tramite false fatturazioni tra società collegate possono attuarsi. La casistica riportata è frutto di vicende realmente emerse in giurisprudenza negli ultimi anni, e serve a illustrare le modalità operative più frequenti dei comportamenti contestati.
1. Fatture “a catena” circolari in reti di società (operazioni a saldo zero)
Un primo scenario è quello già accennato delle transazioni circolari a saldo zero all’interno di un gruppo di imprese. In questo schema, più società collegate si scambiano consecutivamente beni o servizi che alla fine tornano al punto di partenza, senza alcun vero scambio con terzi indipendenti. Ciascuna transazione avviene allo stesso importo della precedente, così che entrate e uscite si compensano perfettamente. Ad esempio, nel caso delle compravendite intragruppo di energia elettrica (sentenza Cass. 22697/2025), la società A vende energia a B, B la rivende a C, e così via, fino a che l’energia viene rivenduta ad A: quantità e corrispettivi sono identici in ogni passaggio, e non vi è alcuna effettiva consegna fisica di energia . Il risultato è un giro di fatture che genera per ciascuna società costi deducibili e ricavi tassabili uguali, quindi nessun utile netto, ma nel frattempo può aver creato crediti IVA fittizi (se, ad esempio, alcune società omettono di versare l’IVA incassata mentre le altre la portano in detrazione) . Questi schemi, talvolta chiamati caroselli domestici, non hanno alcuna logica economica se non l’evasione: lo ha sottolineato la Cassazione evidenziando l’assenza totale di profitto o ragione commerciale in operazioni sempre allo stesso valore . Nel caso citato, la Suprema Corte ha condannato il contribuente e cassato la precedente assoluzione dei giudici di merito, richiamandoli ad esaminare tutti gli indizi di fittizietà (natura circolare, mancanza di movimenti fisici, mancanza di utilità economica) che la CTR aveva trascurato .
2. Sovrafatturazione interna e utili occulti trasferiti
Un altro schema comune vede due società collegate che simulano prestazioni di servizi infragruppo a prezzi abnormi al fine di spostare utili da una all’altra. Ad esempio, la società Alpha (in utile) riceve fatture molto elevate dalla collegata Beta per consulenze o servizi generici; Beta magari chiude in perdita fiscale (o ha perdite pregresse da usare) e quindi quei ricavi extra non comportano tasse, mentre Alpha deduce un costo esagerato che le abbatte il reddito. In realtà Beta non ha fornito un reale servizio corrispondente a quel prezzo: spesso è priva di personale o competenze, e fa solo da scatola di compensazione. Queste operazioni sono soggettivamente inesistenti (il servizio, se prestato, è reso magari da altri o vale molto meno) e gonfiate. Il Fisco le contesta come fatture false con duplice scopo: evasione d’imposta (trasferendo base imponibile da una società tassata a una che non paga) e creazione di provviste occulte (Beta poi retrocede in nero parte dei fondi ai soci di Alpha, ipotesi non rara). Si pensi al classico caso di fatture per “consulenze” o “royalties” intragruppo di importo sproporzionato: l’Agenzia delle Entrate, tramite analisi dei bilanci e dei contratti, può rilevare che non c’è traccia di una reale attività consulenziale di quel livello, né giustificazioni oggettive del prezzo fuori mercato. La contestazione sarà duplice: sul piano fiscale, indeducibilità del costo eccedente il valore normale (invocando l’abuso del diritto, art. 10-bis L. 212/2000, se non proprio la frode); sul piano penale, se c’è dolo di evasione, configurazione del reato di dichiarazione fraudolenta per chi ha usato la fattura gonfiata. La linea difensiva, in questi casi, tende a sostenere che la prestazione c’è stata ed era solo di difficile valutazione economica, cercando di derubricare il tutto a una transfer pricing sbagliata (elusione) anziché a una fatturazione falsa (evasione fraudolenta). Va però detto che, se il delta di prezzo è macroscopico e soprattutto se c’è prova di retrocessione di denaro, difficilmente il giudice accetterà la tesi dell’errore valutativo: più probabile qualifichi la differenza come operazione inesistente parziale (fattura falsa per la parte eccedente il valore reale).
3. Utilizzo di società cartiere nel gruppo (cooperative fittizie, prestanome)
Uno schema assai frequente in Italia è la creazione o l’uso di società “cartiere” all’interno di un gruppo, allo scopo di emettere fatture false per operazioni mai avvenute e consentire ad altre società del gruppo di evadere l’IVA e i contributi. Un caso paradigmatico, documentato da numerose indagini, riguarda l’utilizzo di false cooperative di lavoro nell’ambito di consorzi o gruppi societari per abbattere il costo del lavoro e l’IVA dovuta. L’imprenditore crea (o si appoggia a) una serie di cooperative gestite da prestanome, le quali “forniscono” manodopera alle società operative del gruppo tramite fatture di appalto di servizi. In realtà i lavoratori sono stabilmente diretti dalla società utilizzatrice e le cooperative non versano né IVA né contributi, ottenendo un illecito vantaggio competitivo. La Cassazione, nella sent. n. 5168/2025, ha esaminato proprio un articolato sistema di questo tipo: un consorzio nel settore logistico usava cooperative di comodo per fornire facchini alle consorziate, fatturando servizi apparentemente regolari . In verità le cooperative erano meri schermi formali, privi di effettiva attività, e le relative fatture documentavano operazioni in parte inesistenti (l’IVA non veniva versata, i costi del lavoro erano gonfiati) . La Suprema Corte ha confermato le condanne sia per emissione di fatture false (a carico degli amministratori delle cooperative) sia per dichiarazione fraudolenta (a carico del consorzio e delle società utilizzatrici) . I giudici hanno sottolineato che il pagamento delle prestazioni (cioè il fatto che la società abbia effettivamente pagato le cooperative) non basta di per sé a escludere il reato, se emerge che dietro la facciata contrattuale vi era una interposizione fittizia di manodopera . In altri termini, anche se i soldi sono circolati, se lo schema era fraudolento (lavoratori diretti altrove, cooperative fittizie) le fatture si considerano false (soggettivamente) e i reati sussistono, con annessi sequestri per equivalente dei profitti dell’evasione IVA .
Questo esempio dimostra come le società cartiere collegate (cooperative o Srl inattive intestate a nullatenenti) possano costituire ingranaggi chiave nelle frodi fiscali “di gruppo”. Il loro utilizzo è purtroppo diffuso: pensiamo anche alle “frodi carosello internazionali”, dove una società del gruppo funge da missing trader emettendo fatture per cessioni intracomunitarie esenti e poi sparendo prima di versare l’IVA, mentre un’altra società collegata a valle detrae quell’IVA simulando acquisti interni. Anche in tali schemi (spesso perseguiti penalmente come associazione a delinquere transnazionale) si ritrovano fatturazioni incrociate tra entità di uno stesso network fraudolento, con lo scopo di ingannare il sistema fiscale. Va da sé che, all’emergere di queste situazioni, la difesa è molto difficile: provare la genuinità di società ghost o di operazioni su carta è quasi impossibile, e l’attenzione si sposta sulle possibili attenuanti (collaborazione postuma, pagamento del dovuto, ecc.).
4. “Fatture incrociate” per distrarre patrimoni in previsione di insolvenza
Un ulteriore profilo, più vicino al diritto civile/fallimentare, riguarda l’uso di fatture tra società collegate per spostare attivi e fondi lontano dai creditori di una di esse. Immaginiamo la società X con grossi debiti (anche tributari) che “paga” improvvisamente rilevanti fatture alla collegata Y per forniture o servizi poco plausibili; Y incassa liquidità, mentre X si impoverisce e magari fallisce poco dopo. In tal caso, al di là delle violazioni fiscali (X potrebbe aver dedotto costi inesistenti), si configura una distrazione di beni ai danni dei creditori di X. Il curatore fallimentare di X o i creditori potrebbero agire con un’azione revocatoria per far dichiarare inefficaci quei pagamenti verso Y, se compiuti nei due anni anteriori al fallimento con intentone frodi (art. 66 L.F. e 2901 c.c.). Oppure, se vi è dolo grave, gli amministratori di X rischiano l’incriminazione per bancarotta fraudolenta patrimoniale (avendo sottratto risorse ai creditori). Anche Y, se partecipe della manovra, potrebbe essere coinvolta (ad esempio come soggetto in conflitto di interessi che ha beneficiato di atti a danno di X).
Dal punto di vista difensivo in questi scenari, la società Y (che ha ricevuto i pagamenti) dovrebbe provare che le fatture erano reali e a prezzo di mercato, così che i pagamenti non costituiscano pregiudizio ingiusto ai creditori di X. Se riesce a dimostrare che dietro c’era una vera transazione (es. X le ha comprato dei macchinari al loro valore effettivo), la revocatoria potrebbe essere respinta; diversamente, la condanna per bancarotta dell’amministratore di X è probabile e Y dovrà restituire le somme percepite. Insomma, l’utilizzo di fatture incrociate in contesti di crisi d’impresa è molto pericoloso e difficilmente difendibile se il quadro probatorio rivela uno svuotamento intenzionale.
5. Mancata fatturazione di ricavi infragruppo (contestazioni “inverse”)
Finora abbiamo esaminato schemi in cui le false fatture creano costi fittizi. Esiste anche il caso opposto in cui venga contestato a una società di non aver fatturato ricavi verso la collegata per occultare imponibili. Ad esempio, una capogruppo eroga servizi alle controllate ma omette di fatturare tali prestazioni, lasciando le consociate con costi sottostimati e la capogruppo con ricavi minori (spostando dunque utili verso il basso). Un’altra ipotesi: un consorzio sostiene spese generali per conto delle consorziate ma non le ribalta emettendo fattura, lasciando tali costi “non addebitati” a nessuno e dunque non coperti da ricavi (abbattendo indebitamente l’utile complessivo del sistema). Situazioni del genere possono portare ad accertamenti per ricavi occulti o distratti. Ad esempio, in passato la Cassazione ha censurato un consorzio che non fatturava alle consorziate il rimborso delle spese generali sostenute, qualificandolo come un occultamento di ricavi (Cass. 22435/2016) . Tuttavia, l’orientamento attuale è più sfumato: se c’è una giustificazione contrattuale o statutaria e lo scopo non lucrativo del consorzio, trattenere solo le spese senza margine non è illecito . In ambito di gruppo, la mancata fatturazione può essere un problema se genera un vantaggio fiscale indebito. Il Fisco potrebbe imputare un ricavo presunto alla società che ha erogato il bene/servizio senza fattura, basandosi sul principio di libera concorrenza (transfer pricing domestico) o sul potere di accertamento induttivo. La difesa, in tali casi, consisterà nel dimostrare che l’operazione infragruppo gratuita aveva ragioni economiche valide (es. regimi di consolidato fiscale, centralizzazione di costi) e non un fine elusivo.
In sintesi, gli esempi sopra evidenziano come le fatturazioni incrociate possano assumere varie forme: circolari, a catena, gonfiate, simulate come pagamenti infragruppo, o addirittura come omissioni di fatturazione. In tutte queste ipotesi, il filo conduttore è l’intento di alterare la base imponibile sfruttando i rapporti privilegiati tra soggetti collegati. Dopo aver individuato lo schema contestato, la domanda cruciale diventa: come può il “debitore” difendersi efficacemente di fronte a tali contestazioni? La sezione seguente affronterà proprio le strategie e gli strumenti di difesa, distinguendo tra sede tributaria (contro l’accertamento dell’Agenzia Entrate) e sede penale (contro eventuali imputazioni), mantenendo sempre la prospettiva di chi subisce l’accusa.
Come difendersi: strategie e strumenti per il debitore
Dal punto di vista del debitore – ossia del contribuente accusato di aver emesso o utilizzato fatture false tra società collegate – approntare una difesa efficace richiede un approccio multidisciplinare. Bisogna infatti operare su due fronti paralleli: quello tributario (impugnando l’eventuale avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, per ridurre o annullare la pretesa fiscale) e quello penale (difendendosi dall’eventuale procedimento in Procura, per evitare condanne). Questi fronti sono interconnessi: un esito favorevole in sede tributaria (ad esempio dimostrare che l’operazione non era fittizia) può influenzare positivamente il penale, e viceversa un proscioglimento penale pieno può essere utilizzato nel contenzioso tributario per far cadere l’accertamento. Esamineremo separatamente le strategie difensive nei due ambiti, senza dimenticare poi di coordinare le azioni. Inoltre, daremo rilievo agli strumenti speciali di recente introduzione – come la valorizzazione del pagamento del debito ai fini della non punibilità – che offrono al debitore nuove possibilità di uscita.
Difesa in sede tributaria (fase di accertamento fiscale)
Se l’Agenzia delle Entrate contesta l’utilizzo di fatture false, emette un avviso di accertamento motivato dal disconoscimento dei relativi costi e IVA. Il contribuente ha 60 giorni per impugnarlo di fronte alla Corte di Giustizia Tributaria (già Commissione Tributaria). La difesa in questa sede mira in primo luogo a smontare la qualificazione di falsità dell’operazione, o quantomeno a limitare gli effetti dell’accertamento. Ecco le principali linee difensive:
- Negare la natura fittizia dell’operazione (quando vi sono elementi a supporto): se l’Ufficio ha qualificato l’operazione come inesistente, esso ha l’onere iniziale di fornire elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti che la transazione sia fittizia . La Cassazione, ad esempio con Cass. 11624/2020, ribadisce che nelle frodi oggettive (operazioni mai avvenute) il Fisco deve provare la falsità con presunzioni serie, e solo dopo tale prova scatta a carico del contribuente l’onere di dimostrare il contrario . Dunque, per prima cosa la difesa esaminerà gli indizi addotti dall’Agenzia (fornitore irreperibile o privo di struttura, pagamenti anomali, mancanza di documenti di consegna, ecc.) e li contesterà uno per uno. È fondamentale produrre documentazione che provi la realtà dell’operazione: ad es. DDT, contratti, ordini, rapporti di lavoro, relazioni tecniche, fotografie, collaudi – qualsiasi cosa dimostri che la prestazione o cessione c’è effettivamente stata . Se il fornitore indicato dall’Ufficio come “cartiera” era in realtà un piccolo subappaltatore operativo, portare testimonianze (anche dichiarazioni scritte di terzi, ora ammesse in ambito tributario grazie all’art. 7, co.5-bis D.Lgs. 546/1992) potrà essere decisivo . L’obiettivo è ribaltare la presunzione di inesistenza, mostrando ai giudici tributari che dietro quelle fatture c’era sostanza economica. In caso di frode soggettiva (fornitore fittizio ma bene effettivo), è utile riconfigurare il caso come tale: ad esempio ammettere “sì, Tizio era un prestanome, ma la merce/servizio l’ho ricevuta da Caio (vero fornitore) e l’ho pure pagata regolarmente, quindi l’operazione in sé è esistita” . Ciò almeno evita l’accusa di frode oggettiva (costo interamente fittizio) e ricondurrebbe il caso alla frode soggettiva, dove – come visto – i costi possono anche essere dedotti se reali. Un precedente di riferimento qui è Cass. Sez. V n. 35091/2023, la quale ha ammonito che non ogni fornitore “irregolare” implica inesistenza totale dell’operazione: spesso la merce c’è, solo proveniva da un soggetto diverso . Citare tale pronuncia può persuadere i giudici a non rigettare in blocco la deduzione del costo, quantomeno finché non sia provato che neanche un euro di spesa abbia riscontro reale .
- Buona fede e diligenza in caso di frode soggettiva: come detto, la giurisprudenza tributaria più recente richiede la prova della scientia fraudis dell’acquirente per negargli la detrazione IVA nelle operazioni soggettivamente inesistenti . Pertanto, il contribuente dovrà evidenziare tutto ciò che ha fatto per verificare l’affidabilità del fornitore: ad es. visura camerale, verifica della partita IVA (VIES per fornitori UE), DURC se pertinente, controlli sul conto bancario (pagamenti effettuati su c/c intestato all’azienda e non a persone fisiche), corrispondenza commerciale che mostri normali trattative, eventuali referenze ricevute, ecc. . L’idea è costruire un dossier che dimostri una condotta diligente e priva di segnali d’allarme evidenti. Se il contribuente (debitore) non ha legami con la cartiera ed ha pagato prezzi di mercato, potrà sostenere di essere una vittima inconsapevole della frode altrui . Alcune Commissioni tributarie hanno già accolto ricorsi basati sulla buona fede dell’acquirente, in forza del principio unionale che vieta di sanzionare chi era ignaro di partecipare a una frode . Attenzione: secondo la Cassazione l’onere di provare la buona fede spetta comunque al contribuente (una volta che il Fisco ha fornito indizi di frode) . Quindi la difesa dovrà documentare accuratamente tutte le circostanze a favore e insistere perché i giudici le valutino nel complesso. Se l’Ufficio non dimostra “segnali di allarme inequivoci” che il contribuente ha ignorato, si potrà chiedere l’annullamento dell’atto almeno per la parte IVA, sostenendo che punire un acquirente diligente contrasterebbe col diritto UE.
- Deducibilità dei costi in caso di operazioni soggettivamente inesistenti: come spiegato, dopo il 2012 la legge permette di dedurre anche i costi relativi a operazioni soggettivamente false, a patto che la spesa sia effettiva e – condizione importante – che non vi sia già un processo penale in corso per quel fatto . Infatti, l’art. 14 co.4-bis L. 537/93 stabilisce che l’indeducibilità scatta solo dall’esercizio in cui è esercitata l’azione penale (rinvio a giudizio) . Se al momento dell’accertamento non c’è ancora un rinvio a giudizio (ad esempio vi è stata archiviazione penale o l’indagine è ferma), i costi soggettivamente falsi dovrebbero essere ammessi in deduzione. La Cassazione ha recepito questo principio: ad es. l’ordinanza n. 30018/2022 ha sancito che è conforme a legge consentire la deduzione di costi da reato quando l’operazione c’è stata davvero, perché «il costo, ancorché frutto di reato, ha comunque eroso il patrimonio dell’impresa ed è inerente all’attività, [quindi] va dedotto» , salvo impedimenti specifici. Un’altra pronuncia utile è Cass. 21706/2020, che ha cassato la decisione di una CTR la quale aveva negato la deduzione di costi da fatture soggettivamente inesistenti nonostante il procedimento penale fosse archiviato: la Suprema Corte ha ordinato al giudice di merito di ammettere i costi effettivi, verificandone però l’inerenza e la congruità . In pratica, nella lite tributaria la difesa dovrebbe: (a) sottolineare se non vi è (ancora) un processo penale avviato sul caso, o se c’è stato un provvedimento di archiviazione, (b) provare l’effettività della spesa (esibendo bonifici, contratti, documenti che mostrino che il denaro è uscito a fronte di qualcosa di reale), e (c) rimarcare un principio di equità fiscale: ovvero che, sebbene l’IVA vada giustamente recuperata, tassare anche il reddito su un costo effettivamente sostenuto creerebbe una doppia penalizzazione contraria al principio di capacità contributiva . Questa linea difensiva può portare almeno a ridurre l’accertamento: magari il giudice tributario confermerà il recupero IVA e la sanzione su quella, ma annullerà la ripresa a tassazione ai fini IRES/IRAP, escludendo le sanzioni correlate sul reddito. Un effetto di ciò è anche di ridurre l’“evasione” contestata in sede penale: se in Commissione passa la tesi che i costi erano deducibili, l’imposta evasa sui redditi diventa nulla o minore, e questo può riflettersi favorevolmente sul processo penale (ad esempio facendo scendere l’importo sotto le soglie di punibilità per l’art. 2, se la frode era solo sul reddito) . Nota bene: alcuni Uffici tendono comunque a contestare tutto, attendendo l’esito penale; ma se in appello penale dovesse arrivare un’assoluzione con formula piena (“il fatto non sussiste”), il contribuente può chiedere la sospensione del processo tributario in attesa di quella definizione, o usare la sentenza penale favorevole per ottenere sgravio in autotutela o rimborso delle imposte versate (in base sempre all’art. 14 co.4-bis) .
- Vizi procedurali e formali dell’accertamento: mai dimenticare di esaminare l’atto impositivo “in sé”, a caccia di eventuali vizi che possano portare all’annullamento indipendentemente dal merito. Ad esempio, è stato rispettato il contraddittorio endoprocedimentale? In materia di IVA, se l’accertamento è stato emesso “a tavolino” (cioè senza accesso in azienda) ed è fondato su indagini di carta, l’Ufficio deve aver prima inviato un invito al contraddittorio (o un PVC da verifica) e attendere le osservazioni del contribuente, pena nullità: lo ha sancito la Corte UE e la Cassazione a Sezioni Unite . Oppure: l’avviso di accertamento è sufficientemente motivato? Deve spiegare in modo chiaro perché ritiene false le fatture, non limitarsi a frasi generiche. Se la motivazione rinvia per relationem a un PVC della GdF, quel PVC va allegato all’atto o comunque messo a conoscenza del contribuente, altrimenti si viola l’obbligo di cui all’art. 7 L. 212/2000 (nullità per difetto di motivazione) . Ancora: l’ufficio ha utilizzato dichiarazioni di terzi (es. ex dipendenti, fornitori) raccolte altrove? In sede tributaria valgono solo come indizi e la difesa può contrapporre proprie dichiarazioni (magari del fornitore stesso che ritratti, o di altri testimoni oculari) ricordando che ora sono ammesse anche quelle di parte a favore . Se la vicenda è complessa, si può anche chiedere una CTU contabile al giudice tributario per ricostruire flussi e margini e provare (da un punto di vista tecnico) che l’operazione aveva una logica economica e non un impatto fiscale negativo, così da convincere sulla sua genuinità .
- Soluzioni transattive e deflative: in parallelo al ricorso, valutare eventuali opzioni di definizione agevolata. Ad esempio, se la controversia rientra in soglie per una conciliazione o per una definizione per acquiescenza (pagamento con sanzioni ridotte a un terzo), può essere opportuno considerarla, specie se la posizione nel merito non è solidissima. Una transazione con l’Agenzia – pagando magari parte del dovuto con sanzioni ridotte – ha l’effetto di chiudere la partita fiscale, evitando ulteriori strascichi e, soprattutto, mitigando il riflesso penale. Infatti, chiudere l’accertamento pagando le imposte dovute prima del giudizio penale può essere poi usato per dimostrare la resipiscenza del contribuente e accedere a cause di non punibilità (come vedremo tra poco, il pagamento integrale del debito tributario è oggi un fattore chiave per la particolare tenuità e altre attenuanti) . Dunque, se non si è certi di vincere al 100% in Commissione e se la transazione è economicamente sostenibile, pagare per chiudere potrebbe essere una scelta strategica per limitare i danni complessivi. La tempistica è fondamentale: idealmente, patteggiare col Fisco e versare prima che il processo penale entri nel vivo, così da presentarsi davanti al giudice penale con la ricevuta di pagamento integrale e chiedere magari la non punibilità per particolare tenuità del fatto (o quantomeno beneficiare delle attenuanti massime).
In sintesi, la difesa tributaria ruota attorno a due assi principali: contestare nel merito la falsità (quando vi sono elementi per farlo) e mitigare gli effetti fiscali anche ammettendo parzialmente i fatti (puntando a salvare la deducibilità di costi reali, a far emergere la buona fede, ecc.). Non di rado, con un ricorso ben costruito si può ottenere almeno una riduzione dell’accertamento: ad esempio, convincendo la Commissione a riconoscere parte dei costi perché la prestazione sottostante c’era, anche se resa da soggetto diverso . Ciò è fondamentale anche perché le sanzioni penali dipendono dall’imposta evasa: se nel giudizio tributario si stabilisce che l’imposta evasa era inferiore o nulla (perché alcuni costi erano legittimi), ciò potrà essere fatto valere nel processo penale, riducendo la gravità del fatto.
Difesa in sede penale
Quando il debitore è indagato o imputato in un procedimento penale per fatture false (ai sensi degli artt. 2 e/o 8 D.Lgs. 74/2000), la difesa segue le regole del processo penale, con tutti gli strumenti tipici: produzione di prove, escussione di testimoni, consulenze tecniche, eccezioni procedurali, ecc. L’obiettivo primario è evitare (o attenuare al minimo) le pesanti sanzioni detentive e accessorie previste da questi reati. La strategia va calibrata sul caso concreto, ma possiamo delineare alcune linee generali di difesa penale:
- Mettere in dubbio l’elemento oggettivo del reato: se ci sono spiragli, sostenere che non vi è stata alcuna fattura per operazione inesistente in senso proprio. Ciò significa provare a ricondurre i fatti nell’alveo della liceità o di violazioni minori. Ad esempio, la difesa può argomentare che l’operazione c’era e che il documento era solo irregolare ma non falso. Se passasse questa linea, si potrebbe chiedere una riqualificazione giuridica: da dichiarazione fraudolenta (reato) a semplice dichiarazione infedele (illecito amministrativo, se manca l’uso di fatture false), oppure contestare che l’emissione contestata sia in realtà una fatturazione legittima nell’ambito dei rapporti consortili. Si pensi all’amministratore di un consorzio imputato ex art. 8 perché ha fatturato come consorzio lavori eseguiti materialmente dalla consorziata: la difesa potrebbe sostenere che, in base ai patti consortili, era corretto che fosse il consorzio a fatturare (prassi della capogruppo mandataria), e che semmai l’evasione riguarda la ripartizione interna ma non la fattura in sé . Certo, queste argomentazioni si scontrano spesso con l’accusa di abuso dello schema consortile per frodare, ma vanno comunque proposte per instillare il dubbio sulla configurabilità del reato. La giurisprudenza sul punto non è molto benevola – ad esempio Cass. 52057/2017 ha disconosciuto la validità di contratti formali di appalto consortile ritenendoli fittizi – però ogni caso fa storia a sé . Persino nei caroselli può emergere qualche elemento reale: se la difesa riesce a dimostrare che una parte delle operazioni contestate erano reali (anche solo in minima parte), ciò può aiutare a smontare l’accusa in toto o a ridimensionarla (reato impossibile per inesistenza parziale, ecc.).
- Contestare il dolo specifico di evasione: come accennato, per condannare ai sensi degli artt. 2 o 8 serve provare che l’imputato aveva l’intento di evadere (fine di evasione). La difesa quindi può cercare di dimostrare che il soggetto non aveva affatto tale scopo, magari perché convinto in buona fede della legittimità fiscale dell’operato, o perché agiva per ragioni extra-fiscali. Un esempio: un piccolo imprenditore di una società consorziata che utilizza fatture del consorzio per lavori comuni potrebbe dichiarare di “pensare che fosse tutto regolare, trattandosi di operazioni tra consorziati, e di non immaginare affatto di evadere l’IVA”. Se questa versione risultasse credibile, potrebbe escludere il dolo specifico (resterebbero al più violazioni tributarie amministrative) . Un altro scenario: l’amministratore di una società che accetta fatture gonfiate provenienti da una collegata potrebbe sostenere di essere stato costretto o ingannato da altri (es. dal socio di maggioranza o da un consulente fiscale architettatore). Chiaramente non è facile far passare “non sapevo” in sede penale, a meno che l’imputato non appaia davvero estraneo (il classico prestanome inconsapevole, o l’amministratore privo di competenze tratto in errore da figure di fiducia). Tuttavia, anche se non si raggiunge l’assoluzione completa, far emergere la mancanza di arricchimento personale e la non piena consapevolezza può giovare in sede di quantificazione della pena: ad esempio facendo riconoscere le attenuanti generiche per la buona condotta o l’assenza di scaltrezza criminale .
- Sfruttare consulenze tecniche di parte: in procedimenti complessi, è spesso utile nominare un consulente tecnico (es. un commercialista esperto di fiscalità di gruppo o di consorzi) che affianchi la difesa. Il CTP potrà redigere una relazione per spiegare al giudice il contesto economico e contabile: ad esempio, nel caso di fatture consortili, illustrare come funziona normalmente la contabilità consortile, evidenziando che alcune prassi apparentemente anomale in realtà sono fisiologiche (es. “nei consorzi è normale che la consorziata A fatturi a B se previsto da convenzioni interne; ciò di per sé non implica frode”) . Un buon consulente può anche ricalcolare con precisione l’imposta evasa in base ai dati effettivi, magari individuando che l’ufficio o la Procura hanno sovrastimato le cifre non tenendo conto di certi costi reali, ecc. Questo può portare a ridurre l’entità del reato (e talvolta, se abbassa l’evasione sotto soglia, a far venir meno la punibilità). Inoltre, una consulenza contabile che provi che parte delle operazioni contestate erano reali e motivate può seminare dubbi sulla totalità della frode, spingendo magari per una riqualificazione in reato meno grave o per l’assoluzione parziale.
- Valutare riti alternativi convenienti: per i reati tributari gravi come quelli in esame, la difesa penale deve seriamente considerare l’opportunità di ricorrere a riti alternativi quali il patteggiamento (applicazione pena su accordo) o il giudizio abbreviato. I vantaggi sono noti: queste procedure permettono uno sconto di pena fino a un terzo e tempi più rapidi. Nel nostro contesto, dove le pene base sono medio-alte (minimo 4 anni), ottenere un terzo di riduzione può fare la differenza tra una condanna da scontare e una sospesa condizionalmente. Un patteggiamento ben congegnato – specialmente se nel frattempo si è risarcito il Fisco pagando il dovuto – potrebbe portare la pena entro i 2 anni, soglia per la sospensione, e in più grazie all’art. 13-bis evitare le pene accessorie interdittive . Se il cliente (debitore) è disponibile a pagare e chiudere la vicenda, questa è spesso la via più pragmatica e sicura. Il giudizio abbreviato, invece, è un salto nel buio perché rinuncia al dibattimento e si decide allo stato degli atti, però dà anch’esso -1/3 sulla pena. Può avere senso se la prova dell’accusa è debole e si punta all’assoluzione in base alle carte già raccolte – con l’idea che, male che vada, la condanna sarà comunque ridotta di un terzo e poi appellabile . In sostanza, di fronte a un’imputazione di dichiarazione fraudolenta/emissione fatture, un bravo difensore valuterà l’opzione di patteggiare soprattutto quando il fatto è accertato e c’è margine di trattativa sulla pena (specie dopo pagamento). L’abbreviato lo si considera invece quando si intravede una chance concreta di far vacillare l’accusa già dalle prove documentali o per qualche vizio procedurale.
- Dimostrare il ravvedimento operoso (condotta riparatoria): se non lo si è già fatto prima, anche durante il processo penale è possibile (ed auspicabile) pagare il debito tributario oggetto della contestazione. Ormai è praticamente un passo obbligato per poter poi chiedere i benefici di legge. La recente riforma 2024 ha introdotto l’art. 12 co. 3-ter D.Lgs. 74/2000, che stabilisce criteri specifici per la particolare tenuità del fatto: in particolare, il giudice deve valutare la integrale o prevalente estinzione del debito come indice di particolare tenuità . Ciò significa che pagare anche a rate, purché in misura consistente, deve essere valutato positivamente dal giudice ai fini di dichiarare la non punibilità per tenuità . Pertanto, la difesa dovrebbe consigliare al cliente di attivarsi subito con l’Erario per versare il più possibile: se non ha liquidità immediata, chiedere una rateizzazione e cominciare a pagare le rate (presentando le ricevute man mano al giudice). Questo comportamento, unito magari ad un patteggiamento, apre la porta a esiti incredibilmente favorevoli: in alcuni casi, come evidenziato in passate vicende di voluntary disclosure, si è riusciti addirittura ad ottenere patteggiamenti con pene sostituite da pena pecuniaria ex art. 53 L. 689/81 (multa) . Anche se non si arrivasse all’archiviazione per tenuità (magari perché il fatto è reiterato o supera di molto le soglie), il pagamento integrale resta una fortissima attenuante che può portare la pena ai minimi, spesso convertibile in sanzioni minori. Insomma, pentirsi e pagare conviene: oggi l’impianto normativo “incentiva fortemente il reo a pentirsi e pagare” , diversamente dal passato.
- Coordinare difesa penale e tributaria: come accennato, le due difese devono parlarsi. Una sentenza della Corte di Giustizia Tributaria che annulla l’accertamento perché non c’era evasione effettiva, sarà un ottimo argomento nel penale (dimostra l’assenza di danno erariale concreto). Viceversa, un’assoluzione penale con formula piena (“fatto insussistente”, quindi operazioni ritenute reali) andrà utilizzata per ottenere la caducazione dell’atto impositivo in autotutela o in giudizio, invocando il principio di coerenza tra giudicati . Sebbene non vi sia un automatismo legale (i due giudizi sono indipendenti), è innegabile che un’assoluzione penale totale influenzi poi il giudice tributario. Se invece il penale si conclude con cause diverse (es. insufficienza di prove, prescrizione), la Commissione tributaria potrebbe decidere in autonomia, quindi meno aiuto in quel caso. La difesa dovrà dunque calendarizzare bene le azioni: capire se conviene attendere l’esito di un giudizio prima di affrontare l’altro, ecc., tenendo presente anche che la riforma del processo penale 2022 (Cartabia) ha introdotto la possibilità di patteggiare anche in appello per reati tributari e, soprattutto, una maggiore attenzione alla condotta riparatoria post delictum. Ad esempio, se il debito è pagato, non è escluso che la Procura stessa possa chiedere al giudice una sentenza di non doversi procedere per particolare tenuità o l’applicazione di cause di esclusione della pena, laddove previste .
In definitiva, la difesa penale deve essere molto reattiva nello sfruttare ogni spiraglio offerto dalla legge. Oggi, a differenza di qualche anno fa, la normativa premia chi collabora e ripara il danno: il pagamento del dovuto e il comportamento collaborativo possono condurre addirittura alla non punibilità (tenuità) . Salvo che vi siano solide basi per ottenere un’assoluzione totale perché il fatto davvero non sussiste, la mossa vincente per il difensore è di guidare il cliente lungo un percorso di regolarizzazione che sfoci nel minimo impatto penale possibile . Ciò va naturalmente bilanciato con la tutela del patrimonio: pagare imposte, sanzioni e interessi può essere molto oneroso, ma spesso inevitabile. Il bravo avvocato saprà semmai negoziare con il Fisco utilizzando eventuali definizioni agevolate o transazioni, così da ridurre l’esborso complessivo (ad esempio evitando le sanzioni amministrative piene) . In questo modo, l’imprenditore potrà chiudere la vicenda penal-tributaria limitando i danni e ripulendo la propria posizione.
Domande Frequenti (FAQ) su fatturazioni incrociate tra società collegate
Di seguito riportiamo alcune delle domande più frequenti sul tema, con risposte basate su quanto esposto finora, utili per chiarire i dubbi sia degli operatori del diritto sia degli imprenditori coinvolti.
D: Cosa si intende esattamente per “fatturazioni incrociate tra società collegate”?
R: Si intendono le emissioni o l’utilizzo di fatture fittizie nell’ambito di rapporti tra società legate tra loro da vincoli partecipativi o accordi (consociate, controllate, consorziate, ecc.) al fine di ottenere indebiti vantaggi fiscali. In pratica, si parla di fatturazioni “incrociate” perché coinvolgono più entità del gruppo in catene di fatturazione reciproca. Possono consistere in fatture per operazioni mai avvenute (falsità oggettiva), ad esempio spese completamente inventate, oppure in fatture che documentano operazioni reali ma indicando soggetti diversi da quelli effettivi (falsità soggettiva). Esempi tipici: fatture emesse dalla società A per lavori in realtà eseguiti dalla società B (non legittimate da reali subappalti, quindi soggettivamente false), oppure fatture emesse tra due consociate per addebitare costi inesistenti così da trasferire utili occulti (oggettivamente false). In generale, queste pratiche sfruttano l’assenza di un vero confronto di mercato tra parti correlate, inserendo documenti contabili artificiosi nelle reciproche contabilità .
D: Perché queste pratiche sono considerate così gravi dalla legge?
R: Perché l’uso di fatture false è uno degli strumenti di evasione fiscale più insidiosi e sofisticati. Introducendo documenti solo apparentemente regolari nella contabilità, il contribuente può ingannare il Fisco “dall’interno” del sistema contabile, rendendo molto difficile per l’Amministrazione accorgersi dell’illecito. Si pensi che, a differenza di una semplice omissione di ricavi (che può emergere da un riscontro bancario, ad esempio), un costo fittizio supportato da una fattura falsa ha all’apparenza tutte le carte in regola e può superare indenne controlli automatici. Inoltre, queste pratiche erodono basi imponibili in modo illecito, spesso con impatti notevoli in termini di gettito: generano danno erariale sia sull’IVA (portata in detrazione indebitamente) sia sulle imposte sui redditi (costi inesistenti dedotti) . Da un punto di vista penale, il legislatore le considera aggravate perché denotano un comportamento fraudolento preordinato – non una semplice dimenticanza o difficoltà finanziaria, ma la fabbricazione deliberata di falsi documenti per evadere. Per questo gli articoli 2 e 8 del D.Lgs. 74/2000 prevedono pene elevate (fino a 8 anni di reclusione) e non offrono le cause di non punibilità che invece esistono per altri reati tributari (ad esempio, per omessi versamenti è prevista l’estinzione se paghi). In sintesi: sono considerate gravi perché minano la fiducia nel sistema fiscale, richiedono pianificazione e coinvolgono spesso più soggetti in condotte occulte e collusive, aggravate quando avvengono tra società di uno stesso gruppo.
D: Sono un imprenditore che ha ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia ritiene false alcune fatture scambiate con una società collegata. Cosa devo fare immediatamente?
R: Prima di tutto, presta attenzione ai tempi: hai 60 giorni dalla notifica per presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria) . Conviene tuttavia attivarsi subito, senza attendere l’ultimo giorno, per impostare la strategia. Ecco i primi passi: (1) Analizza a fondo l’avviso di accertamento e la documentazione allegata (PVC, motivazione, rilievi specifici). Se non hai le competenze tecniche, coinvolgi immediatamente un avvocato tributarista o un commercialista esperto in contenzioso; (2) Raccogli tutte le prove a tuo favore: contratti, DDT, email, report, qualsiasi elemento che dimostri la reale esistenza delle operazioni contestate oppure la tua buona fede. È cruciale costruire un fascicolo difensivo robusto sin dall’inizio; (3) Valuta l’opportunità di un accertamento con adesione: hai 15 giorni per proporlo, congelando i termini. Se il caso non è netto e vuoi guadagnare tempo o provare una soluzione negoziata con l’Agenzia, l’adesione potrebbe essere utile. In tale sede potrai discutere informalmente con i funzionari le evidenze, magari convincerli a rivedere (in parte) la pretesa; (4) Se l’accertamento riguarda anche IVA, verifica se l’ufficio ha rispettato il contraddittorio obbligatorio (se applicabile): in caso negativo, segnala la cosa al tuo difensore perché potrebbe essere un motivo di nullità; (5) Valuta, con l’aiuto del tuo consulente, se pagare subito (totalmente o parzialmente) l’importo contestato. Pagare entro 60 giorni significa rinunciare al ricorso ma beneficiare di sanzioni ridotte ad 1/3 (cosiddetta acquiescenza). Tuttavia, se ritieni la contestazione infondata o eccessiva, presentare ricorso è doveroso – eventualmente anche pagando in pendenza di giudizio una parte (per evitare misure cautelari o ridurre interessi). Ogni caso è a sé: il punto chiave è non restare inerti. La difesa fiscale ben preparata sin dall’inizio può fare la differenza tra vincere o perdere in Commissione.
D: Se pago subito le imposte contestate, evito le conseguenze penali?
R: Pagare immediatamente ciò che il Fisco ti contesta è sicuramente un ottimo passo, ma non garantisce al 100% l’automatica estinzione del penale. In dettaglio: la legge (art. 13 D.Lgs. 74/2000) prevede la non punibilità per alcuni reati tributari se prima del dibattimento le imposte, sanzioni e interessi vengono integralmente pagati . Questa causa di non punibilità per integrale pagamento però non si applica ai reati di dichiarazione fraudolenta o emissione di fatture false (artt. 2 e 8). Si applica ad esempio all’omessa dichiarazione o agli omessi versamenti IVA, ma i reati con fatture false sono considerati troppo gravi per essere “perdonati” solo pagando. Ciò detto, pagare tutto può comunque portare benefici: (1) Eviti di fatto il danno erariale e dunque getti le basi per invocare la particolare tenuità del fatto. Come visto, con la riforma 2024 il giudice deve considerare il pagamento eseguito e l’eventuale debito residuo minimo per dichiarare la non punibilità ex art. 131-bis c.p. . Cass. 22076/2025 proprio su un caso di false fatture ha censurato i giudici di merito che avevano guardato solo all’evasione iniziale di 300 mila €, senza considerare che quasi tutto era stato pagato: la Cassazione ha imposto di dare prevalenza a quanto pagato e valutare la tenuità . (2) Anche se non scatta la tenuità, il pagamento integrale attiva la circostanza attenuante di cui all’art. 13-bis D.Lgs. 74/2000, con riduzione di pena fino alla metà e no sanzioni accessorie . (3) Pagando subito, ti metti nelle condizioni migliori per chiedere un patteggiamento favorevole: le Procure, vedendo il ravvedimento, spesso concordano pene al minimo, magari sostituite da pene pecuniarie. In sintesi: pagare ti mette sulla buona strada per evitare/attenuare le conseguenze penali, ma non è una garanzia automatica di archiviazione. Dovrai comunque affrontare l’indagine; tuttavia, con un debito fiscale azzerato e un comportamento collaborativo, hai ottime chance di ottenere una definizione senza carcere (patteggiamento con pena sospesa, oppure archiviazione per tenuità, a seconda dei casi).
D: Ho scoperto che una società del mio gruppo emetteva fatture false a mia insaputa. Posso difendermi dicendo che non ne ero al corrente?
R: Dipende molto dal tuo ruolo e dalle prove disponibili. Se sei un amministratore formale (magari un prestanome) di una società coinvolta, sostenere che altri orchestravano le frodi senza che tu sapessi nulla potrebbe essere credibile, specialmente se risulta che di fatto non gestivi l’azienda (casi purtroppo frequenti). In tali situazioni, la tua difesa punterà a dimostrare che eri un mero teste di legno: ad esempio, potresti mostrare di non avere competenze in materia, di non aver mai firmato atti operativi, di essere stato indotto da terzi. Se convincerai gli inquirenti di questo, potresti ottenere un’archiviazione o un proscioglimento per mancanza di dolo (tu stesso saresti quasi una vittima strumentalizzata). Al contrario, se rivestivi ruoli operativi (es. direttore finanziario, socio coinvolto nella gestione) sarà molto più difficile far credere che fossi all’oscuro. La legge presume che gli amministratori sappiano cosa succede in azienda, a meno di prova contraria convincente. Potresti allora spostare la tesi difensiva sul fatto che, pur sapendo delle operazioni, tu eri convinto fossero regolari (mancanza di dolo specifico) – ad esempio, “sì emettevamo quelle fatture tra nostre società ma il commercialista mi disse che era lecito per distribuire i costi”. Questa linea però richiede elementi di supporto (pareri scritti, email, testimonianze) per non essere vista come una scusa posticcia. Riassumendo: non sapere può scagionarti solo se eri davvero figura marginale o se c’è stata raggiro nei tuoi confronti. In tutti gli altri casi, punterei piuttosto a dimostrare la buona fede (credevi fosse lecito) più che la totale ignoranza. E, parallelamente, metterei in atto tutte le condotte riparatorie (pagamento debiti, ravvedimento) per mitigare comunque la tua posizione qualora la tesi dell’ignoranza non reggesse.
D: In un consorzio stabile è normale che il consorzio fatturi lavori eseguiti dalle consorziate. Come distinguo quando ciò è lecito e quando rischia di essere considerato falso?
R: Domanda molto importante. Nel consorzio stabile (così come nelle ATI), c’è una prassi fisiologica di far fatturare al consorzio capogruppo tutti i lavori verso il committente, e poi di far eseguire (e “pagare” internamente) parte dei lavori alle consorziate. Finché tutto avviene alla luce del sole e secondo le convenzioni consortili, è lecito. I problemi nascono quando questa struttura viene abusata. Ecco qualche criterio: è lecito se il consorzio effettivamente coordina e sovrintende i lavori, assumendosi la responsabilità contrattuale verso il cliente, e le consorziate operano come sue sub-contractor dichiarate. In tal caso, il consorzio fattura l’intero importo al cliente, poi emette note di debito o fatture interne alle consorziate per corrispondere loro la quota di lavoro svolto (o viceversa le consorziate fatturano al consorzio la prestazione eseguita). Questo rientra nello scopo consortile ed è legittimo, come riconosciuto anche da Cassazione . Diventa invece illecito quando il consorzio viene usato come schermo fittizio per operazioni che nella sostanza avvengono tra altri soggetti. Ad esempio: se il consorzio fattura un certo servizio al cliente ma non svolge nulla e l’intera prestazione è di una consorziata (la quale però formalmente non appare), possiamo essere davanti a un appalto fittizio. La Cassazione (sent. 52057/2017) ha detto chiaro che se i lavoratori della consorziata sono di fatto diretti dall’azienda utilizzatrice, allora la fattura del consorzio è considerata soggettivamente falsa e integra reato . Quindi, il discrimine è: c’è trasparenza e rispondenza alla realtà nel ruolo di ciascun soggetto? Oppure il consorzio è messo in mezzo solo per creare un intermediario fittizio e magari scontare l’IVA? Altro indizio: se il consorzio trattiene un mark-up ragionevole per spese generali, è più credibile che stia operando genuinamente; se fattura e poi retrocede praticamente tutto alle consorziate tenendo un margine simbolico o nullo, potrebbe comunque essere legittimo (consorzio puro di servizio) ma va giustificato con lo statuto. Insomma, bisogna guardare la sostanza: chi fa davvero il lavoro e chi si intasca cosa. Quando i ruoli formali divergono troppo dalla realtà economica, c’è rischio di contestazione di frode.
D: Che succede se una società del mio gruppo viene usata per emettere fatture false e poi fallisce? Le altre società (o i soci) rischiano di dover pagare i debiti fiscali di quella società?
R: In linea di massima, no, non automaticamente. Se parliamo di società di capitali (Srl, Spa consortile, ecc.), ognuna risponde solo coi propri beni. Quindi se la società X fallisce con un debito IVA per fatture false non versata, l’Erario rimane creditore in quel fallimento e non può, di per sé, pretendere il pagamento dalle società consociate o dai soci (a meno che questi avessero dato fideiussioni o garanzie personali, il che è raro). Tuttavia, ci sono alcune eccezioni e strumenti che il Fisco può tentare di usare. Uno è l’accertamento con abuso di forma: se è evidente che X era una mera fictio e che le società Y e Z beneficiavano dell’evasione orchestrata tramite X, l’Agenzia potrebbe sostenere che i redditi evasi vadano riattribuiti a Y e Z direttamente (cioè X come interposto fittizio) . Questo innescherebbe nuovi avvisi di accertamento a carico di Y e Z come coobbligate d’imposta. Non è scontato, ma giuridicamente possibile invocando l’abuso del diritto o la realtà economica. Un altro aspetto: le sanzioni amministrative tributarie sono spesso solidali tra chi ha contribuito alla violazione, secondo il D.Lgs. 472/97. Quindi, se amministratori o altre società hanno concorso nell’illecito, l’Agenzia potrebbe emettere ordinanze ingiungendo il pagamento delle sanzioni in solido a tutti i co-responsabili (questo però richiede un accertamento del concorso). Inoltre, sul piano penale, se i rappresentanti delle altre società sono stati complici, il fallimento di X non li salva: risponderanno di reato e potrebbero subire misure patrimoniali (sequestri sui loro beni). Infine, c’è la questione art. 2560 c.c.: se le attività di X sono state trasferite a un’altra società prima del fallimento, come detto l’acquirente d’azienda potrebbe dover rispondere in solido dei debiti fiscali risultanti dai libri . Per esempio, se la collegata Y ha di fatto assorbito il business di X pochi mesi prima del crack, il Fisco potrebbe sostenere che c’è stata cessione d’azienda e chiedere a Y il pagamento delle imposte non versate da X. Questo però richiede le condizioni che spiegavamo (debiti a bilancio, ecc.). Da ultimo, i creditori (incluso il Fisco) potranno rivalersi sugli amministratori di X per mala gestio: una volta appurata la frode, non è escluso che parta un’azione di responsabilità per danni contro gli amministratori di X e gli eventuali complici, per recuperare il maltolto . In pratica, far fallire la società-cartiera X non garantisce impunità: il Fisco cercherà altrove (soci, altre società, amministratori) il modo di recuperare. Lato tuo, se sei socio di X e non hai garanzie personali, non sarai escusso per i debiti di X, però potresti subire tu stesso indagini e azioni se risulti beneficiario ultimo dell’evasione. La reputazione del gruppo poi ne esce devastata. In definitiva: meglio prevenire scenari simili, perché sanare dopo è molto complicato e comunque oneroso.
D: Quali sono le sentenze più importanti da conoscere su questo tema per un avvocato?
R: Riassumiamo alcuni precedenti chiave citati nella guida, utili come riferimenti in casi di contestazioni su fatturazioni incrociate:
- Cass. Sez. Trib. 11624/2020: ribadisce il principio sul riparto dell’onere della prova nelle fatture oggettivamente inesistenti – il Fisco deve provare la falsità con presunzioni gravi; solo dopo il contribuente deve provare la reale esistenza . Utile per impostare la difesa sul difetto di prova iniziale dell’Agenzia.
- Cass. Sez. Trib. ord. 30018/2022: definita pronuncia “epocale” sulla deducibilità dei costi da reato – afferma che i costi da operazioni soggettivamente inesistenti, se effettivi, sono deducibili anche se il contribuente era consapevole, salvo processo penale in corso o contrarietà a principi generali . Fondamentale per sostenere in Commissione l’ammissione di costi reali nonostante l’illecito.
- Cass. Sez. V 24471/2022 e Cass. Sez. V 35091/2023: introducono l’orientamento della “doppia prova” per le frodi soggettive – l’Erario deve provare sia la frode che la conoscenza dell’acquirente; non basta la semplice esistenza di una cartiera per dire che è tutto falso . Queste servono a supportare la difesa sulla buona fede del contribuente e sul diritto alla detrazione IVA se non c’è prova di collusione.
- Cass. Sez. Unite 28433/2022: (non specifica su fatture false, ma rilevante) consente nel processo tributario l’uso di dichiarazioni rese da terzi come prova indiziaria . Utile per far ammettere, ad esempio, dichiarazioni di testi raccolte in sede penale a favore del contribuente.
- Cass. Sez. III Pen. 52057/2017: caso di somministrazione illecita di manodopera mascherata da consorzio, stabilisce che se i lavoratori della consorziata sono eterodiretti dall’utilizzatore, le fatture del consorzio sono da considerare inesistenti e configurano dichiarazione fraudolenta . Questo è un faro in casi di appalti fittizi: dice come la Cassazione inquadra tali schemi.
- Cass. Sez. III Pen. 16576/2023: ribadisce che il reato di emissione di fatture false sussiste anche se non si individua il reale prestatore e anche se l’evasione non si realizza pienamente, perché basta creare documenti falsi con scopo di evasione . Serve a ricordare la severità con cui si giudica la condotta di chi emette: non esistono “scappatoie” tipo “ma poi l’IVA è stata bloccata”.
- Cass. Sez. III Pen. 5168/2025: conferma condanne in schema consorzio-cooperative definendo le coop come schermi fittizi e le fatture come operazioni inesistenti (oggettive e soggettive) . È recente e specifica sul tema consorzi: molto utile per capire il ragionamento attuale della Cassazione su frodi complesse di gruppo.
- Cass. Sez. V 17388/2024: sulla ripartizione parziale dei ricavi nei consorzi – afferma che se il consorzio trattiene una quota per spese consortili è lecito e non è occultamento, riconoscendo la funzione del consorzio senza personalità rispetto alle imprese . Ottima per difendere prassi consortili genuine da errate interpretazioni del Fisco.
- Cass. Sez. III Pen. 22076/2025: applica la nuova norma del 2024 su tenuità e pagamento, imponendo ai giudici di considerare prevalentemente il debito residuo pagato per valutare la tenuità del fatto, con finalità recuperatoria . È la sentenza che sancisce la “svolta” sul favorire chi paga, da citare assolutamente in caso abbiate estinto il debito: vi dà la base per chiedere la non punibilità.
Conoscere queste pronunce permette al difensore di avere solidi appigli giurisprudenziali sia in fase di interlocuzione con l’Agenzia (fase pre-contenzioso) sia poi in giudizio, potendo citare la Cassazione a supporto delle tesi difensive. È un modo per orientare il giudice (tributario o penale) verso soluzioni già avallate nei casi analoghi.
D: In concreto, potete fare un esempio di difesa vincente in un caso simile?
R: Caso simulato: La società X S.r.l., parte di un gruppo (collegata al medesimo socio di controllo), riceve un avviso di accertamento perché l’Agenzia ritiene che alcune fatture emesse dalla consociata Y S.p.A. verso X – per servizi di “coordinamento e amministrazione” – siano false, supponendo che Y non abbia svolto realmente quei servizi ma li abbia fatturati solo per drenare utili da X. X propone ricorso tributario strutturando così la difesa: (1) Dimostra la base contrattuale: produce il contratto interno col quale Y era incaricata, come società capogruppo, di fornire alle consociate servizi centralizzati (es. gestione sicurezza sul lavoro, acquisti collettivi, contabilità generale). Lo statuto di Y e le delibere assembleari previste mostrano che tale attività è deliberata e regolamentata, quindi non un’invenzione posticcia . (2) Prova l’esecuzione effettiva dei servizi: allega report di visite in cantiere effettuate da personale di Y per conto di X (per la sicurezza), documentazione di ordini di acquisto collettivi fatti da Y e poi ripartiti tra le consociate (acquisti centralizzati), e-mail e corrispondenza in cui i dirigenti di Y impartiscono direttive o consegnano output a X . Ci sono persino testimonianze scritte di tecnici esterni che confermano la presenza di Y nelle attività di coordinamento. (3) Giustifica il quantum addebitato: mostra il calcolo di riparto delle spese generali concordato nel gruppo – ad esempio, Y raccoglie tutti i costi comuni (affitti, software gestionali, consulenze) e li ribalta su ciascuna consociata in proporzione al fatturato, senza margine di lucro. Viene evidenziato che il costo addebitato a X era proporzionato e previamente determinato secondo criteri oggettivi; inoltre X esibisce i bilanci di Y che chiudevano in pareggio (nessun utile occulto) . (4) Sottolinea l’assenza di scopo evasivo: facendo ciò, X argomenta che Y non perseguiva fine di lucro ma solo rimborso costi – infatti Y chiudeva il bilancio a zero utile, segno che non c’era distribuzione occulta di utili a monte . A supporto cita anche Cass. 17388/2024 (sul consorzio senza scopo di lucro) analogicamente. (5) Contesta gli indizi del Fisco: l’Agenzia si basava sul fatto che X aveva proprio personale amministrativo e dunque non necessitava di Y. X replica che Y forniva economies of scale e specializzazione (esibendo anche organigrammi: in Y c’erano figure senior che mancavano in X). Insomma, smonta l’asserito “inutile doppione” mostrando il valore aggiunto di Y. Risultato: la Commissione Tributaria, vista l’abbondante documentazione, conclude che le fatture non erano affatto inesistenti ma rispondevano allo scopo legittimo di ripartizione costi di gruppo, e dunque annulla l’accertamento . L’Agenzia non impugna, rendendo definitiva la vittoria di X. In parallelo, anche il PM (che era stato attivato per il penale) chiede l’archiviazione del procedimento, riconoscendo che non c’è stata frode.
D: Cosa posso fare per prevenire queste contestazioni, se ho rapporti economici frequenti con società del mio stesso gruppo?
R: La prevenzione è essenziale. Alcuni consigli pratici: (1) Tenete tutto documentato per iscritto: stipulate contratti infragruppo dettagliati per ogni servizio o cessione, stabilendo criteri di determinazione dei prezzi. (2) Rispetta il principio di libera concorrenza: i prezzi applicati tra collegate dovrebbero essere allineati a quelli di mercato (arm’s length) o, se non è possibile un confronto, giustificati su base costi + margine ragionevole. Evita margini zero o eccessivi senza spiegazione. (3) Traccia l’esecuzione: per ogni fattura scambiata fate in modo di avere evidenze dell’attività svolta (rapportini, relazioni, foto, e-mail di consegna, etc.). (4) Evita circolarità inutili: se una transazione può essere fatta direttamente tra A e C, non inserire B senza ragione. Ogni passaggio aggiuntivo deve avere un perché funzionale. (5) Attenzione a cash e movimenti finanziari: le operazioni infragruppo dovrebbero sempre passare per bonifici tracciabili intestati alla società emittente. No a incassi su conti personali di soci o prelievi sospetti successivi. (6) Se hai dubbi, fai un interpello: su alcune operazioni complesse puoi chiedere preventivamente il parere dell’Agenzia (interpello sull’abuso del diritto). Non sempre rispondono in modo chiaro, ma intanto dimostri buona fede e riduci il rischio di sanzioni per incertezza normativa. (7) Valuta il consolidato fiscale: se hai un gruppo con controllante e controllate, aderire al regime di consolidato nazionale può ridurre l’incentivo a fare giochetti coi prezzi, perché gli utili si compensano con le perdite nel perimetro senza bisogno di fatture artificiose. (8) Trasparenza con i sindaci/revisori: informare e far validare ai controllori interni queste prassi aiuta a non esagerare e ad avere un paper trail di approvazione. In breve, la parola chiave è “substance over form”: assicurati che ogni operazione infragruppo abbia una sostanza economica genuina e sarebbe fatta (magari in misura minore) anche con terzi indipendenti. Così, anche in caso di verifica fiscale, avrai le carte in regola per difenderti e magari eviterai proprio la contestazione.
Conclusione
Le contestazioni di fatturazioni incrociate tra società collegate pongono sfide complesse che richiedono un approccio multidisciplinare, combinando competenze di diritto tributario, penale e commerciale. Dal punto di vista del debitore coinvolto, è fondamentale agire tempestivamente e in modo strategico su tutti i fronti: spiegare la sostanza economica delle operazioni contestate, far valere i propri diritti procedurali in fase di accertamento, e – se necessario – utilizzare ogni strumento di deflazione del contenzioso o di attenuazione penale offerto dall’ordinamento. La normativa italiana, specialmente con le riforme più recenti, da un lato si è irrigidita (inasprendo le pene per le false fatturazioni e includendole tra i reati presupposto di responsabilità degli enti), dall’altro ha aperto spiragli di clemenza per chi collabora e ripara (si pensi alla valorizzazione del pagamento del debito tributario ai fini della non punibilità) . Questo riflette un fine equilibrismo del legislatore: reprimere duramente le frodi documentali che minano il sistema fiscale, ma al contempo incentivare il ravvedimento e il recupero delle somme dovute più che la punizione fine a sé stessa .
Per avvocati e consulenti chiamati a difendere casi del genere, la lezione è chiara: occorre padroneggiare sia i cavilli tecnici (onere della prova, formalità procedurali, appigli normativi) sia il quadro fattuale (andare a fondo nella realtà operativa delle aziende coinvolte). Ogni documento, ogni testimonianza, ogni dettaglio contabile può fare la differenza tra una fattura realmente falsa e una fattura solo apparentemente anomala. Spesso, dietro contestazioni di questo tipo, si celano magari miscomprensioni o errori formali più che intenzioni fraudolente: saperli evidenziare e spiegare può ribaltare l’esito del procedimento .
Dal punto di vista degli imprenditori, questa guida evidenzia l’importanza di muoversi con prudenza nelle operazioni infragruppo: mantenere una rigorosa tracciabilità e una logica di mercato nelle transazioni interne è la migliore difesa, perché fornisce argomenti solidi in sede di verifica. Qualora, nonostante tutto, la contestazione arrivi, è cruciale non sottovalutarla: le conseguenze potenziali (fiscali e penali) sono troppo serie per adottare atteggiamenti attendisti o superficiali. Al contrario, affrontare attivamente la questione – con l’aiuto di professionisti esperti, preparando un dossier difensivo robusto e, se opportuno, regolarizzando la propria posizione – consente spesso di contenere i danni e, nei casi migliori, di uscirne pienamente vittoriosi.
In conclusione, le fatturazioni incrociate tra società collegate non sempre sono fraudolente, ma quando il Fisco le considera tali bisogna essere pronti a dimostrare la bontà delle proprie operazioni. Con le giuste strategie, il debitore ha buone chance di far valere le proprie ragioni o quantomeno di evitare sanzioni sproporzionate, ottenendo magari una riqualificazione della vicenda entro confini di liceità o una drastica riduzione delle penalità. In judicio veritas: spetterà al contraddittorio processuale far emergere la verità sostanziale dietro quelle fatture incrociate, distinguendo le fisiologiche sinergie di gruppo dagli artifici realmente fraudolenti. Con competenza, trasparenza e tempestività d’azione, è possibile difendersi efficacemente e tutelare la continuità aziendale nonché la propria libertà personale, anche di fronte alle più aggressive contestazioni fiscali incrociate.
Fonti
- Cassazione penale Sez. II sentenza n. 9485 del 7 marzo 2025.
- d.lgs. 74/2000.
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate fatturazioni incrociate tra società collegate? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?
Le fatturazioni incrociate sono pratiche frequenti nei gruppi societari per regolare rapporti di servizi, beni o costi condivisi. Tuttavia, quando l’Agenzia delle Entrate sospetta che queste fatture siano simulate, gonfiate o prive di reale sostanza economica, può contestare operazioni inesistenti o abuso del diritto, con pesanti conseguenze fiscali.
👉 Prima regola: dimostra sempre che dietro le fatture vi sia una prestazione reale, documentata e congrua.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Fatture per servizi generici senza documentazione a supporto;
- Costi duplicati registrati in più società dello stesso gruppo;
- Prezzi anomali rispetto al mercato o alla tipologia di prestazione;
- Assenza di contratti o ordini tra le società coinvolte;
- Compensazioni di debiti/crediti giudicate come strumentali a ridurre l’imponibile.
📌 Conseguenze della contestazione
- Indeducibilità dei costi registrati tramite fatture contestate;
- Recupero dell’IVA detratta;
- Sanzioni per operazioni inesistenti (dal 90% al 200% dell’imposta);
- Interessi di mora;
- Rischio di procedimenti penali se vengono contestate fatture false o inesistenti.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Esistenza di contratti e ordini che giustificano le fatture;
- Tracciabilità dei pagamenti: i corrispettivi sono stati realmente versati?
- Documentazione tecnica o report che provino le prestazioni effettuate;
- Congruità dei prezzi rispetto al mercato;
- Motivazione della contestazione: l’Agenzia ha fornito prove concrete o solo presunzioni?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Contratti e accordi quadro tra le società collegate;
- Fatture, ordini e corrispondenza commerciale;
- Report, relazioni, consulenze e documentazione tecnica;
- Estratti conto con i pagamenti effettuati;
- Bilanci e scritture contabili delle società coinvolte.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la realtà delle operazioni con prove documentali e pagamenti tracciati;
- Contestare le presunzioni di inesistenza se prive di elementi concreti;
- Eccepire vizi formali: notifica irregolare, motivazione insufficiente, decadenza;
- Richiedere autotutela se le operazioni erano legittime e già documentate;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per ridurre o annullare la pretesa;
- Difesa penale in caso di contestazione di fatture false.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza le fatture contestate e le relazioni tra le società;
📌 Verifica la reale sostanza economica delle operazioni;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, nei procedimenti penali;
🔁 Suggerisce strategie preventive per gestire operazioni infragruppo in modo trasparente e sicuro.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali e contenzioso tributario;
✔️ Specializzato in operazioni tra società collegate e gruppi societari;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni sulle fatturazioni incrociate tra società collegate non sempre sono fondate: spesso derivano da valutazioni arbitrarie o da interpretazioni restrittive.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la legittimità delle operazioni, mantenere la deducibilità dei costi ed evitare sanzioni sproporzionate.
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