Agenzia Delle Entrate Accerta Triangolazioni Con Paesi Black List: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché alcune operazioni commerciali sono state considerate triangolazioni con Paesi inseriti nelle black list fiscali? In questi casi, l’Ufficio presume che le operazioni siano state strutturate artificialmente per spostare ricavi e utili in giurisdizioni a fiscalità privilegiata, con conseguente evasione o elusione d’imposta. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa ben impostata è possibile dimostrare la reale sostanza economica delle operazioni.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta le triangolazioni con Paesi black list
– Se le merci vengono fatturate tramite società intermediarie localizzate in Stati a fiscalità privilegiata
– Se i margini applicati dall’intermediario estero sono ritenuti sproporzionati o ingiustificati
– Se la società estera appare priva di reale struttura organizzativa ed è qualificata come “scatola vuota”
– Se vi sono incongruenze tra i flussi doganali e i flussi finanziari dichiarati
– Se l’operazione è interpretata come strumentale a ridurre il carico fiscale in Italia

Conseguenze della contestazione
– Indeducibilità dei costi derivanti da operazioni con Paesi black list
– Recupero delle imposte dirette e dell’IVA non versata
– Applicazione di sanzioni elevate per elusione o abuso del diritto
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Possibile segnalazione penale in caso di frodi internazionali gravi

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la reale esistenza delle operazioni con contratti, documenti doganali e corrispondenza commerciale
– Produrre prove della sostanza economica e della struttura organizzativa della società estera
– Contestare l’applicazione automatica delle presunzioni se non supportata da elementi concreti
– Evidenziare errori di ricostruzione, carenze di motivazione o decadenza dei termini nell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare le operazioni contestate e la documentazione commerciale e fiscale collegata
– Verificare la legittimità della contestazione in base alla normativa interna e comunitaria
– Redigere un ricorso mirato fondato su prove concrete e vizi formali dell’accertamento
– Difendere l’impresa davanti ai giudici tributari contro richieste fiscali indebite
– Tutelare il patrimonio aziendale e i rapporti internazionali da conseguenze sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della legittimità delle operazioni internazionali effettuate
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: le triangolazioni con Paesi black list sono tra le operazioni più controllate dall’Agenzia delle Entrate. È fondamentale predisporre una documentazione completa e coerente per dimostrare la correttezza delle operazioni.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscalità internazionale – spiega come difendersi in caso di contestazioni sulle triangolazioni con Paesi black list e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Le triangolazioni con paesi black list si riferiscono a operazioni commerciali o finanziarie in cui un soggetto italiano inserisce nel proprio schema un intermediario residente in un “paradiso fiscale” (paese a fiscalità privilegiata), allo scopo di ottenere vantaggi tributari. In pratica, spesso si tratta di società o conti offshore utilizzati per spostare redditi o costi attraverso giurisdizioni con tassazione nulla o minima e scarsa trasparenza. Tali paesi – come, ad esempio, Panama, Isole Cayman, Hong Kong, Singapore, Bahamas, Emirati Arabi Uniti, Seychelles e molti altri – figurano nei decreti ministeriali italiani (DM 4 maggio 1999 e successivi) come Stati a fiscalità privilegiata, comunemente detti paesi “black list”, proprio in ragione del loro basso livello impositivo e limitato scambio di informazioni .

Dal punto di vista dell’Amministrazione finanziaria italiana, le triangolazioni con entità localizzate in queste giurisdizioni sono indicatori di possibili operazioni elusive o evasive. L’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli su tali schemi, sfruttando normative speciali che prevedono presunzioni fiscali sfavorevoli al contribuente, oneri probatori aggravati, sanzioni amministrative raddoppiate e perfino l’estensione dei termini di accertamento . Inoltre, grazie alla crescente cooperazione internazionale – dallo scambio automatico di informazioni finanziarie (CRS) ai Trattati bilaterali di assistenza fiscale, fino a iniziative congiunte come il network Joint Chiefs of Global Tax Enforcement (J5) – i cosiddetti paradisi fiscali sono divenuti meno “opachi”, permettendo al Fisco italiano di identificare con maggior facilità patrimoni e utili occultati all’estero .

Ricevere dunque un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate con la contestazione di una triangolazione tramite un paese black list comporta conseguenze severe: il Fisco può riprendere a tassazione redditi non dichiarati in Italia, negare la deducibilità di costi ritenuti fittizi o eccessivi, applicare sanzioni elevate (anche fino al 480% dell’imposta evasa nei casi più gravi) , e – ove ricorrano le soglie penalmente rilevanti – segnalare possibili reati tributari (come dichiarazione infedelefrode fiscale o omessa dichiarazione) alla Procura . Dal punto di vista del contribuente (il debitore di imposta chiamato a difendersi), la situazione è delicata ma non senza rimedi: l’ordinamento offre strumenti di tutela sia in fase amministrativa (prima e dopo l’emissione dell’avviso) sia in sede giudiziale (ricorso alle Corti tributarie e, se necessario, difesa penale). Tuttavia, il contribuente si trova di fronte a un onere della prova accentuato – dovendo spesso dimostrare la legittimità e la sostanza economica delle proprie operazioni – e a normative tecniche complesse.

Questa guida, aggiornata ad agosto 2025, fornisce un’analisi avanzata e dettagliata di come difendersi da un accertamento dell’Agenzia delle Entrate per triangolazioni con paesi black list. Adotteremo un linguaggio tecnico-giuridico ma chiaro, rivolto a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti), imprenditori e privati cittadini coinvolti in contestazioni fiscali internazionali. Esamineremo dapprima il quadro normativo italiano in materia: le disposizioni chiave relative ai paradisi fiscali (presunzioni di residenza fittizia, indeducibilità dei costi “black list”, disciplina CFC sulle società controllate estere, obblighi di monitoraggio fiscale, ecc.), evidenziando le novità legislative più recenti (come la reintroduzione nel 2023 dei limiti di deducibilità dei costi verso Stati non cooperativi e la riforma 2023-2024 delle norme sulla residenza e sulle CFC). Seguirà una descrizione della procedura di accertamento tipica in questi casi: dai controlli iniziali e le indagini finanziarie alla notifica dell’atto, con focus su termini, garanzie procedurali (ad esempio il contraddittorio endoprocedimentale) e metodi con cui il Fisco ricostruisce i flussi economici reali.

Ampio spazio sarà dedicato alle strategie difensive, distinte per fase: in sede amministrativa (prima del processo, tramite osservazioni scritte, adesione, autotutela, ecc.), in sede contenziosa (ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado, con le eccezioni e prove da far valere) e infine i possibili risvolti in sede penale. Richiameremo le sentenze più recenti della Corte di Cassazione e delle Corti tributarie sul tema, per comprendere l’orientamento giurisprudenziale attuale (ad esempio in tema di onere della prova sull’effettività delle operazioni con società offshore , nullità dell’accertamento senza contraddittorio , non punibilità penale in caso di pagamento integrale del debito ex art. 13 D.Lgs. 74/2000, ecc.). Saranno inclusi esempi praticitabelle riepilogative dei principali istituti e una sezione di Domande e Risposte per chiarire i dubbi frequenti. L’obiettivo è fornire, dal punto di vista del contribuente, una guida completa su “come difendersi” efficacemente dalle pretese del Fisco legate a operazioni con paradisi fiscali, individuando le argomentazioni e le prove idonee a far valere le proprie ragioni sia sul piano fattuale (sostanza economica delle operazioni, origine lecita dei capitali, ecc.) sia su quello procedurale (vizi dell’atto, decadenza dei termini, difetto di motivazione, violazione di norme sul contraddittorio, ecc.).

In sintesi, un accertamento per triangolazioni con paesi black list non equivale a una condanna certa: se ben assistito, il contribuente può ottenere annullamenti totali o parziali dell’imposta pretesa, riduzioni delle sanzioni (dimostrando buona fede o aderendo a procedure deflattive) e persino evitare conseguenze penali gravissime, purché attivi da subito una difesa documentata e rigorosa. Vediamo dunque, passo dopo passo, il contesto normativo e le possibili linee difensive.

Quadro normativo italiano anti-black list

Per impostare una difesa efficace, occorre prima capire quali regole speciali l’ordinamento tributario italiano applica ai rapporti con i paesi black list. Negli ultimi decenni, il legislatore ha introdotto una serie di norme anti-evasione internazionale mirate specificamente a disincentivare o neutralizzare i vantaggi fiscali derivanti dallo spostamento di residenze, redditi o costi verso paradisi fiscali. Tali norme vanno dalle presunzioni legali che facilitano gli accertamenti (invertendo l’onere della prova in capo al contribuente) fino a discipline che limitano la deducibilità dei costi o attraggono a tassazione in Italia redditi realizzati in quei Stati. Di seguito esaminiamo i principali strumenti normativi rilevanti:

Presunzione di residenza fiscale per chi si trasferisce in paradisi fiscali (art. 2, comma 2-bis TUIR)

Per le persone fisiche, la legge prevede una presunzione anti-abuso in caso di trasferimento in paesi a fiscalità privilegiata. L’art. 2, comma 2-bis del TUIR (DPR 917/1986) stabilisce che il cittadino italiano che trasferisce la residenza in uno Stato incluso nella black list (individuata dal DM 4/5/1999) è comunque considerato residente fiscale in Italia, salvo prova contraria . In altre parole, se un contribuente italiano si cancella dall’anagrafe e si iscrive all’AIRE dichiarando di essersi stabilito, ad esempio, a Montecarlo, Dubai, Nassau o Hong Kong, il Fisco presume che si tratti di un trasferimento fittizio e continua a tassarlo in Italia su tutti i redditi ovunque prodotti. Tale presunzione è relativa (iuris tantum): il soggetto può vincerla fornendo adeguata prova di aver effettivamente spostato all’estero il centro dei propri interessi personali e economici . Saranno rilevanti elementi come l’acquisto o affitto di un’abitazione stabile all’estero, lo spostamento della famiglia, l’attività lavorativa svolta nel nuovo Stato, l’assenza di interessi economici rimasti in Italia, l’iscrizione in associazioni/locali esteri, la frequenza di rientro in Italia solo per visite brevi, ecc. .

Questa norma, introdotta nel 2000, mira a contrastare il fenomeno dell’esterovestizione della residenza delle persone fisiche, ossia gli espatri fittizi al solo fine di evadere il fisco italiano. La Corte di Giustizia UE ne ha giudicato l’applicazione compatibile col diritto di libera circolazione, trattandosi di una misura anti-abuso proporzionata (in quanto lascia al contribuente la possibilità di provare la reale migrazione) . La Cassazione ha chiarito che l’art. 2 co.2-bis non introduce un nuovo criterio di residenza, ma opera sul piano probatorio: l’iscrizione all’AIRE in un paradiso fiscale è considerata un semplice indizio e non basta, da sola, a perdere la residenza fiscale italiana . In sostanza, il contribuente emigrato in un paese black list deve “smontare” la presunzione producendo documenti e fatti concreti che attestino la genuinità del trasferimento. Se non ci riesce, il Fisco continuerà a considerarlo residente in Italia e dunque gli tasserà tutti i redditi esteri (con relative sanzioni per omessa dichiarazione).

Esempio: un imprenditore italiano che nel 2024 dichiara di essersi trasferito a Dubai (Emirati Arabi, giurisdizione a imposizione nulla) ma mantiene in Italia la moglie e i figli e continua a dirigere di fatto la sua azienda italiana tramite frequenti rientri, rischia l’applicazione dell’art. 2 co.2-bis TUIR. L’Agenzia delle Entrate potrà presumere la sua residenza ancora in Italia, imputandogli a tassazione i profitti realizzati all’estero (es. utili prelevati da società offshore, redditi di investimenti a Dubai non dichiarati) e applicando le sanzioni aggravate previste per i paradisi fiscali. In caso di ricorso, il contribuente dovrà esibire prove solide del radicamento negli Emirati (contratto di lavoro locale, acquisto di casa a Dubai, trasferimento dell’intero nucleo familiare, ecc.) per ottenere l’annullamento dell’accertamento . Se le prove risultano insufficienti, la presunzione reggerà e l’accertamento sarà confermato. Si comprende dunque come questa regola attribuisca un notevole vantaggio probatorio al Fisco, scoraggiando i trasferimenti “di comodo”.

Black list attuale ai fini dell’art. 2 co.2-bis TUIR: la lista degli Stati che attivano la presunzione di residenza fittizia è contenuta nel DM 4 maggio 1999 (come aggiornato nel tempo). Comprende la maggior parte dei paradisi fiscali classici (oltre 50 nomi), tra cui – a titolo esemplificativo – Andorra, Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Bermuda, Brunei, Isole Cayman, Gibilterra, Hong Kong, Jersey, Liechtenstein, Monaco, Panama, Seychelles, Singapore, Svizzera (fino al 2023), Emirati Arabi Uniti, Uruguay, Vanuatu, ecc. . Va segnalato che la Svizzera è stata recentemente rimossa da questa black list: il DM 20 luglio 2023 (entrato in vigore dal periodo d’imposta 2024) ha escluso la Confederazione Elvetica dall’elenco, riconoscendo l’elevato livello di cooperazione ormai raggiunto . Dunque un cittadino italiano trasferito in Svizzera dal 2024 non subisce più la presunzione automatica di residenza in Italia. Per gli altri Stati in elenco, invece, la presunzione resta operativa finché il DM 4/5/1999 non verrà ulteriormente aggiornato.

Presunzione di imponibilità dei capitali e prolungamento dei termini di accertamento (art. 12 D.L. 78/2009)

Un’altra norma-chiave – applicabile a tutti i contribuenti residenti (persone fisiche e soggetti diversi) – è quella introdotta con l’art. 12 del D.L. 78/2009 (conv. L. 102/2009). Tale disposizione contiene due misure particolarmente incisive nel caso di disponibilità finanziarie occultate in paesi black list: una presunzione di evasione sui capitali esteri non dichiarati e il cosiddetto “raddoppio dei termini” di accertamento. Vediamole in dettaglio:

  • Presunzione di evasione sui capitali offshore (comma 2): se un soggetto fiscalmente residente in Italia detiene investimenti o attività finanziarie in Stati a regime fiscale privilegiato senza dichiararli nel quadro RW, si presume che il valore di tali attività sia costituito con redditi sottratti a tassazione in Italia . È una presunzione legale relativa (iuris tantum) in base alla quale l’Amministrazione finanziaria non deve provare che i fondi o gli investimenti all’estero derivino da evasione: è direttamente il contribuente a dover dimostrare l’origine fiscalmente lecita dei capitali (ad esempio provando che sono soldi già tassati in anni precedenti, oppure frutto di successioni, donazioni, disinvestimenti di somme dichiarate, ecc.) . In assenza di tale prova contraria, l’intero valore dell’attività estera diventa reddito imponibile in Italia nell’anno dell’accertamento. Questa regola rappresenta un’inversione probatoria drastica: chi nasconde patrimoni nei paradisi fiscali si trova a dover provare la propria innocenza fiscale, altrimenti scatta la tassazione integrale e le relative sanzioni. Ad esempio, se in sede di accertamento viene scoperto un conto bancario non dichiarato alle Bahamas con saldo di €500.000, il Fisco potrà presumere che quell’importo sia reddito non dichiarato (sommando magari più annualità), a meno che il contribuente provi trattarsi di capitale legittimo già tassato in passato (cosa spesso difficile senza documentazione completa).
  • Raddoppio dei termini di accertamento (commi 2-bis e 2-ter): la norma prevedeva (prima di alcune modifiche intervenute nel 2015) che, in presenza di attività estere non dichiarate detenute in paesi black list, i termini di decadenza per l’accertamento venissero estesi di 5 anni rispetto al regime ordinario . In generale, il Fisco ha tempo fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione per notificare un avviso (ad es., redditi 2019 dichiarati nel 2020 accertabili fino al 31/12/2025). Con il raddoppio, lo stesso avviso poteva essere notificato entro il decimo anno (o il quattordicesimo se trattavasi di omessa dichiarazione iniziale). Ad esempio, utili o attività occultate nel 2015 in un paradiso fiscale potevano essere accertate fino al 2025 . Questo esteso margine temporale rifletteva la difficoltà di scoprire somme nei paradisi fiscali, dando all’Amministrazione più tempo per ottenere informazioni e atti istruttori dall’estero. È importante notare che tale raddoppio dei termini non si cumulava con l’ulteriore raddoppio previsto in caso di violazioni penali (art. 43 DPR 600/73) – i due regimi erano alternativi . – Aggiornamento: la disciplina originaria del raddoppio per paradisi fiscali è stata profondamente rivista a partire dal 2015. Nell’ambito della collaborazione volontaria (voluntary disclosure) e delle riforme garantiste, il legislatore ha eliminato il raddoppio automatico ex art. 12 DL 78/09 per i periodi d’imposta dal 2016 in poi. Attualmente, i termini lunghi si applicano solo se vi è un collegamento a un procedimento penale per reati tributari (falso/frode), oppure nei limiti e condizioni previsti dall’art. 5-ter D.Lgs. 147/2015 . In particolare, se l’Agenzia delle Entrate riceve informazioni dall’estero (es. tramite scambio automatico) oltre la scadenza ordinaria, può emettere l’atto tardivamente solo a certe condizioni – ad esempio notificando al contribuente un apposito avviso ex art. 5, co. 3, D.Lgs. 147/2015 entro determinati termini da quando le informazioni sono pervenute – pena la decadenza . Questa modifica assicura maggiore tutela temporale al contribuente, evitando accertamenti “aperti” a distanza di decenni senza limite. Dunque, nella difesa, è sempre opportuno verificare se l’anno accertato rientra ancora nel termine legittimo: se il Fisco ha applicato il raddoppio black list per annualità post-2015 senza base penale, ciò potrebbe costituire un motivo di nullità dell’atto (per decadenza dei termini).
  • Raddoppio delle sanzioni amministrative (comma 2-ter): la stessa norma del 2009 prevedeva anche che le sanzioni tributarie correlate a redditi o attività in paradisi fiscali fossero raddoppiate. In particolare, la sanzione per dichiarazione infedele (ordinariamente dal 90% al 180% dell’imposta evasa, ex art. 1 D.Lgs. 471/1997) saliva dal 180% al 360%; la sanzione per omessa dichiarazione (120% – 240% imposta) diventava 240% – 480%; le sanzioni per omesso monitoraggio RW (3% – 15% del valore) diventavano 6% – 30% . Questo trattamento sanzionatorio aggravato rifletteva la volontà politica di punire più severamente chi occultava ricchezze nei paradisi fiscali. – Aggiornamento: anche su questo fronte va segnalato che, in seguito alla voluntary disclosure e alla riforma delle sanzioni (D.Lgs. 158/2015), il raddoppio generalizzato potrebbe non applicarsi più per gli anni recenti, essendo stato previsto in un contesto previgente. Oggi, tuttavia, permangono differenze sanzionatorie: ad esempio, l’art. 5 D.L. 167/1990 prevede ancora che la sanzione per omessa compilazione del quadro RW sia raddoppiata (dal 6% al 30%) se l’attività finanziaria estera è detenuta in Paesi non collaborativi . Pertanto, almeno per il monitoraggio, la penalizzazione doppia è viva e vegeta. In sede difensiva, resta comunque possibile chiedere al giudice tributario l’applicazione del principio generale di proporzionalità, specie nei casi in cui il raddoppio porti a esiti manifestamente esorbitanti rispetto alla gravità della condotta (sul punto esiste giurisprudenza che, pur riconoscendo la legittimità formale delle sanzioni aumentate, invita a un’applicazione equilibrata e non retroattiva) .

Le misure suddette (presunzione di evasioneraddoppio terminiraddoppio sanzioni) hanno avuto un forte effetto deterrente. Anche se alcune sono state attenuate negli anni recenti, per lungo tempo hanno inciso su tutti i casi di attività estere occulte. Ad esempio, chi non dichiarava un conto in Antigua o in Panama si trovava di fronte alla prospettiva di vedersi tassato l’intero capitale depositato come se fosse reddito, con un accertamento notificabile fino a 10 anni dopo e con multe triplicate . È facile comprendere come ciò abbia spinto molti contribuenti a sanare volontariamente la propria posizione (si pensi alle due tornate di voluntary disclosure del 2015 e 2017) e abbia rafforzato la posizione del Fisco in sede contenziosa. Da notare che queste presunzioni operano solo per i Paesi qualificati come “black list”. Oggi, con la crescente cooperazione internazionale, alcuni Stati inizialmente considerati non collaborativi sono stati “perdonati” (si pensi proprio alla Svizzera, o ad altri che hanno stipulato TIEA – Tax Information Exchange Agreements – con l’Italia) . Tuttavia, formalmente il riferimento normativo resta legato alle liste ministeriali statiche: fintanto che un Paese rimane in elenco, scatta la presunzione. Ad esempio, Antigua e Barbuda pur avendo di recente aderito agli standard di trasparenza OCSE, risulta ancora nella black list italiana ai fini delle presunzioni (art. 2 TUIR e art. 12 DL 78/09) per gli anni fino al 2024 . In compenso, a livello UE Antigua è stata rimossa dalla lista nera nel 2024 (spostata in “grey list”) per i progressi fatti , ma ciò non ha effetti immediati sul piano interno. Il contribuente, però, potrebbe enfatizzare tali evoluzioni internazionali in sede difensiva, per sostenere una minore pericolosità fiscale dello Stato coinvolto e chiedere una lettura meno rigida delle presunzioni anti-evasione .

Tabella riepilogativa – Norme anti-paradisi fiscali principali:

Norma (estratto)Ambito di applicazioneEffetto presuntivo/sanzionatorio
Art. 2, co. 2-bis TUIR (DPR 917/86)Trasferimento residenza persone fisiche in Stati black list (DM 4/5/1999)Presunzione di residenza fiscale in Italia, salvo prova contraria (inversione onere sul contribuente) .
Art. 73, co. 5-bis TUIR (DPR 917/86)Società ed enti esteri controllati da italiani (holding di imprese italiane) – Norma sull’esterovestizione societariaPresunzione di residenza fiscale in Italia per la società estera, se controlla società italiane ed è a sua volta controllata o amministrata da soggetti residenti in Italia, salvo prova contraria (società estera considerata schermo) .
Art. 4 D.L. 167/1990 (conv. L. 227/1990)Monitoraggio fiscale (Quadro RW) – persone fisiche, enti non commerciali, società semplici residentiObbligo di indicare investimenti esteri; Sanzioni per omissione: 3–15% del valore non dichiarato (Paese collaborativo) oppure 6–30% se Paese black list .
Art. 12, co. 2 D.L. 78/2009 (conv. L. 102/2009)Investimenti/attività estere non dichiarati in Paesi black list (tutti i soggetti)Presunzione che il valore occultato sia reddito sottratto a tassazione in Italia: imponibile in Italia per intero, salvo prova contraria a carico contribuente .
Art. 12, co. 2-bis e 2-ter D.L. 78/2009Come sopra (Paesi black list) – (Regole previgenti)Raddoppio termini di accertamento reddituale (da 5 a 10 anni, o 7½ a 15 se omessa dichiarazione); Raddoppio sanzioni per infedele/omessa dichiarazione (fino a 360%/480% imposta evasa) e per omesso monitoraggio RW (6–30%) . NB: regola applicabile fino ai periodi pre-2016; successivamente modificata come descritto.

Esterovestizione delle società estere e “esterovestizione operativa” (art. 73 TUIR e giurisprudenza)

Oltre che sulle persone fisiche, il Fisco italiano vigila sui veicoli societari esteri utilizzati da soggetti nazionali. Un imprenditore potrebbe infatti costituire una società in un paradiso fiscale e usarla come schermo per i propri affari italiani (ad esempio, facendole detenere partecipazioni di società italiane o farle fatturare vendite al posto della società italiana). A tal fine intervengono:

  • Art. 73, comma 5-bis TUIR: È una disposizione anti-esterovestizione societaria introdotta nel 2006 (e rivista nel 2015) che riguarda le società estere collegate a soggetti italiani. Prevede che una società o ente estero, formalmente non residente, venga presunto fiscalmente residente in Italia se ricorrono determinate condizioni: in particolare, la norma originariamente colpiva le società estere che detengono partecipazioni di controllo in società italiane e sono a loro volta controllate da soggetti italiani (o con amministratori in prevalenza residenti in Italia) . In tali casi, salvo prova contraria, la società estera è considerata meramente interposta e quindi assoggettata a tassazione in Italia. Questa presunzione legale – complementare a quella dell’art. 2 co.2-bis per le persone fisiche – mira a evitare che tramite holdings offshore un soggetto italiano di fatto sposti all’estero la residenza fiscale della propria impresa. Se il Fisco dimostra i requisiti (controllo a monte e a valle), spetta poi al contribuente provare che la società estera ha una autonoma realtà economica e decisionale all’estero (es. sede effettiva all’estero, amministratori realmente indipendenti, attività svolta principalmente fuori Italia, ecc.) e non è invece diretta dal nostro Paese. Vale osservare che questa norma, come formulata, intercetta soprattutto il caso di holding o sub-holding estere create per gestire partecipazioni italiane. Per le strutture più complesse, il Fisco può comunque ricorrere a strumenti generali: se ad esempio una società estera non rientra esattamente nei criteri di cui sopra, ma dalle prove emerge che la sua direzione effettiva è in Italia, l’Amministrazione potrà comunque qualificarla “di fatto” residente ex art. 73 commi 3 e 5 (principio della sede dell’amministrazione) in base a un accertamento di fatto. In giurisprudenza vi sono casi noti di contestata esterovestizione societaria: ad esempio, la vicenda Dolce & Gabbana (società di lusso che avevano creato una holding in Lussemburgo) vide la Cassazione riconoscere che, se la società estera svolge reali funzioni e il vantaggio fiscale non è ottenuto con mezzi fraudolenti, non si configura reato di frode fiscale, evidenziando la linea di confine tra legittimo risparmio d’imposta e condotta penalmente rilevante (Cass. pen. 20040/2014). In sede tributaria, comunque, l’onere di provare la sostanza economica estera grava sul contribuente in base alla presunzione, mentre l’onere di provare una stabile organizzazione occulta in Italia di una società estera (ipotesi diversa, che vedremo a breve) grava sull’Ufficio .
  • Stabile organizzazione occulta (art. 162 TUIR e prassi): Un ulteriore profilo da considerare nelle triangolazioni è la possibile “esterovestizione operativa”. Accade quando un’entità estera – magari formalmente indipendente – di fatto svolge la sua attività in Italia attraverso una presenza materiale o personale non dichiarata (branch occulta). Ad esempio, si pensi a una società offshore che vende beni a clienti italiani: se l’attività di vendita è svolta tramite personale o strutture stabili in Italia, quella società potrebbe avere una stabile organizzazione non dichiarata in Italia, con conseguente tassazione dei relativi utili nel nostro Paese. La dimostrazione di una stabile organizzazione occulta (che sia materiale o personale) spetta all’Amministrazione finanziaria, e non è facile: richiede di provare che la società estera dispone in Italia di basi fisse di affari o di agenti che concludono contratti per essa abitualmente (art. 162 TUIR, conforme al Modello OCSE) senza averlo dichiarato . In contenzioso, la Cassazione ha affermato che l’onere di dimostrare l’esistenza di una stabile organizzazione occulta incombe sull’Ufficio, restando a carico del contribuente solo l’onere (eventuale) di provare che alcune operazioni sono avvenute senza l’ausilio di tale struttura . Questa linea garantisce che non si possa presumere arbitrariamente una stabile org. solo perché la controparte è estera: servono elementi concreti (contratti firmati in Italia, uffici non dichiarati, personale dipendente localizzato in Italia, magazzini, etc.). Se però la prova riesce, le conseguenze per il contribuente sono pesanti: l’entità estera viene tassata in Italia retroattivamente sugli utili attribuibili alla stabile organizzazione e ogni transfer pricing infragruppo può essere riqualificato. Ad esempio, in uno schema di triangolazione “classico” – società italiana A vende sottocosto a società B alle Cayman, che rivende a prezzo pieno a clienti C – l’Agenzia delle Entrate potrebbe cercare di dimostrare che B (Cayman) in realtà operava tramite la struttura di A (Italia) come mero intermediario fittizio, e configurare B come stabile org. di A o viceversa. In tal caso, gli utili di B verrebbero tassati in capo ad A in Italia, vanificando lo spostamento di profitto. Difesa: il contribuente (A e/o B) dovrà evidenziare l’autonomia di B (es. personale proprio, decisioni prese all’estero, gestione separata) e la reale assenza di basi in Italia non dichiarate, per confutare la tesi della stabile organizzazione. Se l’Ufficio non fornisce elementi sufficienti, l’accertamento su tale base dovrà essere annullato per difetto di prova.

Disciplina CFC – Controlled Foreign Companies (art. 167 TUIR)

Un ulteriore presidio normativo è rappresentato dalla normativa sulle società estere controllate (CFC), rivolta a imputare ai soci residenti in Italia i profitti di loro entità controllate localizzate in paradisi fiscali. Pur non trattandosi strettamente di “triangolazione” (qui l’entità estera è una controllata diretta del soggetto italiano), la disciplina CFC spesso si intreccia con gli schemi elusivi: ad esempio, un’impresa italiana che sposti segmenti di attività in una consociata offshore a bassa tassazione potrebbe subire sia un accertamento CFC (per tassare in Italia gli utili non distribuiti di quella consociata) sia contestazioni sul transfer pricing dei flussi infragruppo o sulla deducibilità dei costi pagati alla CFC. Vale dunque la pena riepilogare i punti salienti, anche perché la normativa è stata di recente riformata.

Fino al 2018, l’art. 167 TUIR prevedeva criteri in parte basati su black list: vi era un elenco ministeriale di Stati considerati a fiscalità privilegiata (DM 21/11/2001 e succ.), e se la controllata estera risiedeva in uno di essi, automaticamente scattava la tassazione per trasparenza in Italia dei suoi redditi (salvo esimenti di genuine economic activity). La Legge di Stabilità 2016 (L. 208/2015) ha però abrogato il sistema delle black list ai fini CFC, introducendo criteri oggettivi uniformi . Attualmente (riforma ATAD e da ultimo D.Lgs. 209/2023) la disciplina CFC si applica quando:

  • un soggetto residente detiene, direttamente o indirettamente, il controllo di una società estera (oltre il 50% dei diritti di voto o utili); e
  • la società estera è assoggettata a una tassazione effettiva inferiore al 50% di quella italiana teorica (cioè, il tax rate effettivo < circa 15%, dato che l’IRES 2025 è 24%) ; e
  • oltre 1/3 dei suoi proventi sono da passive income o intra-group (criterio di composizione del reddito).

Se tali condizioni si avverano, gli utili della CFC sono imputati al controllante italiano per trasparenza (pro quota) e tassati in Italia come se fossero prodotti direttamente da questi, a meno che il contribuente dimostri una esimente: ossia che la società estera svolge una attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, risorse e locali nello Stato di insediamento . Questa prova mira a evitare di colpire le imprese estere genuine e operative, concentrando la norma solo sulle scatole vuote nei paradisi fiscali. La riforma del 2023 ha ulteriormente precisato questi concetti e introdotto obblighi di documentazione, come la certificazione di bilancio per le controllate estere in Paesi a bassa tassazione .

In chiave difensiva, qualora l’accertamento dell’Agenzia includa una contestazione CFC (ad esempio imputando al socio italiano i redditi non distribuiti di una sua controllata alle Isole Cayman), il contribuente potrà: contestare eventualmente la sussistenza dei presupposti (es. dimostrare che il tax rate estero non era inferiore alla metà di quello italiano, magari per via di particolari imposte locali) oppure – più probabilmente – puntare sulla prova dell’esimente. Ciò comporta fornire dettagli su dipendenti, uffici, costi operativi, contratti e attività svolte dalla società offshore, per provare che non è un mero contenitore di utili ma un soggetto con substance. Ad esempio, mostrando che la controllata Cayman opera effettivamente nel commercio internazionale con magazzini e personale in loco, potrebbe evitarsi l’applicazione della tassazione per trasparenza (la quale altrimenti è molto penalizzante, tassando in Italia utili magari non ancora percepiti e spesso con crediti d’imposta non utilizzabili se il paradiso non ha imposizione). In aggiunta, va ricordato che la disciplina CFC non si cumula con la normativa sui costi black list: le nuove norme infatti escludono dall’ambito dei costi indeducibili quelli verso soggetti per cui già si applica l’art. 167 TUIR (evitando una doppia penalizzazione).

Deducibilità dei costi black list e triangolazioni commerciali (art. 110, commi 10-12 TUIR)

Veniamo ora alla normativa forse più direttamente rilevante nel caso di triangolazioni: quella sulla deducibilità delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni con imprese localizzate in paradisi fiscali. Storicamente, questa regola – introdotta a fine anni ’90 – ha costituito uno strumento di contrasto alle triangolazioni mirate a trasferire utili all’estero mediante sovrafatturazioni o sottofatturazioni. L’idea di fondo era di creare una presunzione di indeducibilità per tali costi, costringendo il contribuente a provare che l’operazione con la controparte estera black list aveva sostanza economica genuina.

Evoluzione normativa: Fino al 2015, l’art. 110, commi 10 e 11 TUIR (già art. 76 del vecchio TUIR 917/86) prevedeva che “le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e imprese o professionisti domiciliati in Stati a regime fiscale privilegiato non sono deducibili, salvo che il contribuente provi, alternativamente, (a) che le imprese estere svolgono prevalentemente un’effettiva attività commerciale nel mercato locale, oppure (b) che le operazioni poste in essere rispondono a un effettivo interesse economico e hanno avuto **concreta esecuzione . In sostanza, ogni volta che una società italiana acquistava beni o servizi (o registrava altri oneri, es. interessi passivi) da un fornitore situato in un paradiso fiscale, quei costi venivano presuntivamente disconosciuti dal reddito imponibile. Il contribuente poteva però “salvarli” dimostrando o che il fornitore estero era una vera azienda operativa sul posto, o che l’operazione, oltre a essere reale, era giustificata da un interesse economico specifico (diverso dal semplice risparmio d’imposta) ed effettuata a condizioni di mercato. Inoltre tali costi dovevano essere indicati nominativamente in dichiarazione dei redditi, pena sanzione. Questa disciplina è stata abrogata nel 2015 (nel quadro di una semplificazione normativa, art. 5, comma 1, L. 208/2015) , lasciando per alcuni anni un vuoto: dal 2016 al 2022 i costi verso paradisi fiscali erano soggetti alle regole ordinarie (inerenza, transfer pricing) senza automatismi black list*.

Reintroduzione nel 2023: Con la Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022, art. 1, commi 84-86), il legislatore ha reintrodotto una forma attenuata di disciplina costi black list, adeguandola al contesto odierno. In particolare, il nuovo comma 10 dell’art. 110 TUIR (come modificato dalla L. 197/2022) stabilisce che le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni con imprese o professionisti residenti in Stati non cooperativi a fini fiscali (ovvero inclusi nella black list UE delle giurisdizioni non cooperative) sono deducibili solo entro il limite del valore normale dei beni o servizi acquisiti . Ciò significa che, se una società italiana paga un bene €100 a un fornitore in black list ma il suo valore normale di mercato è €70, potrà dedurre soltanto €70; la parte eccedente (€30) è indeducibile a meno che non ricorrano le condizioni di esclusione. Le eccezioni previste, infatti, ricalcano le precedenti due esimenti: il contribuente può dedurre anche l’eccedenza se dimostra che “le operazioni rispondono a un effettivo interesse economico e hanno avuto concreta esecuzione” . In pratica è stata eliminata la prima esimente dell’attività locale prevalente (divenuta meno attuale in era CRS) e mantenuta la seconda, trasformando la regola in una limitazione quantitativa (fino a valore normale sempre deducibile; oltre, deducibile solo con prova di interesse economico reale). La norma dispone inoltre che tali costi vadano indicati separatamente in dichiarazione (pena una sanzione amministrativa dedicata, pari al 10% dei costi non segnalati, min €500 – max €50.000) . Sono esclusi dal campo di applicazione i costi relativi a operazioni con società già soggette a regime CFC (onde evitare doppia penalizzazione) e i compensi per servizi professionali resi da persone fisiche domiciliate in Paesi black list .

Quali paesi rilevano? Diversamente dal passato, non c’è un elenco nazionale fisso: la norma rimanda ai “Paesi o territori non cooperativi ai fini fiscali”, cioè quelli inclusi nella black list UE aggiornata periodicamente dal Consiglio ECOFIN . Attualmente (update febbraio 2025) la lista UE comprende, ad esempio: Panama, Samoa, Figi, Palau, Trinidad e Tobago, Isole Vergini USA, Vanuatu, Russia, ecc. . Va notato che alcuni classici paradisi (Cayman, BVI, Guernsey, etc.) non figurano più nella lista UE perché considerati cooperativi sul piano informativo, nonostante la bassa tassazione. Ciò implica che un costo verso le Cayman oggi non ricade tecnicamente nella disciplina, a meno che il paese venga reinserito in lista UE. Tuttavia, la legge parla in generale di “non cooperativi”: è possibile che l’Agenzia Entrate interpreti tale dicitura includendo anche Stati che, pur non in lista UE, non hanno con l’Italia strumenti efficaci di scambio info (ad es. Emirati, che non sono black list UE ma hanno un trattato limitato). Su questo punto, in mancanza di prassi chiarificatrice, vi è margine di discussione.

Onere della prova e orientamenti giurisprudenziali: La ratio di queste norme è di evitare che attraverso triangolazioni (società interposte in paradisi fiscali) si erodano basi imponibili italiane. La Cassazione ha più volte affermato che l’onere probatorio posto a carico del contribuente è rigoroso: non bastano elementi formali come l’iscrizione del fornitore estero in un registro imprese o generica corrispondenza commerciale per provare l’effettività dell’attività . Servono evidenze sostanziali, ad esempio: i bilanci e libri contabili della società estera, contratti di affitto di sedi all’estero, bollette e utenze a suo nome, contratti di lavoro dipendenti, estratti conto bancari che mostrino movimenti coerenti, autorizzazioni o licenze nel paese estero, etc. . In una recente causa, la Cassazione (ord. n. 25510/2021, ma v. anche Cass. n. 18904/2019) ha cassato la decisione di merito che si era accontentata di un certificate of incorporation di Hong Kong e di uno scambio di lettere datato, ribadendo che tali indizi erano insufficienti a dimostrare un’“effettiva attività commerciale” del fornitore: per provare la presenza economica di una società estera occorrono documenti ben più sostanziosi . Allo stesso modo, per il requisito dell’interesse economico nell’operazione, la Corte ha chiarito che non può consistere nella sola convenienza di prezzo o in un generico margine di profitto . Bisogna dimostrare che c’era una ragione specifica e valida per operare proprio con quel fornitore estero e in quel paese (es. know-how particolare, disponibilità esclusiva di una materia prima, condizioni commerciali altrimenti non ottenibili altrove). In assenza di spiegazioni convincenti, il mero risparmio (comprare al 20% in meno perché il venditore evade le imposte nel suo paese) non è considerato un business interest lecito ai fini della norma .

In sintesi, sul tema dei costi black list la giurisprudenza adotta una linea dura: la presunzione di indeducibilità può essere vinta solo con prova puntuale e rigorosa, e ogni lacuna o evidenza di inattendibilità gioca a sfavore del contribuente . D’altro canto, va ricordato che in giudizio tributario la regola generale dell’art. 2697 c.c. prevede che sia chi afferma un fatto a doverlo provare. La Cassazione (ord. n. 31878/2022) ha precisato che l’onere della prova resta in capo all’Ufficio per quanto concerne i fatti costitutivi della pretesa (es. l’aver il contribuente effettivamente dedotto costi verso un paradiso fiscale), mentre il contribuente assume su di sé la prova liberatoria solo laddove la legge ponga una presunzione legale di evasione/frode . Ciò vale proprio nel caso dei costi black list: dimostrato dall’Ufficio che vi sono operazioni con un’entità paradisiaca, è il contribuente che deve fornire controprova della loro genuinità. Se l’Ufficio nemmeno allega elementi sufficienti a far scattare la presunzione (ad esempio non identifica chiaramente la controparte estera come soggetto privilegiato o non contesta l’antieconomicità), non si attiva l’inversione probatoria e la pretesa fiscale potrebbe mancare di prova adeguata e dunque essere annullata ex art. 7, co.5-bis D.Lgs. 546/92 . Nel complesso, le controversie su triangolazioni black list diventano spesso un braccio di ferro probatorio: il Fisco farà leva su indizi di fittizietà o di anomalia economica (margini fuori linea, mancanza di struttura del fornitore, ecc.), mentre il contribuente dovrà opporre tutta la documentazione possibile per attestare la realtà commerciale dell’operazione e la sua inerenza all’attività d’impresa.

Esempio pratico: la Alfa Srl (Italia) acquista semilavorati dalla Beta Ltd con sede nelle Isole Vergini Britanniche (BVI) per €500.000, rivendendo poi il prodotto finito sul mercato europeo a €600.000. L’Agenzia contesta che Beta Ltd è una scatola vuota (non ha dipendenti né capannoni noti) e che Alfa avrebbe potuto comprare i semilavorati direttamente dal produttore a €300.000: deduce quindi che €200.000 di costi sono fittizi per spostare utile nei Caraibi, negandone la deducibilità. In giudizio Alfa Srl potrebbe difendersi solo dimostrando, ad esempio, che Beta Ltd in realtà svolge un ruolo attivo (mostrando i conti di Beta con costi di personale e magazzino in BVI, contratti di subfornitura, ecc.) oppure che esisteva un interesse specifico a passare per Beta (ad esempio Beta ha consolidato piccoli fornitori locali garantendo ad Alfa standard di qualità e continuità che non avrebbe ottenuto, giustificando un prezzo più alto). Se Alfa si limita a esibire le fatture e un certificato di registrazione della Beta, molto probabilmente perderà la causa: la Cassazione richiede prove molto concrete (bilanci di Beta, buste paga di dipendenti di Beta, etc.) per dar ragione al contribuente .

Obblighi di monitoraggio fiscale e segnalazioni RW

In parallelo alle norme sostanziali viste sopra, esistono obblighi formali di monitoraggio che giocano un ruolo importante. Il Quadro RW della dichiarazione dei redditi è lo strumento con cui persone fisiche residenti (nonché enti non commerciali e società semplici) devono dichiarare annualmente le attività finanziarie e patrimoniali estere detenute, indipendentemente dal fatto che producano redditi imponibili . Sono oggetto di RW: conti correnti e depositi bancari esteri, partecipazioni in società estere, obbligazioni, quote di fondi, immobili all’estero, metalli preziosi detenuti all’estero, criptovalute su exchange esteri, ecc. L’omessa compilazione del quadro RW comporta una sanzione amministrativa proporzionaledal 3% al 15% dell’ammontare dell’attività non dichiarata, per ogni anno, che raddoppia dal 6% al 30% se l’attività è in un Paese black list . Quindi, ad esempio, non dichiarare un conto in Svizzera con 100.000 € espone a una sanzione base 3.000–15.000 € annua, ma non dichiarare un conto alle Cayman con la stessa somma comporta 6.000–30.000 € annui di multa, sottolineando la maggior gravità attribuita ai paradisi fiscali . Tali sanzioni sono dovute anche se il capitale estero di per sé non produce redditi (il monitoraggio prescinde dalla fruttuosità). Se invece il capitale genera redditi non dichiarati (es. interessi, dividendi, plusvalenze esteri), allora scatteranno anche le sanzioni per infedele od omessa dichiarazione su quei redditi (dal 90% al 180% dell’imposta evasa, generalmente) . Nei casi di omissioni prolungate su grandi importi, si può arrivare a contestazioni penali (dichiarazione infedele se imposta evasa > €100k annui, omessa dichiarazione se > €50k annui di imposta non dichiarata, v. D.Lgs. 74/2000). È importante precisare che la sola omissione del quadro RW non costituisce reato (è illecito amministrativo), ma se ad essa si accompagna l’evasione di imposte sui redditi esteri, i reati scattano al superamento delle soglie citate .

Nel contesto delle triangolazioni, il quadro RW entra in gioco soprattutto per gli imprenditori individuali o soci che costituiscono società offshore: costoro spesso detengono partecipazioni e conti esteri che dovrebbero essere dichiarati. La mancata indicazione di tali asset in RW fornisce al Fisco un ulteriore capo di contestazione (con relative sanzioni) e un indizio dell’intento di occultamento. Anche la presenza di movimenti finanziari verso/da l’estero non coerenti col dichiarato (ad es. bonifici su conti black list non segnalati) può far scattare verifiche e presunzioni. Difesa: se l’accertamento include sanzioni RW, il contribuente può verificare eventuali cause di non punibilità o riduzione (es. ravvedimento operoso qualora effettuato prima di controlli, errori scusabili se la norma era dubbia, duplicazione di sanzioni se stesso capitale già sanzionato altrove). In caso di voluntary disclosure passata (2015 o 2017) che abbia sanato violazioni RW per certi anni, occorre accertarsi che l’accertamento non stia richiedendo di nuovo sanzioni per periodi già oggetto di disclosure (non sarebbe possibile). Se invece l’accertamento riguarda anni successivi non sanati, la disclosure pregressa non protegge dalle nuove violazioni commesse reiterando il comportamento (un punto che l’Agenzia ha spesso chiarito: l’adesione al condono passato non “autorizza” a continuare a non dichiarare in futuro) .

Come nasce un accertamento da triangolazione black list (attività istruttoria e accertativa)

Dopo aver esaminato il quadro normativo sfavorevole al contribuente, vediamo come opera in concreto l’Agenzia delle Entrate quando sospetta una triangolazione con paesi black list. Comprendere il modus operandi del Fisco consente di individuarne eventuali punti deboli da sfruttare a fini difensivi.

Indagini e strumenti di controllo

Gli accertamenti su operazioni internazionali derivano di solito da alert o segnalazioni provenienti da varie fonti:

  • Analisi dei dati contabili e dichiarativi: l’Agenzia effettua controlli incrociati tra le dichiarazioni fiscali delle imprese e altre banche dati. Ad esempio, se un’azienda dichiara costi elevati verso fornitori esteri situati in paesi notoriamente black list (indicati nel prospetto dei costi “paradisi fiscali” in dichiarazione) può scattare un approfondimento mirato. Anche anomalie di bilancio (margini compressi, bassa redditività ricorrente, etc.) possono far supporre trasferimento di utili all’estero.
  • Comunicazioni finanziarie e monitoraggio: con l’introduzione dello scambio automatico CRS (Common Reporting Standard), l’Italia riceve annualmente dalle autorità fiscali estere (aderenti CRS) l’elenco dei conti finanziari intestati a residenti italiani e i relativi saldi . Molti paesi black list, un tempo opachi, dal 2017 partecipano al CRS (ad es. Cayman, Bermuda, Jersey, Mauritius, ecc.). Quindi l’Agenzia può venire a conoscenza di conti bancari o depositi titoli detenuti dal contribuente in quei paesi, e far partire controlli per capire l’origine dei fondi. Similmente, dati provenienti dal monitoraggio valutario (UIC), dall’Archivio dei Rapporti Finanziari e dalle segnalazioni antiriciclaggio possono rivelare movimenti di denaro verso l’estero (es. bonifici su conti offshore, prelevamenti di contante poi forse portato oltreconfine) .
  • Scambio di informazioni su richiesta: l’Italia ha una fitta rete di convenzioni contro le doppie imposizioni (art. 26 OCSE) e di Accordi TIEA di scambio informazioni. Se c’è un sospetto circostanziato, l’Agenzia (o la Guardia di Finanza) può inviare una request allo Stato estero per ottenere documenti bancari, intestazioni societarie, contratti, ecc. Certamente l’efficacia dipende dalla cooperazione dello Stato estero: ma va detto che molti paradisi fiscali hanno siglato accordi negli anni 2000-2015 per evitare sanzioni o blacklisting . Inoltre, l’adesione di massa alla Convenzione OCSE/Multi-lateral Competent Authority Agreement rende possibile lo scambio anche con paesi prima reticenti. Se il paese in questione non collabora, l’Amministrazione potrà comunque utilizzare fonti indirette, oppure – nei casi più gravi – procedere a ricostruzioni induttive. Il contribuente, dal canto suo, non può opporsi alla collaborazione internazionale, ma in giudizio potrà eccepire l’eventuale illegittimità nell’acquisizione delle prove: ad esempio, se emergesse che l’Ufficio ha ottenuto documenti esteri tramite canali non ufficiali (un whistleblower pagato o un data leak non validato) senza passare per le rogatorie o richieste formali, quei documenti potrebbero essere contestati come prova irrituale . Tuttavia, oggi la maggior parte dei dati esteri proviene da canali legali (CRS) e gode di attendibilità presunta, essendo fornita da autorità fiscali estere .
  • Eurofisc e Task force internazionali: per schemi complessi su larga scala, esistono gruppi investigativi congiunti a livello europeo e globale. Ad esempio, Eurofisc (in ambito IVA UE) e il citato J5 (USA, UK, ITA, CAN, AUS) condividono intelligence su strutture elusive. L’Italia partecipa a queste iniziative e può ricevere segnalazioni su treaty shoppingcarousel fraudtriangolazioni internazionali evidenziate da altri Paesi . È anche così che vengono scoperti schemi elaborati: confrontando informazioni, è capitato che le autorità estere avvisassero l’Italia di società schermo usate da contribuenti italiani (es. trust alle BVI con beneficiari italiani non dichiarati). Il contribuente deve sapere che la dimensione globale della cooperazione rende molto più rischioso confidare nel segreto offerto da certe giurisdizioni.
  • Verifiche in loco e accessi: la Guardia di Finanza può condurre verifiche fiscali nelle sedi italiane dell’azienda, ispezionare documenti, computer, corrispondenza, e facilmente individuare riferimenti a entità estere. Ad esempio, e-mail commerciali che mostrano che la società black list è di fatto gestita dall’Italia, o fatture estere false trovate in contabilità. Tali prove interne sono spesso decisive per dimostrare la simulazione. Anche controlli doganali possono rilevare spedizioni e triangolazioni (se i beni vanno direttamente in un paese diverso da quello fatturato, etc.).

Dall’istruttoria all’avviso di accertamento

Completata la fase istruttoria, l’Ufficio procede a quantificare le maggiori imposte dovute e a predisporre l’atto impositivo. L’avviso di accertamento deve indicare, a pena di nullità, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della rettifica (art. 42 DPR 600/1973). Nel caso delle triangolazioni, tipicamente l’avviso conterrà una narrazione dei risultati emersi: ad esempio, potrebbe descrivere “che la contribuente Alfa Srl ha dedotto costi per €X verso la Beta Ltd (residente alle Bermuda) nell’anno Y; che dall’analisi è emerso come Beta sia una società priva di struttura e diretta dai soci di Alfa; che i prezzi praticati risultano significativamente maggiori del valore normale; che pertanto si presuppone l’indebita localizzazione di utili a Bermuda e si nega la deducibilità di €Z, rideterminando il reddito imponibile”. Inoltre, se vi sono redditi esteri non dichiarati, l’avviso li elencherà (es. “dividendi percepiti dalla Gamma Inc – BVI non dichiarati per €…”). L’atto includerà un Prospetto di calcolo con le imposte recuperate (IRES, IRAP, IVA se pertinente, addizionali, ecc.), le sanzioni applicate e gli interessi.

Nel caso di costi black list indeducibili, l’Ufficio applicherà di regola la sanzione per infedele dichiarazione sul maggior imponibile (dal 90% al 180% dell’imposta afferente al costo ripreso), eventualmente elevata se ritiene la condotta riconducibile a frode (ma l’uso di fatture “regolari” estere di per sé configura infedele, non dichiarazione fraudolenta, salvo prova di frode grave). Se i costi non erano separatamente indicati in dichiarazione, può essere irrogata anche la sanzione fissa del 10% (min 500, max 50.000) ex art. 8 co.3-bis D.Lgs. 471/97 . Nel caso di redditi esteri non dichiarati, la sanzione base sarà del 120% dell’imposta (minimo edittale per omessa dichiarazione di redditi) se trattasi di intero reddito non dichiarato, oppure 90% se integrativo in dichiarazione infedele; queste percentuali possono aumentare fino a 240%/180% rispettivamente in base alla gravità e alla recidiva, e come visto raddoppiare se coinvolta giurisdizione black list (per anni di applicazione). Per le violazioni di monitoraggio RW, la sanzione sarà tipicamente il 6% annuo del valore non dichiarato (se il paradiso è black list) . Tutte queste sanzioni si cumulano tra loro se riguardano violazioni diverse (es. una per RW e una per infedele). L’avviso spesso invita anche il contribuente a valutare le opzioni deflattive: ad esempio, indica che pagando entro 60 giorni si può ottenere la riduzione delle sanzioni a 1/3 (cosiddetta acquiescenza ex art. 15 D.Lgs. 218/1997), oppure la possibilità di presentare istanza di accertamento con adesione per discutere l’abbattimento di imposte e sanzioni . Queste informazioni servono a orientare il contribuente verso una definizione bonaria, parte del ventaglio di soluzioni pre-contenziose che vedremo a breve.

Un passaggio fondamentale (anche in ottica difensiva) è il contraddittorio endoprocedimentale. Oggi, per gli accertamenti scaturiti da controlli “a tavolino” (non accessi in loco), è previsto che prima di emettere l’avviso l’Ufficio inviti il contribuente a un confronto, ai sensi dell’art. 5-ter D.Lgs. 218/1997 (introdotto dal 2020). Questo invito al contraddittorio deve precedere l’atto e concede almeno 60 giorni per presentare memorie difensive o per comparire di persona . Nel contesto dei redditi esteri o triangolazioni, tale confronto è cruciale: il contribuente ha qui l’opportunità di portare elementi difensivi che potrebbero convincere l’Ufficio a ridurre o annullare la pretesa prima che cristallizzi in un avviso. Purtroppo, non sempre l’Agenzia lo invia (talora per urgenza o per ravvicinata scadenza dei termini). La Cassazione, con orientamento recente, ritiene tuttavia che la mancata attivazione del contraddittorio costituisca motivo di nullità dell’accertamento, salvo nei casi di particolare urgenza comprovata . Pertanto, se un contribuente riceve un avviso senza aver avuto possibilità di interloquire, può eccepire la violazione del diritto al contraddittorio: diversi giudici tributari hanno accolto tale eccezione, annullando atti emessi a ridosso della decadenza senza previo confronto. È dunque sempre utile verificare se l’avviso è stato preceduto da invito o PVC, e valutare di sollevare l’eccezione in ricorso.

Una volta firmato, l’avviso va notificato al contribuente entro i termini decadenziali applicabili (ordinari o prorogati, come visto). La notifica può avvenire tramite messo notificatore, raccomandata AR, oppure via PEC (se il destinatario ha un domicilio digitale registrato). L’atto notificato perfeziona la pretesa tributaria per quell’anno. Da quel momento il contribuente ha 60 giorni per impugnare l’atto davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (già Commissione Tributaria Provinciale) , salvo che non scelga di definirlo per via amministrativa pagando o aderendo. Durante i 60 giorni l’atto non è ancora esecutivo (lo diventa decorso tale termine); tuttavia, trascorsi i 60 giorni, se non è stato presentato ricorso, l’avviso diviene definitivo e l’Agenzia può procedere a iscrizioni a ruolo e atti di riscossione coattiva (fermo restando che oggi gli atti emessi dal 2022 in poi scontano una riscossione sospesa per 180 giorni dalla notifica).

Sintesi operativa: il cronoprogramma tipico in questi casi è: controlli e raccolta prove (6-12 mesi) -> eventuale PVC GdF -> invito al contraddittorio (60 gg) -> avviso di accertamento (entro decadenza) -> 60 gg per pagare o ricorrere. Ogni anello di questa catena va analizzato dal difensore per verificare vizi formali o procedurali: ad esempio, è stato rispettato il termine dilatorio di 60 gg dal PVC (ex art. 12, c.7, L. 212/2000)? L’invito al contraddittorio era obbligatorio ed è stato omesso? L’avviso è motivato adeguatamente (o è apodittico)? È stato notificato alla persona/indirizzo giusto? Ci sono stati accessi non autorizzati? – Tutti questi aspetti possono costituire motivi di nullità da far valere in ricorso, a prescindere dal merito.

Difendersi in sede amministrativa (fase pre-contenziosa)

La fase amministrativa è quella in cui il contribuente può interloquire con l’Amministrazione prima di arrivare davanti a un giudice. Sfruttare al meglio questi strumenti deflattivi è spesso conveniente: consente di chiarire malintesi, ridurre sanzioni e magari chiudere la vicenda in tempi rapidi evitando i costi e i rischi del processo. Analizziamo le principali opzioni a disposizione quando si riceve (o si sta per ricevere) un accertamento per triangolazioni black list.

Contraddittorio endoprocedimentale e osservazioni difensive

Come accennato, nelle verifiche “a tavolino” l’Agenzia deve inviare un invito al contraddittorio prima dell’emissione dell’avviso (art. 5-ter D.Lgs. 218/97). Questo invito contiene in genere l’indicazione sintetica delle contestazioni e l’ammontare dei maggiori imponibili/imposte accertabili, e fissa una data per comparire o un termine (30 giorni) per memorie. È fondamentale non ignorare questo invito: presentarsi (personalmente o tramite professionista delegato) o almeno inviare una memoria scritta può fare la differenza. In tale sede è possibile fornire chiarimenti e documenti aggiuntivi che l’Ufficio potrebbe non avere: ad esempio, dimostrare che una certa società black list ha impianti reali allegando foto, contratti di affitto e bilanci; oppure evidenziare che determinati redditi erano già tassati all’estero (evitando così la contestazione della presunzione di evasione); o ancora segnalare errori materiali (es. un importo contestato errato). Le osservazioni vanno redatte con linguaggio chiaro e supportate da prova documentale: ricordiamo che siamo ancora in fase amministrativa, ma convincere qui l’ufficio significa evitare l’atto. Se l’Ufficio non accoglie le nostre ragioni e procede comunque, le memorie difensive depositate costituiranno comunque parte del fascicolo e potranno essere rilette dal giudice in caso di ricorso (è quindi utile formalizzare bene le eccezioni fin da questa fase). Un altro vantaggio: partecipare al contraddittorio e presentare documenti potrebbe evitare, in seguito, l’inibizione a produrre nuovi documenti in giudizio (nuove norme del processo tributario limitano le produzioni se il documento era già disponibile prima). In sostanza, giocarsi tutte le carte ora è una buona strategia. Al termine del contraddittorio, l’Ufficio può redigere un verbale di accordi o disaccordi: se alcune eccezioni sono state accolte, l’avviso definitivo potrebbe uscire ridimensionato.

Nel caso di PVC (Processo Verbale di Constatazione) della Guardia di Finanza – che avviene in caso di verifica in azienda – il contribuente ha 60 giorni per presentare osservazioni scritte prima che l’AdE emetta avviso (art. 12, c.7, L. 212/2000). Anche questa è un’opportunità da cogliere: le memorie al PVC vanno preparate con cura, eventualmente confutando analiticamente le risultanze dei verificatori e apportando evidenze alternative. Ad esempio, se il PVC conclude che una società estera è fittizia sulla base di alcuni indizi, potremo controbattere allegando ulteriori prove di sostanza economica ignorate dai verificatori. La Cassazione ha ritenuto illegittimo l’avviso emesso prima che scadano i 60 giorni dal PVC senza urgenza: quindi, segnalare l’eventuale violazione di questo termine è un altro elemento difensivo.

Accertamento con adesione

Una volta ricevuto l’avviso di accertamento (o anche prima, se c’è stato un pvc), il contribuente può attivare la procedura di accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997). Si tratta di presentare un’istanza di adesione all’ufficio accertatore (entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso), con la quale si chiede la sospensione dei termini di impugnazione e si manifesta la volontà di discutere la pretesa per eventualmente raggiungere un accordo. Nel contesto delle triangolazioni internazionali, l’adesione può essere uno strumento utile soprattutto se il contribuente riconosce in parte le contestazioni e vuole ottenere una riduzione di sanzioni e importi.

Vantaggi dell’adesione: Si apre un dialogo con l’Ufficio, spesso condotto da funzionari diversi (ad esempio la Direzione regionale se l’importo è elevato), dove si può negoziare. Se si raggiunge l’accordo, si paga quanto concordato con sanzioni ridotte a 1/3 (quindi, ad es., una sanzione del 150% diventa 50%). Inoltre, il contribuente può ottenere una comoda rateazione (fino a 8 rate trimestrali se importo > €50k). L’adesione consente anche di far valere le proprie ragioni in modo informale: si possono esporre elementi e documenti senza la rigidità del processo, e magari convincere l’Ufficio a rimodulare la pretesa (es. riconoscere la deducibilità parziale di un costo black list se si portano nuove prove, ridurre un reddito presunto dimostrando doppia tassazione, etc.). Nella pratica, a volte in sede di adesione si riesce a ricondurre la contestazione a importi inferiori (ad esempio applicando prezzi di trasferimento corretti invece di disconoscere l’intero costo).

Svantaggi e cautele: Avviando l’adesione, si sospende il termine per ricorrere (90 giorni dall’istanza + 60 dall’eventuale verbale negativo). Ciò allunga i tempi, il che può essere un vantaggio (per prepararsi meglio) ma anche un rischio se serve una definizione rapida. Inoltre, durante le riunioni di adesione bisogna stare attenti a non ammettere passivamente tutto: ogni concessione va ponderata, perché poi l’atto di adesione è definitivo e non impugnabile. È consigliabile partecipare assistiti da un tributarista esperto in negoziazioni, che sappia fin dove cedere e dove invece insistere. Se l’ufficio appare irriducibile (richiede tutto per intero), l’adesione può concludersi senza accordo: in tal caso verrà redatto verbale di esito negativo e i 60 giorni per il ricorso riprenderanno a decorrere (con almeno 60 giorni garantiti post-verbale).

In casi di infondatezza evidente dell’accertamento, l’adesione potrebbe non essere la via ideale (meglio far annullare tutto dal giudice). Invece, in situazioni borderline (ad esempio difficoltà oggettiva a reperire tutte le prove a proprio favore, rischio di soccombenza parziale in giudizio) un buon accordo può risparmiare tempo e sanzioni. Va ricordato che l’adesione, una volta perfezionata col pagamento, impedisce il sorgere di procedimenti penali tributari per i fatti accertati (costituendo causa di non punibilità se le somme dovute sono pagate prima del giudizio penale ex art. 13 D.Lgs. 74/2000) . Quindi se vi è un rischio penale concreto, definire in adesione può risolvere anche quella preoccupazione, estinguendo il reato (salvo riciclaggio e altri reati diversi da quelli tributari puri).

Autotutela e istanze di annullamento

L’autotutela è il potere/dovere dell’Amministrazione di annullare o rettificare i propri atti quando riconosce di aver commesso un errore. Il contribuente può sempre presentare un’istanza in autotutela all’ufficio, segnalando vizi o errori macroscopici dell’accertamento e chiedendone lo sgravio totale o parziale. È bene chiarire che l’autotutela è discrezionale: l’Ufficio non è obbligato a rispondere né tantomeno ad annullare. Però in alcuni casi funziona, specie per errori evidenti (es.: contestazione di redditi già dichiarati, scambio di persona, doppia imposizione palese, calcoli sbagliati, violazioni di legge lampanti). Nel nostro ambito, ipotesi che potrebbero giustificare un’autotutela: ad esempio se l’accertamento ha ignorato un accordo preventivo o un ruling dell’Agenzia (es. il contribuente aveva ottenuto un interpello che autorizzava la deducibilità di un costo black list, ma l’ufficio territoriale non ne era a conoscenza), oppure se sopravvengono nuovi documenti che dimostrano chiaramente la realtà di operazioni contestate. O ancora, se la pretesa è contraria a una sentenza passata divenuta definitiva tra le stesse parti (principio di affidamento).

L’istanza di autotutela va indirizzata al dirigente dell’ufficio che ha emesso l’atto e, se coinvolge temi di fiscalità internazionale complessa, può essere utile inviarla anche alla Direzione Regionale o Centrale (talvolta intervengono in questi casi). Presentare l’autotutela non sospende i termini per ricorrere né quelli di pagamento, quindi è un’azione parallela: va fatta senza fare troppo affidamento, giusto per dare all’Amministrazione l’opportunità di correggersi spontaneamente. Se l’istanza viene ignorata o respinta, si procede comunque con il ricorso. Se invece viene accolta, l’avviso può essere annullato in tutto o parte, risolvendo la questione.

È opportuno, in caso di errori palesi, allegare all’autotutela i documenti probanti e magari la giurisprudenza o la prassi a sostegno. Mantenere un tono formale ma collaborativo, senza minacciare (in autotutela si chiede “per favore” di rimediare). Alcuni esempi: un avviso che applica il raddoppio dei termini su un anno non coperto dalla norma (ad es. 2017) – qui si può citare la norma sopravvenuta e chiedere annullamento per decadenza; oppure un avviso che omette il contraddittorio in violazione di statuto – allegare Cassazioni pro-contribuente e invitare l’ufficio a evitare un contenzioso perso; o ancora, se si è scoperto dopo documenti decisivi all’estero (es. certificato camera di commercio del fornitore con 100 dipendenti) che l’ufficio non aveva visto – presentarli ora chiedendo il riesame. La prassi ministeriale raccomanda gli uffici di accogliere le autotutele in caso di errore manifesto, quindi tentar non nuoce.

Definizioni agevolate e “tregua fiscale”

Nel 2023 il legislatore ha varato una serie di misure di definizione agevolata (la cosiddetta tregua fiscale nella L. 197/2022) che potrebbero essere rilevanti anche per accertamenti su triangolazioni black list, a seconda della situazione:

  • Acquiescenza con sanzioni ridotte a 1/18: per gli avvisi di accertamento 2021-2022 non impugnati, era prevista la possibilità di pagarli con riduzione sanzioni a 1/18. Se l’accertamento rientrava in quelle scadenze e il contribuente non ha presentato ricorso entro il 30/4/2023, avrebbe potuto aderire. Questo però non vale per atti più recenti.
  • Definizione delle liti pendenti: se per un accertamento di questo tipo è già in corso un contenzioso al 2023, c’era la chance di definire la lite pagando un importo percentuale (es. 90% in primo grado, 40% in caso di vittoria in primo grado, etc.). Chi si trovasse in tale scenario (una lite avviata prima del 2023 su anni passati) può aver usufruito di questa sanatoria.
  • Conciliazione agevolata: liti pendenti al 1/1/23 potevano essere oggetto di conciliazione con sanzioni ridotte a 1/18.

Questi strumenti speciali, sebbene temporanei, mostrano che a volte conviene stare attenti a opportunità normative: la materia fiscale è in continua evoluzione e il legislatore talvolta offre “uscite di sicurezza” con sconti. Bisogna però coglierle entro i termini previsti. Ad agosto 2025, tali definizioni straordinarie sono concluse; ma in futuro altre potrebbero arrivare.

In generale, in sede amministrativa il punto di vista del debitore dev’essere pragmatico: se c’è spazio per transare a condizioni accettabili (pagando il giusto senza rovinarsi e chiudendo eventuali rischi penali), può valer la pena. Se invece la pretesa è palesemente infondata o eccessiva e l’Ufficio non sente ragioni, allora tanto vale prepararsi alla battaglia in tribunale.

Difesa in sede contenziosa (ricorso alle Corti tributarie)

Quando la via amministrativa non ha risolto la controversia, non resta che la strada del ricorso giurisdizionale davanti alla Corte di Giustizia Tributaria (CGT). Questa fase richiede un approccio tecnico rigoroso: si instaura un processo vero e proprio (sia pure nei canoni semplificati del rito tributario) in cui andranno sollevati tutti i motivi di illegittimità dell’atto e fornita la prova a sostegno. Di seguito analizziamo i profili principali per impostare una difesa vincente in giudizio.

Termini e procedure per il ricorso

Il termine generale per impugnare l’avviso di accertamento è di 60 giorni dalla sua notifica (estesi a 150 giorni se si è presentata istanza di adesione e questa non è andata a buon fine). Il ricorso va presentato telematicamente tramite il processo tributario telematico (PTT) ed è necessario essere assistiti da un difensore abilitato (avvocato, commercialista o altro professionista abilitato) se il valore della causa supera €3.000. Nel caso di contestazioni su triangolazioni internazionali, il valore in gioco di solito è ben oltre tale soglia, quindi l’assistenza tecnica è obbligatoria (ed è fortemente consigliabile, data la complessità).

Il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi specifici dell’impugnazione. Ciò significa che sin dal primo atto occorre articolare con chiarezza tutte le censure che si intendono muovere all’accertamento: tanto i motivi di diritto (violazione di legge, vizi di forma, incompetenza, prescrizione, ecc.) quanto i motivi di merito (insussistenza dei presupposti, erronea ricostruzione, ecc.). Bisogna allegare copia dell’atto impugnato e dei documenti probatori già disponibili, elencandoli in indice. Ulteriore documentazione potrà essere prodotta successivamente solo se non già disponibile prima (il nuovo art. 32 D.Lgs. 546/92 come modificato dalla riforma 2022 consente produzioni tardive solo se giustificate). Quindi è bene raccogliere il materiale probatorio prima possibile e presentarlo già col ricorso, se rilevante.

In parallelo al ricorso, se l’importo accertato è elevato e si teme l’esecuzione forzata (pignoramenti, fermi amministrativi) si può chiedere sospensione dell’esecuzione. L’istanza di sospensione va motivata con il fumus boni juris (probabilità di vittoria, ad esempio avviso manifestamente nullo) e il periculum (danno grave e irreparabile se si deve pagare subito). Nel nostro caso, se vengono iscritti a ruolo importi ingenti, il periculum può essere la crisi di liquidità dell’azienda. Spesso i giudici concedono la sospensiva se vedono che, ad esempio, c’è un evidente vizio procedurale oppure se l’importo è sproporzionato e il contribuente è solvibile. La sospensione blocca la riscossione fino alla sentenza di primo grado.

Il giudizio tributario di primo grado si svolge prevalentemente scritto, con possibilità di trattazione orale se richiesta. Data la tecnicità del tema, è opportuno chiedere udienza pubblica per poter spiegare a voce ai giudici (che non sempre hanno profonda esperienza di fiscalità internazionale) gli snodi del caso. Le memorie difensive successive (ex art. 32, 33 D.Lgs. 546/92) consentono di replicare alle deduzioni dell’Agenzia e produrre eventuali ulteriori documenti (nel rispetto dei termini). Se c’è bisogno di acquisire prove non documentali (es. testimonianze), nel processo tributario è difficile, ma la riforma 2022 ha introdotto la possibilità di prova testimoniale scritta in casi eccezionali (art. 7, c.4-bis). È ipotizzabile, ad esempio, far rendere dichiarazione giurata a un soggetto estero che attesti l’effettiva esecuzione di certe prestazioni, qualora la sua testimonianza sia decisiva e non surrogabile da documenti. Tuttavia, va usata cautela e concordata col giudice l’ammissibilità.

Linee difensive di merito: come contestare la pretesa

Nelle controversie su triangolazioni con black list, le difese di merito ruotano attorno a due assi: contestazione dei presupposti normativi e confutazione del fatto. In pratica, dovremo sia sostenere che la norma invocata dal Fisco non è applicabile (o non più vigente, o interpretata scorrettamente), sia – in subordine – che comunque i fatti non integrano quella fattispecie.

Alcune possibili argomentazioni di merito:

  • Non applicabilità della norma sui costi black list: se l’anno accertato è, poniamo, il 2018, l’ufficio potrebbe aver contestato costi infragruppo verso Dubai richiamando la vecchia presunzione di indeducibilità. Ma noi obietteremo che nel 2018 quella norma era abrogata (dal 2016 al 2022 non era in vigore) e dunque la contestazione va valutata alla luce delle sole norme generali (inerenza, transfer pricing). Spesso gli Uffici territoriali sbagliano ad applicare normative superate: evidenziarlo può portare all’annullamento della ripresa, poiché l’atto risulta motivato in base a una norma inesistente. Analogamente, se contestano raddoppio termini su 2017 senza reato, anche qui eccepiremo error in iudicando. Citare le fonti normative e circolari è utile .
  • Insussistenza dei presupposti della presunzione: ad esempio, contestare che lo Stato estero sia effettivamente a regime fiscale privilegiato secondo la definizione di legge. In passato c’erano casi dubbi (es. Hong Kong prima del 2015 era black list per i privati ma aveva un trattato per imprese). Oggi con la black list UE può darsi che l’Ufficio consideri “non cooperativo” un Paese non in lista. Se la controparte estera non rientra formalmente nella lista UE né in altre definizioni normative, si può eccepire che la presunzione di indeducibilità non doveva scattare e l’onere probatorio restava all’Ufficio. Questo può ribaltare l’esito: se per esempio la società estera era a Malta (che ha tax system particolare ma è UE e non black list), l’ufficio non può trattarla come black list a cuor leggero. La difesa insisterà su questo punto, citando magari prassi (circolare) che chiariscono i Paesi rilevanti.
  • Prova contraria: sul merito dei fatti, occorre portare in Commissione quante più prove possibili dell’effettività delle operazioni contestate. Questo è il cuore del contenzioso: presentare i contratti, i documenti di spedizione, le fatture, i pagamenti (tracciati), la corrispondenza commerciale, fotografie, visure camerali estere, organigrammi, magari perizie di parte che attestino il valore di mercato delle transazioni. Tutto serve per convincere i giudici che dietro le carte c’era sostanza: la merce è stata consegnata davvero, la controparte estera esisteva e operava, il prezzo non era gonfiato oltre il normale, e la scelta di quel fornitore/cliente aveva ragioni economiche (es. rapidità di fornitura, qualità). Ad esempio, si potrebbe depositare una comparazione di prezzi di mercato per dimostrare che il prezzo pagato al fornitore black list era allineato e non un transfer pricing manipolato. Oppure portare l’organigramma aziendale per mostrare che la società estera non è posseduta (né diretta) dal contribuente italiano, negando così l’assunto di interposizione. Ancora, se l’ufficio accusa che i beni non sono mai transitati nel paese intermedio, si possono esibire documenti doganali, CMR, tracking spedizioni che provino il percorso. Più evidenze oggettive e terze riusciamo a fornire, maggiore la credibilità. La testimonianza scritta di un partner estero (come detto) potrebbe essere valutata: ad esempio, una dichiarazione giurata dell’amministratore della società offshore che spieghi le sue attività e confermi la realtà delle operazioni, allegando magari i bilanci esteri.
  • Contestazione del metodo del Fisco: spesso l’Agenzia quantifica l’evasione con metodi induttivi/non precisi (es. assume che tutto il margine del black list sia fittizio). La difesa può proporre un calcolo alternativo: ad es. riconoscere una parziale rideterminazione prezzi ma inferiore. Sostenere quindi che l’ufficio non ha provato che tutto il costo era indebito, e suggerire che al più poteva essere ridotto. Questa è una difesa “di compromesso” che talvolta i giudici accolgono: possono ad esempio annullare solo parzialmente l’atto, riducendo la base imponibile. Certo, idealmente si punta all’annullamento totale, ma va calibrato col merito del caso. Se qualcosa non torna (es. margini troppo esigui in Italia), può convenire ammetterlo parzialmente e contestare l’eccesso.
  • Doppia tassazione internazionale: se la vicenda comporta che certi redditi sono stati tassati anche all’estero (magari in minima parte, ma tassati), si può invocare l’applicazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni. Esempio: l’ufficio imputa in capo al socio italiano i redditi di una società estera, ma quella società ha pagato un po’ di tasse all’estero; allora si chiederà almeno il credito d’imposta estero su quanto già versato fuori (art. 165 TUIR). Oppure se fa emergere dividendi esteri non dichiarati e li tassa, occorre verificare se erano già stati oggetto di ritenuta estera e chiedere il credito. Questo non annulla la pretesa, ma evita un’eccessiva duplicazione di imposta. In alcuni casi estremi, qualora la condotta elusiva non venga provata, si potrebbe far intervenire l’Authority MAP (Mutual Agreement Procedure) tra stati per risolvere conflitti impositivi, ma è scenario raro e post-sentenza di solito.

In generale, la difesa in giudizio dev’essere multilivello: contestare tutto il contestabile, fornire ogni prova, citare la normativa (anche di fonte UE/OCSE se utile) e la giurisprudenza di supporto. Ad esempio, citare Cass. 8716/2025 che ha confermato la deducibilità dei costi in operazioni soggettivamente inesistenti purché provate reali , se il nostro caso è simile (triangolazione con interposto fittizio, che è una forma di operazione soggettivamente inesistente). Oppure Cass. 23842/2025 (menzionata in un articolo recente) che pare sottolineare l’importanza della sostanza economica per escludere l’esterovestizione . La citazione di precedenti favorevoli serve a orientare la Commissione verso soluzioni già accettate. Attenzione però: la giurisprudenza di legittimità sulle presunzioni anti-paradisi è spesso pro-Fisco, quindi selezionare con cura solo quelle poche a favore del contribuente.

Eccezioni procedurali e vizi formali

Accanto alle difese di merito, non vanno trascurate le eccezioni formali e procedurali, che talvolta permettono di vincere il ricorso “a tavolino” indipendentemente dal merito. Le principali da considerare:

  • Notifica e motivazione: verificare sempre se l’avviso è stato notificato correttamente (persona giuridica: sede giusta, PEC giusta; persona fisica: residenza anagrafica, etc.). Irregolarità nella notifica possono portare a nullità se non sanate dalla costituzione in giudizio dell’ente. Inoltre, controllare che l’avviso contenga una motivazione sufficiente ai sensi dell’art. 42 DPR 600/73: deve spiegare i fatti e le norme che giustificano la ripresa . Se fosse eccessivamente generico o apodittico (es. “si disconoscono costi per €X verso società black list in quanto ritenuti non inerenti” senza spiegare nulla), si può eccepire difetto di motivazione. La CTR Lazio con sentenza n. 911/2023 (citata in dottrina ) ha annullato un accertamento proprio per motivazione carente su costi black list, evidenziando che l’Ufficio deve dettagliare il perché considera il costo non deducibile e su quali elementi si fonda.
  • Violazione del contraddittorio: come detto, se l’avviso è stato emesso senza previo invito, e non c’era urgenza, si eccepisce violazione dell’art. 5-ter D.Lgs. 218/97 e del diritto di difesa costituzionale. La Cassazione è altalenante, ma molte Commissioni accolgono questa eccezione, specie in materia di accertamenti “a tavolino” su redditi esteri (dove il contraddittorio sarebbe utilissimo) . Anche la mancata concessione dei 60 giorni post-PVC è motivo di nullità ex Statuto contribuente.
  • Decadenza dei termini: bisogna calcolare esattamente fino a quando l’Ufficio poteva accertare. Se ha notificato dopo il termine, l’atto è nullo. Occorre considerare le eventuali sospensioni (adesione presentata sospende 90gg) e proroghe. Esempio: redditi 2015, dichiarazione presentata il 30/9/2016, termine ordinario 31/12/2021; con raddoppio paradiso fiscale (previgente) sarebbe 31/12/2026, ma tale raddoppio per 2015 era vigente (poi abolito da 2016). Se notificano nel 2023, per l’anno 2015 era ancora nei 10 anni, ok. Ma se fosse anno 2016, il raddoppio non c’è, quindi termine 31/12/2022; se notificato 2023 e non c’è reato, decaduto. Queste finezze vanno usate come armi in ricorso. Anche qui, spesso l’Ufficio interpreta a proprio favore, quindi il difensore deve ricostruire la normativa corretta e presentarla al giudice.
  • Vizi nella delega di firma o competenza: controllare se l’atto è firmato da chi di dovere (direttore o funzionario delegato). In passato alcuni accertamenti saltati per deleghe generiche o mancata prova della qualifica di chi ha firmato. Sono vizi formali ma da sollevare se si sospettano.
  • Doppia imposizione e ne bis in idem: se per gli stessi fatti il contribuente è stato già attinto da un altro avviso o da una sentenza penale, si può valutare eccezioni di ne bis in idem sostanziale. Ad esempio, se un socio ha già subito accertamento CFC e ora gliene fanno un altro sulle stesse somme come dividendi, sarebbe duplicazione. Non comune, ma da monitorare.
  • Violazione dello Statuto del contribuente: art. 6 (diritto a conoscere facilitazioni, etc.), art. 7 (motivazione per relationem se c’è un PVC, il PVC andava allegato), art. 10 (affidamento e buona fede: se contribuente ha seguito indicazioni dell’Ade poi cambiate senza avviso). Queste eccezioni raramente portano all’annullamento da sole, ma possono corroborare un quadro di illegittimità generale.

Il giudizio di appello e Cassazione

Se in primo grado la decisione è sfavorevole, il contribuente può appellare in Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (entro 60 gg dalla notifica della sentenza). In appello si possono riproporre i motivi già dedotti e, in parte, introdurne di nuovi se attinenti a fatti emergenti dalla sentenza. Il contenzioso potrebbe proseguire per vari anni e arrivare in Cassazione sulla base di motivi di diritto (violazione di norme o vizi di motivazione della sentenza d’appello). La Cassazione ha l’ultima parola: negli ultimi anni ha emesso pronunce importanti a sezioni unite in materia fiscale, ma su triangolazioni black list non risultano pronunce delle Sezioni Unite, bensì varie ordinanze di sezione (spesso la V).

Per esempio, la Cassazione n. 21906/2025 ha esaminato un caso di costi verso San Marino (ex black list) ribadendo che l’onere di provare la reale operatività del fornitore spetta al contribuente e che il mero patrocinio sportivo a una società sammarinese, priva di concreta attività, non era deducibile . Oppure Cass. 6101/2024 ha affermato principi generali sull’onere della prova dell’inerenza e sull’inversione solo in presenza di norme speciali . Questi precedenti di legittimità, se sfavorevoli, vanno distinti dal proprio caso e se favorevoli vanno sfruttati, magari producendo la copia della sentenza (consentito in Cassazione come memoria illustrativa).

In definitiva, la difesa in giudizio richiede competenza tecnica, approfondimento normativo e acume processuale. È consigliabile predisporre anche schemi riepilogativi per i giudici (ad es. un prospetto cronologico degli eventi, un organigramma semplice delle società coinvolte) e magari una tabella comparativa tra la tesi del Fisco e la tesi difensiva, per guidarli nella decisione. Nel ricorso spesso giova inserire una sezione di fact-checking: elencare punto per punto le affermazioni dell’Ufficio e replicare con le evidenze contrarie. I giudici apprezzano la chiarezza.

Profili penali e rapporti col processo tributario

Una menzione importante riguarda il possibile doppio binario: se la triangolazione ha portato a frodi fiscali penalmente rilevanti, parallelamente al ricorso tributario potrebbe avviarsi un procedimento penale a carico dei responsabili (amministratori, titolari, consulenti) per violazioni del D.Lgs. 74/2000. I reati tipici configurabili sono: dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) se l’operazione triangolare è ritenuta un artificio per evadere (ad es. transfer pricing manipolato, società esterovestita simulata come indipendente); dichiarazione fraudolenta con fatture false (art. 2) se addirittura si considerano le fatture estere come soggettivamente inesistenti (cioè emesse da entità fittizia: in tal caso sarebbero “false” e il reato scatterebbe con soglia €1.5M di elementi passivi fittizi); dichiarazione infedele (art. 4) se semplicemente non si dichiarano redditi esteri o si deducono costi indebiti oltre soglia di punibilità (€100k imposta evasa e 10% di infedeltà); omessa dichiarazione (art. 5) se addirittura l’esterovestizione porta a non presentare dichiarazione in Italia oltre soglia (€50k imposta evasa). Inoltre, la successiva gestione dei fondi evasi all’estero potrebbe configurare autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.) dal 2015 in avanti : chi reimpiega stabilmente i proventi di reati fiscali in attività economiche (o li occulta in conti offshore) rischia fino a 8 anni di carcere, autonomamente dal reato fiscale. Infine, condotte volte a sottrarsi al pagamento di imposte accertate (es. spostare patrimonio su trust offshore dopo la notifica dell’avviso) integrano sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000).

È chiaro che il profilo penale aggiunge ulteriore pressione sul contribuente. È importante sapere che l’esito del processo tributario non vincola il giudice penale (e viceversa), ma una sentenza tributaria favorevole può influenzare positivamente il procedimento penale, soprattutto se attesta l’assenza del fatto evasivo. Ad esempio, se la Commissione tributaria annulla l’accertamento ritenendo provata la sostanza dell’operazione, sarà più difficile per la Procura dimostrare il dolo di frode. Spesso, quindi, i due procedimenti vanno avanti in parallelo ma il penale viene sospeso in attesa delle decisioni tributarie (è prassi, sebbene non obbligatoria).

Dal lato difensivo, è fondamentale coordinare la strategia: non dire nel processo tributario cose che possano nuocere nel penale (ad es. ammettere consapevolezza di un certo stratagemma). Meglio mantenere una linea coerente di buona fede: “l’operazione era reale e genuina, abbiamo documentazione, eventuali irregolarità sono formali o dovute a interpretazioni”. Se il rischio penale è concreto, è opportuno coinvolgere sin da subito un avvocato penalista esperto di reati tributari, che lavori col tributarista per allineare le difese.

Ricordiamo infine che l’art. 13 del D.Lgs. 74/2000 prevede la non punibilità dei reati di dichiarazione fraudolenta/infedele/omessa se il contribuente paga integralmente imposte, sanzioni e interessi prima del dibattimento penale . Ciò significa che se si definisce l’accertamento (in adesione, acquiescenza o anche dopo sentenza passata in giudicato) e si paga tutto, i reati vengono estinti. Questo può essere un motivo per valutare accordi transattivi con l’Agenzia: la cosiddetta “oblazione” fiscale evita guai giudiziari. Se però il contribuente è convinto di avere ragione e vuole resistere, deve sapere che un’eventuale condanna penale potrebbe comportare sanzioni severe (reclusione, confisca per equivalente dei beni per il valore dell’evaso, interdittive). In alcuni casi, concordare col PM un patteggiamento può ridurre i danni, ma è materia extra-tributaria.

Strumenti di cooperazione internazionale e difesa transnazionale

Le triangolazioni con paesi esteri naturalmente toccano più ordinamenti, quindi è rilevante considerare anche gli strumenti di cooperazione e mutua assistenza tra Stati, nonché qualche aspetto di diritto internazionale che può essere impiegato a difesa.

Scambio automatico di informazioni (CRS & FATCA): come detto, dal 2017 è operativo lo standard CRS OCSE, a cui aderiscono oltre 100 giurisdizioni (inclusi molti ex-paradisi). Ciò significa che i dati su conti bancari, depositi, valori mobiliari intestati a residenti italiani in quei paesi arrivano annualmente all’Agenzia delle Entrate. Per il contribuente, questo elimina il vantaggio dell’opacità: non può più contare sul segreto bancario estero. In un’ottica difensiva, però, i dati CRS devono essere accurati: se l’Agenzia riceve erroneamente a nome suo un conto che invece appartiene a un omonimo, ad esempio, il contribuente potrà contestare la corrispondenza soggettiva (è capitato in rari casi di scambi di persona, codici fiscali simili, etc.). Il dato CRS gode di presunzione di veridicità , ma è iuris tantum: con prove contrarie (es. attestazione banca estera di errore) si può confutare. Inoltre, l’uso dei dati CRS deve rispettare i fini istituzionali: non potrebbero, ad esempio, essere usati in un procedimento penale senza seguire le regole di rogatoria (questione dibattuta, ma formalmente il CRS è per scopi fiscali amministrativi). In difesa si può eccepire l’utilizzabilità di prove estere se acquisite violando i canali: es. file rubati (Panama Papers) – tuttavia, la giurisprudenza italiana tende ad ammettere anche prove “anomale” nel tributario, col principio del libero convincimento.

Scambio di informazioni su richiesta: se il contribuente ritiene che l’Amministrazione avrebbe potuto (o dovuto) attivare una richiesta verso l’estero e non l’ha fatto, può evidenziare che mancano prove cruciali. Ad esempio: l’ufficio sostiene che la società X alle Bahamas è fittizia, ma non ha nemmeno chiesto alle autorità bahamensi i bilanci di X (che magari esistono). La difesa potrebbe sollecitare il giudice a invitare l’Ufficio a integrare l’istruttoria con una richiesta internazionale, oppure – più spesso – potrebbe autonomamente procurarsi tali elementi e produrli (tramite i propri canali, es. visura via agenzie specializzate). Tuttavia, c’è un limite: spesso i paesi black list non rispondono o il contribuente stesso non può accedervi facilmente.

Mutual Agreement Procedure (MAP) e Arbitrato internazionale: per accertamenti che coinvolgono due Stati che rivendicano tassazione sugli stessi redditi (doppia imposizione giuridica o economica), le convenzioni e la Convenzione Arbitrale UE prevedono procedure amichevoli tra autorità competenti. Ad esempio, se l’Italia tassa come utile di stabile organizzazione l’utile di una società svizzera e la Svizzera già lo tassava, ci sarà doppia imposizione. Il contribuente può attivare la MAP per far dialogare Agenzia Entrate e Swiss Federal Tax Admin. Questo strumento esula dal processo tributario ma può essere attivato parallelamente (e il processo può essere sospeso in attesa dell’esito). È complesso e lungo, ma in taluni casi porta ad accordi di riparto della base imponibile. Nel nostro caso, in verità, spesso l’altro Stato è a tassazione nulla, quindi il problema di doppia imposizione non si pone (c’è solo imposizione aggiuntiva italiana). Se invece c’è di mezzo un Paese UE o con convenzione, valutare la MAP può avere senso in situazioni di transfer pricing internazionale contestato.

Richiesta di assistenza in recupero e misure cautelari estere: l’Italia può chiedere ad alcuni Stati (specie UE) aiuto per riscuotere coattivamente imposte evase o congelare beni (Reg. UE 2010/24). Se il contribuente possiede immobili o conti in paesi convenzionati, l’AE può ottenere il loro sequestro fino a concorrenza del debito tributario. Questo è un aspetto da considerare se, ad esempio, l’imprenditore ha spostato il patrimonio all’estero credendo di sfuggire: convenzioni e accordi bilaterali (anche con Svizzera, ora) permettono di aggredire quei beni. In difesa, se vi sono procedimenti di questo tipo, occorre assicurarsi che l’atto italiano sia sospeso o annullato, altrimenti anche all’estero faranno valere il titolo.

Penalizzazioni internazionali (black list UE): la presenza nella black list UE può comportare anche effetti indiretti: ad esempio, l’Italia nega la deducibilità come visto, ma l’UE potrebbe anche limitare finanziamenti o fondi verso quelle giurisdizioni. Non impatta direttamente il contenzioso, ma spiega perché certe giurisdizioni vengono viste male dai giudici. Al contrario, se un paese esce dalla black list UE durante il processo (come Antigua 2024), il difensore lo segnalerà per rafforzare l’idea che quel paese non è poi così malvagio fiscalmente, invitando a un giudizio meno severo .

Cooperazione penale e estradizione: qualora la vicenda assumesse contorni penali gravi e il responsabile si trovi in un paradiso fiscale non estradante, questo può complicare le cose (es. latitanti rifugiati a Dubai). Ma per il debitore fiscale che resta in Italia, rileva poco. È bene sapere comunque che accordi di estradizione e assistenza giudiziaria esistono ormai anche con diversi ex paradisi, per cui non è più scontato sfuggire alla giustizia penale rifugiandosi a Montecarlo o altrove.

Impatti della riforma fiscale OCSE (Pillar 2): in prospettiva futura, con l’adozione del Global Minimum Tax 15% (Pillar 2 OCSE) a partire dal 2024-2025 per grandi gruppi multinazionali, i vantaggi di spostare utili in paesi a tassazione inferiore al 15% saranno ridotti perché la casa madre dovrà pagare una top-up tax per colmare il gap. Questo scenario riguarderà le imprese sopra 750 milioni di fatturato, ma indica un trend: l’arbitraggio fiscale internazionale sta diventando meno proficuo. Nei prossimi anni, quindi, il contenzioso su triangolazioni black list per i big potrebbe ridursi grazie a normative globali di armonizzazione. Per le PMI e persone fisiche, però, la vigilanza resta alta da parte del Fisco.

Conclusione: suggerimenti pratici dal punto di vista del contribuente

Affrontare un accertamento per triangolazioni con paesi black list richiede dunque una duplice competenza: fiscale internazionale (per muoversi tra norme anti-elusive, trattati e prassi OCSE) e processuale tributaria (per far valere efficacemente i propri diritti). Dal punto di vista del contribuente, possiamo riassumere alcuni consigli chiave:

  • Prevenzione: è sempre meglio evitare di trovarsi in tali situazioni. Se si opera con controparti in paradisi fiscali, documentare scrupolosamente il business case (perché si usa quella controparte) e assicurarsi di avere prove concrete dell’operazione. Valutare di richiedere un interpello probatorio all’Agenzia prima di dedurre costi black list, ove possibile: l’interpello (art. 11, co. 1, lett. b) L. 212/2000) consente di ottenere un parere sulla deducibilità, presentando la documentazione a supporto . In caso di risposta positiva, si mette al riparo da sanzioni. In caso di risposta negativa, almeno si sa come comportarsi (magari rinunciando alla deduzione). Inoltre, le grandi imprese con attività internazionale possono aderire al regime di adempimento collaborativo (cooperative compliance) se ne hanno i requisiti, ottenendo un dialogo costante con l’Agenzia e accordi preventivi sui prezzi di trasferimento e sul valore normale .
  • Reattività: se nonostante tutto arriva un avviso, non perdere tempo. I 60 giorni per reagire volano: organizzare subito la difesa, raccogliere i documenti (anche contattando la controparte estera per farsi dare bilanci, contratti, ecc.), e magari regolarizzare spontaneamente eventuali errori formali (il ravvedimento operoso è ammesso solo finché l’accertamento non è notificato; dopo, si può tutt’al più pagare ridotto in acquiescenza). In alcuni casi, se l’accertamento non è definitivo (es. si riceve un Processo Verbale o una comunicazione di irregolarità), conviene procedere al ravvedimento di quanto omesso per ridurre sanzioni e forse evitare il penale.
  • Difesa tecnica specializzata: queste controversie non sono terreno per il fai-da-te. Bisogna coinvolgere professionisti con esperienza specifica in fiscalità internazionale e contenzioso. La materia tocca troppi ambiti (dal diritto tributario sostanziale a quello penale, internazionale, amministrativo) perché un non addetto possa cavarsela da solo. Anche l’imprenditore più preparato farebbe bene ad affidarsi a consulenti competenti, come avvocati tributaristi, eventualmente coadiuvati da commercialisti esperti di transfer pricing, e penalisti se serve. I costi di una buona difesa sono nulla in confronto alle somme in gioco (imposte evase, sanzioni multipli, possibili confische penali).
  • Buona fede e collaborazione: adottare un atteggiamento trasparente (per quanto possibile). Se davvero l’operazione era in buona fede, farlo emergere: ad esempio, mostrare di aver chiesto pareri pro veritate prima, di aver seguito le indicazioni di un consulente, di non aver nascosto documenti durante la verifica. Questo può non evitare la sanzione amministrativa, ma incide su quelle penali (una condotta attiva di ravvedimento può evitare la punibilità) e spesso predispone meglio l’organo decidente verso il contribuente.
  • Valutare accordi vs. andare fino in fondo: ogni situazione è a sé. Se il Fisco ha solide prove e il contribuente è effettivamente in difetto, insistere in un contenzioso ostinato può aggravare la posizione (soprattutto penale). In tal caso, cercare un accordo in adesione o transare la lite può essere la mossa più saggia. Viceversa, se si hanno buone carte da giocare e la pretesa è ingiusta, non aver timore di portarla fino in Cassazione: col tempo, e magari con nuove aperture giurisprudenziali, si potrebbe ottenere giustizia. Ad esempio, recentemente c’è stata maggiore attenzione al principio di affidamento: se un contribuente aveva interpretato una norma in buona fede e per anni il Fisco non ha obiettato, punirlo retroattivamente è apparso eccessivo a certe Corti (specie in materia di esterovestizione persone fisiche UE). Quindi, persistere a volte paga.

In conclusione, il contribuente debitore di imposta non è privo di difese di fronte a un accertamento su triangolazioni black list, ma deve mettere in campo una strategia ben congegnata, documentata e multidisciplinare. Il contesto attuale – con la cooperazione internazionale in continuo aumento e normative sempre più stringenti – vede il Fisco partire “avvantaggiato” grazie a presunzioni e dati globali, ma ciò non significa che ogni contestazione sia corretta o insuperabile. Far valere le proprie ragioni è possibile, come dimostrano i casi in cui i contribuenti hanno ottenuto annullamenti parziali o totali dimostrando la legittimità delle proprie operazioni . L’importante è agire con tempestività, competenza e cognizione di causa in questo terreno insidioso ma non impossibile.

Di seguito, presentiamo alcune Domande e Risposte frequenti (FAQ) che riassumono i punti chiave e chiariscono dubbi comuni sulla difesa da accertamenti inerenti operazioni con paesi black list.

Domande frequenti (FAQ)

D: Cosa significa esattamente “triangolazione con un paese black list”?
R: Si tratta di uno schema in cui un’operazione (ad es. compravendita di beni o servizi) coinvolge tre soggetti: tipicamente un’impresa italiana, una controparte economica effettiva (cliente o fornitore vero) e un soggetto intermedio localizzato in un paradiso fiscale. Quest’ultimo può essere una società controllata dall’impresa italiana o un’entità di comodo indipendente, inserita nella transazione per conseguire vantaggi fiscali. Ad esempio, l’impresa italiana vende sottocosto alla società offshore (black list), la quale rivende a prezzo di mercato al cliente finale: in questo modo gran parte dell’utile si sposta sul soggetto offshore, sottratto alla tassazione italiana. Oppure avviene l’inverso: l’italiana acquista a prezzo gonfiato dall’intermediario offshore (che a sua volta compra a poco dal vero fornitore), deducendo in Italia un costo maggiore e spostando il profitto all’estero. In genere, per triangolazione si intende quindi l’uso di un’entità residente in un paese a fiscalità privilegiata in un rapporto commerciale altrimenti riconducibile a due parti. L’Agenzia delle Entrate considera queste strutture potenzialmente elusive/evasive e le sottopone a verifica .

D: Quali sono attualmente i paesi considerati “black list” dal Fisco italiano?
R: Dipende dal contesto normativo:
– Per la presunzione di residenza delle persone fisiche (art. 2 co.2-bis TUIR) vale la lista del DM 4 maggio 1999, aggiornata dal MEF. Comprende oltre 50 Stati e territori con regime fiscale privilegiato. Alcuni esempi noti: Andorra, Bahamas, Barbados, Belize, Bermuda, Isole Cayman, Jersey, Guernsey, Gibilterra, Hong Kong, Mauritius, Montecarlo, Panama, Singapore, Emirati Arabi, Seychelles, Vanuatu, ecc. . (Dal 2024 la Svizzera è stata tolta da questa lista ). Chi si trasferisce in questi paesi è presunto residente in Italia salvo prova contraria.
– Per la deducibilità limitata dei costi black list (art. 110 TUIR), dal 2023 si fa riferimento ai Paesi non cooperativi ai fini fiscali individuati nella “black list UE”. Attualmente (2025) nella black list UE figurano ad esempio: Samoa Americane, Anguilla, Bahamas, Fiji, Guam, Palau, Panama, Russia, Samoa, Seychelles, Trinidad e Tobago, Isole Turks e Caicos, Isole Vergini Americane, Vanuatu, ecc. . Questa lista è aggiornata periodicamente dall’UE (due volte l’anno). Quindi, se un costo si riferisce a un soggetto residente in uno di questi Stati, scatta la disciplina limitativa (deducibile solo fino a valore normale, ecc.).
– Ai fini delle sanzioni monitoraggio RW e presunzione art. 12 DL 78/09, rilevano i paesi “a regime fiscale privilegiato” identificati dai DM 4/5/1999 (persone fisiche) e DM 21/11/2001 (società), che sostanzialmente coincidono con la prima lista (hanno subìto modifiche nel tempo ma il concetto è simile). Ad esempio, Antigua e Barbuda è considerato paradiso fiscale per queste norme (infatti l’Italia ne ha applicato presunzioni e raddoppi fino al 2024) .
In pratica rientrano nella nozione di “black list” quasi tutti i tradizionali paradisi fiscali extra-UE e alcuni regimi privilegiati intra-UE (es. prima del 2004 c’erano anche Cipro, Malta, ora tolti). È sempre opportuno verificare l’aggiornamento normativo: l’elenco è fluido. Sul sito dell’Agenzia delle Entrate di solito si trovano i link agli ultimi decreti emanati.

D: Ho ricevuto un accertamento che contesta costi verso un fornitore di Hong Kong del 2018, ma Hong Kong non è nella black list UE e la norma costi black list era abrogata in quell’anno. Posso far valere questa cosa?
R: Sì. Per il 2018 la disciplina black list sui costi non era in vigore (era stata abrogata dal 2016) . Inoltre Hong Kong, pur a bassa tassazione, oggi non è nella lista UE dei non cooperativi (perché scambia informazioni con l’Italia). Quindi l’Ufficio non poteva applicare la presunzione di indeducibilità automatica. Doveva al più contestare il costo come non inerente o fuori valore normale ex art. 109 TUIR o art. 9 TUIR, ma mantenendo l’onere della prova a suo carico. In sede di ricorso, certamente eccepirà che l’atto è viziato perché fondato su norma non applicabile ratione temporis. La Cassazione ha annullato accertamenti dove l’Amministrazione invocava impropriamente l’art. 110 c.10-11 fuori dal suo ambito temporale . Quindi, sì: è un argomento di difesa forte. In parallelo, dovrà comunque dimostrare l’effettività di quei costi (per confutare anche un’eventuale contestazione di inerenza), ma l’errore di diritto dell’Ufficio potrebbe di per sé portare all’annullamento parziale o totale dell’atto.

D: Se l’Agenzia delle Entrate accerta utili non dichiarati su un mio conto in un paradiso fiscale (es. Singapore) e io sostengo che quei soldi erano già stati tassati in Italia in passato, come posso difendermi?
R: In questo caso si rientra nella presunzione di cui all’art. 12 DL 78/09: i capitali occultati in black list si presumono redditi evasi . Per difendersi occorre provare la provenienza di quei fondi. Ad esempio, se derivano da utili di anni precedenti già tassati e poi trasferiti all’estero, o da redditi esenti/donazioni/etc. Dovrà produrre la documentazione: estratti conto italiani da cui risultano i bonifici verso l’estero, dichiarazioni dei redditi pregresse dove quegli utili comparivano, atti di donazione o successione se è il caso, contratti di vendita di beni il cui ricavato è finito su quel conto. In pratica deve tracciare l’origine lecito-fiscale del denaro. Se ci riesce, la presunzione viene vinta e l’accertamento su quell’importo dovrebbe cadere . Se invece non fornisce prove convincenti, il Fisco vincerà e tasserà l’intero capitale come reddito non dichiarato. È una dimostrazione non semplice, specie se i fondi sono frutto di accumulo di tanti anni: in tal caso, anche argomentare per logica (ad es. “vedete che ogni anno prelevavo utili di 50k € e infatti sul conto estero sono entrati circa quelle somme”) può aiutare. Ma servono riscontri oggettivi. Una difesa alternativa, se quei redditi in realtà erano prodotti all’estero e tassati solo lì, è invocare eventuali crediti per imposte pagate all’estero o la non imponibilità se era reddito estero non imponibile (ma in caso di residenza italiana, pochi redditi esteri sono non imponibili, solo alcuni casi tipo lavoro dipendente se iscritto AIRE e oltre 183gg all’estero, ecc.). Quindi la strada maestra è provare che non erano redditi, ma capitale già tassato o fuori campo. In mancanza, meglio valutare un accordo (specie se le sanzioni raddoppiate rendono il conto salato).

D: In fase di verifica non ho avuto modo di spiegare bene le mie ragioni. Posso confidare nel fatto che in Commissione le potrò far valere, o rischio che sia troppo tardi?
R: Può certamente farle valere in Commissione, però deve portare le prove. Nel processo tributario vige il principio dispositivo con prova: il giudice decide su ciò che le parti allegano e provano. Quindi, se in verifica non è riuscito a convincere i verificatori, ora davanti al giudice tributario dovrà produrre lei gli elementi a suo favore. Facciamo un esempio: il PVC della Guardia di Finanza dice che la sua società estera è fasulla perché non aveva dipendenti; lei invece in realtà aveva contratti di servizi in outsourcing, ma non l’ha spiegato. Ecco, in Commissione potrà presentare quei contratti di outsourcing e magari testimonianze (dichiarazioni) di chi forniva il servizio, per dimostrare che l’attività estera c’era eccome, solo svolta da terzi. Il giudice valuterà tutto ex novo. L’importante è non farsi precludere prove: oggi la legge impone di produrre già col ricorso ciò di cui si dispone. Non aspetti troppo. Se scopre nuovi documenti solo dopo (succede cercando meglio), potrà ancora depositarli fino a 20 giorni prima dell’udienza, motivando che non li aveva prima. Ma meglio evitare rischi. Inoltre, porti in giudizio anche eventuali vizi procedurali subiti in verifica (es. mancato contraddittorio, ecc.) perché il giudice può tenerne conto – se era suo diritto essere ascoltato e non lo hanno fatto, questo rafforza la sua posizione. Quindi, anche se in sede amministrativa è andata male, non disperi: il processo è un’occasione nuova per far emergere la verità, a patto di arrivarci preparato, con un buon difensore e un dossier probatorio solido.

D: Ho scoperto che l’accertamento si basa su informazioni bancarie estere avute illegalmente (una “lista” rubata). Posso farle escludere?
R: In via di principio, nel processo tributario non esiste una regola chiara di inutilizzabilità delle prove illegittime. La giurisprudenza è oscillante: alcuni ritengono che valga il principio penalistico del “frutto dell’albero avvelenato”, altri no. Ad esempio, per le Liste Falciani (conti svizzeri HSBC sottratti da un dipendente e poi trasmessi all’Agenzia) c’è stato dibattito, ma alla fine molte Commissioni e la Cassazione hanno ritenuto i dati comunque utilizzabili pro fisco, pur essendo di origine illecita, perché il processo tributario mira alla verità materiale . Dunque non c’è garanzia che il giudice escluda quelle prove. Però può far presente la cosa in ricorso, evidenziando la provenienza illecita per contestarne l’attendibilità (dati non ufficiali possono essere incompleti o errati). Potrebbe anche far notare che un uso del genere viola norme sovranazionali (diritto alla privacy, art. 8 CEDU) e sperare di portare la questione eventualmente alla Corte europea. In parallelo, se c’è un processo penale correlato, lì invece la prova illecita dovrebbe essere inutilizzabile ex art. 191 c.p.p., e una eventuale assoluzione penale per mancanza di prova potrebbe riflettersi sul tributario. Ma non è automatico. Quindi, , sollevi l’eccezione di inutilizzabilità per provenienza illecita, citi magari qualche precedente (es. CTR Lombardia n. 4601/2018 aveva annullato avvisi basati su dati rubati in Liechtenstein), ma sia consapevole che non sempre attacca. Nel frattempo, si concentri comunque sul demolire nel merito quelle evidenze (magari la lista è parziale, o riferita a omonimi). Il giudice potrebbe decidere “anche volendo tener buona la lista, il contribuente ha dimostrato che non prova nulla di irregolare”.

D: La mia società estera ha davvero un’attività autonoma; il Fisco però dice che è gestita di fatto dall’Italia. Non ho documenti per provare chi prendeva le decisioni. Posso chiamare un testimone in Commissione?
R: Nel processo tributario la testimonianza orale è vietata. Quella scritta, introdotta di recente, è ammessa solo su accordo delle parti o per fatti eccezionali difficili da provare altrimenti (e va resa tramite dichiarazione sostitutiva di atto notorio). Potrebbe dunque valutare di produrre una dichiarazione giurata resa dall’amministratore/responsabile locale della società estera, in cui questi attesta come funzionava la governance (ad esempio: “le decisioni operative venivano prese da me a Dubai, come provano i verbali allegati, e non dai soci italiani”). Allegando magari verbali di riunioni avvenute all’estero, email, qualunque cosa. Questa è una sorta di testimonianza scritta. Non tutti i giudici la accettano, ma tentar non nuoce, specie se corredata di elementi oggettivi. In alternativa, può usare le presunzioni: portare fatti secondari da cui dedurre che la società era autonoma. Esempio: aveva un ufficio proprio all’estero (contratto d’affitto), aveva un conto bancario locale usato dai dirigenti locali, aveva dipendenti che riferivano a un capo estero. Da questi fatti, si chiede al giudice di presumere che la gestione era . Insomma, se prove dirette non ce ne sono, si va per indizi. L’importante è presentare un quadro coerente. Spesso la controparte fiscale non ha prove forti della gestione italiana (se le avesse, es. email dove l’italiano dà ordini, le tirerebbe fuori): quindi si scontrano presunzioni contro presunzioni. In tal caso, il giudice può decidere equitativamente. A suo favore gioca l’art. 7, c.5-bis, D.Lgs. 546/92 (introdotto nel 2022) che ribadisce che se il fisco non prova sufficientemente, l’atto va annullato . Dunque sottolinei anche che l’onere di dimostrare la direzione effettiva in Italia spetterebbe all’Ufficio (come da giurisprudenza), e questo onere non è stato soddisfatto da due foto o due telefonate. In definitiva: il testimone di persona non può convocarlo, ma può ottenere lo stesso risultato tramite dichiarazione scritta e una robusta serie di indizi documentati.

D: Quali rischi penali concreti ci sono in queste operazioni?
R: Se l’operazione è qualificata come evasione fiscale deliberata, i reati ipotizzabili sono:
– Dichiarazione fraudolenta mediante artifici (art. 3 D.Lgs. 74/2000): punibile con reclusione 3–8 anni. Richiede l’uso di artifici/idoneità ingannatoria. Un classico è l’esterovestizione societaria con duplice contabilità, o l’uso di costi fittizi tramite società estere cartiere. Soglia di punibilità: imposta evasa > €30.000 e elementi attivi sottratti > 5% del totale o > €1.5M. Se per esempio tramite la triangolazione ha evaso 500k € di IRES, rientra.
– Dichiarazione fraudolenta mediante fatture false (art. 2): reclusione 4–8 anni. Richiede utilizzo in dichiarazione di fatture o documenti per operazioni inesistenti. Se l’Agenzia sostiene che le fatture estere sono “false” (cioè la società estera non ha fornito nulla realmente), allora potrebbero contestare questo. Soglia: elementi fittizi > €100k.
– Dichiarazione infedele (art. 4): reclusione 2–4.5 anni. Caso base di omessa dichiarazione di redditi o indicazione di costi indebiti, senza artifici. Soglia: imposta evasa > €100k e elementi sottratti > 10% del totale o > €2M.
– Omessa dichiarazione (art. 5): reclusione 2–5 anni. Se proprio non ha dichiarato nulla (tipico se viene considerato residente in Italia ma non ha presentato la dichiarazione, o se la società estera doveva dichiarare per stabile organizzazione e non l’ha fatto). Soglia: imposta evasa > €50k.
– Sottrazione fraudolenta al pagamento (art. 11): reclusione 6 mesi – 4 anni. Se dopo aver avuto contezza del debito fiscale ha occultato o simulato atti per non pagare (es. trasferito beni su un trust estero).
– Autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.): reclusione 2–8 anni. Se i proventi dell’evasione (risparmi d’imposta) sono stati deliberatamente impiegati in attività economiche, investimenti o trasferiti per ostacolarne la provenienza. Ad esempio, l’imprenditore che dirotta i soldi evasi su conti cifrati, li reinveste in immobili tramite società schermo, ecc. Questo reato è relativamente nuovo ma viene contestato in aggiunta ai reati tributari, ampliando i rischi .

In concreto, se la triangolazione ha avuto carattere fraudolento sistematico (tipo carosello internazionale, società cartiere offshore), è verosimile una denuncia per dichiarazione fraudolenta. Se era “soft” (es. sottofatturazione non enorme), potrebbero fermarsi alla dichiarazione infedele. Molto dipende dall’entità dell’evasione e dal grado di pianificazione. Anche la presenza di false documentazioni aggraverebbe il quadro. Va detto che negli ultimi anni c’è tendenza ad attivare il penale soprattutto per casi sopra una certa soglia o con profili di criminalità organizzata. Per un’imposta evasa di poche decine di migliaia di euro difficilmente attivano il penale (anche se formalmente magari la soglia è superata di poco). Tuttavia, bisogna considerare il rischio.

Per mitigarlo: pagare il dovuto (imposte, sanzioni, interessi) prima che inizi il dibattimento penale fa scattare la non punibilità dei reati dichiarativi (art. 13) . Quindi, se uno ha possibilità economica, può estinguere il reato saldando il Fisco – spesso lo si fa tramite adesione o definizione agevolata. Altrimenti, ci si difende nel merito pure in penale, puntando su assenza di dolo specifico (es. “mi avevano detto che era lecito, pensavo di essere a posto”), oppure su mancanza del fatto (se l’accertamento tributario viene annullato, il penale cade per difetto di imposta evasa).

Infine, se c’è procedimento penale, occhio che il Fisco potrebbe chiedere misure cautelari reali: sequestro beni fino all’importo evaso. Questo può includere conti, case, quote societarie. Insomma, i rischi penali e patrimoniali sono seri. Una difesa coordinata tributaristi-penalisti è d’obbligo in tali frangenti.

D: In caso di avviso per triangolazione, è possibile chiudere la questione pagando subito qualcosa e chiudendo lì (come una sorta di patteggiamento fiscale)?
R: Sì, esiste l’istituto dell’acquiescenza: se non intende fare ricorso e accetta integralmente l’avviso, pagando entro 60 giorni, ha diritto alla riduzione delle sanzioni a 1/3 del minimo . Ciò spesso conviene se l’accertamento è fondato e le sanzioni sono alte. Ad esempio, su €100k di imposta evasa con sanzione base 120%, in acquiescenza pagherà €100k + €40k (1/3 di 120%) + interessi, invece di €100k + €120k di sanzione. Un bel risparmio. L’acquiescenza però implica rinuncia al ricorso: quindi va scelta solo se si è sicuri di non voler/ poter contestare. Un’altra opzione è l’accertamento con adesione, in cui si può provare a trattare un abbattimento dell’imponibile e comunque si ottiene sanzioni 1/3 (come acquiescenza) . Spesso, presentare istanza di adesione anche solo per guadagnare tempo (sospende termini 90gg) è utile, e si può comunque trovare un compromesso col Fisco. Se l’adesione va a buon fine, firmerà un atto e pagherà il dovuto (rateizzabile). Se non va, potrà sempre ricorrere. Quindi, direi: , c’è la possibilità di chiudere senza contenzioso, con sconti significativi sulle sanzioni. Nel 2023 c’era pure la definizione agevolata con 1/18 sanzioni per avvisi recenti, ma ormai non c’è più. In futuro, chissà. Ma l’acquiescenza e l’adesione sono stabili nell’ordinamento. Valuti questi strumenti con il suo consulente: a volte, mostrarsi collaborativi porta anche l’ufficio a un atteggiamento più accomodante (magari riconosce qualche spesa in più in adesione). Ovviamente, se si è convinti di avere ragione, pagare e basta può sembrare ingiusto; tuttavia bisogna essere pragmatici: se i rischi di perdere sono elevati, accorciare la questione e togliersi il pensiero, magari con una transazione equa, può convenire e far risparmiare soldi (di sanzioni, interessi futuri e spese legali).

D: La società interposta è indipendente da me, non mia controllata. Perché dovrei essere punito se faccio affari con un’impresa estera libera?
R: In un mondo ideale, ogni impresa sceglie liberamente i fornitori e clienti in base al mercato. Però quando l’interlocutore è in un paradiso fiscale, la legge fiscale presume (a torto o a ragione) che possa esserci sotto un accordo per spostare base imponibile. Non è illegale di per sé commerciare con società di Panama o Dubai, ci mancherebbe; però il Fisco richiede di dimostrare che non lo si fa per motivi fiscalmente illeciti. Quindi, se davvero è un’impresa indipendente e c’erano ragioni genuine per passare da essa, potrà continuare a farvi affari, ma in caso di controllo dovrà fornire spiegazioni e prove. Purtroppo la normativa è impostata in modo da scoraggiare i rapporti con imprese black list, invertendo l’onere della prova . Possiamo criticarla, ma è così per contrastare i tantissimi casi in cui in passato si usavano società estero-estero solo come fatturifici. Pensiamo ai caroselli IVA: formalmente erano indipendenti, ma di fatto orchestrati. Quindi lei subisce un po’ l’effetto di norme anti-abuso generalizzate. Per difendersi efficacemente deve focalizzarsi su: provare l’indipendenza (es. non ci sono compagini sociali comuni, né amministratori comuni, né flussi finanziari anomali tra voi) e provare le ragioni economiche (qualità, prezzo, esclusiva, logistica). Se ci riesce, non sarà punito: ci sono imprese che hanno vinto in giudizio mostrando che il fornitore black list era l’unico che poteva garantire certe condizioni, e che loro non avevano interessi in quel fornitore . In tal caso i costi sono stati riconosciuti. Quindi, non è un peccato originale lavorare con entità nei paradisi fiscali, ma è un’attività ad alto rischio fiscale: le conviene prepararsi un file difensivo ogni anno, tenendo traccia di perché compra da quello e non da un altro, così se arriva il controllo ha già il dossier pronto.

D: Cosa succede se la Commissione Tributaria mi dà torto? Devo subito pagare tutto?
R: Dipende. La sentenza di primo grado è esecutiva per la parte che eventualmente le dà torto, ma c’è la possibilità di chiedere alla CGT di secondo grado la sospensione dell’esecutività della sentenza (art. 52 D.Lgs. 546/92) se ricorre. Spesso le Corti di secondo grado concedono la sospensione se l’importo è elevato e ci sono motivi seri d’appello. Inoltre, dal 2023, il pagamento del tributo dopo sentenza di primo grado è dilazionato: bisogna pagare intanto 2/3 dell’imposto (non più tutto) entro 60gg dalla notifica della sentenza, se la si esegue, e l’eventuale residuo dopo la sentenza definitiva . Se fa appello e ottiene sospensiva, può evitare anche quei 2/3. In secondo grado, se perde ancora, dovrà pagare quanto stabilito (dedotti eventuali pagamenti già fatti) e l’ulteriore 1/3. Poi potrà ricorrere in Cassazione, ma la Cassazione non sospende l’esecutività (salvo rari casi in cui si fa istanza ad hoc e la Cassazione accoglie, ma è rarissimo). Quindi, pragmaticamente: dopo primo grado, valuti col suo legale se conviene pagare una parte e definirla magari col 90% in appello (c’era la conciliazione in appello con sanzioni ridotte in tregua fiscale 2023, adesso non più). Altrimenti, chieda sospensiva. In ogni caso, consideri che con l’instaurazione del processo tributario “di merito” su due gradi, spesso se le prove non erano sufficienti per convincere il primo collegio, difficilmente il secondo stravolgerà tutto a meno di errori evidenti. Quindi la strategia deve puntare a vincere già in primo grado se possibile, con un quadro probatorio completo. Appello e Cassazione sono più sulla legittimità e più aleatori. Ad ogni modo, la risposta: non dovrà pagare subito tutto appena persa in primo grado, ma potenzialmente 2/3 e il resto dopo. Se però l’importo è molto alto e non ha liquidità, muoversi per tempo (anche negoziando una rateazione con l’Agenzia sfruttando l’istituto della dilazione ex DPR 602/73) è opportuno.

D: Quali documenti è bene avere pronti per difendersi da un accertamento su triangolazione?
R: Eccone un elenco non esaustivo:
– Contratti con la società estera (di fornitura, distribuzione, commissione, etc.) ben dettagliati, firmati prima delle operazioni.
– Documenti di trasporto e doganali (CMR, bolle, airway bill) che provino il movimento fisico dei beni secondo la triangolazione dichiarata.
– Fatture estere e relative prove di pagamento (bonifici, SWIFT) che dimostrino che i flussi finanziari sono coerenti (e magari transitano su banche primarie, indice di genuinità).
– Visura camerale/certificato di registro imprese estero della società black list, per conoscerne amministratori, sede, capitale.
– Bilanci depositati della società estera (se esistenti nel suo ordinamento) o documenti contabili equivalenti, per mostrare volume d’affari, costi, utili (se è un vero business avrà costi di struttura visibili).
– Elenco dipendenti/collaboratori della società estera, con qualifiche (dimostra sostanza economica).
– Documentazione fotografica o descrittiva di eventuali uffici, magazzini, negozi della società estera (es: sito web aziendale, brochure, foto sede).
– Corrispondenza commerciale (email, lettere) tra la società italiana e quella estera, e tra quella estera e eventuali terzi, per far vedere che c’era reale interazione e attività.
– Studio di comparazione prezzi: se il Fisco contesta il prezzo, presentare un’analisi di transfer pricing o di mercato che giustifichi quel livello (ad es. listini di altri fornitori, analisi del mark-up).
– Eventuale parere legale o fiscale ottenuto prima dell’operazione: se un consulente aveva avallato la struttura, mostra la buona fede.
– Evidenze di indipendenza: se sostiene che la società estera è indipendente, portare documenti che lo provino (es. organigramma del gruppo dal quale la estera non risulta partecipata, verbali da cui emerge che i soci italiani non intervenivano).
– Dichiarazioni di terzi coinvolti: ad esempio, se c’è un mediatore o un cliente finale che può confermare come si è svolta l’operazione, farsi rilasciare una dichiarazione scritta.
– Documenti fiscali esteri: se la società estera ha pagato qualche imposta nel suo paese (IVA locale, tasse doganali, imposte sui redditi seppur basse), prendere copia delle dichiarazioni o ricevute di pagamento: contrasta l’idea che fosse creata solo per evadere (anche se tasse minime, qualcosa ha pagato).

In pratica, bisogna mettersi nei panni del Fisco e chiedersi: “come dimostrerei che è tutto regolare?”. Qualunque elemento in tal senso va conservato e prodotto. Spesso, purtroppo, le imprese non conservano queste cose pensando che non servano. Invece servono eccome. Tenere un dossier paese black list per ogni controparte di rilievo è una best practice.

D: Vale la pena fare un’istanza di interpello prima di fare certe operazioni con black list?
R: Sì, l’interpello probatorio in materia di costi black list (ora rif. art. 110 commi da 10 a 12 TUIR) è espressamente previsto: si può presentare all’Agenzia, prima di presentare la dichiarazione dei redditi in cui si deduce il costo, una istanza chiedendo se quella spesa è deducibile, allegando la prova dell’esimente (interesse economico effettivo e concreta esecuzione) . L’Agenzia risponde (entro 120 gg di solito). Se risponde positivamente, quel costo non verrà disconosciuto (salvo che poi i fatti differiscano). Se risponde negativamente, quantomeno si ha certezza e si potrà decidere se rinunciare a dedurlo (evitando sanzioni) o dedurlo lo stesso mettendo in conto il contenzioso. Addirittura, se non risponde nei tempi, vale il silenzio-assenso (ma attenzione: in interpello probatorio il silenzio è inteso come diniego tacito, salvo diversa indicazione – bisogna controllare la norma). Al di là dell’esito, l’interpello mostra atteggiamento collaborativo e può evitare molte grane successive. Certo, deve essere presentato con cura: occorre allegare tutti i documenti e spiegare bene perché l’operazione è genuina. Un interpello fatto male rischia di ottenere diniego e pregiudicare poi la difesa (l’Agenzia potrebbe in giudizio dire “te l’avevamo detto…”). Quindi va preparato con l’ausilio di esperti.

Per altre situazioni: ad esempio la presunzione di residenza per persone fisiche, esisteva un interpello specifico (ora abolito) per chiedere di essere tolti dall’elenco AIRE black list. Oggi non c’è più, ma in teoria uno può fare interpello ordinario all’Agenzia chiedendo se, dati i fatti, applicherebbe la presunzione. Non è testuale in nessuna norma, quindi è rischioso (Agenzia potrebbe dichiararlo inammissibile perché chiede valutazione sul fatto). Quindi, per le persone fisiche meglio seguire la via del tax ruling (in alcuni casi usano accordi di ruling internazionale se coinvolge più paesi, ma non per persone fisiche di solito).

In sintesi: per le operazioni societarie con paesi black list significative, l’interpello è sicuramente consigliabile. Per i trasferimenti di residenza in paesi black list, non c’è uno strumento di interpello, ma uno può muoversi ex-post se contestato (purtroppo lì bisogna solo raccogliere prove come visto).

D: Come incide il recente “ravvedimento speciale” o sanatorie 2023 su questi casi?
R: Nel 2023 c’è stata la possibilità di ravvedere violazioni fino al 2021 con sanzioni ridotte a 1/18 (il cosiddetto “ravvedimento speciale” in L. 197/2022). Poteva ad esempio essere usato per regolarizzare un quadro RW non compilato o redditi esteri non dichiarati pagando sanzioni ridotte. Però tale opportunità scadeva il 30/09/2023 (per il pagamento). Se uno l’ha colta, magari ora non ha più la violazione. Se non l’ha colta e oggi (2025) viene scoperto, non può più fruirne. Potrebbe eventualmente sperare in nuove edizioni di voluntary disclosure: circola sempre la voce di una “voluntary 3.0”, ma al momento nulla di concreto.

Il consiglio è: se sai di avere scheletri nell’armadio, approfitta delle finestre normative quando ci sono. Per esempio, se uno ancora oggi ha attività estere non dichiarate relative a anni non prescritti, non c’è ravvedimento speciale ma può sempre fare il ravvedimento operoso ordinario: presentare dichiarazioni integrative per gli ultimi anni, pagando imposte e sanzioni ridotte (ridotte in base al tempo trascorso, p.es. se entro 2 anni 1/7, oltre 2 anni 1/6). Questo ridurrebbe di molto le sanzioni rispetto a subire un accertamento. E soprattutto estinguerebbe i reati (pagando tutto). Quindi, valutare la regolarizzazione spontanea è sempre saggio se si è in difetto.

Tornando alla domanda: le sanatorie 2023 ormai sono concluse, se non ne ha usufruito, ora deve affrontare l’accertamento con le regole ordinarie.

D: Sono un professionista con clienti esteri, vivo tra l’Italia e Dubai. Mi contestano residenza in Italia. Che possibilità ho di risultare residente all’estero e non pagare qui?
R: Questa è la classica situazione art. 2 co.2-bis TUIR: se sei cittadino italiano e ti sei iscritto all’AIRE a Dubai (Emirati), il Fisco presume tu sia ancora residente qui . Per vincere la presunzione, devi provare di avere rotto i legami con l’Italia e trasferito stabilmente il centro dei tuoi interessi a Dubai. Elementi a tuo favore sarebbero: contratto di lavoro o di consulenza stabile negli UAE, affitto o proprietà di casa a Dubai dove dimori la maggior parte dell’anno, eventuale famiglia che ti ha seguito lì, iscrizione a club/local associations lì, magari una patente di guida locale o conti bancari usati regolarmente lì, assenza di proprietà immobiliari in Italia (o comunque loro utilizzo sporadico), modeste spese in Italia (utenze, etc.) rispetto a quelle all’estero, e soprattutto poche permanenze in Italia (sotto 183 giorni certamente, ma anche meno è meglio) . Contro di te, l’Agenzia cercherà bollette, celle telefoniche agganciate, post social, qualsiasi cosa per dire che in realtà stavi più in Italia. La giurisprudenza ultimamente è molto sostanziale: se rimangono in Italia interessi economici importanti (clienti, investimenti, ecc.) o affetti stabili, è facile che ti considerino residente qui. Quindi, per uscirne indenne devi fornire un quadro di vita reale all’estero: portare in Commissione contratti di consulenza con società di Dubai, fatture emesse lì, estratto passaporti con timbri di ingresso/uscita (o certificati di viaggio se li hai) a dimostrare la tua presenza fisica prevalente negli Emirates, certificato di iscrizione AIRE (quello è formale ma serve), contratti affitto casa, bollette pagate a Dubai, ricevute di spese quotidiane lì, eventuale certificato di residenza fiscale rilasciato dalle autorità di Dubai (alcuni paesi lo rilasciano per convenzioni, se c’è convenzione Italia-UAE questo può aiutare, anche se la convenzione Italia-UAE è recente e prevede tie-breaker per residenza duale).

Sappi però che convincere il Fisco su casi UAE o simili è difficile: considerano molti trasferimenti lì di comodo. La Corte UE ha comunque detto che la presunzione è lecita se relativa, e la Cassazione dice che AIRE è solo un indizio . Quindi la battaglia è fattuale: devi sovvertire l’indizio AIRE con molti altri indizi pro-estero. Se ce la fai (es: hai aperto un’attività di ristorazione a Dubai e ci lavori lì, mentre in Italia avevi chiuso tutto), la spunti. Se invece di fatto lavoravi per clienti italiani da remoto a Dubai e tornavi spesso, sarà dura. In tal caso, valutare soluzioni come regimi impatriati in Italia al ritorno, o se ancora in tempo, trasformare il trasferimento fittizio in reale riducendo la presenza in Italia, ecc. è opportuno, ma ai fini pregressi la difesa si basa sugli elementi detti.

D: La mia società italiana è in perdita per via di costi di consulenza pagati a una società di diritto maltese. Ora l’AdE mi contesta che Malta (per via del suo regime) era black list e quei costi non erano deducibili. Ma Malta è UE e non era nella black list italiana. Chi ha ragione?
R: Vicenda interessante: Malta non è nella black list DM 1999 (essendo UE, anche se ha regime di ristorno fiscale). L’Agenzia forse sta usando la clausola “privilegiato” in senso sostanziale (art. 47-bis TUIR o vecchio 110(10) concetto di tassazione inferiore). In effetti, con L.208/2015 l’Italia definì privilegiate quelle con tassazione effettiva < metà italiana. Il regime maltese, con full-imputation e rimborsi, porta effettiva a 5% per i soci, dunque inferiore. Quindi l’Ufficio sostiene che, benché Malta non sia in lista nera formale, comunque il costo ricade nella disciplina anti-elusiva perché la tassazione lì è bassa. È un tema spinoso: dopo il 2015 la norma costi black list fu abrogata, quindi per gli anni successivi non c’era vincolo di prova specifica. Se l’anno è pre-2016, allora all’epoca Malta era considerata black list per alcune norme (non so se per costi; credo Malta fu tolta dalle black list nel 2010 dopo accordi). Direi che se la società di consulenza maltese ha sostanzialmente restituito il 85% dei ricavi ai soci (meccanismo maltese tipico), il Fisco vede quell’85% tornare magari a soci italiani e si insospettisce.

Diritto: oggi come oggi, costi verso società maltesi non cadono nel nuovo art. 110 (perché si applica solo a paesi della lista UE non cooperativi, e Malta non lo è). Quindi non possono disconoscerlo per presunzione automatica. Possono però contestare che quei costi non siano inerenti o siano gonfiati. Se tu dimostri che la consulenza è effettiva e a valore di mercato, dovrebbero accettarli. Se invece la consulenza era fittizia (società maltese usata solo per abbassare utile in Italia), allora scatta l’operazione inesistente e la deduzione è negata e c’è pure reato. Quindi, devi impostare la difesa sul merito: far vedere che la società maltese ha svolto davvero consulenze (report, email, output tangibile) e che il compenso era equo. E magari far notare che la norma black list non era applicabile a Malta in quell’anno, citando magari la circolare 35/E 2016 che elencava paesi privilegiati.

In sostanza, la ragione dipende dalla sostanza economica: se c’era, vinci tu (soprattutto su base che la norma black list non c’è più); se non c’era, ahimè l’Agenzia troverà comunque modo (elusione ex art. 10-bis L.212/2000, per dire).

D: Come incide la collaborazione internazionale? L’Agenzia può ottenere info dai paradisi fiscali?
R: Sì, oggi in molti casi può. Con lo scambio automatico CRS, ottiene info su conti finanziari da paesi come Cayman, BVI, Bermuda, Jersey, Isole Man, etc. (tutti aderenti CRS). Può anche chiedere su richiesta dettagli specifici (es. movimenti di conto) in virtù di accordi TIEA o convenzioni. Certo, alcuni paesi restano refrattari (es. Panama ha aderito al CRS, ma altri come Emirati l’hanno posticipato, ecc.). In generale, l’Agenzia ha molta più intelligence di un tempo. Anche la Guardia di Finanza può incrociare banche dati globali e ricevere info da organismi internazionali (Interpol, etc.). Quindi non bisogna dare per scontato che ciò che è offshore resti segreto. Ai fini difensivi, però, questa collaborazione può anche aiutare il contribuente: se per esempio tu dici “la società estera aveva sostanza, guardate i suoi bilanci”, l’Agenzia può verificarlo con lo Stato estero. O se dici “quel reddito l’ho dichiarato in X paese e pagato tasse lì”, il Fisco può controllare e, se confermato, magari evitare doppia tassazione. C’è da dire che l’interesse primario del nostro Fisco è incassare lui, non tanto garantire equità internazionale. Quindi userà la cooperazione soprattutto per scovare evasioni, meno per alleggerirti l’onere fiscale. In alcuni casi, la cooperazione può portare a doppie imposizioni – lì vengono in aiuto i mutual agreement (ma devi attivarli tu, come detto).

In sintesi, ormai la rete internazionale del contrasto all’evasione è stretta: meglio presupporre che “tutto si viene a sapere”. A livello di difesa, devi ragionare che se dici una cosa in giudizio, l’Agenzia potrebbe verificarla all’estero: assicurati che sia vera. Ad esempio, non dichiarare “i soldi su quel conto erano di mio cugino” se non è vero, perché magari fanno una rogatoria e scoprono che il cugino non c’entra. Questo ti farebbe perdere ogni credibilità. Invece, se hai elementi esteri pro-contribuente, puoi sollecitare (anche tramite MAP) il Fisco a tenerne conto. Insomma, la cooperazione è un’arma a doppio taglio ma principalmente in mano al Fisco. Il contribuente può beneficiarne indirettamente solo portando lui stesso elementi di fonte estera autorevoli (es. attestazioni di altri Stati).

D: Se ho fatto voluntary disclosure anni fa per il passato, e ora mi contestano anni successivi, posso dire “ma io ho aderito, non vale come ravvedimento”?
R: La voluntary disclosure del 2015 o 2017 copriva solo gli anni indicati nell’istanza, di solito fino al 2013-2014 (antecedenti). Non copriva gli anni successivi. Anzi, nelle istruzioni era chiaro che se uno continuava a non dichiarare successivamente, incappava in sanzioni piene e pure aggravanti di recidiva. Quindi, non può invocare la disclosure come esimente per la reiterazione. Anzi, potrebbe essere controproducente: il Fisco dirà “vede, lei aveva pure fatto pace col fisco fino al 2014 e poi ha ripreso come prima, quindi c’era dolo evidente”. Se invece l’accertamento riguardasse anche anni coperti da voluntary (magari per un errore), allora sì eccepirebbe che per quegli anni c’è già un atto di adesione e versamento, quindi non possono richiedere nulla (ne bis in idem). Ma se l’avviso parte dal 2015 in poi, la voluntary precedente non la protegge, salvo il beneficio indiretto che aveva evitato i raddoppi su quegli anni (infatti l’art. 5-quater DL 167/90 diceva che chi aderiva aveva la non punibilità e niente raddoppi). Dunque, affronterà gli anni post-disclosure come qualsiasi altro accertamento. Le conviene semmai sottolineare che, avendo fatto la disclosure in passato, conosceva le regole e se ha omesso ancora magari c’era un motivo (es. contava su un dubbio interpretativo, o su un cambiamento normativo). Non è una gran scusa, ma qualcosa bisognerà pur dire per non passare da recidivo incallito…

D: Ho letto di sentenze dove il contribuente in buona fede che aveva operato con società cartiere ma all’oscuro è stato assolto. È vero?
R: Sì, ci sono pronunce (Cass. pen. e trib.) che riconoscono che se un contribuente ignora in buona fede che il suo fornitore è fittizio (cartiera) e ha adottato la diligenza dovuta, non può subire le stesse conseguenze di chi ha ordito la frode . In ambito IVA, la Corte di Giustizia UE (cause MahagébenPPUH, ecc.) ha stabilito che il diritto a detrazione non può essere negato al soggetto passivo che non sapeva né poteva sapere dell’altrui frode, purché abbia agito diligentemente. Questi principi si riflettono anche sul versante reddituale: la Cassazione (sent. n. 27566/2018, ad es.) ha affermato che i costi da operazioni soggettivamente inesistenti restano deducibili se l’operazione è reale e il contribuente era inconsapevole della frode altrui, avendo agito senza negligenza grave . Tuttavia, attenzione: bisogna dimostrare la propria buona fede e diligenza. Cioè di aver preso informazioni sul partner commerciale, controllato che fosse esistente, etc. Nel contesto black list, se per es. ha fatto affari con una società offshore che poi si rivela di comodo, potrebbe dire “io non lo sapevo, mi sembrava tutto regolare: ecco visura, ecco che mi hanno consegnato la merce, etc.”. Se ciò convince, il giudice potrebbe non disconoscere il costo (o almeno non applicare sanzioni). In pratica, la buona fede rileva più che altro sulle sanzioni: l’art. 6 comma 2 del D.Lgs. 472/97 prevede che se c’era incertezza normativa oggettiva o se il contribuente ha commesso la violazione per affidamento a indicazioni ufficiali, le sanzioni possono essere non applicate. Nel nostro caso, difficilmente l’incertezza c’è (le norme anti black list ci sono ed erano note). Però il concetto di dolo nelle frodi è importante: se lei era vittima inconsapevole di uno schema orchestrato magari dal suo fornitore, può cercare di farlo valere. Faccia vedere ad es. che la sua società ha comunque ottenuto il bene/servizio a prezzo di mercato (quindi non aveva motivo di sospettare), che il fornitore era presentato da terzi affidabili, etc. Non è una garanzia di vittoria, ma alcuni giudici potrebbero almeno ridurre le sanzioni perché “colpa lieve”.

In sostanza, la buona fede può salvare dal penale e dalle sanzioni, ma difficilmente dalla base imponibile: il tributo evaso lo chiederanno comunque. Però, in alcuni casi, come dicevo, la Cassazione ha permesso deducibilità costi se l’operazione c’era ed era inerente, pur se il soggetto era prestanome, quando il contribuente era ignaro. Ci si può provare a sostenere questa linea, meglio se supportata da evidenze della sua diligenza (es. visure fatte all’epoca, corrispondenza in cui chiedeva documenti al fornitore).

D: Qual è la “migliore difesa” in tre parole per questi casi?
R: Documentazione, tempestività, competenza. Ovvero: avere tutti i documenti (e fatti) che attestino la realtà economica e la genuinità delle operazioni; agire subito, non attendere che le cose degenerino (ad es. fare ravvedimenti se possibile, rispondere agli inviti del Fisco, presentare ricorso nei termini); affidarsi a professionisti competenti che conoscano le particolarità del diritto tributario internazionale e processuale. Con questi tre elementi, le chance di successo – o quantomeno di limitare i danni – aumentano sensibilmente.

Riferimenti normativi e giurisprudenziali principali citati:
– DPR 917/1986 (TUIR): art. 2 co.2-bis (residenza persone fisiche in Stati black list) ; art. 73 co.5-bis (presunzione residenza società estere controllate) ; art. 110 commi 10-11 (disciplina costi black list, ante 2016) ; art. 110 comma 10 nuovo (L. 197/2022, deducibilità limitata a valore normale) .
– D.L. 167/1990: art. 4 (monitoraggio RW, sanzioni 3%-15% / 6%-30%) ; art. 5-quinquies (voluntary disclosure, ormai concluso).
– D.L. 78/2009: art. 12 commi 2, 2-bis, 2-ter (presunzione evasione su attività estere, raddoppio termini e sanzioni) .
– D.Lgs. 74/2000 (reati tributari): art. 2 (dich. fraudolenta con fatture) ; art. 3 (dich. fraudolenta artifici); art. 4 (dich. infedele); art. 5 (omessa dich.); art. 11 (sottrazione fraudolenta); art. 13 (causa non punibilità per integrale pagamento) .
– D.Lgs. 218/1997: art. 5-ter (invito obbligatorio al contraddittorio) ; art. 6 (istanza accertamento con adesione); art. 15 (acquiescenza, sanzioni 1/3) .
– L. 130/2022 (riforma processo tributario): art. 7 c.5-bis D.Lgs. 546/92 (onere della prova in giudizio a carico AdE, salvo presunzioni) ; art. 7 c.4-bis (testimonianza scritta ammessa); modifica art. 4 c.1-bis D.Lgs. 546/92 (giudici tributari ora “Corti di Giustizia Tributaria”).
– DM 4.5.1999 (black list persone fisiche) e DM 21.11.2001 (vecchie black list società/CFC, abrogato 2015).
– Circolare AdE 35/E 2016 (costi black list abrogati da 2016). Circolare 25/E 2020 (contraddittorio obbligatorio).
– Sentenze: Cass. 23842/2025 (esterovestizione società, importanza attività all’estero) ; Cass. 16493/2024 (onere contribuente provare operazioni se Fisco prova inesistenza) ; Cass. 8716/2025 (costi soggettivamente inesistenti deducibili se reali e certi) ; Cass. 31878/2022 ord. (onere prova generale resta ex 2697 cc, salvo presunzioni legali antifrode) ; Cass. 18904/2019, 25510/2021 (onere rigoroso per vincere presunzione costi black list: servono prove sostanziali) ; Cass. 32959/2018 (buona fede acquirente in frode carosello tutela IVA); CGUE causa C-277/14 PPUH (2015) e C-281/20 Kemwater (2021) – buona fede IVA e prove effettività .

Fonti istituzionali utili:
– Agenzia Entrate – Provvedimenti e Circolari: spesso il sito AdE pubblica circolari sul tema (es. Circ. 46/E 2009 su costi black list , Circ. 51/E 2010 su raddoppio termini, Circ. 38/E 2013 su monitoraggio fiscale, Circ. 10/E 2015 sulle voluntary, Circ. 20/E 2024 su residenza fiscale dopo D.Lgs. 209/2023 ). Vale la pena consultarle per dettagli tecnici e posizioni ufficiali.
– Relazioni OCSE e UE: es. report OCSE su paradisi fiscali (1998) , elenco UE aggiornato.
– Giurisprudenza: database del portale giustizia tributaria e della Cassazione (massimario) per cercare sentenze simili. Ad esempio, la Cass. n. 8329/2016 parlava proprio di costi da Stati black list e onere della prova.
– Elenco Paesi Black List: Agenzia Entrate 2025.
– Ordinanza n. 21906 del 30/07/2025 Corte di Cassazione.
– Sentenza del 06/03/2024 n. 6101 – Corte di Cassazione.
– Circolare del 03/11/2009 n. 46 – Agenzia delle Entrate.
– Sentenza n. 8329 – – 27-04-2016.

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate operazioni di triangolazione con Paesi black list? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate operazioni di triangolazione con Paesi black list?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

Le triangolazioni internazionali sono operazioni commerciali legittime quando hanno reale sostanza economica. Tuttavia, se coinvolgono soggetti residenti in Paesi a fiscalità privilegiata, l’Agenzia delle Entrate può presumere che siano state utilizzate per occultare ricavi, gonfiare costi o ridurre l’IVA dovuta. In questi casi scatta un accertamento fiscale basato sulla presunzione di elusione o evasione.

👉 Prima regola: dimostra la concretezza delle operazioni e la reale esistenza dei beni o servizi scambiati.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Fatture emesse o ricevute da società residenti in Paesi black list;
  • Interposizione di società estere senza reale attività economica;
  • Flussi di pagamento verso giurisdizioni offshore non giustificati;
  • Prezzi anomali rispetto al valore di mercato dei beni scambiati;
  • Operazioni circolari che generano solo vantaggi fiscali senza contenuto reale.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Indeducibilità dei costi derivanti da operazioni con Paesi black list;
  • Recupero delle imposte (IRES, IRAP, IVA) con sanzioni e interessi;
  • Sanzioni fino al 200% delle imposte evase;
  • Rischio di accertamento induttivo sul reddito complessivo;
  • Procedimenti penali in caso di dichiarazione fraudolenta o frode IVA.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Documentazione delle operazioni: contratti, ordini, fatture, documenti di trasporto;
  • Tracciabilità dei pagamenti: bonifici e operazioni bancarie che dimostrino la reale transazione;
  • Attività della società estera: è operativa o solo di comodo?
  • Prezzi praticati: sono in linea con i valori di mercato?
  • Motivazione della contestazione: il Fisco ha fornito prove concrete o solo presunzioni?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Contratti commerciali e ordini d’acquisto;
  • Bolle doganali e documenti di trasporto;
  • Estratti conto bancari e ricevute di pagamento;
  • Certificazioni fiscali e bilanci delle società estere coinvolte;
  • Perizie e studi di transfer pricing.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la sostanza economica delle operazioni con prove concrete;
  • Contestare la presunzione di fittizietà se l’Agenzia non fornisce elementi certi;
  • Eccepire vizi formali: motivazione insufficiente, notifica irregolare, decadenza;
  • Richiedere autotutela se le prove documentali erano già disponibili;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per annullare o ridurre l’accertamento;
  • Difesa penale in caso di contestazioni per frode internazionale.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza le operazioni di triangolazione contestate;
📌 Verifica la legittimità delle presunzioni mosse dal Fisco;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi contro l’accertamento;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, in sede penale;
🔁 Suggerisce strategie preventive per strutturare operazioni internazionali sicure e conformi alla legge.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e operazioni con Paesi black list;
✔️ Specializzato in difesa di imprese e gruppi societari contro contestazioni di triangolazioni elusive;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulle triangolazioni con Paesi black list non sempre sono fondate: spesso si basano su presunzioni generiche.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la reale natura commerciale delle operazioni, evitare la riqualificazione come evasione ed evitare sanzioni sproporzionate.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sulle triangolazioni internazionali inizia qui.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
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