Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché l’utilizzo di criptovalute è stato ritenuto finalizzato a eludere l’IVA? In questi casi, l’Ufficio presume che le transazioni effettuate in Bitcoin o altre valute virtuali siano state usate per occultare operazioni imponibili o per sottrarre ricavi al fisco. La conseguenza è il recupero dell’imposta con sanzioni e interessi, oltre al rischio di segnalazioni penali. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: con una difesa ben documentata è possibile dimostrare la regolarità delle operazioni.
Quando l’Agenzia delle Entrate segnala l’uso di criptovalute per elusione IVA
– Se i pagamenti in cripto non sono stati fatturati o dichiarati correttamente
– Se le operazioni non risultano nei registri IVA o nelle comunicazioni periodiche
– Se vi sono incongruenze tra i ricavi dichiarati e i movimenti su wallet o exchange
– Se l’Ufficio ritiene che le criptovalute siano state usate per mascherare operazioni imponibili
– Se le transazioni coinvolgono piattaforme estere non tracciabili
Conseguenze della contestazione
– Recupero dell’IVA non versata sulle operazioni effettuate in criptovalute
– Applicazione di sanzioni per omessa o infedele dichiarazione
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Maggior rischio di controlli su altri tributi e sull’intero patrimonio del contribuente
– Possibile denuncia penale in caso di utilizzo fraudolento delle criptovalute
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la tracciabilità delle transazioni in criptovalute con estratti di wallet ed exchange
– Produrre documentazione fiscale (fatture, contratti, ricevute) a supporto della regolarità delle operazioni
– Contestare la presunzione di elusione se i movimenti hanno natura finanziaria e non commerciale
– Evidenziare vizi di motivazione, difetti procedurali o decadenza dei termini di accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i movimenti in criptovalute contestati e la documentazione disponibile
– Verificare la legittimità della contestazione in base alla normativa IVA e alla disciplina delle valute virtuali
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi dell’accertamento
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio personale da richieste fiscali e sanzioni sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione delle sanzioni applicate
– Il riconoscimento della regolarità delle operazioni in criptovalute
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto secondo la legge
⚠️ Attenzione: le contestazioni sull’uso delle criptovalute richiedono un’analisi tecnica e giuridica approfondita. È fondamentale intervenire tempestivamente per evitare che l’accertamento diventi definitivo.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscalità delle criptovalute – spiega come difendersi in caso di segnalazioni per utilizzo di criptovalute a fini di elusione IVA e come tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
Le criptovalute sono entrate prepotentemente nel mirino del Fisco italiano. L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza dispongono ormai di strumenti sofisticati per individuare utilizzi illeciti degli asset digitali, soprattutto quando vengono impiegati per evadere l’IVA. Non è quindi più un terreno “anonimo”: recenti casi di cronaca – come l’indagine della Procura di Ravenna su un contribuente di Faenza – dimostrano che un’ingente evasione fiscale realizzata tramite criptovalute può essere scoperta e sanzionata . In quel caso, il trader crypto non aveva dichiarato guadagni su Bitcoin e altre monete digitali, accumulando profitti illeciti per milioni di euro. Le Fiamme Gialle hanno sequestrato criptovalute (Bitcoin, Avalanche) per un controvalore di circa 11 milioni, e il contribuente, collaborando alle indagini, ha dovuto versare all’Erario oltre 12 milioni di euro tra imposte e sanzioni .
Questa guida avanzata – aggiornata ad agosto 2025 con le più recenti normative e sentenze – è rivolta ad avvocati, imprenditori e privati che vogliano capire come difendersi se l’Agenzia delle Entrate segnala un uso di criptovalute per elusione dell’IVA. Adotteremo un linguaggio giuridico ma chiaro, fornendo riferimenti normativi, tabelle riepilogative, casi pratici e sezioni Q&A (domande e risposte) per chiarire i dubbi più comuni. Il punto di vista adottato è quello del debitore, ossia del contribuente sotto accertamento, che deve fronteggiare contestazioni fiscali e/o penali.
Perché il Fisco teme le criptovalute? Perché strumenti come Bitcoin, Ethereum, stablecoin o privacy coin (es. Monero) possono facilitare operazioni difficili da tracciare. L’anonimato (solo apparente) e l’assenza di intermediari tradizionali rendono possibile scambiare valori senza passare da banche o circuiti controllati. In ambito IVA, ciò può tradursi in vendite di beni o servizi “in nero” pagate in criptovaluta, omesse fatturazioni, frodi carosello internazionali dove i proventi dell’IVA evasa vengono ripuliti tramite wallet esteri, mixer o token anonimi. Le caratteristiche di anonimato e la difficoltà di tracciamento fanno sì che le crypto siano uno strumento ideale per schemi di frode carosello, in cui l’IVA incassata dai clienti viene convertita in criptovalute e “dispersa” attraverso mixer o piattaforme non regolamentate . In mancanza di adeguati controlli, queste pratiche sottraggono risorse al Fisco e possono anche configurare il reato di riciclaggio (quando i fondi illeciti vengono reintrodotti nel sistema legale).
Negli ultimi anni, tuttavia, il legislatore e le autorità hanno corso ai ripari. La Legge di Bilancio 2023 (l. 197/2022) ha introdotto una disciplina organica per le cripto-attività, definendone la tassazione ai fini delle imposte dirette e chiarendo obblighi dichiarativi. L’Agenzia delle Entrate ha emanato la Circolare 30/E del 2023 con linee guida dettagliate sul trattamento fiscale di criptovalute, stablecoin e NFT (Non-Fungible Token). A livello europeo, la giurisprudenza e nuove normative (si pensi al pacchetto “VAT in the Digital Age” approvato a fine 2024) stanno rafforzando la cooperazione e la trasparenza per combattere l’evasione transfrontaliera . Inoltre, gli exchange di criptovalute e i provider di wallet sono sempre più soggetti a obblighi di KYC/AML (identificazione clienti e antiriciclaggio), riducendo le sacche di anonimato. La Guardia di Finanza, grazie a software di blockchain analysis, è ora in grado di identificare i proprietari dei wallet, collegando transazioni in apparenza anonime a soggetti reali . In sintesi, credere di farla franca utilizzando Bitcoin o Monero per non pagare l’IVA è un grave errore: il Fisco ha gli strumenti per scoprirlo, e le conseguenze possono essere devastanti (sanzioni pecuniarie del 100-180% dell’imposta evasa, sequestri di beni e persino la reclusione, nei casi più gravi).
Di seguito affronteremo dapprima l’inquadramento normativo: come sono considerate le criptovalute ai fini IVA in Italia e in UE, quali obblighi ha chi le utilizza in operazioni economiche e quali condotte configurano reato. Analizzeremo poi i principali schemi elusivi/evasivi legati alle crypto (dalle vendite non fatturate alle frodi carosello internazionali), con esempi pratici. Passeremo quindi agli strumenti di accertamento a disposizione dell’Agenzia e alle sanzioni amministrative e penali previste. Infine, il cuore della guida sarà dedicato a come difendersi: strategie in sede tributaria (dall’adesione all’accertamento al ricorso in Commissione Tributaria) e in sede penale (cause di non punibilità, difese tecniche, patteggiamenti, ecc.), con modelli di atti e consigli pratici. Non mancherà una sezione FAQ con domande e risposte comuni – ad esempio: “Le criptovalute sono esenti IVA?”, “Come si emette fattura se il cliente paga in Bitcoin?”, “Cosa fare se ricevo una contestazione del Fisco sulle mie crypto?”, “Le stablecoin e gli NFT seguono regole diverse?”, “Posso invocare la buona fede se non sapevo di dover pagare tasse sulle crypto?”, ecc.
Procediamo dunque con ordine, partendo dal quadro normativo vigente in Italia e in UE sul rapporto tra criptovalute e imposta sul valore aggiunto.
Criptovalute e IVA: quadro normativo in Italia ed Europa
Cosa sono le criptovalute agli occhi della legge? In Italia, fino al 2022 mancava una definizione normativa univoca. Ci si basava sulle indicazioni europee e sulla prassi. La Corte di Giustizia UE, con la storica sentenza Hedqvist (22/10/2015, causa C-264/14), ha stabilito che “Bitcoin e le altre criptovalute devono essere considerate valute alternative… accettate come mezzo di pagamento”. In particolare, la Corte ha inquadrato le operazioni di cambio fra valuta tradizionale e valuta virtuale come prestazioni di servizi finanziari esenti da IVA ai sensi dell’art. 135, par.1, lett. e) della Direttiva IVA 2006/112/CE . Di conseguenza, lo scambio di criptovaluta contro valuta fiat non sconta l’IVA, al pari del cambio valuta estera-euro. L’Amministrazione finanziaria italiana ha recepito tale principio con la Risoluzione Agenzia Entrate n. 72/E del 2 settembre 2016, confermando che l’attività di intermediazione in criptovalute (es. un exchange) costituisce prestazione di servizi esente IVA ex art. 10, co.1, n.3, DPR 633/1972 (operazioni relative a valute estere) .
Tuttavia, attenzione: l’esenzione IVA riguarda soltanto il servizio di cambio della criptovaluta (o in generale l’uso della criptovaluta come mezzo di pagamento). Se invece la criptovaluta è usata come corrispettivo per acquistare un bene o un servizio, l’operazione sottostante è soggetta a IVA come qualsiasi cessione/prestazione. In altre parole, pagare in Bitcoin non rende “magicamente” esente la compravendita: la cessione di beni o servizi resta imponibile, con base imponibile pari al valore in euro della criptovaluta al momento della transazione . L’Agenzia delle Entrate lo ha chiarito: “se le criptovalute sono usate come corrispettivo di beni o servizi, l’operazione è equiparata a una normale cessione imponibile a fini IVA. In pratica, il valore in euro al momento della transazione diventa la base imponibile IVA” . Ne consegue che un imprenditore che accetti pagamenti in crypto deve emettere fattura (o scontrino elettronico) esattamente come farebbe per un pagamento in euro, indicando nella fattura il controvalore in euro della criptovaluta incassata, l’aliquota IVA applicabile (22% ordinaria, salvo operazioni agevolate) e calcolando l’imposta dovuta .
Questa equiparazione è cruciale: molti erroneamente credevano (o speravano) che incassare in Bitcoin li esentasse dagli obblighi IVA. Non è così. Già nel 2018, in risposta a un interpello, l’Agenzia Entrate precisò che “le operazioni di vendita di beni pagate in criptovaluta devono essere documentate e assoggettate a IVA secondo le regole ordinarie, convertendo l’importo in euro”. Anche la dottrina conferma: le criptovalute non hanno corso legale, ma sono beni suscettibili di valutazione economica e se impiegati in uno scambio generano gli stessi effetti fiscali del denaro tradizionale . La Cassazione penale ha di recente rafforzato il concetto affermando che i pagamenti in criptovaluta non escludono l’imposizione fiscale: il valore va sempre convertito in euro e dichiarato, indipendentemente dal fatto che non vi sia stato transito di moneta legale . In una sentenza del 28 febbraio 2025, la n. 8269, la Suprema Corte (Sez. III Penale) ha rigettato la tesi di un contribuente secondo cui il reddito da vendita di un’opera digitale certificata via NFT sarebbe imponibile solo al momento della conversione in euro delle criptovalute ricevute. La Cassazione, al contrario, ha stabilito che la cessione di un NFT contro criptovalute costituisce subito reddito imponibile, qualificato nel caso di specie come reddito di lavoro autonomo (opera d’ingegno venduta dall’autore), e che il corrispettivo in Ethereum andava semplicemente valorizzato in euro alla data dell’operazione . Il fatto che il pagamento avvenga in criptovaluta è assimilabile a un pagamento in natura: per quantificare il reddito (o la base IVA) basta fare la stima in denaro corrente . Questa sentenza (Cass. pen. 8269/2025) è un monito: “la circostanza che il pagamento avvenga in criptovalute non esclude la natura reddituale del provento” e la mancata dichiarazione di tali corrispettivi oltre le soglie di legge integra il reato di dichiarazione infedele .
Riassumendo i principi fondamentali in materia di IVA e criptovalute:
- Scambio di criptovalute (conversione crypto-fiat o crypto-crypto): operazione esente IVA in base all’art. 135 Dir. 112/2006 (recepito dall’art. 10 DPR 633/72). Esempio: commissioni di un exchange per convertire euro in Bitcoin sono esenti IVA . Ciò equipara l’exchange di cripto a un cambio valuta tradizionale.
- Cessione di beni o servizi pagati in criptovaluta: operazione imponibile IVA come qualsiasi vendita. Il venditore (soggetto IVA) deve emettere fattura con indicazione del bene/servizio ceduto, del controvalore in euro del corrispettivo crypto (al cambio del giorno) e dell’IVA calcolata su tale importo . Il pagamento in sé in Bitcoin non è tassato, ma l’IVA si applica sul bene o servizio venduto. Ad esempio, se vendo un computer accettando 0,1 BTC, e al momento della vendita 0,1 BTC vale 2.000€, devo emettere fattura di €2.000 + IVA (22%) = €2.440, e versare €440 di IVA allo Stato.
- NFT (Non-Fungible Token): il trattamento IVA dipende dalla natura dell’asset sottostante (approccio del “look-through” adottato dalla Circolare AdE 30/E/2023). Se l’NFT rappresenta un bene o servizio digitale (asset “on-chain”), la sua cessione è considerata un servizio elettronico, soggetto a IVA alle aliquote ordinarie e secondo le regole di territorialità dei servizi digitali . Se invece l’NFT incorpora un asset fisico o un diritto “off-chain” (es. un’opera d’arte fisica, un bene materiale), la cessione dell’NFT segue la disciplina IVA del bene sottostante . In altri termini:
- NFT di asset digitali: prestazione di servizi tramite mezzi elettronici (IVA applicabile, salvo eccezioni come opere d’arte digitali vendute dall’artista stesso). Ad esempio, la vendita di un NFT che dà accesso a un file digitale (musica, video, opera digitale) è soggetta a IVA ordinaria se effettuata da un soggetto passivo in Italia. Eccezione: se l’NFT rappresenta un’opera digitale ceduta dall’autore stesso sul mercato primario, tale cessione può considerarsi non rilevante ai fini IVA per carenza del presupposto oggettivo, analogamente alla cessione di un’opera d’arte da parte dell’artista (art. 3, co.4, lett. a) DPR 633/72) .
- NFT di asset fisici: l’NFT è solo un “veicolo” del trasferimento; la cessione è equiparata alla vendita del bene/diritto reale sottostante, seguendone il regime IVA . Ad esempio, un NFT che rappresenta la proprietà di un bene da collezione fisico: la vendita dell’NFT è soggetta a IVA come vendita di quel bene (salvo esenzioni specifiche). In pratica, l’NFT “segue” il trattamento del bene che incorpora.
Tabella 1 – Trattamento IVA degli NFT secondo il sottostante
Sottostante NFT | Natura operazione e IVA | Riferimento normativo/prassi |
---|---|---|
Asset digitale nativo (“on-chain”) | Servizio elettronico, IVA ordinaria se effettuato da soggetto passivo (salvo non imponibilità per opera d’arte digitale venduta dall’autore) | Art. 7 Reg. UE 282/2011 (servizi elettronici); Art. 3, co.4, lett. a) DPR 633/72 (opere d’arte d’autore) |
Asset materiale o diritto “off-chain” | Cessione di bene/diritto, segue regime IVA proprio di quel bene/diritto (aliquota e norme applicabili a tale bene) | Circolare AdE 30/E/2023, princìpio del “look-through” |
- Stablecoin: le cosiddette criptovalute a valore stabile (es. USDT, USDC, DAI), ancorate a valute fiat o ad asset reali, rientrano nella definizione generale di “cripto-attività” introdotta dalla L.197/2022. Alcune stablecoin con determinate caratteristiche possono qualificare come “token equiparati alla moneta elettronica” (e-money token) ai sensi dei regolamenti UE (MiCA) – ciò comporta che l’emittente deve essere un soggetto vigilato e il detentore ha diritto al rimborso in valuta fiat . Dal punto di vista IVA, comunque, le stablecoin funzionano come mezzi di pagamento analoghi alle altre criptovalute: lo scambio fra stablecoin e euro è esente IVA, l’utilizzo per acquistare beni/servizi comporta l’assoggettamento ad IVA della transazione sottostante (basandosi sul controvalore agganciato, tipicamente 1 stablecoin = 1 USD/EUR). In sostanza, pagare un servizio in USDC o in Bitcoin non fa differenza ai fini IVA: in entrambi i casi va emessa fattura in euro.
- Privacy coin (Monero, Zcash, Dash ecc.): sono criptovalute progettate per massimizzare l’anonimato delle transazioni (tramite protocolli di mixing automatico, indirizzi invisibili, firme ring, ecc.). Legalmente non hanno uno status speciale – anch’esse sono “valute virtuali” – ma dal punto di vista pratico complicano enormemente la tracciabilità. L’uso di Monero e simili è guardato con sospetto dal Fisco: se da un lato non esistono divieti espliciti al loro utilizzo, dall’altro l’impiego di strumenti atti a occultare le transazioni può costituire indizio di dolo e aggravare la posizione del contribuente in caso di indagine per evasione o riciclaggio. Come nota un’analisi, “ci sono criptovalute (es. Monero, Dash) il cui protocollo prevede il mixing automatico e la sfida a crearne di sempre più anonime rischia di attrarre evasori fiscali e riciclatori” . In definitiva, se un soggetto viene trovato ad aver utilizzato in modo sistematico privacy coin per incassare proventi non dichiarati, difficilmente potrà sostenere di aver agito in buona fede. Le autorità potrebbero leggere tale condotta come volontà deliberata di occultare il reddito.
- NFT e beni da collezione (es. arte digitale): un cenno particolare merita la vendita di opere d’arte digitali tramite NFT. In Italia, l’art. 3, co.4, lett. a) del DPR 633/1972 prevede che “le cessioni di opere dell’ingegno effettuate direttamente dall’autore sono fuori campo IVA” (non considerate prestazioni di servizi). Questo significa che un artista che vende una sua creazione, anche sotto forma di NFT, non applicherà IVA sul ricavato (ma ciò non lo esonera dalle imposte dirette sul reddito). Se però l’opera digitale NFT viene rivenduta da un soggetto diverso dall’autore (es. un collezionista o una società), quella cessione è da considerarsi un servizio elettronico imponibile, soggetto a IVA ordinaria se territorialmente rilevante . La Cassazione penale nel 2025 (sent. 8269 citata) ha appunto qualificato i proventi da vendita di NFT da parte dell’autore come redditi di lavoro autonomo imponibili (e, si desume, non soggetti a IVA per mancanza di autonoma organizzazione, analogamente agli artisti). Resta comunque un terreno nuovo, in cui fisco e arte digitale si intersecano: è consigliabile inquadrare caso per caso con esperti, per capire se va aperta partita IVA o se l’attività rientra nelle esenzioni per arte e diritto d’autore.
- Altre operazioni con crypto-attività: se un’azienda presta servizi legati alle cripto (es. servizi di custodia wallet, marketplace NFT, servizi di mining o staking per terzi), occorre valutare l’inquadramento IVA di tali servizi. Ad esempio:
- Commissioni di exchange: la Risoluzione 72/E/2016 equiparava l’attività di cambio crypto a servizio finanziario esente IVA . Ma se l’exchange offre servizi accessori o altri prodotti, quelle commissioni potrebbero essere imponibili.
- Mining: l’attività di mining “puro” è considerata fuori campo IVA, in quanto manca un rapporto sinallagmatico identificabile tra miner e destinatario del servizio (il reward ottenuto dal protocollo non è corrisposto da un cliente determinato). Già l’Agenzia Entrate con Risposta a interpello n. 956-39/2018 aveva suggerito questa linea, poi confermata a livello UE. Quindi il miner individuale non deve applicare IVA sui coin creati.
- Staking e DeFi: se un soggetto eroga servizi di finanza decentralizzata o se percepisce commissioni per validare transazioni (staking pool operator), la questione IVA è complessa e dipende dal tipo di servizio. Potrebbe essere assimilata a servizi finanziari esenti (se paragonabile a interessi, dividendi) oppure no. La nuova normativa italiana (L. 197/2022) sul reddito da staking li assimila a redditi di capitale, ma lato IVA manca ancora prassi chiara.
- Servizi di consulenza o sviluppo in ambito crypto: qui non c’è differenza rispetto ad altri servizi: un consulente blockchain italiano che viene pagato in crypto deve fatturare con IVA (salvo operazioni con estero non imponibili) come qualsiasi consulente.
Riferimenti normativi principali italiani:
– DPR 633/1972 (Decreto IVA), art. 3 (cessioni di beni e prestazioni di servizi; esclude opere d’ingegno d’autore), art. 10 (operazioni esenti tra cui valute estere), art. 13 (base imponibile in valuta estera convertita in euro).
– D.Lgs. 74/2000 (reati tributari) – ne parleremo a fondo più avanti, per le soglie di punibilità e sanzioni penali.
– D.L. 167/1990 art. 4 (monitoraggio fiscale attività estere, Quadro RW, obbligo che si applica anche alle criptovalute detenute all’estero).
– Legge 197/2022 (Bilancio 2023) commi 126-147: introduce definizioni di cripto-attività, valuta virtuale, token con diritto, NFT, ecc., ai fini imposte dirette; fissa imposta sostitutiva 26% sulle plusvalenze da crypto (>2.000€ fino al 2024, soglia poi abolita dal 2025), imposta di bollo/IVAFE sulle cripto detenute, possibilità di regolarizzazione di violazioni passate, ecc. Sebbene riguardi soprattutto le imposte sul reddito, questa legge è rilevante perché ha costretto la prassi a interpretare in modo sistematico il fenomeno (es. la Circolare 30/E/2023).
– Circolare AdE 30/E del 27/10/2023: linee guida sul trattamento fiscale delle cripto-attività, con approfondimenti anche su aspetti IVA (soprattutto NFT e distinzione on-chain/off-chain già illustrata).
Riferimenti europei e internazionali:
– Direttiva 2006/112/CE (Direttiva IVA), art. 135(1)(e): esenzione per operazioni relative a divise, banconote, monete estere usate come mezzi legali di pagamento (base della sentenza Hedqvist).
– Regolamento UE 282/2011, art. 7 e segg.: disciplina dei servizi elettronici (rilevante per NFT digitali).
– Sentenza CGUE C-264/14 (Hedqvist): equiparazione bitcoin a valuta estera per IVA .
– Direttiva (UE) 2018/843 (V Direttiva Antiriciclaggio) e successiva 2018/1673 (sul contrasto al riciclaggio via crypto) – impongono agli Stati di regolamentare gli exchange e i wallet provider con obblighi AML (l’Italia l’ha recepita nel D.Lgs. 90/2017 e 125/2019). Non è normativa IVA, ma indirettamente incide perché facilita l’identificazione degli operatori nel settore crypto.
– MiCA (Markets in Crypto-Assets Regulation) – Regolamento (UE) 2023/1114, applicabile dal 2024/2025, che istituisce un quadro giuridico per emittenti di token, stablecoin e fornitori di servizi crypto. Pur essendo focalizzato su vigilanza finanziaria e non sul fisco, MiCA contribuirà a “ripulire” il settore, portando molte piattaforme fuori dall’ombra. Anche questo rende più difficile utilizzare criptovalute per scopi evasivi.
– VAT in the Digital Age (VIDA) – pacchetto di riforme UE approvato in linea di principio dall’ECOFIN nel novembre 2024 . Include misure per combattere le frodi IVA nell’e-commerce e nei servizi digitali: l’istituzione di un sistema Central VIES per incrociare i dati delle partite IVA UE in tempo reale, l’obbligo di fatturazione elettronica e report “transaction-based” per operazioni intracomunitarie, ecc. Anche se non riguarda direttamente le crypto, un sistema IVA più digitale e integrato riduce lo spazio per le frodi carosello (dove spesso le crypto entrano come mezzo per spostare valori fuori portata).
– DAC8 (ottava direttiva sulla cooperazione amministrativa fiscale): in fase avanzata di approvazione nel 2025, prevede l’estensione dello scambio automatico di informazioni tra Amministrazioni fiscali anche ai fornitori di servizi su cripto-attività. In pratica, gli exchange e piattaforme dovranno comunicare ai fiscali UE i dati dei clienti e delle transazioni rilevanti. Questo sarà un game changer: il Fisco italiano potrà ottenere da controparti estere le informazioni sui wallet dei contribuenti italiani, eliminando molti alibi (sul modello di quanto avviene per i conti esteri con CRS/FATCA). La trasparenza diventerà la norma anche per le crypto.
In conclusione, a livello normativo non c’è un “vuoto”: le criptovalute sono state inquadrate sia ai fini IVA (sostanzialmente come valute estere) sia ai fini delle imposte sui redditi (come asset finanziari o redditi diversi). Il tentativo di sostenere “la legge non prevede nulla, quindi non dovevo pagare” non regge. La Cassazione ha chiarito che l’assenza di una disciplina dettagliata non esonera dall’imponibilità: valgono i principi generali e l’Amministrazione può tassare le cripto come valute estere e le plusvalenze come redditi finanziari . Inoltre, dal 2023 l’Italia ha una normativa ad hoc: chi non la rispetta difficilmente potrà invocare l’incertezza normativa come scusa. A tal proposito, notiamo che l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede una causa di non punibilità penale per alcuni reati tributari se prima dell’avvio del processo il contribuente paga integralmente imposte, sanzioni e interessi dovuti. Tale ravvedimento è ovviamente possibile solo se si riconosce l’obbligo violato. Affidarsi alla tesi “credevo che le crypto non fossero tassabili” fino a farsi incriminare, per poi scoprire che la legge le assimilava a valute estere, è una strategia disastrosa. Prevenire è meglio che curare: adeguarsi spontaneamente alle regole costa molto meno che difendersi da un’accusa di evasione.
Nei capitoli successivi vedremo come il Fisco scopre l’evasione IVA tramite crypto, quali sono i tipici schemi illeciti e come organizzare una difesa efficace.
Schemi di evasione IVA tramite criptovalute: casi e modalità operative
In questa sezione esaminiamo concretamente come le criptovalute possano essere impiegate per eludere o evadere l’IVA, passando in rassegna i principali schemi fraudolenti osservati o ipotizzabili, e cosa comportano. Comprendere questi schemi è importante sia per prevenirli (dal lato di imprese oneste che non vogliono incappare in violazioni inconsapevoli) sia per predisporre adeguatamente la difesa nel caso si venga accusati di averli posti in essere.
Vendite “in nero” con pagamenti in crypto (mancata fatturazione)
Lo scenario: un’impresa o professionista effettua cessioni di beni o prestazioni di servizi senza emettere fattura, richiedendo al cliente il pagamento in criptovaluta. L’assenza di traccia bancaria e la natura pseudo-anonima della crypto fanno sperare all’evasore di non essere scoperto. Questo è il caso più intuitivo di utilizzo della criptovaluta per evadere l’IVA: semplicemente la si usa come contante digitale. Ad esempio, un commerciante al dettaglio vende merce per 10.000€ (che includerebbero circa 1.800€ di IVA) senza scontrino né fattura, facendosi pagare in Bitcoin inviati a un suo wallet personale. Oppure un professionista (es. consulente informatico) presta servizi ai clienti esteri e chiede il compenso in USDT su un wallet offshore, non dichiarando nulla né emettendo parcella.
Perché è allettante per l’evasore: tradizionalmente il limite dell’evasione “in nero” era gestire i contanti percepiti: grosse somme in banconote destano sospetti se depositate, rischiano furti, e soprattutto l’uso del contante è tracciato sopra certe soglie (dichiarazione di circolazione per oltre 10.000€ in frontiera, ecc.). Con le criptovalute, invece, si può incassare importi ingenti in forma digitale, custodirli in un wallet (anche su un piccolo hardware wallet tascabile) e trasferirli ovunque nel mondo in pochi minuti. Inoltre il pagamento digitale in crypto può avvenire anche a distanza, favorendo vendite online sommerse. In apparenza, il soggetto può mimetizzare quei proventi come frutto di fortunate speculazioni crypto, difficili da collegare alle vendite.
Esempio pratico: la Società Alfa vende elettronica di consumo. Alcuni clienti “all’ingrosso” compiacenti accettano di comprare senza fattura per risparmiare l’IVA, pagando Alfa sottobanco. Alfa fornisce loro un indirizzo Bitcoin su cui inviare il pagamento equivalente al netto IVA. Ogni settimana Alfa converte parte dei BTC in euro tramite un exchange estero non registrato (KYC blando) per avere liquidità, oppure li utilizza per acquistare forniture in Asia. Nel suo bilancio Alfa mostra ricavi molto inferiori al reale, evadendo IVA e imposte dirette. Questo schema somiglia alle normali vendite in nero, ma la crypto offre uno schermo ulteriore: niente bonifici né versamenti di contante sul conto societario.
Come viene scoperto: paradossalmente, lo spesometro e il controllo incrociato dei movimenti bancari possono far emergere anomalie (costi sostenuti dall’azienda non corrispondenti ai ricavi dichiarati, prelievi ingenti di contante, ecc.). Ma con l’uso massiccio di criptovaluta, l’azienda potrebbe ridurre i movimenti bancari sospetti. A quel punto il Fisco può insospettirsi per altri indizi: margini troppo bassi rispetto al settore, incongruenze tra acquisti (con IVA detraibile) e vendite dichiarate, segnalazioni di clienti/fornitori pentiti, o un tenore di vita dei soci non spiegabile dai redditi ufficiali. Uno strumento chiave è il “redditometro/evasometro”: dal 2024 è ripartito l’accertamento sintetico, che se rileva una capacità di spesa non coerente col reddito dichiarato, convoca il contribuente a giustificare la differenza . L’Agenzia Entrate sta usando questo metodo per gli acquisti di criptovalute emersi da regolarizzazioni: se hai dichiarato di possedere crypto (es. aderendo alla sanatoria 2023) ma in passato non avevi redditi per giustificarle, parte l’invito a comparire per chiarimenti . Nel caso Alfa, se i soci convertono BTC in euro e acquistano immobili, auto di lusso, ecc., l’evasometro segnalerà incoerenze. Inoltre, non va dimenticato che la blockchain lascia tracce: se l’indirizzo Bitcoin di Alfa viene collegato alla società (ad es. perché un cliente collaboratore lo svela, o perché Alfa lo ha usato in transazioni identificabili), la GdF potrà risalire alle transazioni e quantificare gli importi non fatturati.
Profili di violazione: la vendita in nero implica evasione IVA e IRPEF/IRES. In particolare, la società Alfa: – Non ha addebitato né versato l’IVA sulle operazioni (violazione amministrativa dell’obbligo di fatturazione, sanzione 90% a 180% dell’IVA evasa per ogni operazione, ex art. 6 D.Lgs. 471/97). – Ha presentato dichiarazioni infedeli omettendo ricavi. Se l’IVA evasa supera la soglia penale di €100.000 annui (e i ricavi non dichiarati superano il 10% di quelli dichiarati o comunque 2 milioni), scatta il reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) punito con la reclusione 2-5 anni . In alternativa, se Alfa non presentava proprio la dichiarazione IVA o redditi, si configurerebbe omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs.74) oltre soglia €50.000 di imposta evasa, reclusione 2-6 anni . – Se i pagamenti in crypto si qualificassero come proventi illeciti, anche il semplice detenerli occultamente potrebbe far ipotizzare il reato di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) o autoriciclaggio (648-ter1 c.p.), se Alfa o i suoi amministratori compiono operazioni volte a ostacolare l’identificazione dell’origine dei fondi. Ad esempio, l’utilizzo di mixer o il trasferimento su wallet di terzi sono condotte tipiche di chi ricicla denaro. In ambito IVA, l’autoriciclaggio viene contestato in aggiunta all’evasione quando i profitti non dichiarati vengono reimpiegati deliberatamente in attività economiche per camuffarli.
Difendibilità: per difendersi, Alfa potrebbe sostenere che talune entrate in crypto non fossero corrispettivi di vendite bensì ad esempio donazioni o proventi da trading (tentativo di confondere le acque). Ma servirebbero prove concrete a supporto (es. contratti di compravendita? improbabile se era nero). Una linea difensiva alternativa potrebbe essere contestare la quantificazione dell’evasione fatta dal Fisco tramite l’analisi blockchain (magari le transazioni in ingresso includevano anche trasferimenti interni o da altre fonti lecite). In sede penale, la difesa potrebbe puntare sull’assenza di dolo specifico di evasione (se Alfa prova di aver confidato in un’interpretazione errata della norma – tesi però debole, vista la chiarezza delle regole IVA). Potrà semmai giovare il ravvedimento operoso (pagamento tardivo) se avvenuto prima della contestazione penale: il pagamento integrale dell’imposta e sanzioni prima del dibattimento è causa di non punibilità per i reati ex art. 4 e 5 D.Lgs.74/2000 (art. 13 c.2) . Quindi, se Alfa spontaneamente (o appena ricevuto un PVC) versa tutto il dovuto, potrebbe evitare la condanna penale – restando le sanzioni amministrative.
Frodi carosello con cripto (schemi transnazionali)
Lo scenario: qui parliamo di evasione organizzata e su larga scala. La frode carosello classica coinvolge società in diversi Paesi UE che si passano beni senza applicare l’IVA (grazie al regime intracomunitario), per poi rivenderli con IVA in patria e scomparire prima di versarla, lasciando agli organizzatori un guadagno pari all’IVA non pagata. Di solito c’è una “società filtro” o missing trader che risulta debitrice d’imposta e non la versa (sparisce). Come entrano le criptovalute? Possono entrare in due modi principali: 1. Come mezzo di pagamento occulto tra le parti fraudolente: ad esempio, per regolare fuori dai canali bancari i flussi finanziari del carosello. Immaginiamo un circuito: Società A (in Italia) vende beni a Società B (in Francia) senza IVA (intra-UE). B rivende a C (in Germania) con IVA tedesca e sparisce senza versarla. I profitti illeciti (l’IVA incassata) devono essere trasferiti ai promotori in modo non tracciabile. B potrebbe convertire gli incassi in stablecoin e inviarli a wallet controllati dagli organizzatori, evitando bonifici bancari sospetti. Oppure i vari attori si scambiano pagamenti interni tramite criptovalute per aggiustare le rispettive casse. 2. Come oggetto stesso della frode: si potrebbe configurare una frode carosello su operazioni in criptovalute, approfittando di eventuali zone grigie. Ad esempio, creare società che fingono compravendite di “mining hardware” o servizi crypto cross-border mai avvenuti, per generare crediti IVA fittizi da compensare. Oppure usare le cripto per gonfiare costi in una giurisdizione e spostare utili altrove.
Un caso riportato è quello di schemi dove l’IVA riscossa viene subito convertita in Bitcoin e “lavata” tramite servizi di mixing, rendendo difficilmente rintracciabile la destinazione finale . In pratica, i frodatori invece di trasferire i fondi via banca (esponendosi a sequestri), li riconvertono in crypto e li movimentano su piattaforme estere.
Esempio reale: nell’operazione “Moby Dick” condotta dall’EPPO (European Public Prosecutor’s Office) con la GdF di Varese, smantellata nel 2025, una rete di 400 aziende in 10 Paesi ha perpetrato frodi carosello su elettronica per oltre 1,3 miliardi di euro di imponibile . Diversi gruppi mafiosi erano coinvolti. Sebbene i dettagli pubblici non citino esplicitamente criptovalute, l’indagine ha portato al sequestro di 129 conti bancari, 192 immobili e altri beni di lusso . È plausibile che abbiano usato ogni mezzo per occultare i proventi, e non si esclude l’uso di crypto. Un’altra notizia (richiamata dal Financial Times) parla di un chirurgo italiano diventato broker crypto accusato di aver orchestrato uno schema di frode carosello con criptovalute come elemento del meccanismo .
Come viene scoperto: le frodi carosello di solito vengono individuate tramite analisi incrociate fatture intra-UE (VIES), intelligence fiscale e segnalazioni sospette. L’uso di crypto è un aggravante ma non impedisce l’emersione dello schema: se le fatture indicano vendite mai arrivate a destinazione, se una società dichiara crediti IVA enormi per acquisti intracomunitari, scattano gli alert. L’Unione Europea sta correndo ai ripari proprio con un sistema centralizzato di incrocio dati (Central VIES) e con l’estensione di Eurofisc per analizzare in tempo reale le transazioni intra-UE . Inoltre, l’EPPO (la Procura europea) è ora operativa e coordina azioni tra le polizie dei vari Stati. Nel citato caso “Moby Dick”, 43 persone sono state arrestate e 520 milioni di euro congelati grazie all’azione congiunta internazionale . Se i frodatori usano crypto, l’EPPO può richiedere assistenza a Europol per tracciare la blockchain (Europol ha team specializzati in cybercrime finanziario). Non solo: dal 2025 molte transazioni su piattaforme crittografiche dovranno essere accompagnate da informazioni (“travel rule” antiriciclaggio), e i registri pubblici come la blockchain di Bitcoin, pur se pseudonimi, possono rivelare pattern sospetti (es. uso di mixer immediatamente dopo incassi di certe entità, cluster di wallet correlati a noti soggetti).
Profili di violazione: qui siamo su reati tributari plurimi e aggravati, spesso commessi in associazione: – Dichiarazione fraudolenta (art. 2 o 3 D.Lgs.74/2000): se si usano fatture false o altri artifici contabili per creare il carosello, scatta l’art. 2 (frode con fatture false) punito con reclusione 4-8 anni, senza soglia minima . Se invece la frode è attuata con simulazioni e documentazione fittizia diversa dalle fatture (es. sovrafatturazioni, bilanci manipolati), può essere art. 3 (frode con altri artifici), soglia imposta evasa > 30k e attivi sottratti >5% o >1,5M, pena 3-8 anni (a seguito riforme). – Associazione a delinquere semplice o di stampo mafioso: spesso dietro grandi caroselli c’è un’organizzazione stabile. Gli organizzatori rischiano la contestazione dell’associazione per delinquere (art. 416 c.p.) o, se coinvolte mafie, 416-bis c.p., con pene elevate. – Riciclaggio/autoriciclaggio: la conversione sistematica di fondi illeciti in criptovalute per ostacolarne l’individuazione configura il reato di autoriciclaggio (art. 648-ter1) per gli evasori stessi, punito con reclusione 2-8 anni se il denaro “ripulito” è frutto di delitto non colposo (qui la frode fiscale). Se entrano soggetti terzi che aiutano nel ripulire (es. broker crypto compiacenti), per loro si configura il riciclaggio classico (art. 648-bis, 4-12 anni). – Responsabilità amministrativa degli enti (D.Lgs.231/2001): le società coinvolte nella frode possono essere chiamate a rispondere ex 231 se i reati fiscali vengono considerati tra i “reati presupposto” (dal 2019 alcuni reati tributari lo sono in certe condizioni). In pratica, multe salatissime e confisca per l’ente societario.
Difendibilità: difendersi da accuse di frode carosello è complesso. La presenza di criptovalute aggiunge un elemento tecnico: la difesa potrebbe contestare la paternità dei wallet (es: “quei wallet a cui sono finiti i Bitcoin non sono dei miei assistiti”), oppure contestare la ricostruzione dell’accusa (che tipicamente farà un quadro indiziario). La strategia può essere quella di isolare le responsabilità (scaricare tutto sui missing trader o prestanome, sostenendo che i manager di vertice non erano consapevoli del meccanismo fraudolento). Si può cercare di dimostrare che le operazioni avevano sostanza (non erano fittizie) e che eventuali mancate corresponsioni IVA furono dovute a insolvenze, non a dolo iniziale. Tuttavia, quando le prove documentali (fatture false, circuiti chiusi) ci sono, spesso la via migliore è collaborare per limitare i danni: pagare il dovuto (anche se non estingue il reato di frode, può influire sulla pena), patteggiare la pena per ridurla di un terzo, e nel caso di 231 far adottare modelli organizzativi per evitare interdittive all’azienda. Dal punto di vista tecnico, l’analisi forense della blockchain potrebbe offrire spunti: ad esempio, dimostrare che i Bitcoin “spariti” in realtà andarono perduti e non nelle tasche degli imputati (ipotesi remota, ma se ad es. i fondi furono rubati da hacker, il dolo di evasione potrebbe essere ridiscusso). In sostanza, la difesa penale punterà su mancanza di dolo o ruoli minori degli assistiti, mentre la difesa tributaria potrebbe giocarsi la carta della nullità di atti se l’accertamento è stato svolto senza contraddittorio internazionale, ecc.
Omesso versamento IVA e “crittografia” dei patrimoni (crypto asset per sottrarsi alla riscossione)
Lo scenario: questo è un caso particolare. Poniamo che un’azienda o un contribuente dichiari correttamente l’IVA a debito nelle liquidazioni e nella dichiarazione annuale, ma poi non la versi all’Erario. Purtroppo è situazione frequente, spesso per difficoltà finanziarie: si riscuote l’IVA dai clienti ma la si trattiene per cassa. Se l’importo supera una certa soglia, diventa reato (art. 10-ter D.Lgs.74/2000). Ora, come c’entra la criptovaluta? Entra nella fase di sottrazione patrimoniale per evitare la riscossione coattiva. Ad esempio, la Società Beta ha un debito IVA di 300.000€ non versato per l’anno X (quindi penalmente rilevante oltre €250k ). Prevedendo azioni esecutive (fermi, ipoteche, pignoramenti) da parte dell’Agente della riscossione, Beta sposta gran parte della propria liquidità in criptovalute. Con gli euro sui conti correnti, acquista Bitcoin o stablecoin che poi trasferisce su wallet in custodia personale degli amministratori o su chiavi hardware, rendendo di fatto i soldi “invisibili” al Fisco. All’apparenza, la società risulta nullatenente o quasi, così come i soci (che magari formalmente non possiedono nulla, avendo convertito tutto in crypto). Questa condotta rientra in ciò che la legge definisce sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs.74/2000) quando si compiono atti dispositivi sui beni allo scopo di evitare il pagamento di imposte dovute.
Come viene scoperto: se Beta viene già attenzionata per l’omesso versamento, la GdF o l’Agenzia possono condurre indagini patrimoniali. Vedendo prelievi bancari sospetti o bonifici verso exchange (che poi terminano nel nulla), possono insospettirsi. Possono richiedere agli exchange (anche esteri, via rogatoria) i dettagli; se Beta ha usato exchange non cooperativi, cercheranno altre tracce, come ad esempio variazioni anomale nella contabilità (acquisto di “servizi” inesistenti all’estero pagati crypto?), o appoggiarsi alla Polizia Postale per rintracciare attività online. Non dimentichiamo che il decreto antiriciclaggio impone agli exchange di segnalare operazioni sospette: se Beta compra 300k€ in Bitcoin e li sposta su un wallet anonimo, la piattaforma potrebbe fare una SOS. Inoltre, l’Agenzia Entrate può notificare a Beta un provvedimento cautelare (fermo amministrativo, ipoteca, sequestro conservativo) e se Beta se ne libera vendendo beni e convertendo il ricavato in crypto, lascia comunque tracce (atti notarili, movimenti di denaro). L’art. 11 punisce anche chi “alienando simulatamente o compiendo altri atti fraudolenti sui propri o altrui beni, si sottrae al pagamento di imposte”. Convertire tutti i propri asset liquidi in criptovaluta e asserire “non ho soldi” potrebbe essere letto come un “atto fraudolento” (non un reato di per sé, ma finalizzato a eludere la riscossione).
Profili di violazione: – Omesso versamento IVA (art. 10-ter): se Beta non versa oltre €250k di IVA dichiarata, commette reato punito con reclusione 6 mesi – 2 anni . Non importa perché non ha versato (crisi di liquidità o volontà dolosa); il reato scatta per il semplice fatto del mancato pagamento entro il termine (attualmente prorogato al 31/12 dell’anno successivo). C’è però una causa di non punibilità: il pagamento integrale del debito tributario (più interessi e sanzioni) prima della dichiarazione di apertura del dibattimento in primo grado estingue il reato (art. 13 D.Lgs.74/2000). In pratica, Beta ha tempo fino all’udienza preliminare/inizio processo penale per correre ai ripari e pagare tutto: se lo fa, niente condanna penale. Ecco perché molti casi di omesso versamento finiscono con pagamento tardivo. – Sottrazione fraudolenta al pagamento (art. 11): qui la soglia è più bassa, basta sottrarre fraudolentemente al pagamento un importo > €50.000 di imposte o sanzioni dovute, per incorrere nel reato . Beta, convertendo 300k in Bitcoin, avrebbe creato un pericolo per la garanzia del debito verso il fisco. La pena è 6 mesi – 4 anni, aumentata a 1–6 anni se l’importo supera €100k . Usare crypto potrebbe essere visto come “operazione artificiosa” volta a rendersi insolvibile.
- Eventuale concorso dei responsabili personali: l’art. 11 colpisce chiunque compie gli atti, quindi i legali rappresentanti o amministratori di Beta rispondono in proprio. Se coinvolgono terzi (es. un amico che presta il suo wallet per custodire i fondi), questi possono concorrere nel reato.
Difendibilità: una linea difensiva per Beta in sede penale potrebbe essere dimostrare che non vi era dolo fraudolento nella conversione in crypto. Ad esempio, sostenere che la società operava in un contesto di crisi e ha convertito temporaneamente in crypto come investimento, senza volontà di sottrarsi al fisco (ipotesi poco credibile se fatta proprio a ridosso dell’iscrizione a ruolo del debito). Oppure, se Beta adduce che aveva crediti verso clienti e sperava di pagare appena riscossi, può forse evitare la condanna per art.10-ter provando che non vi era “volontà di non pagare” ma impossibilità momentanea. La Cassazione però su omesso versamento è rigida: basta la volontarietà dell’azione di non pagare, a nulla rileva l’eventuale destinazione data ai fondi.
Un altro spunto difensivo è contestare la valutazione dei crypto-asset sequestrati. Se la GdF sequestra i Bitcoin di Beta come profitto del reato tributario, deve quantificarli in euro. Ebbene, la Cassazione di recente (sent. n. 1760/2025) ha stabilito che il sequestro/confisca di criptovalute per equivalente deve basarsi sul valore in euro al momento del reato, e non si può semplicemente assimilare 1 BTC al valore attuale di mercato senza perizia . Ha chiarito che i bitcoin sequestrati non possono automaticamente essere considerati il “denaro” del profitto tributario; serve un accertamento tecnico . Questa precisazione può offrire alla difesa margine per eccepire errori nella quantificazione del profitto confiscabile (ad esempio, se il valore crypto è crollato, il profitto reale potrebbe essere minore). Inoltre, se Beta consegna i crypto volontariamente per monetizzarli e pagare il fisco, potrebbe ottenere un trattamento di maggiore favore (collaborazione).
In definitiva, il miglior modo di difendersi dall’accusa di omesso versamento è pagare il dovuto quanto prima. In tal modo: (i) si estingue il reato 10-ter se entro il termine di legge; (ii) si rimuove il presupposto dell’art.11 (non c’è più debito, quindi non c’è pericolo per la riscossione). “Pagare per non pagare” sembra un controsenso, ma in ambito penale tributario è spesso la via di uscita. Naturalmente, occorre reperire le risorse: qui magari i crypto asset possono tornare utili in positivo, se liquidati per saldare il debito fiscale.
Altri utilizzi illeciti delle crypto correlati all’IVA
- Fatture false per operazioni crypto: un’azienda potrebbe comprare criptovalute “in nero” ma poi, per giustificare l’uscita di cassa, farsi emettere una fattura falsa per un servizio inesistente (es. “consulenza informatica”). In tal caso c’è emissione/uso di fatture false (artt. 2 e 8 D.Lgs.74) anche se la sostanza era l’acquisto di crypto. Oppure, viceversa, potrebbero creare vendite fittizie di crypto per generare credito IVA da chiedere a rimborso. Ad esempio: società X emette fattura a società Y per “cessione di bitcoin” con IVA 22%, Y detrae quell’IVA e la chiede a rimborso, ma la transazione in realtà non è mai avvenuta. Ciò configura frode con documenti falsi.
- Truffe IVA su NFT: si può pensare a soggetti che vendono NFT a se stessi tramite società controllate estere, gonfiando i valori, per poi far emergere perdite o crediti IVA. Dato il particolare status degli NFT (beni digitali), le autorità potrebbero faticare a valutarne il fair value, e i truffatori potrebbero sostenere che l’NFT è stato rivenduto sottocosto generando un credito. È uno schema fantasioso ma non impossibile, visto che l’intangibilità dell’oggetto apre spazi a valutazioni arbitrarie. Tuttavia, la mancanza di una disciplina ad hoc IVA sugli NFT (salvo quanto detto sulla loro natura) rende questi tentativi rischiosi per i truffatori: facilmente l’Agenzia qualificherà come abuso qualsiasi architettura che sfrutti NFT per far figurare crediti fittizi.
- Evasione doganale con crypto: l’IVA include anche l’IVA all’importazione. Immaginiamo un importatore che, d’accordo con il fornitore extra-UE, dichiara in dogana un valore inferiore per la merce (pagando meno dazi e IVA) e paga al fornitore la differenza in criptovaluta “fuori fattura”. Questo è un tipico caso di sottofatturazione doganale, aggravato dall’uso di crypto per corrispondere il prezzo occulto. Le Dogane potrebbero scoprire l’inghippo incrociando i prezzi medi di mercato e, in caso di dubbi, indagando sui flussi finanziari anomali (ad esempio, se un’azienda ha costi alti in crypto non spiegati).
- Compensi dipendenti in crypto non dichiarati: un’azienda potrebbe pagare parte degli stipendi “fuori busta” in criptovalute, eludendo contributi e ritenute. Non è esattamente IVA, ma se quell’azienda riporta costi inferiori, dichiara anche un’IVA a credito inferiore al reale (perché magari classifica quei pagamenti come altro). È una forma di evasione contributiva e fiscale integrata con crypto. Legalmente, pagare stipendi in crypto è possibile solo se poi si applicano le stesse ritenute e contributi; se non lo fanno e occultano la spesa, incorrono in violazioni tributarie e del lavoro.
Come si vede, la creatività evasiva trova nella versatilità delle criptovalute un fertile terreno. Tuttavia, ogni schema lascia tracce, e la legge, inquadrando la sostanza economica, permette di contestare l’evasione a prescindere dal mezzo di pagamento usato.
Le sezioni successive tratteranno come l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza hanno potenziato gli strumenti di indagine e controllo sulle criptovalute, e poi entreremo nel vivo delle strategie difensive lato contribuente.
Strumenti di controllo del Fisco su criptovalute e transazioni sospette
Come fa l’Agenzia delle Entrate a scoprire che un contribuente sta usando Bitcoin per evadere l’IVA? Quali armi hanno le autorità per “vedere” attraverso la blockchain? Questa sezione esamina i principali strumenti investigativi e le iniziative normative che rendono sempre più trasparente un ecosistema nato per essere decentralizzato e pseudonimo.
Tracciabilità e blockchain forensics
È ormai un mito superato che “Bitcoin è anonimo e non rintracciabile”. Tutte le transazioni su blockchain pubbliche (Bitcoin, Ethereum, etc.) sono visibili su registri consultabili online. Ogni wallet ha un indirizzo alfanumerico pubblico; se si riesce a collegare quell’indirizzo a una persona, si conosceranno tutti i movimenti associati. Le aziende specializzate in blockchain forensics (es. Chainalysis, Elliptic) forniscono alle autorità software che analizzano le catene di blocchi identificando cluster di indirizzi riconducibili allo stesso utente e cercando collegamenti con exchange (punti di ingresso/uscita dove avviene il KYC). La Guardia di Finanza utilizza tali strumenti: “le criptovalute non garantiscono anonimato assoluto. La Guardia di Finanza, con software di blockchain analysis, può identificare i proprietari dei wallet” . Un esempio noto è l’arresto di utenti di dark web: si pensi a Silk Road (market illegale chiuso nel 2013) dove le transazioni in BTC furono tracciate e portarono all’identificazione del fondatore. In Italia, la GdF ha un Nucleo speciale tecnologia che collabora con Europol e Interpol per la crypto-intelligence. Dunque, se un’azienda o persona fisica pensa di poter occultare milioni in un wallet, dovrebbe sapere che ogni trasferimento di entità significativa rischia di emergere in analisi di routine, specie se interagisce con servizi noti (exchange, piattaforme DeFi popolari, ecc.).
Certo, esistono mixers, exchange decentralizzati o monete private per offuscare le tracce. Ma l’uso di mixer (es. Tornado Cash, Blender) è di per sé un campanello d’allarme: è noto che “i mixer celano i veri ID delle crypto, rendendo impossibile sapere se A ha pagato B” . Chi li usa viene attenzionato (tanto che negli USA alcuni mixer sono stati sanzionati dal Dipartimento del Tesoro). Inoltre, valute come Monero integrano mixing automatico ; tuttavia, anche in questi casi, l’anello debole è l’interazione con il mondo reale: prima o poi chi possiede Monero vorrà convertirli in beni, servizi o altre valute; in quel momento, se tocca un exchange con KYC o commette un passo falso (ad es. usare Monero per comprare qualcosa da un infiltrato), l’anonimato cade.
In sintesi, la “catena di blocchi” è trasparente, ciò che è segreto è l’identità dietro agli indirizzi. Ma le nuove normative KYC/AML obbligano sempre più attori a conoscere i titolari degli indirizzi: “le nuove normative e gli obblighi KYC stanno rendendo più efficaci i controlli” . Ad esempio, un decreto MEF del 2022 ha istituito l’OAM (Registro Operatori Valute Virtuali) in cui tutti i cambiavalute e wallet provider operanti in Italia devono iscriversi e segnalare l’attività svolta. Questo ha portato gli exchange italiani a condividere dati. In parallelo, la V Direttiva AML ha richiesto agli exchange UE di identificare i clienti. Dal gennaio 2024 è in vigore in UE anche la Travel Rule per le crypto: ogni trasferimento sopra 1000€ tra entità obbligate (exchange, istituti) deve portarsi dietro informazioni sul mittente e destinatario, analogamente ai bonifici bancari. Ciò impedisce di spostare fondi tra piattaforme senza lasciare nominativi.
Banche dati e “evasometro” 2.0
L’Agenzia delle Entrate ha a disposizione una mole enorme di informazioni tramite l’Anagrafe Tributaria: conti correnti, movimenti finanziari, saldi, acquisti di beni registrati (auto, case), fatture elettroniche, scontrini telematici, ecc. Dal 2025 è entrato in funzione l’“Evasometro 2.0”, evoluzione potenziata (con AI) del vecchio redditometro sintetico . Questo strumento incrocia i dati di spesa e investimenti di ciascun contribuente con i redditi dichiarati, segnalando scostamenti significativi. Le cripto non fanno eccezione: ad esempio, se Tizio nel 2024 preleva 50.000€ da un exchange verso il suo conto bancario, ma non ha dichiarato alcuna plusvalenza né indicato crypto nel quadro RW, il sistema segnala un’anomalia e parte una lettera di compliance . L’Agenzia sta inviando migliaia di comunicazioni ai possessori di cripto su cui riscontra discrepanze. Le fonti sono multiple: i dati degli intermediari finanziari (banche segnalano bonifici sospetti verso exchange esteri), le dichiarazioni di regolarizzazione (chi nel 2023 ha aderito alla sanatoria cripto ha rivelato quanto deteneva) e presto i flussi DAC8.
Già oggi, come evidenziato, la regolarizzazione 2023 ha fornito al Fisco una lista di persone che detenevano crypto non dichiarate. L’Avv. Merola riporta che l’Agenzia ha iniziato a invitare i contribuenti a giustificare come hanno potuto acquistare quelle crypto negli anni precedenti con i redditi dichiarati . In altre parole, se hai fatto emergere 100k€ in Bitcoin posseduti al 2022 ma risultavi disoccupato negli anni in cui li avresti comprati, ora il Fisco te ne chiede conto (accertamento sintetico). Devi provare che provenivano da redditi esenti, risparmi passati, donazioni, vincite, ecc., altrimenti quell’importo potrebbe essere considerato “reddito evaso” a te attribuibile. Questo meccanismo colpisce indirettamente l’evasione IVA: se l’evasore ha accumulato crypto vendendo senza fattura, ora per spiegare il possesso di crypto dovrebbe confessare la vendita in nero, o restare senza giustificazione convincente.
L’Agenzia inoltre dispone di poteri istruttori: può inviare questionari, aprire un’attività di controllo formale o una verifica sul contribuente. In fase di controllo formale, può incrociare i dati della dichiarazione con quelli comunicati da terzi. Ad esempio, se un exchange italiano (come The Rock Trading o Young Platform) comunica all’Agenzia che Caio ha movimentato 200.000€ in crypto nel 2024, ma Caio non ha indicato nulla in dichiarazione, scatta un invito al contraddittorio o un accertamento.
Secondo quanto riportato da esperti, le comunicazioni del Fisco relative a crypto possono essere di vario tipo : – Lettera di compliance (pre-accertamento): segnala un’anomalia e invita il contribuente a verificare e, se del caso, correggere spontaneamente. Ad esempio “risultano movimenti per X bitcoin non coerenti con la Sua dichiarazione, voglia fornire chiarimenti”. Questo consente di ravvedersi con sanzioni ridotte. – Avviso bonario ex art.36-bis DPR 600/73: esito di controllo automatizzato, in cui l’Agenzia riscontra un’omissione (es: Quadro RW non compilato, o imposta sostitutiva non versata su plusvalenze). Propone il pagamento con sanzioni ridotte del 30%. – Invito al contraddittorio ex art.5-ter D.Lgs.218/97: preludio a un accertamento vero e proprio, dove l’Ufficio convoca il contribuente per esibire documenti e spiegare operazioni specifiche (es. “ci spieghi questo accredito da Binance di 10 BTC il giorno X e perché non risulta tassato”). – Avviso di accertamento: atto impositivo finale, con il recupero delle imposte evase (IVA, Irpef ecc.), sanzioni piene (normalmente 90-180% imposta evasa) e interessi. Dopo la notifica, il contribuente ha 60 giorni per pagare o impugnare.
Una volta emesso un avviso di accertamento, se l’importo è rilevante e c’è fondato pericolo per la riscossione, l’Agenzia Entrate Riscossione può procedere a misure cautelari e coattive: iscrivere ipoteca su beni, disporre fermi amministrativi, pignorare conti. Non dimentichiamo però che i crypto-asset sfuggono a misure tradizionali (non si possono pignorare direttamente se sono in wallet privato). Qui entra in gioco la cooperazione: il Fisco può chiedere al giudice di emettere un decreto di sequestro preventivo per equivalente sui wallet (se noti) nell’ambito di un procedimento penale, oppure chiedere rogatorie internazionali se i beni virtuali sono custoditi presso terzi all’estero.
Collaborazione internazionale e Procure specializzate
Come accennato, il contrasto all’evasione fiscale con elementi transnazionali (come l’uso di crypto per spostare ricchezza oltreconfine) si avvale: – Dell’European Public Prosecutor’s Office (EPPO): Procura Europea nata nel 2021, competente sui reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE (frodi IVA sopra 10 milioni di euro transnazionali, frodi fondi UE, ecc.). EPPO coordina forze di polizia di diversi Stati e può agire rapidamente su scala europea . Se un caso di frode carosello con crypto eccede la soglia, EPPO può assumere la direzione, come fatto in vari casi (Moby Dick citata). Questo aumenta il rischio per gli evasori: non possono più sperare nelle lente burocrazie nazionali; EPPO congela conti e beni ovunque in UE quasi simultaneamente. – Di Eurofisc, rete di funzionari fiscali europei che condividono intelligence sulle frodi IVA e hanno team dedicati (il working field 5 è dedicato alle carosello). Già da tempo scambiano dati in tempo quasi reale su operatori sospetti. Se un soggetto sposta crypto ottenute da frode in altro Paese, può comunque esser preso se identificato. – In Italia, la competenza per i reati tributari è delle procure ordinarie. Alcune Procure (Milano, Roma, Napoli) stanno sviluppando competenze interne su reati finanziari connessi a criptovalute. Si veda ad esempio le indagini della Procura di Milano su exchange non autorizzati, o di Firenze su frodi in mining. Le Sezioni di Polizia Giudiziaria presso le Procure includono militari GdF specializzati, che si avvalgono di consulenti tecnici su crypto. La Corte dei Conti ha acceso un faro sull’evasione nel settore e-commerce/crypto, sollecitando l’adeguamento dei controlli .
Normative 2025: trasparenza e reportistica
Nel 2025 sono entrati in vigore alcuni regolamenti UE volti ad aumentare la trasparenza dei mercati delle cripto-attività. In particolare, il Regolamento Delegato (UE) 2025/514 (fittizio, ipotizziamo in base al contesto fornito) e analoghi, che prevedono: – Obbligo per gli exchange UE di rendere pubbliche le informazioni sulle order book (offerte di acquisto/vendita), rendendo più difficile manipolare i prezzi e generare perdite fittizie. – Obblighi di identificazione dei partecipanti a determinate piattaforme di trading (anche DeFi, se rientrano in parametri). – Comunicazione periodica alle autorità nazionali dei dati aggregati sulle transazioni (volumi, numero di utenti, ecc.).
Come sottolineato da un articolo di Studio Caggegi&Mazzeo, queste norme “non modificano direttamente l’IVA, ma favoriscono un monitoraggio più accurato delle operazioni da parte delle autorità fiscali”, riducendo le possibilità di occultamento . Ad esempio, se un grande trader usa una piattaforma EU, i regolatori possono avere un quadro delle sue attività e segnalare anomalie fiscali. Inoltre, con la nuova DAC8, a partire dai dati 2026 gli exchange dovranno trasmettere nominativamente alle Agenzie fiscali le giacenze e movimenti dei conti crypto dei clienti (simile a come le banche comunicano i saldi). Il contribuente deve assumere che ogni sua operazione potrebbe essere (presto) conosciuta dal Fisco. Già oggi, come detto, se transita per banche o per exchange con KYC (Binance, Coinbase, Kraken hanno tutti politiche di collaborazione), le informazioni viaggiano.
Sequestri e confische di criptovalute
Un punto nodale: quando il Fisco individua proventi illeciti in crypto, come li recupera? Per la parte amministrativa, può iscrivere a ruolo somme in euro e tentare di eseguirle su beni del contribuente (che però potrebbe aver quasi tutto in crypto). Il passaggio a procedura penale consente di usare strumenti incisivi: sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato tributario (artt. 321 c.p.p. e 12-bis D.Lgs.74/2000). I giudici hanno già disposto sequestri di portafogli digitali, trattandoli analogamente a conti bancari. Come si è visto, però, la Cassazione ha posto paletti sulla valutazione: occorre determinare quanti euro rappresentino quelle crypto al momento del reato . Inoltre, c’è il problema pratico della custodia: la GdF di solito trasferisce le criptovalute sequestrate su un proprio wallet (o li custodisce con chiavi in cassette di sicurezza). Un noto precedente è il caso BitGrail (2018), in cui furono sequestrati dai NAS wallet con milioni in NANO Coin. Un altro, più recente, presso il Tribunale di Firenze: in un sequestro per reati fiscali, i giudici hanno nominato un curatore fallimentare come custode dei crypto-sequestri, evidenziando l’esigenza di competenze specifiche.
Il contribuente può presentare istanza di riesame (al tribunale del riesame) contro il sequestro, eccependo ad esempio che l’importo sequestrato eccede il profitto illecito. Nel caso di Beta sopra, se le furono sequestrati 10 BTC quando valevano 30k ciascuno (totale 300k), ma l’IVA evasa era 250k, vi è un eccedenza di 50k: la difesa può chiedere la restituzione parziale o l’esclusione di quell’eccedenza. Se poi i BTC, depositati in sequestro, aumentano di valore (mettiamo raddoppiano), e a confisca avvenuta valgono 600k, Beta potrebbe addirittura trovarsi a “pagare il doppio”. Su questo, le corti potrebbero riconoscere la restituzione dell’eccedenza al condannato (è un dibattito aperto). In ogni caso, un contribuente che vede i propri crypto sequestrati ha un incentivo a negoziare: ad esempio proporre un patteggiamento e il pagamento immediato dell’imposta in cambio della restituzione del resto.
Vale la pena ricordare che pagando integralmente il dovuto, il sequestro tributario perde ragion d’essere (se l’intento era garantire il credito erariale). Dunque, per chi ha disponibilità (in crypto stesse), convertirle e versare imposte e sanzioni può sbloccare la situazione (oltre a evitare la galera, come già sottolineato).
Conseguenze: sanzioni tributarie e penali in caso di evasione IVA con criptovalute
Riassumiamo ora le possibili conseguenze legali per chi viene sorpreso a evadere l’IVA utilizzando criptovalute. Si tratta di un doppio binario: sanzioni amministrative tributarie da un lato, e sanzioni penali dall’altro (nei casi più gravi). Spesso le due cose coesistono: l’Agenzia delle Entrate recupera l’imposta evasa e applica le relative sanzioni pecuniarie; parallelamente, la Procura può perseguire i reati tributari commessi.
Sanzioni tributarie amministrative
Le violazioni IVA “standard” (non fraudolente) sono punite dal D.Lgs. 471/1997. Alcune rilevanti: – Omessa fatturazione/registrazione di operazioni imponibili: sanzione dal 90% al 180% dell’IVA corrispondente all’imponibile non fatturato (art. 6, c.1). Ad esempio, se non ho fatturato vendite per imponibile 100k (IVA 22k), la multa va da 19,8k a 39,6k, oltre ovviamente a dover versare i 22k di IVA evasa. Nel caso di fatture emesse ma con corrispettivi inferiori al reale (sottofatturazione), stessa sanzione sul tax gap. – Omessa presentazione della dichiarazione IVA: sanzione dal 120% al 240% dell’IVA dovuta, minimo 250€. Se anche la dich. dei redditi è omessa, c’è sanzione separata. – Infedele dichiarazione IVA (dati incompleti): sanzione dal 90% al 180% della differenza d’imposta. Se l’IVA dovuta era 50k e ne ho dichiarati 20k, sui 30k evasi multa 27k-54k. – Omesso versamento IVA periodica (senza dolo): sanzione amministrativa del 30% dell’importo non versato (riducibile se pagato con ritardo breve). Ad es. se a una liquidazione non verso 10k, multa 3k. – Violazioni dell’obbligo di tenuta documenti: se uno non tiene i registri o li sottrae alla verifica, c’è una sanzione accessoria, ma la circostanza può alimentare presunzioni negative a suo carico.
Nel contesto crypto, l’Agenzia può anche contestare violazioni extra-IVA: ad esempio omessa indicazione nel quadro RW delle cripto detenute all’estero, punita col 3-15% dell’importo non dichiarato (raddoppiato al 6-30% se in Paesi black list) . Questo non incide sull’IVA ma è parallelo.
Le sanzioni tributarie possono essere ridotte avvalendosi degli strumenti deflativi: – Ravvedimento operoso: se il contribuente spontaneamente (o dopo lettera compliance) regolarizza l’omissione prima di accertamento, paga l’imposta più una sanzione ridotta (da 1/10 a 1/5 a seconda del ritardo) più interessi. – Accertamento con adesione: una volta ricevuto il PVC o l’avviso, può concordare col Fisco l’importo e ottenere sanzioni ridotte a 1/3 del minimo. Ad esempio, su una sanzione minima 90%, pagherebbe 30%. Spesso conviene aderire se la violazione è evidente, per evitare il processo. – Definizione agevolata: periodicamente il legislatore introduce sanatorie o condoni. Nel 2023 c’era la “definizione agevolata PVC” e altri condoni in Legge di Bilancio. Non c’è garanzia futura, ma è possibile che in una riforma fiscale vengano previste soglie più basse di pena per chi paga subito.
Va segnalato che la somma di imposta evasa + sanzioni può essere molto elevata. Esempio concreto: commerciante che ha evaso 100k di IVA in più anni. L’Agenzia recupera 100k di imposta, applica sanzioni (diciamo 150k totali se 150%), interessi e aggio. Il debitore si trova un carico forse di 270k. Se non paga, partirà la riscossione con iscrizione a ruolo. A questo punto, come visto, se il debitore ha beni aggredibili, glieli prenderanno; se ha tutto in crypto non dichiarate, il recupero sarà problematico finché non emergono (ma intanto maturano interessi di mora annui ~2%).
Un aspetto importante: in caso di accertata evasione grave, oltre alle sanzioni pecuniarie si può incorrere in sanzioni accessorie amministrative: es. interdizione da attività commerciali, revoca licenze, segnalazione alle Camere di Commercio, ecc., soprattutto se c’è recidiva. Anche il danno reputazionale va considerato: un imprenditore indagato per frode fiscale avrà difficoltà con banche e partner.
Sanzioni penali tributarie
Abbiamo già delineato varie fattispecie di reato. Riportiamo qui una tabella riepilogativa dei principali reati tributari che possono occorrere in contesti di evasione IVA con criptovalute, con relative soglie e pene previste (aggiornate al 2025):
Tabella 2 – Delitti tributari rilevanti e relative soglie/pene (D.Lgs. 74/2000)
Articolo & Reato (D.Lgs.74/2000) | Condotta tipica (sintesi) | Soglia di punibilità | Pena prevista (reclusione) |
---|---|---|---|
Art. 2 – Dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti falsi | Indicare in dichiarazione elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture o documenti falsi (es. utilizzare fatture per operazioni inesistenti, tipico delle frodi carosello) | Nessuna soglia minima di imposta evasa (reato sempre punibile, l’ammontare incide solo sulla gravità) | 4 a 8 anni (pena base aumentata dal 2019) |
Art. 3 – Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici | Frode fiscale con mezzi fraudolenti diversi da fatture: ad esempio contabilizzazioni doppie, simulazione di operazioni, alterazione registri, ostacolo all’accertamento unito a dichiarazione infedele | Imposta evasa > €30.000 e elementi attivi sottratti > 5% del totale dichiarato oppure > €1.500.000 | 3 a 8 anni (aumentata dal 2015; prima era max 6) |
Art. 4 – Dichiarazione infedele | Dichiarare meno IVA (o reddito) rispetto al dovuto, senza usare mezzi fraudolenti (infedeltà “semplice”) | Imposta evasa > €100.000 e elementi attivi non dichiarati > 10% del totale o > €2.000.000 (per IVA analoghi criteri percentuali sui ricavi non fatturati) | 2 a 5 anni (aumentata nel 2019 da max 3 a max 4.5, poi 5 anni nel 2020) |
Art. 5 – Omessa dichiarazione | Non presentare la dichiarazione annuale (IVA o redditi) entro 90 giorni dalla scadenza, con imposta evasa rilevante | Imposta evasa > €50.000 (per ciascuna imposta) . Nota: se si presenta la dichiarazione tardiva entro il termine dell’anno successivo (ravvedendosi), non c’è reato (causa di non punibilità art. 13 c.2) | 2 a 6 anni (pena aumentata nel 2019 da max 5 a max 6 anni) |
Art. 8 – Emissione di fatture o documenti per operazioni inesistenti | Emettere o rilasciare fatture false al fine di consentire a terzi l’evasione (es. società “cartiera” che vende fatture) | Nessuna soglia (punibile a prescindere dall’importo) | 4 a 8 anni (aumentata nel 2019, speculare all’art.2) |
Art. 10 – Occultamento o distruzione di scritture contabili | Sottrarre o distruggere, in tutto o parte, le scritture contabili obbligatorie, in modo da impedire la ricostruzione del reddito o volume d’affari | Nessuna soglia (reato di pericolo) | 3 a 7 anni |
Art. 10-bis – Omesso versamento di ritenute | Non versare, entro la scadenza annuale, ritenute operate su redditi di lavoro dipendente o assimilati, per importi rilevanti | Ritenute non versate > €150.000 (per periodo d’imposta) | 6 mesi a 2 anni |
Art. 10-ter – Omesso versamento IVA | Non versare l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine di legge (oggi 16 marzo dell’anno successivo, prorogato al 31/12 dal 2024) | IVA non versata > €250.000 (per anno d’imposta) (soglia elevata da 50k a 250k nel 2015) | 6 mesi a 2 anni |
Art. 10-quater co.1 – Indebita compensazione di crediti non spettanti | Utilizzare in compensazione crediti d’imposta reali ma non spettanti (oltre limiti o con requisiti mancanti) superando soglia | Crediti non spettanti compensati > €50.000 (per anno) | 6 mesi a 2 anni (prevista non punibilità se incertezza normativa oggettiva) |
Art. 10-quater co.2 – Indebita compensazione di crediti inesistenti | Compensare crediti fiscali fittizi (mai realmente maturati) oltre soglia | Crediti inesistenti > €50.000 (anno) | 1 anno e 6 mesi a 6 anni (più grave del co.1) |
Art. 11 – Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte | Compiere atti simulati o fraudolenti sui propri beni, volti a evitare il pagamento di imposte, sanzioni o interessi dovuti (es. alienare beni a terzi, svuotarli su conti esteri, convertire tutto in crypto per rendersi nullatenente) | Importi > €50.000 di crediti tributari (imposta + accessori) oggetto di sottrazione . Se > €100.000, aggravante | 6 mesi a 4 anni (se >50k), 1 a 6 anni (se >100k) |
(Fonte: D.Lgs. 74/2000, aggiornato con modif. L.157/2019 e L. 238/2021; cfr. guida Avv. Monardo 2025 )
Dal punto di vista penale, occorre la presenza del dolo specifico di evasione per condannare. Cioè bisogna provare che l’agente ha agito con l’intento di evadere le imposte. Nelle frodi (art.2-3) ciò è insito nella condotta (fatture false, artifici). Nelle dichiarazioni infedeli o omesse, spesso il dolo si desume dalla macroscopica entità dell’omissione o da circostanze (ad es. contabilità parallela scoperta). Se uno sostenesse di aver creduto in buona fede che certe operazioni in crypto non fossero imponibili, sta invocando un errore di diritto. In teoria, l’errore di diritto scusa l’imputato solo se era “inevitabile” (art. 5 c.p. riformato). La Cassazione 8269/2025 ha affermato che l’ignoranza sulla imponibilità delle criptovalute non è scusabile, poiché la circolare 30/E/2023 non ha innovato la legge ma interpretato principi già vigenti . Quindi difficilmente un evasore crypto potrà convincere i giudici di non aver capito di dover pagare: la normativa c’era (dal 2015 per IVA, dal 2018 per RW, ecc.). Salvo casi limite (es. un piccolo risparmiatore davvero ignaro, che però in genere non ricade nel penale se importi modesti).
Conseguenze penali ulteriori: la condanna per reati tributari comporta menzione nel casellario (problemi per partecipare a gare pubbliche, reputazione rovinata). Inoltre, per reati gravi, i beni confiscati definitivamente non vengono restituiti (es. la villa comprata coi fondi evasi può essere confiscata come profitto). Le società coinvolte potrebbero subire sanzioni 231 come detto (multe pecuniarie, interdizioni).
Nota sul ne bis in idem: grazie a riforme recenti, l’Italia ha cercato di evitare il doppio binario punitivo sproporzionato. In pratica, se per la stessa evasione si subisce una sanzione amministrativa definitiva e una penale, i giudici devono considerare la complessiva proporzionalità. La Corte EDU e la Corte di Giustizia (cause Taricco, A e B vs Norvegia) hanno dettato principi: le sanzioni amministrative (che non abbiano natura penale) e penali possono coesistere se c’è un sufficiente collegamento materiale e temporale e non eccedono l’insieme. In concreto, può accadere che se uno paga tutte le somme all’Agenzia (imposte e sanzioni) e poi viene condannato penalmente, la pena possa tenere conto dello sforzo riparatorio (magari con attenuanti generiche, sospensione condizionale, ecc.).
Riassumendo, chi pensa di usare le crypto per “fare nero” o frodi IVA rischia molto: sanzioni che superano il 100% dell’imposta evasa, processi penali con possibili anni di carcere, sequestro dei propri asset (crypto incluse) e danni alla carriera imprenditoriale. Nel capitolo seguente vedremo come è possibile difendersi e tutelare i propri diritti se ci si trova sotto la scure di tali accuse, adottando le strategie opportune in sede tributaria e penale.
Strategie di difesa in sede tributaria (accertamenti IVA su criptovalute)
Passiamo ora al punto di vista del contribuente (debitore) che riceve una contestazione dal Fisco relativa a operazioni in criptovalute. Come reagire? Quali strumenti utilizzare per evitare o ridurre le sanzioni? Esamineremo il percorso tipico: dalla risposta a una lettera di compliance, fino al ricorso in Commissione Tributaria, senza tralasciare gli strumenti “deflativi” che possono chiudere la vicenda prima del giudizio.
Mantenere documentazione e tracciabilità
Prima regola difensiva (non solo a posteriori, ma come best practice preventiva): conservare accuratamente ogni traccia delle operazioni in crypto. Significa salvare estratti conto degli exchange, ricevute delle transazioni (TX hash), screenshot o report dei wallet, corrispondenza con eventuali clienti/fornitori, contrattilini se esistenti. Una difesa solida parte dalla disponibilità di prove. Se l’Agenzia contesta vendite non dichiarate, poter mostrare flussi documentati che spieghino quei movimenti è essenziale. Ad esempio, se un’azienda ha ricevuto 5 BTC su un proprio indirizzo, sostenendo che provenivano dalla vendita di un macchinario, dovrà esibire il contratto di vendita, magari la bolla di consegna del macchinario, e poi riconciliare i 5 BTC col prezzo pattuito al tasso di quel giorno. Spesso l’evasore non ha emesso fattura, ma almeno un contratto privato o una email con il cliente potrebbe esistere: trovarla può fare la differenza tra dimostrare la propria versione o lasciare che prevalga quella accusatoria.
Nel caso di trading personale (plusvalenze crypto non dichiarate), il contribuente sotto accertamento dovrà documentare: – Costo di acquisto delle criptovalute vendute (per contestare eventuali plusvalenze fittizie). Esempio: se ho venduto 3 BTC incassando 90k€, ma li avevo comprati a 80k€, la plusvalenza reale è 10k. Se non ho documenti, il Fisco potrebbe presumere costo zero (plusvalenza 90k!). Tenere storici e ricevute di acquisto è vitale. Anche transazioni on-chain possono fungere da prova se mostrano che ho ricevuto quei BTC da un altro wallet mio acquistato tempo prima. – Eventuali perdite (minusvalenze): in ambito tributario, le minusvalenze su crypto possono compensare plusvalenze future (entro 4 anni). Quindi se l’Agenzia mi contesta guadagni non dichiarati, io posso opporre che ho anche avuto perdite in altri periodi da scomputare. Ma devo provarle: ecco che serve estratto delle operazioni in perdita. Ordine cronologico LIFO: la normativa AdE prevede che ai fini plus/minus si applichi il criterio LIFO (ultimo dentro primo fuori) , quindi bisogna saper ricostruire la cronologia delle movimentazioni. – Origine dei fondi investiti: domanda tipica in accertamento sintetico. Bisogna spiegare con che soldi si sono comprate le crypto originarie. Se erano risparmi di redditi tassati, portare estratti conto bancari degli anni precedenti per provare prelievi coerenti, o buste paga. Se erano donazioni familiari, produrre dichiarazioni di donazione o bonifici famiglia. Questo serve a evitare che la somma investita venga considerata essa stessa “reddito occulto”.
Insomma, una difesa documentale puntuale può ribaltare le conclusioni del Fisco. Il contribuente dovrebbe presentare al fisco un dossier completo con timeline delle sue operazioni crypto e supporti annessi. Ciò non solo aiuta a ridurre l’imposta accertata, ma mostra buona fede e collaborazione (utile anche in ottica penale).
Verifica delle soglie e della finalità (speculativa o meno)
Sul fronte contestazione plusvalenze (imposte dirette), un argomento difensivo usato in passato era sostenere che non c’era intento speculativo e che pertanto l’operazione non era tassabile. Prima del 2023, infatti, la tassazione delle criptovalute come redditi diversi scattava solo se le detenzioni superavano una certa giacenza (51k euro di controvalore in alcune interpretazioni analogiche). La legge 197/2022 ha abolito soglie e distinzioni dal 2023 in poi. Ma per gli anni passati, qualcuno tenta di dire: “non superavo i 51k, quindi non dovevo nulla”. Altri argomenti: “facevo micro compravendite per esigenze personali, non per lucro”. La giurisprudenza recente – Commissioni Tributarie e Cassazione – è poco ricettiva verso queste tesi: tende a considerare qualsiasi cessione crypto con profitto come reddito imponibile, specie se ripetuta . Tuttavia, in sede di accertamento (prima del processo) vale la pena far presente eventuali circostanze attenuanti: – Se i volumi erano modesti e derivavano da sperimentazione hobbistica, sottolinearlo potrebbe convincere l’Ufficio a chiudere con sanzioni minime o a non spingersi in ipotesi di dolo. – Se sotto certe soglie per anni pre-2023, si può contestare la base giuridica dell’imposizione (c’era un vuoto normativo, si applicava analogia con valute estere solo oltre €51.645 per 7 giorni, ex Circolare 788/1984). Anche se l’Ade non è d’accordo, questo potrebbe diventare un motivo di ricorso (alcuni giudici tributari hanno assolto contribuenti per periodi ante 2023 proprio riconoscendo l’incertezza normativa). – Sulla finalità: se un contribuente ha convertito crypto in stablecoin temporaneamente o le ha spostate tra wallet propri, può sostenere che quelle non erano cessioni realizzative ma movimenti interni non tassabili (capita che il fisco interpreti certi trasferimenti come vendite). Occorre allora dimostrare che l’indirizzo di destinazione era sempre sotto controllo del contribuente (self-custody).
In materia IVA, l’assenza di fatturazione non lascia molto spazio: o c’era obbligo di fattura e non è stata emessa (violazione). Però, se l’operazione non era soggetta (es. operazione con estero non imponibile, come esportazione o servizio a non residente), la difesa potrà evidenziare che “non ho evaso IVA perché quell’operazione era fuori campo”. Ad esempio: un consulente italiano presta servizio a un cliente USA e viene pagato in crypto – quell’operazione, se provata, sarebbe fuori campo IVA (servizio generico reso a extra-UE). Se l’Agenzia erroneamente contesta IVA su quella prestazione, bisogna far valere l’art. 7-ter DPR 633/72 sulla territorialità (fornendo magari contratto con cliente estero, ecc.).
Utilizzo degli istituti deflativi: ravvedimento, adesione, ecc.
Se si riceve una comunicazione di irregolarità o un invito: – Niente panico, analizzare i dati contestati. Spesso l’Agenzia allega un prospetto delle operazioni non dichiarate (ad es. movimenti da exchange XY per tot euro). Bisogna confrontarlo con i propri record. Ci possono essere errori (ad esempio doppie conteggiature, o scambio di soggetto). Bisogna individuare eventuali errori di calcolo dell’Ufficio: se contestano plusvalenze per 100k ma dalle nostre evidenze sono 50k, presentare subito controdeduzioni con i conteggi corretti. – Fase pre-accertamento (compliance): conviene spesso ravvedersi. Cioè presentare dichiarazione integrativa e pagare il dovuto con sanzione ridotta. Questo evita l’avviso formale e chiude la questione amministrativa con costi minori. Naturalmente, ravvedersi su IVA non dichiarata espone al rischio penale se sopra soglia, ma in tal caso può rientrare nella causa di non punibilità ex art.13 se completato prima del processo. Bisogna valutare con un legale: a volte anticipare il pagamento è la strategia migliore anche in ottica penale (mostrare pentimento e ridurre il profitto illecito). – Invito al contraddittorio: è un’occasione d’oro per far valere le proprie ragioni prima che l’atto sia emesso. Presentarsi (personalmente o tramite professionista) con la documentazione e le spiegazioni accuratamente preparate. Obiettivo: convincere l’Ufficio a archiviare o ridurre l’accertamento. Ad es., se contestavano 10 operazioni come vendite, e voi dimostrate che 3 erano trasferimenti interni e 2 erano operazioni esenti, rimarranno 5 imponibili. L’Ufficio potrà rettificare l’importo. – Accertamento con adesione: se l’avviso di accertamento è stato notificato (o il PVC chiuso), potete chiedere l’adesione (istanza entro 15 giorni da avviso). Si apre una trattativa con l’ufficio per concordare la cifra. Qui potete spuntare sanzioni al 1/3. Ad esempio, su 100k IVA evasa, invece di 150k sanzioni potreste pagare ~50k sanzioni. L’adesione sospende i termini per il ricorso e, se va a buon fine, si chiude con un atto firmato e rateizzabile. Attenzione: firmando l’adesione rinunciate a ricorsi futuri sul merito. Quindi conviene se avete pochi margini di difesa tecnica e volete limitare i danni. – Transazione fiscale (in caso di crisi): se il contribuente è insolvente e magari avvia un concordato preventivo o una trattativa col fisco per pagare parzialmente, esiste lo strumento della transazione fiscale per debiti IVA e tributari. Ma è complesso e qui esula (si entra nel diritto fallimentare). Basti sapere che se l’azienda è in crisi, può proporre al fisco un pagamento ridotto del dovuto in cambio di stralcio, all’interno di un piano di ristrutturazione del debito.
Un consiglio pratico: farsi assistere da un esperto tributarista già nelle fasi iniziali. Muoversi da soli può portare a ammissioni inconsapevoli di responsabilità o a errori procedurali. Un professionista sa come mettere per iscritto le proprie ragioni senza scoprirsi inutilmente, e magari come negoziare con l’ufficio. Ad esempio, se c’è in ballo anche una questione penale, conviene coordinare la difesa: in alcuni casi è opportuno attendere i 60 giorni dall’avviso per vedere se parte la segnalazione in Procura, e poi pagare entro il dibattimento; in altri casi meglio pagare subito per evitare la notizia criminis.
Impugnazione davanti alle Commissioni Tributarie
Se non si trova accordo con l’Agenzia (o se si ritiene l’accertamento totalmente infondato), resta la via del ricorso tributario. Si presenta ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale (organo giurisdizionale di primo grado) entro 60 giorni dall’atto. Nel ricorso si devono indicare i motivi di diritto e di fatto per cui l’accertamento è illegittimo o errato.
Possibili motivi di ricorso in queste materie: – Errori di ricostruzione del fatto: contestare la quantificazione dell’imponibile evaso. Esempio: l’Ufficio ha considerato tutte le uscite dall’exchange come vendite imponibili, ma in realtà alcune erano spostamenti verso un altro exchange dello stesso contribuente. O ha valutato tutte le entrate sul conto come corrispettivi, ma magari includevano un rimborso di un prestito. Bisogna spiegare al giudice, con documenti, operazione per operazione, dove l’Agenzia ha sbagliato. – Violazioni procedurali: ad es. mancato contraddittorio (se era obbligatorio: in materia di tributi armonizzati come l’IVA, se l’accertamento è a tavolino senza contraddittorio preventivo, potrebbe esservi nullità quando incide su diritti UE, anche se il tema è spinoso dopo Cass. SU 2020). Oppure notifica irregolare dell’atto, o carenza di motivazione (accertamento troppo generico). Se l’atto non spiega come è arrivato a certi calcoli, si può dedurre difetto di motivazione. – Questioni giuridiche controverse: es. “nel periodo d’imposta 2018 le criptovalute non erano giuridicamente equiparate alle valute estere e quindi non tassabili”. Oppure: “l’attività di mining non configura operazione imponibile IVA e dunque l’IVA pretesa su quei ricavi è indebita”. O ancora: “la cessione di NFT dell’opera digitale X fatta dal suo autore non era soggetta a IVA per difetto di presupposto”. Il giudice potrebbe sposare queste tesi se ben argomentate e supportate da dottrina/giurisprudenza anche straniera. Ad esempio, c’è chi ha vinto in CTP dimostrando che la legislazione pre-2023 era incerta e che lui confidava legittimamente nella non imponibilità: i giudici hanno annullato le sanzioni per “obiettiva incertezza normativa”. – Proporzionalità sanzioni: in subordine, chiedere l’applicazione del minimo edittale o la non applicazione di duplicazioni (ne bis in idem, se ad es. sono state combinate sanzioni sia su IVA sia su imposte dirette per la medesima evasione, il giudice può valutare la continuazione). Anche se le C.T. non tolgono sanzioni per buona fede (ormai raro), possono però ridurle se l’Ufficio non ha già fatto il minimo. Inoltre, dal 2016 vige il principio del favor rei amministrativo: se le norme sanzionatorie cambiano in melius prima che il provvedimento sia definitivo, si applicano le più favorevoli. La difesa terrà d’occhio eventuali modifiche normative.
Il processo tributario dura mediamente 1-2 anni per grado. In primo grado, se la materia è complessa (es. questioni nuove come NFT), conviene depositare perizie di parte o memorie con schemi esplicativi. Ad es., per convincere i giudici che una transazione non era un corrispettivo, può aiutare un diagramma di flusso delle crypto.
Un elemento importante: l’eventuale procedimento penale parallelo. Se pende un processo penale per gli stessi fatti, si può valutare di chiedere alla Commissione di sospendere il giudizio fino all’esito penale, o viceversa. Non c’è obbligo automatico di sospensione, ma la difesa potrebbe voler evitare che una sentenza tributaria sfavorevole influenzi (anche psicologicamente) il giudice penale. D’altro canto, se il penale va male, può complicare il civile. È una strategia da concertare tra difensore tributario e penalista.
Talvolta, in casi di frode conclamata, l’Agenzia Entrate aspetta l’esito penale e utilizza la sentenza penale per fare l’accertamento tributario (le prove raccolte in penale possono essere usate in tributi). Dunque, la tempistica può variare: si può essere prima imputati e poi subire l’atto fiscale. In tali situazioni, la difesa tributaria può giovarsi di una eventuale assoluzione penale (se per es. penale si stabilisce che l’imputato non era coinvolto, l’atto fiscale potrebbe essere annullato per carenza soggettiva).
Esempio di memoria difensiva tributaria (estratto) – supponiamo un avviso di accertamento contesti a un avvocato, Mario Rossi, di aver omesso fatture per consulenze pagate in crypto (valore 100k€) e di conseguenza IVA evasa 22k€ e redditi evasi. Una memoria difensiva da presentare all’Agenzia (o in giudizio) potrebbe contenere passaggi come:
“…Con riferimento all’asserita cessione di servizi legali non fatturati per €100.000 pagati in Bitcoin, il contribuente evidenzia che tale ricostruzione è erronea. In particolare, dei 5 BTC ricevuti sull’indirizzo pubblico XYZ il 14/04/2024 (transazione hash abc123), soltanto 1,5 BTC costituivano compenso per un cliente nazionale (sig. Bianchi), pari a €27.000 al cambio del giorno, importo che è stato regolarmente fatturato il 20/04/2024 n.15/2024 (allegato 3) ed incluso nella dichiarazione IVA. La rimanente parte (3,5 BTC) proveniva invece da wallet di proprietà del sig. Rossi medesimo detenuti presso la piattaforma estera Kraken (cfr. estratto conto allegato 4), trasferiti a fini di consolidamento su un unico wallet personale. Non trattasi dunque di corrispettivo di operazioni, bensì di trasferimento infra-patrimoniale. Detta somma infatti originava da conversione di precedenti risparmi (cfr. bonifico del 10/01/2021 da conto Unicredit a Kraken, €50.000, allegato 5). Pertanto, l’Ufficio ha indebitamente considerato come ricavo tassabile e base imponibile IVA un importo (3,5 BTC = €63.000) che in realtà non è relativo ad alcuna prestazione verso terzi, ma costituisce mero movimento di capitale proprio già tassato al momento della produzione (redditi di lavoro regolarmente dichiarati negli anni passati). L’avviso impugnato viola dunque l’art. 13 D.P.R. 633/72, difettando il presupposto oggettivo di imponibilità per €63.000 e l’art. 6, co.6-bis D.Lgs.471/97 poiché sanziona operazioni inesistenti. Si chiede quindi lo stralcio di detta parte dall’accertamento…”
Ovviamente, ogni caso è specifico. Ma l’idea è: contestualizzare le transazioni e documentare.
Rapporti con l’ambito penale durante l’accertamento
Una particolare attenzione va posta qualora sia verosimile l’innesco del procedimento penale. In genere l’Agenzia invia denuncia alla Procura quando redige un PVC o un accertamento da cui risultino reati (superate soglie, uso di artifici, ecc.). A volte la Procura viene coinvolta fin da subito se c’è un intervento della GdF. Dunque, il contribuente potrebbe trovarsi di fronte sia al verbale di constatazione (in sede amministrativa) sia a un decreto di perquisizione o un invito a comparire come indagato (in sede penale). In tali frangenti, è essenziale coordinare la difesa: – Evitare dichiarazioni affrettate al verificatore che possano pregiudicare la posizione penale. Tuttavia, collaborare nel fornire i documenti può essere utile per mostrare buona fede (valutare caso per caso). – Se l’indagine penale è già partita, il difensore può valutare di chiedere una consulenza tecnica sulle crypto per confutare le ipotesi dell’accusa (questa consulenza potrà servire anche in commissione tributaria). – In alcuni casi, può convenire sospendere il contenzioso tributario aspettando l’esito penale: ad esempio, se si confida in un proscioglimento che smonti l’impianto (ma attenzione ai tempi: il tributario potrebbe chiudersi prima del penale, quindi non sempre possibile). – Al contrario, definire la questione tributaria con adesione (quindi ammettendo i fatti e pagando) può essere un’arma a doppio taglio: aiuta in sede penale a mostrare ravvedimento, ma costituisce di fatto un’ammissione che l’accusa userà. Dipende dallo scenario: se le prove sono schiaccianti, tanto vale pagare e giocarsela sul patteggiamento; se c’è margine di difesa penale (es. soglia non superata, mancanza di dolo), forse conviene contestare anche in tributi.
In Italia vige comunque il principio che giudizio tributario e penale sono autonomi: l’esito di uno non vincola l’altro (tranne eccezioni come il falso ideologico accertato penalmente). Ma di fatto le prove e i fatti sono gli stessi, quindi è auspicabile non avere due linee difensive contraddittorie. Idealmente, l’approccio dovrebbe essere integrato: se affermo in Commissione che “sì, ho fatto quelle vendite, ma era estero esente”, nel penale sto praticamente confermando di aver omesso imponibili (anche se ritengo non dovuti, la Procura potrebbe non concordare sull’esenzione). Ci vuole coerenza e strategia condivisa tra i legali.
Difesa in sede penale (accuse di evasione IVA con utilizzo di crypto)
Quando la questione entra nel penale, la posta in gioco diventa la libertà personale e il casellario giudiziario, quindi la difesa deve farsi ancora più attenta e tecnica. Affrontare un procedimento penale tributario per frode o evasione aggravata da criptovalute richiede una sinergia tra competenze tributarie e penali. Vediamo alcuni aspetti chiave della difesa penale.
Fase delle indagini preliminari
Appena si viene a conoscenza di essere indagati (ad esempio tramite un decreto di perquisizione, un sequestro, o un invito a interrogatorio): – Nominare subito un avvocato penalista di fiducia esperto in reati tributari. È fondamentale per tutelare i diritti già in questa fase (assistere agli atti, evitare illegittimità). – Consultare anche il consulente fiscale: la ricostruzione contabile/fiscale dei fatti spesso fa la differenza nel convincere il PM sulla reale portata o configurabilità del reato. Si può presentare già in indagini una memoria difensiva al PM con allegati tecnici per spiegare, ad esempio, che la soglia non è superata, o che non c’è stato dolo. – Sequestro: se vengono sequestrate criptovalute o beni, valutare se proporre riesame (entro 10 giorni dall’esecuzione/ notifica). Il riesame può portare alla restituzione se il sequestro è apparso eccessivo o non sorretto da sufficienti indizi. Ad esempio, se vi sequestrano crypto per importi che secondo voi non sono profitto del reato (perché quell’imposta non era dovuta), va fatto valere subito. Nel caso di cui sopra, citare la Cass.1760/2025 per ribadire il principio di corretta quantificazione. – Interrogatorio: valutare attentamente se rendere dichiarazioni e cosa dire. In reati fiscali, spesso l’indagato sceglie di parlare per chiarire la propria posizione (specie se c’è margine per spiegare l’assenza di dolo, o incolpare magari consulenti). Però, qualsiasi ammissione può consolidare la prova contro di sé. Strategia comune è non rendere interrogatorio immediatamente, attendere di studiare le carte (che a volte neanche sono complete fino a fine indagini). Si può sempre chiedere di essere risentiti più avanti. Se si sceglie di parlare, preparare con l’avvocato un filo logico: es. “Pensavo davvero che non servisse fattura per vendite in Bitcoin all’estero, perché me lo aveva detto Tizio; appena l’ho saputo ho regolarizzato pagando” – può essere un discorso volto a escludere dolo (errore di diritto scusabile? Difficile, ma almeno descrive atteggiamento collaborativo).
- Cause di non punibilità/attenuanti: durante le indagini si può cercare di attivare condotte riparatorie che la legge premia. Ad es., come detto:
- Pagare il debito tributario: l’art. 13 D.Lgs.74 prevede causa di non punibilità per dichiarazione infedele/omessa se paghi tutto prima del processo . E per gli altri reati, almeno un’attenuante specifica se paghi entro determinati termini (il Dlgs 75/2020 ha introdotto attenuante per pagamento integrale entro il giudizio di primo grado, con riduzione fino alla metà della pena).
- Se il contesto è di “crisi di liquidità” e mancanza di dolo, raccogliere documenti che lo provino (bilanci in perdita, insoluti dai clienti, etc.) aiuta a chiedere archiviazione o almeno a puntare a pena minima con attenuanti generiche.
Durante le indagini, il PM valuterà se chiedere il rinvio a giudizio. La difesa può presentare istanza di archiviazione motivata se ritiene che gli elementi non siano sufficienti: per esempio, se viene contestata frode fiscale ma i documenti mostrano che non c’era nessuna operazione fittizia, solo negligenza, si può provare a convincere il PM che è caso da sola sanzione amministrativa (difficile ma tentabile).
Strategie processuali e dibattimento
Se si va a processo, occorre pianificare se conviene fare un dibattimento lungo (cercando l’assoluzione piena) o optare per riti alternativi (patteggiamento, messa alla prova se possibile, ecc.) per ridurre rischi.
- Patteggiamento (applicazione pena su accordo): può essere molto conveniente in ambito tributario se:
- Si è disposti a riconoscere le proprie responsabilità.
- Si è pagato (o ci si impegna a pagare) il dovuto. Il pagamento integrale consente addirittura di patteggiare anche per reati che normalmente richiederebbero pena minima superiore a 2 anni.
- Patteggiando si ha lo sconto 1/3 sulla pena e si evita il clamore di un dibattimento pubblico lungo.
E.g., se l’imputato di omessa dichiarazione IVA ha pagato tutto, la pena potrebbe essere patteggiata a magari 1 anno (da 2-6 range, ridotta per circostanze attenuanti generiche + 1/3 patteggiamento). Un anno con la condizionale ed è finita lì, senza carcere né appello.
Attenzione però: la sentenza di patteggiamento è pur sempre una condanna (seppur concordata) e compare nel casellario (fino all’eventuale estinzione). Quindi valutare impatti professionali (un commercialista o avvocato condannato anche patteggiato rischia sanzioni disciplinari). – Messa alla prova (MAP): per reati tributari la MAP è teoricamente ammessa per quelli con pena massima entro 4 anni. Molti reati fiscali superano quel limite (frode 8 anni, infedele 5 anni, etc.). Omesso versamento IVA invece max 2 anni: questo rientra. Quindi, se si è imputati solo di art.10-ter, si potrebbe chiedere la messa alla prova: si sospende il processo, si svolge un programma di riparazione (che includerà pagare il dovuto, e magari lavori sociali), e se esito positivo, il reato si estingue senza condanna. È un’ottima opzione se applicabile. Già diversi contribuenti hanno ottenuto MAP per omessi versamenti. – Dibattimento classico: Se si ritiene di avere argomenti per l’assoluzione (“il fatto non sussiste” o “non costituisce reato”), allora si affronta il dibattimento. In esso, la difesa: – Cercherà di smontare la prova del dolo: portando testimoni, email, consulenti che attestino che l’imputato era convinto di essere in regola, o che aveva chiesto al consulente e questi l’aveva mal consigliato (ciò sposta la responsabilità, a volte può configurare errore scusabile). – Perizie di parte: ad esempio una perizia informatica sulla blockchain che mostri che i wallet non sono riconducibili all’imputato con certezza, o che il calcolo dell’imposta evasa è sbagliato. La perizia di parte può convincere il giudice a nominare un CTU (consulente tecnico d’ufficio) per approfondire. – Esame imputato: l’imputato può decidere di testimoniare in aula (rendere esame). Deve essere ben preparato per reggere il controesame del PM. Nel caso crypto, deve spiegare in modo semplice e credibile operazioni complesse: es. “Ho spostato i fondi sul mio wallet Trezor per sicurezza, non per nasconderli”. Se vacilla, può peggiorare le cose. Quindi è una scelta delicata. – Tesi giuridiche: la difesa può sollevare questioni giuridiche: es. chiedere al giudice penale di disapplicare una norma se contraria al diritto UE (nel caso Taricco la questione era sull’impunità per prescrizione). O invocare il principio di legalità se la condotta non era chiaramente vietata. Ad esempio, sostenere che nel 2016 non esisteva un obbligo certo di dichiarare le crypto e dunque manca l’elemento soggettivo. Anche se detto così non porta all’assoluzione completa (ignoran.za legis non excusat di base), potrebbe orientare il giudice verso una condanna al minimo.
- Focus reato per reato: se le accuse sono multiple (es. dichiarazione infedele e sottrazione fraudolenta), la strategia potrebbe essere ammettere un reato minore per far cadere il più grave. Ad esempio: “Sì, ho omesso di dichiarare quell’IVA (infedele), ma non ho agito con artifici né distrutto libri (quindi non è frode art.3)”. Oppure: “Ho evaso l’imposta ma non ho commesso autoriciclaggio perché non ho fatto nulla di concretamente idoneo a ostacolare l’identificazione, mi sono limitato a tenere i fondi su blockchain trasparente”. Su quest’ultimo punto, c’è un argomento: per configurare l’autoriciclaggio serve una condotta fraudolenta di occultamento. Se uno semplicemente detiene crypto sul proprio wallet noto, non sta “ostacolando” molto. Diverso se usa mixer: lì sì.
- Pena finale e benefici: se comunque si arriva a condanna, la difesa punta a mitigare la pena. Abbiamo visto possibili attenuanti (pagamento integrale = attenuante specifica, eventuale collaborazione ecc.). Anche i tempi lunghi del processo possono aiutare col beneficio della sospensione condizionale: se il reato risale a molti anni fa, l’imputato incensurato può dire “non ho più sbagliato da allora, ho anche pagato, concedetemi la condizionale su una pena bassa”. Se l’importo evaso non è enorme e la persona non è recidiva, spesso i giudici concedono la condizionale per pene fino a 2 anni (limite 2 anni, eccezionalmente 2 anni e mezzo con lavori sociali).
In conclusione sul penale: l’obiettivo primario è evitare la condanna (con archiviazione o assoluzione), secondario ridurre la gravità (patteggiando o ottenendo condizionale). Nel contesto delle crypto, la difesa innovativa può consistere nel colmare il gap di conoscenza del giudice: far capire esattamente cosa è successo, per evitare demonizzazioni (“criptovalute = truffa”) e far emergere se c’è stata volontà fraudolenta oppure solo imprudenza. Ad esempio, se un imprenditore porta un consulente esperto a spiegare che nel 2017 regnava il caos normativo e molti erano incerti su come dichiarare, il giudice potrebbe essere più incline alla clemenza, riconoscendo quantomeno le attenuanti.
Va ribadito che il miglior elemento difensivo penale in materia fiscale è il ravvedimento operoso: pagare quanto dovuto (o anche una parte sostanziale) prima del giudizio. Questo spesso induce la Procura a concedere patteggiamenti vantaggiosi o la stessa MAP. Viceversa, un atteggiamento di sfida (non pago nulla, nascondo ancora i fondi) quasi garantisce una mano più pesante.
Simulazioni pratiche di difesa (casi italiani)
A questo punto, può essere utile illustrare alcuni scenari tipici e come impostare la difesa in pratica, dal punto di vista del debitore. Abbiamo delineato tanti principi; vediamoli all’opera in mini-casi ipotetici (basati su situazioni reali, ma semplificati).
Caso 1: Professionista individuale – omessa fatturazione compensi in crypto
Situazione: Lucia è una consulente marketing con regime ordinario IVA. Nel 2024 ha svolto vari lavori per clienti esteri e italiani. Per alcuni (valore €40.000) ha concordato pagamenti in criptovaluta (Ethereum), pensando erroneamente che per quelli esteri non dovesse fatturare e per quelli privati italiani fosse come ricevere valuta estera. Non ha emesso fatture per circa €25.000 di queste entrate. Nel 2025 riceve un avviso di accertamento che le contesta IVA evasa su €25k (IVA ~€5.500) più sanzioni 120% (€6.600). Inoltre le aggiungono €25k a reddito imponibile Irpef 2024 con relativa imposta. Non c’è (ancora) procedimento penale perché l’IVA evasa è sotto 100k.
Difesa: Lucia, con il suo avvocato, verifica che in effetti ha sbagliato: doveva fatturare tutto. Decide perciò di optare per adesione: si presenta in Agenzia, riconosce gli addebiti. Riesce a farsi riconoscere che €10k riguardavano servizi extra-UE (quindi quell’IVA in realtà non era dovuta, ma avrebbe dovuto emettere fattura non imponibile) – l’Ufficio concorda di togliere quell’IVA dal calcolo. Rimangono €15k di operazioni interne imponibili evase: IVA €3.300. Con adesione paga l’IVA, e sanzione ridotta a 1/3 del minimo (minimo 90% di 3.300 = 2.970, un terzo = €990). Totale pago ~€4.290 più interessi. Lucia paga e sistema le scritture (emette ora fatture tardive). Esito: niente penale (soglia non raggiunta), sanzione contenuta, impegno a non ripetere errori.
Note: Se Lucia avesse contestato di non dover nulla perché “crypto non è moneta legale” avrebbe perso. Meglio riconoscere l’errore e limitare danni. In futuro, fatturerà anche in caso di crypto-pay, indicando controvalore euro.
Caso 2: Piccola SRL – accertamento induttivo e sequestro penale
Situazione: La SRL Delta (e-commerce elettronica) è sospettata di vendite in nero via sito web con pagamenti in Bitcoin. La GdF fa una verifica nel 2025: scopre che su un forum online Delta offriva sconti 15% se pagato in BTC. Analizzando la blockchain, individuano un wallet presumibilmente di Delta che dal 2022 al 2024 ha ricevuto 50 BTC poi convertiti via exchange. In contabilità Delta non ci sono tali ricavi. Stimano evaso ~€1 milione di ricavi, IVA evasa ~€220k. Il PM avvia indagine per dichiarazione infedele (2022 e 2023) e sequestra 5 BTC residui dal wallet (del valore attuale €150k) come profitto.
Difesa: Delta, tramite legale, reagisce su due fronti: – In sede tributaria, contesta la quantificazione: presenta memorie evidenziando che quel wallet apparteneva in parte al socio e conteneva anche depositi personali (10 BTC erano apporto dei soci, non vendite). Porta anche dichiarazioni di alcuni clienti esteri secondo cui quei pagamenti erano per vendite extra-UE (che sarebbero non imponibili IVA). La C.T. riconosce parzialmente: riduce l’imponibile evaso a €600k (IVA €132k). Rimangono comunque soglie penali superate. – In sede penale, Delta adotta linea collaborativa: poco dopo la perquisizione, la società versa €50k all’Erario come acconto ravvedimento, e chiede di pagare il resto a rate (che la riscossione concede). Al momento dell’udienza preliminare ha già pagato €132k + interessi. Chiede quindi al PM l’applicazione dell’art.13: per l’annualità 2022 il reato infedele è non punibile (ha pagato prima del dibattimento); per il 2023 idem. Il PM concorda nel derubricare il tutto ad illecito amministrativo. Viene dunque richiesta l’archiviazione del penale. In parallelo, l’avvocato aveva fatto riesame contro il sequestro dei 5 BTC: ma vista la volontà di pagare, il tribunale del riesame converte il sequestro in sequestro finalizzato alla confisca solo se Delta non paga entro tot giorni – una sorta di incentivo. Infatti, a pagamento avvenuto, quei BTC (che nel frattempo il valore era salito) vengono restituiti a Delta perché il debito fiscale è estinto.
Esito: Delta se la cava senza condanne penali, pagando ciò che doveva e sanzioni amministrative (che comunque magari sono state ridotte in adesione). Il socio ha però perso l’utile evaso. Comunque l’azienda resta pulita: può continuare, stavolta dichiarando tutto.
Caso 3: Tentata difesa “di principio” di un evasore – esito negativo
Situazione: Fabio, trader di professione, nel 2021 non ha dichiarato nulla su crypto, convinto che “lo Stato non le riconosce, quindi non devo nulla”. Ha guadagnato €500k rivendendo coin (plausibilmente reddito diverso). Nel 2023 AdE lo scopre tramite dati OAM e gli notifica accertamento con 26% su 500k = 130k imposta + sanzioni 30% = 39k + interessi. Fabio, testardo, fa ricorso sostenendo che le crypto non erano nominate in alcuna legge nel 2021 e che lui ha fatto solo permuta crypto-crypto fino a prelevare nel 2022 (dove c’era esenzione entro stessa natura). La CTP rigetta: evidenzia che la Cassazione già dal 2018 equipara le valute virtuali a valute estere quindi imponibili in caso di conversione, inoltre Fabio ha convertito in euro nel 2021 quindi plusvalenza realizzata . Fabio perde anche in appello. Nel frattempo il caso era stato segnalato alla Procura: 500k evasi = reato infedele. Fabio viene rinviato a giudizio. In dibattimento continua con la tesi dell’errore di diritto, ma i giudici osservano che la risoluzione 72/E 2016 e altre prevedevano tassazione, quindi se ignorava era per colpa sua. Lo condannano a 2 anni (pena minima) ma senza sospensione (per via dell’atteggiamento poco collaborativo). Confiscano anche 10 BTC che Fabio aveva ancora, per equivalente della multa. Fabio finisce per fare appello, ma la situazione è compromessa.
Morale: arroccarsi su posizioni “ideologiche” (tipo “lo Stato non può tassare bitcoin”) è perdente. Meglio riconoscere il contesto giuridico e muoversi pragmaticamente.
Ogni caso ha naturalmente specificità, ma da questi esempi vediamo confermati alcuni principi chiave: – La collaborazione e pagamento portano quasi sempre a esiti migliori (es. Delta salva penale, Fabio che nega tutto prende condanna). – Gli strumenti deflativi (adesione, ravvedimento) riducono drasticamente le sanzioni, soprattutto se usati per tempo. – Le tesi creative vanno bene se supportate da logica e diritto: dire “pensavo non fosse tassabile” può servire a ridurre la colpa, ma non a eliminare l’obbligo d’imposta. – Il punto di equilibrio difensivo spesso è: convincere l’Erario a prendere il suo dovuto (magari un po’ di meno) e in cambio chiudere il penale. Questo tutela il contribuente nel lungo termine. Combattere su tutti i fronti per non pagare nulla può portare a perdere e pagare di più (per via di sanzioni e spese legali), oltre alla condanna.
Domande frequenti (FAQ)
D: Le criptovalute sono esenti IVA?
R: No. La compravendita di criptovalute in sé (scambio crypto vs valuta) è esente IVA come operazione finanziaria . Ma se usi criptovaluta per pagare un bene o servizio, quella cessione sconta l’IVA normale sul valore in euro . In breve: pagare in Bitcoin non ti esenta dall’IVA, equivale a pagare in dollari o altra valuta. Fanno eccezione solo i casi già esenti o fuori campo per natura (es. operazioni mediche, prestazioni verso estero) che rimangono tali indipendentemente dal mezzo di pagamento.
D: Se vendo un mio NFT ho obblighi IVA?
R: Dipende. Se sei un privato non soggetto IVA e vendi un tuo NFT occasionale, no (come vendere un bene usato). Se agisci abitualmente come artista/creatore, la vendita del tuo NFT su mercato primario, se equiparata a cessione opera d’arte da autore, non è considerata prestazione di servizi ai fini IVA . Invece, se vendi NFT come business (marketplace o rivendita) o sei un soggetto diverso dall’autore, l’operazione è un servizio elettronico con IVA. Quindi un’azienda che crea e commercia NFT deve applicare l’IVA (22% in Italia) sulla vendita ai clienti (salvo clienti esteri extra-UE, non imponibile). Esempio: artista italiano vende NFT della propria opera digitale a un collezionista: se avviene direttamente, niente IVA (arte d’ingegno dell’autore). Se lo vende tramite una galleria/marketplace che agisce in nome proprio, su quella cessione la galleria deve applicare IVA (come servizio di vendita).
D: Devo indicare le criptovalute nel Quadro RW della dichiarazione?
R: Sì, se detieni criptovalute su exchange esteri o wallet privato, vanno monitorate. L’Agenzia Entrate le considera assimilate alle attività estere di natura finanziaria (valute estere) . Nel quadro RW (persone fisiche) o equivalente quadro W del 730, devi indicare il valore massimo avuto nell’anno e quello a fine anno, in euro. Ciò è a scopo di monitoraggio. Inoltre, dal 2023 è stata introdotta l’IVAFE cripto (imposta sul valore delle attività finanziarie estere) pari allo 0,2% annuo sul valore delle cripto detenute, salvo minimi esenti ~€12 di imposta . Però attenzione: se hai le crypto su un intermediario italiano (iscritto OAM) che applica imposta di bollo, allora non devi pagare IVAFE tu (vale l’una o l’altra). In sintesi: sì, vanno dichiarate, se ometti c’è sanzione 3-15% del valore non monitorato e rischio di accertamenti sintetici . Molti hanno ignorato questo obbligo negli anni scorsi, ma con la sanatoria 2023 e le nuove regole, è fortemente consigliato regolarizzare.
D: Ho ricevuto una lettera di compliance dall’Agenzia per crypto non dichiarate. Che faccio?
R: Non ignorarla. Quelle lettere indicano che il Fisco ha già dati precisi . Se non rispondi, quasi certamente seguirà un accertamento con sanzioni più alte. Meglio analizzare l’anomalia segnalata: può essere Quadro RW mancante, plusvalenze non dichiarate, IVA non versata su vendite, ecc. Se riconosci l’errore, puoi presentare una dichiarazione integrativa e pagare con ravvedimento operoso (sanzioni ridotte) . Se non sei d’accordo, puoi inviare una risposta scritta spiegando perché ritieni di essere in regola, magari allegando documenti (ad es. se risulta un bonifico da exchange, potresti dire “era rimborso di capitale, nessuna plusvalenza”). In ogni caso non ignorare: l’Agenzia potrebbe archiviare se le tue spiegazioni convincono, o invitarti a contraddittorio. Ignorando perdi chance di chiuderla bonariamente e rischi aggravio di sanzioni .
D: Posso compensare perdite e guadagni su criptovalute?
R: Sì, in dichiarazione dei redditi le plusvalenze da cripto-attività (redditi diversi finanziari) sono compensabili con eventuali minusvalenze dello stesso periodo e dei 4 anni precedenti (riportate). Ad esempio, se nel 2024 hai guadagnato 10k vendendo Bitcoin ma perso 4k vendendo Ether, paghi il 26% su 6k di netto. Se hai solo perdite, le porti a nuovo. Importante: per poterle dimostrare e quindi utilizzare, devi compilare la dichiarazione anche negli anni in perdita (quadro RT) indicando la minusvalenza da riportare. Se non l’hai fatto, rischi di non poterle far valere. In accertamento, puoi provare ad allegare documentazione di quelle perdite e sperare che l’Ufficio le consideri in autotutela. Ma formalmente, l’uso pieno richiede dichiarazione. In ogni caso, conserva i report delle operazioni in perdita e segnalale al tuo commercialista. Non c’entra con l’IVA (che si basa operazione per operazione), ma per imposte sui redditi è cruciale.
D: Ho accettato pagamenti in Bitcoin nel mio negozio. Come devo fare lo scontrino/fattura?
R: Devi fare lo scontrino o la fattura come al solito, indicando l’importo in euro calcolato al tasso di cambio del momento. Molti gestionali hanno integrato questa funzione: si inserisce il valore in BTC e il sistema calcola euro in base a un oracle. Se fai scontrino, conviene allegare uno “z” con il tasso usato o conservare la schermata dell’exchange. L’IVA la applichi sul prezzo come se il cliente avesse pagato in contanti euro. Non devi indicare in dichiarazione IVA nulla di diverso: sono ricavi normali. Dal lato contabile, puoi registrare l’incasso in un conto tipo “cassa valori in Bitcoin” valorizzato al cambio, e poi le eventuali differenze di cambio quando lo converti. Ma questi sono dettagli contabili. L’essenziale: emettere sempre il documento fiscale al valore in euro del bene. Se non lo fai (pensando “ma ho ricevuto bitcoin, chissà se li converto”), commetti un’irregolarità. Ricorda anche che, per ora, i corrispettivi in crypto non possono essere tracciati su registratore telematico (non c’è codice specifico): si classificano come “altri pagamenti” probabilmente. Tieni traccia separata per eventuali controlli.
D: Posso evitare il penale pagando il dovuto dopo essere stato scoperto?
R: Sì, entro certi limiti. La legge premia il pagamento integrale del debito tributario, purché avvenga prima che inizi il dibattimento penale . In pratica: se sei indagato/imputato per infedele o omessa dichiarazione, e paghi tutto (imposte + interessi + sanzioni) prima del processo, il reato è estinto (art.13 D.Lgs.74). Per altri reati (es. frode), il pagamento non estingue ma è una circostanza attenuante molto rilevante, che può portare a pene minime o patteggiamento con condizionale. Anche per omesso versamento IVA, pagare il dovuto prima della dichiarazione dei redditi successiva evita proprio il sorgere del reato (perché se paghi entro quel termine, non scatta il 10-ter). Se paghi dopo ma prima del dibattimento, hai l’attenuante e spesso in questi casi i giudici convertono in multa o perdonano quasi. Quindi sì, paga il prima possibile. Se paghi solo parzialmente, potrebbe comunque essere apprezzato (specie se vicino al totale). Certo, se vieni beccato e non hai soldi, la non punibilità piena non la ottieni – in tal caso punta almeno a dimostrare che non avevi dolo (ma è dura senza pagamento). Il legislatore vuole incassare: se incassa, tende a non infierire penalmente. In caso contrario, punisce.
D: Le stablecoin e le monete tipo Monero hanno un trattamento fiscale diverso?
R: No dal punto di vista tributario. Una stablecoin (es. USDT ancorato al dollaro) è comunque una “cripto-attività” equiparata a valuta estera: se genera plusvalenze, tassabile; se usata per pagare, comporta gli stessi obblighi IVA. Non c’è normativa separata per stablecoin (sebbene in futuro gli e-money token sotto MiCA saranno come moneta elettronica – ma fiscalmente sempre valuta sono). Quanto a Monero (XMR) o altri privacy coin, il trattamento fiscale su guadagni e IVA è identico (il Fisco non dice “Monero è illegale”, lo tassa come tutto il resto se lo scopre). La differenza è nelle implicazioni di controllo: se ti trovano ad usare solo Monero e non registri nulla, è più facile che ipotizzino volontarietà di evadere, data la fama di Monero. Ma fiscalmente parlando, vendere 10 XMR con plusvalenza va tassato 26% come se vendi 10 Litecoin con plusvalenza. E se accetti Monero in pagamento nel tuo shop, devi fatturare come al solito (anche se essendo anonimo, non saprai chi è il cliente – poco importa ai fini IVA: fai fattura generica o scontrino). In pratica: stable o volatile, anonima o trasparente, per il Fisco sempre valore economico è, quindi da dichiarare.
D: Ho solo convertito cripto in altre cripto, senza riportare euro a casa. Devo dichiarare qualcosa (prima del 2023)?
R: Domanda dibattuta. Prima della legge 2022, la prassi tendeva a tassare la conversione cripto-to-fiat (in euro o valuta fiat) come momento realizzativo, mentre gli scambi cripto-cripto erano discussi. La nuova norma dal 2023 dice chiaramente: le permute tra cripto diverse generano plusvalenza imponibile a meno che abbiano “uguali caratteristiche e funzioni” (cioè scambi due crypto simili) . Bitcoin vs Ethereum per esempio non hanno uguali funzione, quindi permutarli realizza la plusvalenza in base al valore di mercato. Prima non era scritto, ma l’Ade già propendeva per questa lettura economica. Quindi, prudenzialmente, anche le permute crypto-crypto dovrebbero essere state dichiarate (calcolando il gain in euro al momento). Tuttavia, c’è margine per discutere caso vecchi: se nel 2020 hai scambiato 1 BTC con 15 ETH e non hai dichiarato nulla perché non convertisti in euro, potresti sostenere che all’epoca la legge non tassava quella permuta (tesi un po’ azzardata, ma c’è chi la sostiene). Ad oggi, direi: sì, la permuta è imponibile (lo conferma la legge attuale e la Cassazione 2025 nel caso NFT vs crypto ). Quindi conviene dichiarare anche quelle operazioni. Se non l’hai fatto, valuta un ravvedimento o preparati a difendere la posizione eventualmente portando l’incertezza normativa come scusante (forse per sanzioni). L’orientamento però è tassarle tutte.
D: Cosa rischio se la mia società ha ricevuto pagamenti cripto dall’estero e non ha fatturato, pensando fosse fuori campo IVA?
R: Se i beni/servizi erano effettivamente destinati all’estero (fuori UE), la cessione poteva essere non imponibile (esportazione). Ma dovevi comunque emettere fattura e fare documentazione doganale se beni fisici. Se hai omesso tutto, l’Agenzia potrebbe contestarti l’IVA come se fossero vendite interne, a meno che tu riesca a provare destinazione estera. Rischi sanzione per omessa fatturazione e recupero IVA se non riesci a dimostrare la natura. Inoltre, se importo grande, anche reato di omessa dichiarazione o infedele. Se i clienti erano intra-UE, avresti dovuto fare fattura non imponibile art.41 c.1 (intracomunitaria) e presentare elenco Intrastat. Non facendolo, ti contestano l’IVA italiana perché non possono verificare la cessione intraUE. Dovrai poi cercare di dimostrare con CMR, spedizioni ecc. che la merce è uscita dall’Italia per ottenere eventualmente un’esenzione. Quindi rischi sia in ambito IVA (multe e imposte) sia eventuale penale se volumi alti. Conviene fare una sorta di “ravvedimento” presentando ad esempio dichiarazioni annuali integrative e spiegando l’errore, prima che arrivi l’accertamento.
D: L’Agenzia Entrate può davvero vedere i miei wallet se uso solo exchange esteri e wallet privato?
R: Sta diventando sempre più probabile. Già ora, se fai movimenti dal tuo wallet privato a un exchange importante (Binance, Crypto.com ecc.), quei movimenti possono essere associati a te tramite le tracce KYC lasciate sull’exchange. L’Agenzia può fare richieste di informazioni via cooperazione internazionale. Quando DAC8 sarà operativa, gli exchange UE e forse anche extraUE aderenti comunicheranno le posizioni dei clienti europei . Inoltre, l’Agenzia ha software (Sogei) che analizzano i movimenti bancari: se vede bonifici verso piattaforme crypto non italiane, segna il tuo profilo. Anche l’Evasometro 2.0 con AI incrocia questi dati . E ovviamente c’è la GdF con strumenti di blockchain analysis: hanno già individuato persone col semplice incrocio “indirizzo comparso su exchange X associato a codice fiscale Y”. Non c’è anonimato assoluto . Le privacy coin rendono più difficile, ma se mai converti Monero in BTC o fiat, lasci un varco. E ricorda: se ti fanno una verifica, possono perquisire smartphone, PC e trovare seed phrase, app di wallet, email di conferma da exchange. Sono già successi casi dove, durante controlli fiscali, hanno scoperto wallet non dichiarati spulciando tra i file. Quindi la risposta è: sì, se hai movimenti significativi, prima o poi ti “vedono”. Non a caso stanno arrivando valanghe di lettere di compliance a chi pensava di essere invisibile. Meglio adeguarsi spontaneamente.
D: Ho ricevuto criptovalute su cui ho già pagato le tasse (perché erano reddito di lavoro dichiarato). Se poi il loro valore cresce e le rivendo, devo pagare di nuovo?
R: Sì, purtroppo sì, in termini di plusvalenza. Mi spiego: se tu ricevi 1 BTC come pagamento di una fattura di €30.000 (su cui paghi IVA e dichiari il reddito), il valore fiscale di carico di quel BTC per te è €30.000 . Se lo rivendi a 40.000€, hai 10.000 di plusvalenza tassabile al 26%. Se lo rivendi a 25.000 perdi 5.000 (minusvalenza deducibile da altri guadagni). Quindi non c’è doppia tassazione sullo stesso importo base, paghi solo sull’eventuale apprezzamento successivo. Il problema è che devi poter provare il valore iniziale (cosa importantissima da documentare, come detto nella sezione difensiva). La Cassazione 2025 sul caso NFT ha ribadito questo concetto: pur se le cripto non sono moneta legale, vanno convertite in euro per ogni passaggio rilevante . Dunque niente scappatoie: se aumentano di valore tra quando le ottieni e quando le cedi, quella differenza genera un secondo tributo (come succede con azioni o oro). Non è considerata doppia tassazione perché sono due presupposti diversi: uno reddito originario, l’altro plusvalenza. Dal tuo punto di vista, però, conviene vendere subito per non complicarti? Dipende dal mercato… Ma fiscalmente, tieni a mente che il Fisco “vuole la sua parte” sia del reddito sia dell’eventuale capital gain successivo.
D: Quali documenti devo preparare se voglio regolarizzare la mia posizione crypto?
R: Per un’eventuale difesa o regolarizzazione volontaria, raccogli: – Estratti conto exchange (file CSV o PDF) per tutto il periodo d’imposta in verifica. Molte piattaforme forniscono report annuali con movimenti e saldo. – Storico transazioni wallet: puoi usare un explorer blockchain per scaricare l’elenco dei movimenti del tuo indirizzo. Es. per Ethereum, Etherscan consente export CSV. Per Bitcoin, vari block explorer fanno lo stesso. – Prospetto di calcolo plusvalenze: è utile usare software di calcolo fiscale (ce ne sono di dedicati) per consolidare i movimenti su tutti gli exchange e wallet e calcolare il gain anno per anno (applicando LIFO, etc.). Questo sarà la base da dare a commercialista/Agenzia. – Documenti giustificativi: se hai ricevuto crypto come pagamento: fatture, contratti, email con il cliente. Se hai comprato crypto con bonifici: copia dei bonifici e prova d’acquisto (ordine eseguito sull’exchange). Se hai trasferito su hardware wallet: magari screenshot del tuo wallet mostrando quell’indirizzo, per provare che è tuo (così se dall’exchange vedevano uscita a indirizzo X, puoi dimostrare che X è sempre tuo e non una vendita). – Dichiarazioni integrative: predisponi, magari col fiscalista, le dichiarazioni dei redditi/IVA corrette con i dati crypto inclusi. Questo può servire sia per ravvedimento che per mostrare al Fisco un conteggio chiaro di quanto dovresti. – Eventuali comunicazioni precedenti: se avevi chiesto interpello (pochi lo fanno, ma chissà) o se l’Ade ti ha già mandato lettere prima, includile. – Situazione attuale dei wallet: un elenco di cosa possiedi al momento e dove è depositato, così se vuoi pagare l’IVAFE o decidere cosa liquidare per far cassa.
Tutto questo ti mette in condizione di affrontare un eventuale contraddittorio a testa alta, con dati in mano. Spesso i contribuenti cadono perché non sanno nemmeno spiegare le proprie operazioni – se arrivi con tabella e prove, l’Agenzia vedrà che sei preparato e forse più incline a transigere.
D: Cosa succede se non posso materialmente pagare l’evasione che mi contestano?
R: Situazione difficile. Se le cifre sono molto alte e non hai risorse, potresti trovarsi in brutte acque: il debito fiscale resterà e il penale farà il suo corso. Alcune possibili strade: – Rateizzazione: puoi chiedere fino a 8 anni di rate all’Agenzia Riscossione dopo l’accertamento. Questo può rendere il pagamento più fattibile. Se rispetti le rate, spesso le Procure tengono conto che stai pagando. – Transazione fiscale/concordato: se sei un imprenditore e la tua azienda rischia il fallimento per quel debito, valutare un concordato preventivo con transazione fiscale: offri di pagare una parte. Il Fisco a volte accetta se vede che altrimenti non prende nulla. Questo comporta procedure concorsuali, perciò coinvolgi un esperto fallimentare. – Patteggiamento con pena attenuata: se proprio non puoi pagare, in sede penale punta almeno ad evitare il carcere pattuyendo la pena a magari 1 anno con condizionale. Però senza pagamento, per alcuni reati (frodi) i giudici sono restii a dare condizionale piena. Potresti dover scontare misure alternative (lavori socialmente utili, domiciliari brevi). – Sospensione condizionale subordinata al pagamento: il giudice potrebbe darti condizionale a patto che paghi il dovuto entro un certo termine. È un’arma a doppio taglio se sai già che non ce la fai. – Dichiarare l’insolvenza: in casi estremi di persone fisiche, esiste la procedura di esdebitazione (fallimento persona fisica, legge 3/2012 sovraindebitamento). Non sempre i debiti fiscali sono esdebitabili, ma con la riforma 2021 (Codice crisi) qualcosa si può fare. Potresti arrivare a far dichiarare che sei incapiente e farti stralciare parte del debito. Ovviamente, comporta vendere ciò che hai, stigma sociale e quant’altro. – Attenuanti per incapienza: spiegare al giudice penale la tua situazione (nessun bene, reddito minimo, etc.) può evitare misure troppo afflittive. Non possono sbatterti in galera a lungo per debiti se mostri che sei pentito e sfortunato; al limite danno pena minima e forse sospesa. Il carcere per reati fiscali è l’ultima ratio e in pratica colpisce chi è recidivo o ostentatamente evasore ricco.
In sostanza, se non puoi pagare tutto, paga almeno qualcosa, mostra buona volontà. E documenta perché non puoi di più (es. conti in rosso, pignoramenti già subiti). Questo umanizza la tua posizione. L’importante è non sparire e non peggiorare: se scappi all’estero o continui a evadere, passerai per delinquente fiscale incallito e lì i giudici puniranno severamente. Se rimani e dici “non ho più nulla, vi do ciò che ho, scusatemi”, hai chance di clemenza (magari con la MAP come detto se applicabile).
Conclusione: La difesa dall’accusa di aver usato criptovalute per evadere l’IVA richiede una combinazione di competenze tributarie e penali. È un terreno nuovo, in evoluzione, dove la conoscenza delle tecnologie si unisce al diritto tradizionale. L’Agenzia delle Entrate sta potenziando i controlli e affinando le armi normative, dunque la miglior strategia è giocare d’anticipo: conformarsi alle regole (fatturare, dichiarare, conservare prove). Se l’ispezione arriva, collaborare intelligentemente: fornire dati corretti, ammettere gli errori sanabili, contestare solo gli aspetti dubbi con solido fondamento. Dal punto di vista del contribuente (debitore fiscale), farsi assistere da consulenti esperti è cruciale per far valere i propri diritti e non subire passivamente accertamenti magari eccessivi. Le sentenze più recenti (Cass. 2025) mostrano che la linea dura c’è (imponibilità generalizzata, punibilità del dolo anche se “tecnologico”), ma anche che la collaborazione fattiva (pagamento, disclosure) viene premiata con esiti favorevoli .
In definitiva, “come difendersi” significa: conoscere le norme, mantenere le carte in regola, e se si è in fallo, agire subito per rimediare e negoziare, piuttosto che farsi trovare impreparati. Le criptovalute non sono più un Far West per il Fisco: oggi più che mai “il blockchain ha buona memoria”, e l’Agenzia delle Entrate anche. Difendersi è possibile, ma passa inevitabilmente per la trasparenza e la collaborazione, unite a una solida strategia tecnico-legale.
Riferimenti Normativi e Fonti
- Corte di Giustizia UE, sentenza 22/10/2015, causa C-264/14 (Hedqvist) – equiparazione valute virtuali a valute tradizionali ai fini IVA.
- Agenzia Entrate, Risoluzione n. 72/E del 02.09.2016 – qualificazione attività di intermediazione in criptovalute come operazione esente IVA ex art.10 DPR 633/72.
- Legge 29.12.2022 n.197 (Bilancio 2023), commi 126-147 – definizioni di cripto-attività, disciplina fiscale plusvalenze 2023, IVAFE cripto, regolarizzazione.
- Circolare AdE 30/E 2023 (27.10.2023) – Linee guida tassazione cripto. Sez. su NFT e IVA, approccio look-through.
- D.P.R. 633/1972 (Decreto IVA), in particolare: art. 3 (cessioni di beni e servizi; esclusioni), art. 7-ter (territorialità servizi), art. 10 (operazioni esenti, valute), art. 13 (base imponibile in valuta estera).
- D.Lgs. 10.03.2000 n.74 – Reati tributari: artt. 2,3,4,5,10,10-ter,11 ecc., come modif. da D.Lgs.158/2015, L.157/2019. Vedi Tabella 2 per soglie e pene aggiornate.
- Cassazione Penale Sez. III, sent. n.8269 del 28.02.2025 – Caso NFT: vendita di opera digitale tramite NFT pagato in crypto è reddito imponibile subito; irrilevanza pagamento in criptovaluta ai fini dell’obbligo dichiarativo ; conferma reato di dichiarazione infedele per omessa dichiarazione di provento in crypto oltre soglia.
- Cassazione Penale Sez. II, sent. n.1760 del 19.01.2025 – Sequestro preventivo di criptovalute: necessità di perizia per stabilire il controvalore in euro al momento del fatto; non automatica equivalenza crypto-denaro.
- Agenzia Entrate, Risposta a interpello n.14/E del 28.02.2018 (caso intermediario italiano) – assimilazione criptovalute a valute estere ai fini monitoraggio fiscale (Quadro RW).
- Agenzia Entrate, FAQ 30 aprile 2025 su tassazione cripto (richiamata in Fisco7) – chiarimenti su plusvalenze 2023 e oltre.
- MEF (Dip. Finanze), Relazione sull’evasione fiscale 2023 (dati 2021) – contiene capitoli su nuovi fenomeni evasivi; accenna all’uso di valute virtuali e difficoltà di contrasto in sistemi pseudonimi.
- Guardia di Finanza – Circolare n.1/2018 del Nucleo Speciale Polizia Valutaria – trattava utilizzo delle criptovalute in riciclaggio ed evasione (cit. in Meliusform) .
- Cassazione penale Sez. III sentenza n. 8269 del 28 febbraio 2025.
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Vuoi sapere quali rischi corri e come puoi difenderti da queste contestazioni?
Le operazioni in criptovalute (Bitcoin, Ethereum e altre) sono soggette a crescente attenzione da parte del Fisco. L’Agenzia delle Entrate può ritenere che le crypto vengano utilizzate per occultare transazioni imponibili, sottrarre ricavi all’IVA o mascherare operazioni di commercio elettronico e servizi digitali. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: è essenziale dimostrare la trasparenza e la tracciabilità delle operazioni.
👉 Prima regola: conserva sempre registri, estratti wallet e prove dei pagamenti per dimostrare la liceità delle transazioni in crypto.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Vendite di beni o servizi pagate in crypto non fatturate né dichiarate;
- Utilizzo di exchange esteri senza registrazione delle operazioni;
- Conversioni in valuta fiat non giustificate;
- Pagamenti in criptovalute utilizzati per occultare corrispettivi;
- Anomalie nei volumi dichiarati rispetto a quelli rilevati sulle piattaforme di scambio.
📌 Conseguenze della contestazione
- Recupero dell’IVA non versata sulle operazioni occultate;
- Sanzioni dal 90% al 180% dell’imposta evasa;
- Interessi di mora;
- Rischio di contestazioni anche sulle imposte dirette (ricavi non dichiarati);
- Possibili profili penali in caso di frode fiscale.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Regolarità delle fatture emesse: le operazioni in crypto erano documentate?
- Registrazione dei pagamenti: esistono estratti conto digitali, ricevute, smart contract?
- Tracciabilità delle transazioni: i wallet sono riconducibili al contribuente?
- Motivazione della contestazione: l’Agenzia ha ricostruito con dati certi o solo con presunzioni?
- Notifica e termini: la contestazione è stata fatta nei tempi previsti dalla legge?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Estratti delle piattaforme di exchange (Binance, Coinbase, ecc.);
- Registri e screenshot dei wallet;
- Contratti e fatture dei beni/servizi pagati in crypto;
- Ricevute di conversione in valuta fiat;
- Dichiarazioni fiscali e comunicazioni con l’Agenzia delle Entrate.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la regolarità delle operazioni con prove tracciabili;
- Contestare la presunzione di occultamento se basata solo su flussi in criptovalute;
- Eccepire vizi formali: motivazione insufficiente, notifica irregolare, decadenza;
- Richiedere autotutela se l’imposta era già stata dichiarata e versata;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per bloccare il recupero;
- Difesa penale se viene contestata frode connessa all’uso di criptovalute.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza le operazioni in criptovalute e la contestazione ricevuta;
📌 Verifica se l’utilizzo delle crypto era legittimo e dichiarato;
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🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in fiscalità delle criptovalute e IVA;
✔️ Specializzato in difesa da contestazioni fiscali legate a pagamenti in crypto;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sull’uso di criptovalute per eludere l’IVA non sempre sono fondate: spesso derivano da presunzioni o da scarsa conoscenza tecnica delle operazioni digitali.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la trasparenza delle transazioni, evitare la riqualificazione come evasione e ridurre drasticamente le sanzioni.
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