Contestazioni Iva Per Servizi Digitali A Clienti Ue Non Dichiarati: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché i servizi digitali resi a clienti nell’Unione Europea non sono stati dichiarati correttamente? In questi casi, l’Ufficio presume che l’impresa abbia omesso di applicare le regole IVA previste per il commercio elettronico diretto e procede al recupero dell’imposta, con applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con la giusta strategia difensiva è possibile dimostrare la correttezza degli adempimenti o ridurre la pretesa fiscale.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta l’IVA sui servizi digitali a clienti UE
– Se i corrispettivi incassati da privati consumatori UE non sono stati dichiarati tramite regime OSS (One Stop Shop) o MOSS
– Se non è stata applicata l’aliquota IVA del paese del cliente, come previsto dalla normativa europea
– Se le operazioni sono state registrate in modo errato o non sono state trasmesse telematicamente
– Se emergono incongruenze tra i dati delle piattaforme digitali (app store, marketplace, servizi cloud) e le dichiarazioni IVA
– Se i ricavi non risultano coerenti con quelli dichiarati in Italia o all’estero

Conseguenze della contestazione
– Recupero dell’IVA non dichiarata o non versata sui servizi digitali resi a clienti UE
– Applicazione di sanzioni per omessa o infedele dichiarazione
– Interessi di mora calcolati dalla scadenza dei versamenti non effettuati
– Possibili controlli incrociati con le autorità fiscali degli altri Stati membri
– Rischio di ulteriori verifiche su tutta l’attività di commercio elettronico

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’avvenuta adesione al regime OSS o la corretta applicazione delle regole IVA UE
– Produrre documentazione fiscale e contrattuale che giustifichi i servizi resi e i ricavi dichiarati
– Contestare errori di calcolo o di imputazione commessi dall’Agenzia delle Entrate
– Evidenziare vizi di motivazione o difetti procedurali nell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i flussi di fatturazione e i dati delle piattaforme digitali utilizzate
– Verificare la legittimità della contestazione alla luce della normativa UE e nazionale
– Redigere un ricorso fondato su vizi formali e sostanziali dell’accertamento
– Difendere l’impresa davanti ai giudici tributari e nei rapporti con le autorità fiscali estere
– Tutelare la continuità dell’attività online da conseguenze fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della corretta applicazione delle regole IVA per i servizi digitali
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto secondo la legge

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce nei termini, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscalità internazionale – spiega come difendersi in caso di contestazioni IVA sui servizi digitali resi a clienti UE e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Le attività digitali con clientela nell’Unione Europea hanno semplificato il commercio senza confini, ma al contempo hanno reso più complessa la gestione dell’IVA. In Italia, fornire servizi digitali a clienti privati UE senza dichiararli espone persone fisiche e imprese a contestazioni fiscali gravose: l’Agenzia delle Entrate può richiedere il pagamento dell’IVA non assolta, con sanzioni e interessi elevati. Negli ultimi anni, i controlli fiscali sul digitale si sono intensificati, complice la cooperazione internazionale e nuove normative UE che tracciano le transazioni online. Questa guida avanzata – aggiornata ad agosto 2025 – offre un quadro completo della normativa italiana in materia di IVA sui servizi digitali B2C (business-to-consumer) verso l’estero e soprattutto analizza le strategie difensive a disposizione del contribuente (dal punto di vista del debitore). Il taglio sarà giuridico ma divulgativo, adatto ad avvocati tributaristi, imprenditori digitali e privati cittadini interessati a capire come tutelarsi.

Affronteremo dapprima il quadro normativo: dove e quando l’IVA è dovuta per i servizi digitali resi a privati in altri Paesi UE, alla luce delle direttive comunitarie (Direttiva IVA 2006/112/CE, Direttive 2008/8/CE e 2017/2455/UE) e del recepimento nell’ordinamento italiano (D.P.R. 633/1972 e modifiche introdotte fino al 2021-2022). Spiegheremo il funzionamento del regime OSS (One Stop Shop) – evoluzione del precedente MOSS – e la soglia di esenzione di 10.000 € introdotta per le microimprese digitali. Seguirà l’analisi di come nascono le contestazioni: dagli incroci di dati finanziari e digitali ai meccanismi di cooperazione tra autorità fiscali europee (DAC7, sistema CESOP, scambio informazioni VIES), capiremo come il Fisco individua vendite non dichiarate.

Ampio spazio sarà dedicato ai rischi e alle conseguenze per chi ha omesso di dichiarare tali operazioni: richieste di pagamento dell’IVA evasa, sanzioni amministrative pecuniarie (recentemente rimodulate dal D.Lgs. 87/2024), possibili profili penali in caso di evasione significativa, nonché la procedura di riscossione (avvisi di accertamento, iscrizione a ruolo e cartelle esattoriali). In questa parte citeremo le sentenze più aggiornate delle Corti (Corte di Giustizia UE, Corte di Cassazione, Corti di Giustizia Tributaria) e i documenti ufficiali più autorevoli, così da offrire riferimenti solidi: ad esempio, la recente pronuncia della Corte UE nel caso Fenix International (OnlyFans) che chiarisce la posizione IVA delle piattaforme digitali , o le novità normative 2023-2025 su sanzioni e autotutela.

Successivamente, entreremo nel vivo dei principali strumenti difensivi. Dal nuovo istituto dell’autotutela tributaria – riformato nel 2024 con l’introduzione dell’obbligo di annullamento per atti manifestamente illegittimi – alle possibilità di definizione bonariaadesione all’accertamento (che consente una riduzione delle sanzioni fino a 1/3) e acquiescenza (pagamento entro termini con sanzioni ridotte). Esamineremo il (fu) reclamo-mediazione tributaria – obbligatorio fino al 2023 per le liti minori – oggi abrogato per i ricorsi notificati dal 2024, e le alternative attuali. Illustreremo poi l’iter del contenzioso tributario vero e proprio: dal ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex Commissione Tributaria) entro 60 giorni, alla possibilità di sospendere la riscossione durante la causa, fino all’eventuale appello e ricorso in Cassazione. Approfondiremo infine strumenti deflattivi in sede processuale come la conciliazione giudiziale, che permette di chiudere la lite con sanzioni ridotte al 40% del minimo.

Per facilitare la comprensione, la guida include tabelle riepilogative (ad esempio sui criteri di territorialità IVA e sulle differenze tra i diversi strumenti difensivi) e una sezione di Domande & Risposte con i quesiti più frequenti. Saranno presentate simulazioni pratiche (riferite a casi italiani) per mostrare come applicare i principi teorici: ad esempio, come gestire un avviso di accertamento per servizi digitali non dichiarati, oppure come sanare spontaneamente la propria posizione prima che scatti l’accertamento. L’obiettivo finale è mettere il lettore – avvocato, imprenditore digitale o contribuente preoccupato – nella condizione di comprendere i propri diritti e doveri, di valutare la legittimità delle contestazioni IVA ricevute e di impostare una difesa efficace fondata su norme aggiornate e giurisprudenza consolidata.

Normativa IVA sui servizi digitali verso privati UE: quadro generale

Quali servizi rientrano nei “servizi digitali” B2C? In ambito IVA, con servizi digitali (o servizi elettronici) si intendono le prestazioni fornite tramite internet o reti elettroniche, in larga parte automatizzate e con intervento umano minimo. Esempi tipici sono il download di software o app, la fornitura di servizi cloud, lo streaming online di contenuti audio/video, l’erogazione di corsi online registrati, l’accesso a piattaforme digitali, ecc. La definizione europea di questi servizi è contenuta nell’allegato II della Direttiva 2006/112/CE (come modificata), nonché dettagliata nell’art. 7 del Regolamento UE 282/2011. Dal 2015, tali prestazioni sono incluse nella categoria dei servizi TTE (telecomunicazione, teleradiodiffusione ed elettronici) con regole speciali di territorialità IVA. In pratica, i servizi digitali B2C vengono equiparati, ai fini della territorialità, alle operazioni B2B: l’IVA è dovuta nel Paese del cliente anche quando il cliente è un privato. Questo costituisce un’importante deroga al principio generale secondo cui, per i servizi B2C, l’IVA si applicherebbe nel Paese del fornitore.

Evoluzione normativa UE: la svolta normativa avviene con la Direttiva 2008/8/CE, recepita in Italia col D.Lgs. 42/2015, che ha stabilito dal 1º gennaio 2015 il principio del “Paese di destinazione” per i servizi digitali verso privati. Ciò significa che se, ad esempio, una società italiana vende un servizio di streaming a un consumatore in Francia, l’IVA dovrebbe essere applicata in Francia (luogo in cui il servizio è fruito dal consumatore finale). Per evitare difficoltà applicative – sarebbe impraticabile per ogni piccola impresa registrarsi ai fini IVA in tutti i 27 Paesi UE – è stato creato un regime speciale opzionale: il Mini One Stop Shop (MOSS), operativo dal 2015. Tramite il MOSS, i fornitori UE potevano identificarsi in un unico Stato membro (detto Stato di identificazione) e ivi presentare una dichiarazione trimestrale unica per versare l’IVA dovuta nei vari Stati dei clienti. L’Italia ha recepito questo meccanismo nell’ordinamento IVA introducendo specifiche norme nel D.P.R. 633/1972 (all’epoca l’art. 74-quinquies per i soggetti extra-UE e altri adattamenti). Per i soggetti aderenti al MOSS, l’Agenzia delle Entrate ha disciplinato modalità e semplificazioni: ad esempio, l’esonero dall’obbligo di fatturazione per i servizi digitali resi via MOSS, in quanto i corrispettivi sono documentati nella dichiarazione elettronica trimestrale.

La soglia di 10.000 € per le microimprese: A partire dal 1º gennaio 2019 (recepimento con D.Lgs. 45/2020), l’UE ha introdotto una misura di semplificazione importantissima: una soglia annua di vendite intra-UE di 10.000 € al di sotto della quale i servizi digitali B2C possono essere tassati nello Stato di origine (cioè del prestatore). In altri termini, le microimprese che vendono pochi servizi digitali oltreconfine non sono obbligate ad applicare l’IVA del Paese del cliente per importi esigui. Se le vendite annuali a privati comunitari (sommate tra tutti i Paesi UE diversi dal proprio) non superano 10.000 € (al netto IVA), il fornitore può applicare l’IVA del proprio Paese, come avviene per le vendite domestiche. Questa eccezione vale però solo se il prestatore non è stabilito anche in un altro Stato UE (altrimenti non avrebbe senso agevolarlo) e a condizione di non optare per l’imposizione a destinazione. La tabella seguente riepiloga il criterio di territorialità in base alla soglia (art. 7-octies D.P.R. 633/1972):

Volume annuo vendite digitali B2C UETerritorialità IVAObblighi per il fornitore
Fino a €10.000 (netti) – soglia non superataIVA applicabile nel Paese di origine (fornitore). Il servizio è considerato territorialmente rilevante nello Stato del prestatore (salvo opzione contraria).Rispettare gli adempimenti IVA nazionali: ad esempio, addebitare l’IVA italiana sulle fatture e includere queste operazioni nella dichiarazione IVA nazionale. Non è obbligatorio aderire all’OSS/MOSS né identificarsi nei Paesi dei clienti.
Oltre €10.000 – soglia superataIVA dovuta nel Paese di destinazione (consumatore finale), a partire dall’operazione che fa oltrepassare la soglia. Le vendite eccedenti sono territorialmente rilevanti nell’UE del cliente (principio di destinazione).Necessario assolvere l’IVA nel Paese del committente: il fornitore deve identificarsi ai fini IVA in ogni Stato UE in cui ha clienti privati oppure aderire al regime OSS e dichiarare lì tutte le operazioni estere. Le fatture emesse ai clienti esteri andranno con IVA locale (o, se in OSS, con indicazione del regime).

Nota: Il superamento della soglia va monitorato su base annua sommando tutte le vendite B2C verso altri Stati UE. Se la soglia viene superata in corso d’anno, le operazioni fino a quel momento restano tassate all’origine, e solo dalla transazione che determina il superamento si inizia ad applicare l’IVA a destinazione. È sempre consentito al soggetto sotto soglia optare volontariamente per la tassazione nel Paese del consumatore: in tal caso, anche sotto 10.000 € di vendite, il prestatore applicherà sin da subito l’IVA estera (ad esempio per uniformare il trattamento). L’opzione, in Italia, va comunicata in dichiarazione annuale ed è vincolante per almeno due anni.

Recepimento nell’ordinamento italiano: le regole UE sopra descritte sono state recepite nell’art. 7-octies del D.P.R. 633/1972 (inserito dapprima dal D.Lgs. 45/2020 e poi modificato dal D.Lgs. 83/2021 in attuazione del “pacchetto IVA e-commerce”). In sintesi, l’art. 7-octies prevede che:
– Principio generale (post-2015): i servizi digitali TTE resi a privati si considerano effettuati nel territorio dove è stabilito il committente. Dunque, se il cliente è domiciliato/residente in Italia, l’operazione è rilevante in Italia; se il cliente è in altro Stato UE, non è rilevante in Italia, salvo eccezioni.
– Eccezione per piccoli operatori (soglia 10.000 €): se un soggetto passivo italiano fornisce servizi elettronici a privati UE e non supera 10.000 € di vendite annue fuori Italia (e non è stabilito in altri Stati), allora non si applica la regola sopra: quelle prestazioni restano soggette ad IVA in Italia (luogo del prestatore). Ciò evita obblighi onerosi per operazioni occasionali e di modesta entità.
– Opzione per tassazione a destino: il contribuente italiano sotto soglia può comunque esercitare l’opzione di applicare l’IVA nel Paese del cliente, rinunciando al trattamento domestico. Viceversa, un soggetto estero che vende a clienti italiani sotto soglia può optare per applicare l’IVA italiana.

Va evidenziato che, in recepimento delle normative UE, dal 2021 il MOSS è stato esteso e rinominato OSS (One Stop Shop). Il regime OSS copre non solo i servizi TTE, ma tutte le vendite a distanza intracomunitarie B2C (inclusi beni e altri servizi). In particolare: il regime OSS-UE è riservato ai soggetti passivi stabiliti nell’Unione per dichiarare l’IVA delle vendite a consumatori in altri Stati membri; il regime OSS non-UE consente ai soggetti extraeuropei di dichiarare l’IVA su alcuni servizi resi a consumatori UE senza doversi identificare in ogni paese. In Italia, l’adesione all’OSS avviene tramite apposito portale dell’Agenzia Entrate (Provvedimento AE n. 168315/2021) e comporta la presentazione di una dichiarazione trimestrale OSS (modello VI) in cui riportare le operazioni verso consumatori UE e calcolare l’IVA dovuta per ciascuno Stato di consumo. L’IVA viene versata in un’unica soluzione allo Stato di identificazione, che provvede a smistare gli importi agli altri Stati membri.

Esempio pratico: AlphaWeb Srl (Italia) vende servizi di web hosting a privati in vari Paesi UE. Nel 2024 ha realizzato €8.000 di vendite a clienti in Francia, Germania e Spagna. Poiché è sotto soglia 10.000 €, AlphaWeb può considerare tali operazioni territorialmente in Italia (Paese del prestatore) e quindi ha addebitato IVA italiana nelle ricevute ai clienti esteri, dichiarando il tutto nella propria liquidazione IVA domestica. Nel 2025, però, l’attività estera cresce: al 30 settembre le vendite intra-UE hanno raggiunto €12.000. Ciò significa che AlphaWeb ha superato la soglia durante il 2025: secondo la regola, tutte le operazioni effettuate fino al raggiungimento di €10.000 restano tassate in Italia, ma dalla fattura che ha fatto sforare il limite l’IVA va applicata nei Paesi dei consumatori. AlphaWeb dovrà dunque, per le vendite da ottobre a fine anno, riscuotere l’IVA estera (ad es. IVA 20% per i clienti francesi, 19% per i tedeschi, ecc.) e versarla correttamente. Per farlo, potrà iscriversi al regime OSS italiano comunicando l’opzione entro i termini (l’efficacia scatta dal trimestre successivo all’iscrizione). In sede di dichiarazione OSS, indicherà le vendite del quarto trimestre e pagherà in Italia l’IVA di ciascun Paese dovuta. Alternativamente, potrebbe identificarsi singolarmente in FR, DE, ES ai fini IVA, ma l’OSS è di gran lunga più pratico. Se AlphaWeb omettesse di adeguarsi e continuasse a non dichiarare l’IVA estera, si esporrebbe a contestazioni sia in Italia sia nei Paesi di consumo, come vedremo.

Normativa interna vs. comunitaria: è importante notare che queste regole di territorialità IVA discendono dalla Direttiva IVA (2006/112/CE, artt. 58 e 59 modificati) e sono uniformi in tutta l’UE. L’Italia le ha incorporate integralmente: eventuali controversie sull’applicazione devono tener conto dell’interpretazione uniforme comunitaria. La Corte di Giustizia UE ha più volte confermato il principio della tassazione nel luogo del consumo per i servizi elettronici, al fine di evitare distorsioni concorrenziali e doppi prelievi. Ne consegue che un contribuente italiano non può sostenere, in caso di contestazione, che l’operazione non fosse imponibile “perché resa all’estero”: se rientra nei servizi digitali B2C e la soglia è superata, qualche Stato UE esigerà quell’IVA (o tramite OSS). L’ordinamento prevede semmai strumenti per evitare doppia imposizione: ad esempio, se un’operazione fosse tassata per errore sia in Italia che all’estero, si dovrà attivare la procedura di rimborso nel paese non dovuto. Inoltre, il principio di affidamento legittimo non consente di invocare l’ignoranza della legge come scusante: la Cassazione ha chiarito che l’amministrazione finanziaria non ha l’obbligo di avvisare ogni contribuente dei cambi normativi; spetta al contribuente informarsi e adeguarsi, pena la decadenza dalle tutele sull’affidamento. Questo significa che, ad esempio, se dal 2019 è entrata in vigore la soglia 10.000 € e un contribuente non ne era al corrente, non potrà evitare le sanzioni solo perché “nessuno glielo ha detto”.

Casi particolari – Piattaforme e interfacce elettroniche: Un aspetto peculiare della normativa sui servizi digitali riguarda il ruolo delle piattaforme online che facilitano la fornitura di contenuti digitali (es. marketplace di app, portali di contenuti a pagamento). Dal 2015, il Regolamento UE n. 282/2011 (art. 9-bis) prevede una presunzione per cui, in presenza di determinate piattaforme, il gestore della piattaforma è considerato il fornitore del servizio verso l’utente finale ai fini IVA. Un caso emblematico, emerso giurisprudenzialmente, è quello di OnlyFans: la piattaforma di content creation per adulti incassa dai fan e trattiene una commissione, girando il resto al creator. La Corte di Giustizia UE (Grande Sezione) con sentenza 28/02/2023, causa C-695/20 (Fenix International Ltd vs HMRC), ha stabilito che il gestore OnlyFans deve addebitare l’IVA sull’intero importo pagato dai fan (applicando l’art. 9-bis citato), fungendo da soggetto passivo intermedio . Il content creator, in tal caso, cede il servizio alla piattaforma (con regime B2B) e non direttamente al fan; pertanto non è tenuto a emettere fattura con IVA ai singoli fan – anzi spesso il fan è anonimo per il creator – poiché la transazione fan ⇄ piattaforma è gestita dalla piattaforma stessa ai fini IVA . Questa pronuncia, recepita anche in Italia, significa che l’Agenzia delle Entrate non può richiedere al singolo creator l’IVA sugli importi versati dai fan, dovendo tale IVA essere già stata assolta dalla piattaforma (nel paese di identificazione di quest’ultima). In un’eventuale contestazione IVA a un creator OnlyFans, dunque, un valido argomento difensivo è richiamare la sentenza Fenix e la presunzione normativa: il creator non era il soggetto tenuto a gestire l’IVA verso l’utente finale. Più frequente semmai che il Fisco contesti al creator altre violazioni formali, ad esempio di non aver emesso autofattura o fattura nei confronti della piattaforma per i compensi percepiti (anche se trattasi di operazione fuori campo IVA o reverse charge, va documentata). Analoghe logiche valgono per altri marketplace digitali: ad esempio, gli store di applicazioni (Apple App Store, Google Play) o le piattaforme di e-book agiscono da intermediari-rivenditori, applicando l’IVA all’utente e sollevando il fornitore finale dall’onere, sempre in base all’art. 9-bis Reg. 282/2011. Chi riceve contestazioni IVA dovrebbe perciò verificare il modello di business: se i servizi digitali erano venduti tramite un intermediario che per legge assume la qualifica di debitore d’imposta, il contribuente può opporre che l’IVA era già assolta a monte (presentando eventualmente la documentazione contrattuale con la piattaforma).

In conclusione, la normativa italiana (in armonia con quella UE) prevede che: ogni euro di servizi digitali B2C resi da un residente italiano a clienti UE sconti l’IVA da qualche parte – se non in Italia, nel paese del cliente. L’assenza di dichiarazione o versamento di tale IVA configura un’irregolarità destinata prima o poi ad emergere. Vediamo ora come emergono queste situazioni e cosa succede quando l’amministrazione finanziaria le contesta formalmente.

Come il Fisco scopre i servizi digitali non dichiarati: controlli e contestazioni

Con l’espansione dell’economia digitale, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza hanno sviluppato strumenti sempre più sofisticati per individuare ricavi non dichiarati derivanti da attività online. Diversi fattori possono far scattare un controllo su un soggetto che fornisce servizi digitali transfrontalieri senza averli dichiarati:

  • Disallineamenti nelle banche dati fiscali: L’Agenzia dispone di un’enorme mole di informazioni da fonti diverse. Ad esempio, attraverso l’anagrafe dei conti bancari, può rilevare accrediti ricevuti da piattaforme estere (es. bonifici da società straniere, accrediti PayPal o Stripe) e confrontarli con i ricavi dichiarati. Se un contribuente persona fisica non ha indicato nulla, o un’impresa non ha riportato corrispettivi per quei flussi, scatta un alert di potenziale evasione. Nel caso di prestatori senza partita IVA, movimenti bancari significativi da fonti estere destano subito sospetti di attività in nero.
  • Segnalazioni da piattaforme digitali: Una novità cruciale è l’entrata in vigore della direttiva DAC7 (Directive on Administrative Cooperation 7, recepita col D.Lgs. 32/2023 in Italia). Dal 2023, le piattaforme digitali (marketplace) sono obbligate a comunicare alle autorità fiscali i dati dei venditori attivi e i loro incassi annuali. Ciò include portali di servizi e beni (Etsy, eBay, Amazon Marketplace) ma anche piattaforme di affitto di immobili, trasporto, ecc. Un soggetto italiano che guadagna tramite una piattaforma UE può essere segnalato automaticamente all’Agenzia se supera le soglie (ad es. più di 30 vendite o €2.000 annui, secondo DAC7). Tali dati vengono scambiati tra Stati membri, consentendo all’Italia di ricevere info su propri residenti venditori in piattaforme estere.
  • Tracciamento dei pagamenti elettronici – sistema CESOP: Un altro strumento introdotto dall’UE (Reg. 2020/283/UE, obblighi PSP) è l’archivio centrale dei pagamenti noti come CESOP (Central Electronic System of Payment information). Dal 2024, i prestatori di servizi di pagamento (banche, PayPal, Stripe, circuiti carte) devono segnalare all’Agenzia Entrate i dettagli delle transazioni transfrontaliere verso commercianti che ricevono oltre 25 pagamenti transfrontalieri a trimestre. Ciò significa che se una persona in Italia incassa decine di pagamenti dall’estero (tipico di vendite digitali diffuse), i suoi movimenti verranno riportati e confluiranno in CESOP. Le autorità fiscali potranno così identificare soggetti attivi nel commercio elettronico non dichiarato incrociando i flussi di pagamento. In pratica, mentre in passato un piccolo venditore online poteva passare inosservato, oggi 25 pagamenti su PayPal da clienti UE fanno scattare una segnalazione formale. L’Agenzia ha anche pubblicato FAQ nel gennaio 2024 proprio per chiarire agli operatori finanziari tali obblighi di comunicazione.
  • Cooperazione internazionale e scambio di informazioni: Oltre a DAC7 e CESOP, esistono da tempo altri canali di scambio. Il regolamento UE 904/2010 consente alle amministrazioni IVA di condividere informazioni su transazioni specifiche. Se, ad esempio, la Francia scopre un consumatore che ha acquistato servizi da un fornitore italiano che non ha addebitato IVA, potrebbe segnalare il caso all’Italia per verifiche. Inoltre, accordi con Paesi extra-UE (come il FATCA con gli USA, inizialmente pensato per conti finanziari) possono rivelare conti Paypal o simili detenuti all’estero da italiani e alimentati da proventi digitali. L’operazione nota come “attacco a Twitch” nel 2021 ha sfruttato dati trapelati sulla piattaforma Twitch (guadagni degli streamer) e accordi internazionali per portare la GdF a indagare su ricavi non dichiarati di content creator italiani. Analogamente, controlli 2024 hanno scoperto streamer con milioni di euro non dichiarati, combinando fonti open source (numero di follower vs redditi) e scambi info.
  • Controlli mirati della Guardia di Finanza: la GdF ha unità specializzate in evasione da economia digitale. Già dal 2018 una circolare interna (n.1/2018 GdF) funge da manuale operativo sul contrasto all’e-commerce. La GdF può effettuare verifiche fiscali approfondite: accesso presso la sede (se esistente) del contribuente, esame di computer e contabilità, ricostruzione del giro d’affari anche in via induttiva (cioè stimando ricavi in base a indizi come volume di traffico web, download, ecc.). Nel caso di piccoli operatori privi di contabilità ufficiale, la GdF procede con metodi extracontabili, ad esempio analizzando i log delle piattaforme, le comunicazioni email con i clienti, i profili social per quantificare vendite. Un accertamento tipico è quello “sintetico” o “induttivo”: se su un marketplace risultano X vendite con incassi totali Y, e il soggetto non li ha mai dichiarati, l’Ufficio considera Y come base imponibile evasa. Sta poi al contribuente fornire prova contraria (es. dimostrare che parte di quei pagamenti erano rimborsi, o ricavi tassati altrove, ecc.). Un altro elemento scatenante è la discrepanza patrimoniale: se un soggetto mostra di sostenere spese elevate (auto, immobili, ecc.) incompatibili col reddito dichiarato, il Fisco può avviare accertamenti e scoprire che i fondi provenivano da vendite digitali sommerse.

Quando il Fisco accerta che un soggetto italiano ha effettuato servizi digitali a clienti UE omettendo di dichiarare e versare la relativa IVA, normalmente avvia la procedura di accertamento tributario. Generalmente i passi sono:

  1. Invito al contraddittorio o questionario: se l’omissione non è macroscopica o c’è margine di dubbio, l’Ufficio può inviare un invito a comparire o un questionario al contribuente, elencando le operazioni sospette e chiedendo chiarimenti (contraddittorio endoprocedimentale). Ad esempio, può notificare una “Comunicazione di irregolarità” segnalando che dall’estero risultano tot vendite non presenti nelle dichiarazioni e offrendo 15 giorni per fornire documenti o giustificazioni. Questo contraddittorio preventivo, sebbene non sempre obbligatorio per legge, è raccomandato dalla prassi (specie in tema IVA) per evitare contenziosi e garantire il diritto di difesa. Va colta l’occasione per spiegare eventuali errori o fornire prove (ad es. che quei ricavi erano già stati tassati all’estero o che non si trattava di servizi imponibili). Se il contribuente presenta osservazioni scritte entro 60 giorni, l’Ufficio deve valutarle prima di emettere l’avviso definitivo (art. 12, c.7 L. 212/2000 sul PVC e art. 5-ter D.Lgs. 218/97 se invito a adesione).
  2. Emissione dell’Avviso di Accertamento: in mancanza di risposte convincenti (o se il contraddittorio non è previsto/attuato), l’Agenzia emette un avviso di accertamento formale. Si tratta di un atto impositivo motivato che contesta al contribuente:
  3. l’ammontare dei ricavi da servizi digitali non dichiarati (ricostruiti tramite i dati raccolti),
  4. la relativa IVA evasa su tali operazioni,
  5. le sanzioni amministrative applicate (espresse in percentuale dell’imposta non pagata) e
  6. gli interessi di mora dovuti dal momento in cui l’imposta era esigibile.
    Ad esempio, un avviso potrebbe indicare che “nell’anno d’imposta 2022 il Sig. X ha effettuato prestazioni di servizi elettronici verso committenti UE per €50.000, non risultanti nella dichiarazione IVA né assolte via OSS, con IVA evasa pari a €11.000”. Seguirà il calcolo delle sanzioni (ad es. 100% dell’imposta = €11.000) e interessi, e l’invito a pagare o ricorrere entro 60 giorni. L’avviso deve contenere la dettagliata motivazione: fonti dei dati (es. report piattaforma, elenco transazioni PayPal), norme violate (es. art. 7-ter e 7-octies DPR 633/72, art. 5 D.Lgs. 471/97 per l’omessa fatturazione/dichiarazione) e il calcolo. Se l’avviso risulta carente di motivazione o viziato (ad es. manca la firma del capo ufficio, o non è stato notificato correttamente), potrà essere impugnato anche solo per tali vizi formali.
  7. Ruolo e cartella esattoriale: decorsi 60 giorni senza che il contribuente né paghi né presenti ricorso, l’accertamento diventa definitivo. L’importo viene quindi iscritto a ruolo e l’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) notifica una cartella di pagamento per riscuotere coattivamente quanto dovuto. A questo punto, il debito fiscale è esigibile con strumenti esecutivi (pignoramenti, fermi amministrativi, ipoteche) se il contribuente continua a non pagare. È quindi fondamentale non ignorare mai un avviso di accertamento: la mancata reazione equivale ad accettare tutto e conduce rapidamente alla fase di riscossione forzata. Se invece si agisce nei termini (adesione o ricorso), la riscossione viene sospesa o limitata come vedremo.
  8. Contestazione penale (nei casi gravi): qualora l’ammontare dell’IVA evasa superi determinate soglie penalmente rilevanti, l’Agenzia può trasmettere rapporto alla Procura della Repubblica per i reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000. In tema di IVA, la fattispecie tipicamente configurabile è la dichiarazione omessa (art. 5 D.Lgs. 74/2000) se il contribuente non ha presentato la dichiarazione annuale IVA ed il tributo evaso supera €50.000. La pena prevista è la reclusione da 2 a 5 anni. Se invece la dichiarazione è stata presentata ma infedele (indicando un’IVA inferiore al dovuto) e l’imposta evasa supera €100.000, potrebbe profilarsi il reato di dichiarazione infedele (art. 4, soglie: imposta evasa > €100k e componenti attivi sottratti > 2 milioni). Inoltre, se l’importo non versato, pur dichiarato, fosse oltre €250.000, integrerebbe l’omesso versamento IVA (art. 10-ter). Comunque, la maggior parte delle contestazioni IVA su servizi digitali rientra nell’ambito amministrativo, e il penale interviene solo per i casi più eclatanti di evasione sistematica di rilevante entità. Per esempio, la vicenda di alcuni noti streamer italiani accusati di aver evaso milioni di euro ha comportato l’apertura di indagini penali a loro carico. Al contrario, un freelance che ha omesso €10.000 di IVA non rischierà di norma un procedimento penale, ma solo sanzioni pecuniarie. È però importante sapere che, in caso di processo penale, la definizione del debito tributario e la collaborazione attiva possono attenuare le conseguenze (cause di non punibilità per pagamento del debito, art. 13 D.Lgs. 74/2000, se fatto prima del dibattimento).

Riassumendo, l’Amministrazione finanziaria oggi ha le armi per scoprire anche i proventi digitali “invisibili”: le piattaforme e i pagamenti elettronici lasciano tracce che convergono verso il Fisco. Il contribuente italiano che presta servizi online a clienti UE e non li dichiara può quindi aspettarsi, presto o tardi, un avviso di accertamento. Nel prossimo capitolo analizzeremo le conseguenze economiche di tali contestazioni – in particolare l’entità delle sanzioni amministrative – e successivamente passeremo in rassegna i vari strumenti per difendersi o regolarizzare la posizione.

IVA evasa, sanzioni e interessi: quanto costa l’omessa dichiarazione dei servizi digitali

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta IVA non dichiarata su operazioni con l’estero, le sanzioni amministrative previste dalla legge sono molto elevate, essendo considerate violazioni sostanziali che incidono sul gettito. Occorre distinguere diverse fattispecie sanzionatorie, tenendo conto anche delle recenti modifiche normative entrate in vigore nel 2023-2024 (riforma del sistema sanzionatorio tributario attuata col D.Lgs. 14 giugno 2024 n. 87, in vigore dal 2024).

1. Omessa fatturazione e registrazione IVA: se i servizi digitali avrebbero dovuto essere assoggettati a IVA (in Italia o all’estero) ma il contribuente non ha emesso alcun documento fiscale al riguardo, si configura la violazione di omessa fatturazione di operazioni imponibili. L’art. 6, comma 1 del D.Lgs. 471/1997 sanziona la mancata fatturazione o registrazione di operazioni imponibili con una sanzione dal 90% al 180% dell’IVA corrispondente all’imponibile non documentato, con un minimo di €500. Ad esempio, se un’impresa italiana avrebbe dovuto fatturare €10.000 + IVA al 22% verso privati UE (perché sotto soglia, IVA italiana) ma non l’ha fatto, la sanzione base va da €1.980 (90% di 2.200) a €3.960 (180% di 2.200). Se la violazione riguarda operazioni che comunque non avrebbero scontato IVA in Italia (perché territorialmente fuori campo), si può sostenere che non vi fosse obbligo di fatturazione ai sensi dell’art. 21 DPR 633/72 e provare a evitare questa sanzione; tuttavia, l’Agenzia potrebbe contestare l’omessa autofatturazione o documentazione richiesta in caso di regime OSS. In pratica, se il contribuente ha totalmente occultato l’operazione, le Entrate tendono ad applicare la sanzione piena come se l’IVA fosse dovuta in Italia, salvo poi coordinarsi con lo Stato estero per il recupero dell’imposta effettiva. Va ricordato che per i soggetti che aderiscono all’OSS/MOSS vige l’esonero dalla fatturazione in senso stretto (ex art. 22 DPR 633/72), ma non significa che possano non registrare nulla: l’omessa dichiarazione OSS costituisce comunque violazione.

2. Omessa dichiarazione annuale IVA: se il contribuente, pur avendo effettuato operazioni rilevanti (anche fuori campo Italia), non presenta la dichiarazione IVA annuale, la sanzione per dichiarazione omessa (art. 5 D.Lgs. 471/97) è assai pesante. Prima della riforma 2024 era dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con minimo €250; dopo la riforma (per violazioni dal 2023) è stata fissata ad un valore fisso pari al 120% dell’imposta, minimo €250. Significa che se un soggetto non presenta la dichiarazione IVA e si accerta che doveva versare ad esempio €10.000 di IVA (magari perché sotto soglia e doveva pagarla in Italia), pagherà €10.000 di imposta + €12.000 di sanzione (120%) + interessi. Se invece non è dovuta IVA in Italia ma la dichiarazione è comunque omessa (ipotizziamo un contribuente che operava solo con IVA estera via OSS ma non ha presentato né OSS né dichiarazione IVA domestica), la sanzione minima fissa è €250 (omessa senza debito d’imposta). La legge consente una riduzione della sanzione se la dichiarazione viene presentata con ritardo non superiore a 90 giorni (dichiarazione tardiva), trattandola come infedele con sanzione ridotta ad 1/10, ma oltre 90 giorni è omessa a tutti gli effetti.

3. Dichiarazione infedele IVA: se la dichiarazione IVA è stata presentata ma non include parte delle operazioni (ad es. non si è indicato nulla delle vendite digitali estere), allora è infedele per omissione di imponibile. La sanzione ordinaria, prima, era 90%-180% dell’imposta non dichiarata; dal 2024, per dichiarazioni relative al 2023 e seguenti, la sanzione è fissa al 70% dell’imposta non dichiarata, con minimo €150. Nel nostro contesto, dichiarazione infedele potrebbe configurarsi se – ad esempio – un professionista ha compilato la dichiarazione IVA ma non ha incluso nei righi opportuni le prestazioni di servizi verso UE (che magari andavano inserite come operazioni non imponibili art. 7-ter, se lo riteneva fuori campo). Se dall’accertamento risulta che invece parte di quelle operazioni erano imponibili (perché sotto soglia e non trattate come tali) o comunque dovevano essere indicate, l’Ufficio può contestare l’infedeltà. La misura ridotta al 70% è un’innovazione favorevole al contribuente, ma attenzione: si applica solo per violazioni commesse dal 1° settembre 2024 (ossia per le dichiarazioni dal 2024 in poi) . Per le annualità precedenti restano i vecchi range sanzionatori. In ogni caso, per l’Agenzia delle Entrate l’omessa indicazione di operazioni estere obbligatorie (es. superata soglia, dovevi dichiarare l’adesione OSS o quantomeno segnare qualcosa) può configurare infedele dichiarazione IVA con sanzione proporzionale.

4. Omessa adesione/violazioni OSS (MOSS): un caso particolare riguarda chi era iscritto al MOSS/OSS e non ha presentato le dichiarazioni trimestrali OSS o non ha versato l’IVA dovuta tramite OSS. In tal frangente, pur trattandosi di obbligo “speciale”, le sanzioni sono quelle generali dell’ordinamento IVA, in quanto compatibili. L’Agenzia Entrate ha chiarito (Circolare 22/E/2016) che l’omessa presentazione della dichiarazione MOSS o il mancato versamento trimestrale si sanzionano secondo le norme ordinarie, con possibilità di ravvedimento operoso. Pertanto, un soggetto che ha aderito al MOSS ma ha saltato un trimestre, incorrerà nella sanzione del 60%-120% dell’imposta non versata (art. 13 D.Lgs. 471/97, omissione di versamento assimilata a infedele) con minimo €500, oltre agli interessi e alla preclusione di utilizzo del MOSS se l’omissione persiste. Va notato che, per le operazioni pregresse non dichiarate al MOSS/OSSnon è possibile sanarle a posteriori tramite OSS: la risposta interpello Agenzia Entrate n. 253/2023 ha negato a una società la possibilità di dichiarare nel 2022 via OSS le operazioni 2016-2021 non tassate, confermando che l’adesione all’OSS produce effetti solo per il futuro. Quindi, chi non ha usato il MOSS/OSS a suo tempo deve regolarizzare le annualità passate fuori dal sistema OSS (ossia con identificazione diretta nei paesi di consumo, oppure – se soggetto estero – registrandosi IVA in Italia per versare quanto dovuto all’Italia come Stato di consumo). In queste situazioni, oltre all’IVA tardivamente versata, si applicano interessi moratori e le sanzioni per omessa dichiarazione/versamento, eventualmente ridotte se c’è adesione del contribuente (vedi ravvedimento più avanti). A titolo di esempio, immaginando un freelance italiano che dal 2018 al 2020 ha venduto servizi digitali a privati in vari Paesi UE per €30.000 complessivi senza mai registrarsi al MOSS né pagare IVA: se emerge oggi, l’Italia recupererà l’IVA “esterna” (diciamo 20% medio) pari a circa €6.000; potrà applicare sanzione 120% = €7.200 (essendo dichiarazioni omesse) su ciascun anno coinvolto, oltre interessi legali (che dal 2018 al 2023 sono variati dall’0.3% al 5% annuo circa). Il conto finale supererebbe il 200% del tributo originario.

5. Interessi e aggi della riscossione: agli importi di imposta e sanzioni si aggiungono gli interessi calcolati al tasso legale (o maggiore se previsto) per il periodo intercorrente fra la scadenza del tributo e il pagamento effettivo. Il tasso di interesse legale in Italia è stato, ad esempio, aumentato al 5% annuo nel 2023 e al 5,25% nel 2024. Inoltre, in caso di iscrizione a ruolo, sull’importo iscritto si applicano l’aggio di riscossione e le spese di notifica, che gravano ulteriormente sul contribuente (l’aggio oggi è a carico dell’Erario se si paga entro 60 gg, ma oltre ricade in parte sul debitore). Insomma, se non si interviene per tempo, il debito lievita velocemente.

6. Conseguenze accessorie: oltre alle sanzioni pecuniarie, l’Amministrazione può adottare misure amministrative come la chiusura d’ufficio della partita IVA in caso di utilizzo irregolare (se l’attività è fittizia o non vengono presentate dichiarazioni per più anni). Inoltre, se il soggetto è un professionista iscritto ad albi, una condanna penale per reati tributari può comportare implicazioni disciplinari. Sul piano civilistico, un accertamento definitivo crea un titolo di credito per l’Erario: se non pagato, si possono subire pignoramenti su conti correnti, stipendio o beni di proprietà. È evidente dunque che l’impatto di una contestazione IVA non è solo il recupero dell’imposta ma un ampio ventaglio di costi e rischi collaterali per il contribuente.

Fortunatamente, l’ordinamento offre strumenti per attenuare queste conseguenze o rimediare agli errori prima che degenerino. Nel prossimo capitolo, esploriamo le strategie difensive e i rimedi che un contribuente può attuare sia prima che l’atto diventi definitivo (autotutela, adesione, ricorso, ecc.), sia dopo (rateizzazioni, conciliazioni, ecc.), nell’ottica di minimizzare l’esborso e proteggere la propria posizione.

Come difendersi: strumenti di autotutela, accordo e contenzioso tributario

Di fronte a un avviso di accertamento per IVA non dichiarata su servizi digitali, il contribuente ha diverse opzioni di difesa. L’approccio migliore dipenderà dalle circostanze (entità delle somme, fondatezza o errori dell’atto, condizioni soggettive), ma in generale è consigliabile agire tempestivamente. Illustreremo qui i principali strumenti defensionali – dall’autotutela amministrativa ai vari gradi di ricorso – evidenziando per ciascuno funzionamento, vantaggi e limiti. È fondamentale adottare una strategia coordinata: spesso la via giudiziaria è lunga e costosa, dunque se esistono vizi palesi o possibilità di accordo, conviene sfruttarli prima.

Autotutela tributaria (annullamento in via amministrativa)

L’autotutela è il potere/dovere dell’amministrazione finanziaria di annullare o rettificare i propri atti quando risultino errati o illegittimi, anche senza bisogno di intervento del giudice. Il contribuente può attivarla presentando un’istanza motivata all’ufficio emittente l’atto, chiedendone la correzione o l’annullamento totale/parziale. Nel contesto di contestazioni IVA, l’autotutela è particolarmente utile se l’accertamento contiene errori evidenti (es. scambio di persona, errori di calcolo nell’IVA dovuta, doppia imposizione già pagata altrove, mancanza di contraddittorio obbligatorio, ecc.).

A fine 2023 il legislatore ha riformato l’istituto introducendo, dal 18 gennaio 2024, due nuovi articoli nello Statuto del Contribuente (L. 212/2000): l’art. 10-quater sull’autotutela obbligatoria e l’art. 10-quinquies sull’autotutela facoltativa. Contestualmente, l’Agenzia ha diramato la Circolare 21/E del 7 novembre 2024 con le linee guida applicative. In sintesi:
– Autotutela obbligatoria: l’ufficio deve annullare d’ufficio l’atto impositivo (anche se definitivo o in contenzioso) nei casi tassativi di “manifesta illegittimità” elencati dalla legge. Questi includono: errore di persona, errore sul presupposto d’imposta, errore di calcolo, doppio pagamento ignorato, evidente errore materiale del contribuente, ecc.. Ad esempio, se l’accertamento IVA è stato notificato al contribuente sbagliato (omonimia), o se richiede IVA su operazioni che per legge sono esenti, l’ufficio ha l’obbligo di annullarlo in autotutela. Importante: l’obbligo non sussiste se l’atto è divenuto definitivo da oltre un anno o se c’è una sentenza passata in giudicato a favore del Fisco.
– Autotutela facoltativa: in tutti gli altri casi di illegittimità o infondatezza non rientranti nell’elenco sopra, l’ufficio può discrezionalmente annullare o rettificare l’atto, sempre d’ufficio, se riconosce che è sbagliato. Questa è sostanzialmente la prosecuzione del vecchio regime di autotutela, ma ora codificato. In pratica, se l’ufficio ritiene valide le nostre contestazioni (ad esempio perché emergono nuovi documenti che mostrano che quell’IVA era stata assolta via OSS o che l’importo era minore), può intervenire e correggere l’atto, evitando di andare in giudizio. Non c’è un obbligo giuridico qui, ma la prassi e il buon senso fiscale incoraggiano a farlo per atti palesemente errati.

Per attivare l’autotutela, il contribuente deve presentare un’istanza indirizzata all’ufficio che ha emesso l’atto (ad es. Direzione Provinciale di…), preferibilmente via PEC o tramite il servizio online dedicato (il portale telematico dell’Agenzia consente l’invio di istanze autotutela con SPID). Nell’istanza vanno indicati i dati del contribuente, gli estremi dell’atto impugnato (numero, data, anno d’imposta) e soprattutto le motivazioni dettagliate per cui si chiede l’annullamento. È essenziale allegare la documentazione probatoria: ad esempio, se sosteniamo che quell’IVA è stata già pagata in altro Stato, allegheremo copia della ricevuta di versamento estera; se c’è un errore di calcolo, forniremo il ricalcolo corretto; se l’atto è notificato oltre i termini decadenziali, indicheremo la scadenza legale e la data di notifica effettiva. L’ufficio esaminerà l’istanza e deciderà se accoglierla in tutto, in parte o rigettarla. In caso di esito positivo, emetterà un provvedimento di annullamento/sgravio.

Autotutela e termini di ricorso: presentare un’istanza di autotutela non sospende i termini per fare ricorso né quelli di pagamento. Ciò significa che se si sta per scadere il 60° giorno dall’avviso, non possiamo fare affidamento sul fatto che l’ufficio decida in tempo; conviene comunque predisporre il ricorso (magari chiedendo poi la cessazione materia del contendere se l’autotutela va a buon fine). Tuttavia, spesso gli uffici valutano le istanze in tempi rapidi, soprattutto se i vizi sono evidenti. Ad esempio, per un errore di persona o doppia imposizione documentata, l’Agenzia può annullare in pochi giorni l’atto (anche perché con l’autotutela obbligatoria ha l’obbligo di farlo immediatamente appena rilevato l’errore).

Nel contesto dei servizi digitali UE, quali situazioni potrebbero giustificare l’autotutela? Eccone alcune:
– IVA già assolta altrove: Il caso classico: il contribuente era inconsapevole del MOSS ma ha poi, magari su richiesta estera, pagato l’IVA direttamente in quel Paese. Se l’Italia emette comunque un avviso per recuperare l’IVA, ci troviamo di fronte a una doppia imposizione in contrasto con la normativa UE. In autotutela, fornendo prova del versamento estero, si può chiedere l’annullamento dell’avviso italiano (o almeno lo stralcio della parte d’imposta duplicata). L’ufficio dovrebbe riconoscere il pagamento effettuato all’estero e, per la parte di competenza di quel Paese, rinunciare alla pretesa (potrebbe semmai limitarsi a sanzionare l’omessa dichiarazione domestica, ma senza pretendere di incassare l’IVA già versata altrove).
– Soglia non superata per errore di calcolo: se l’accertamento presume che la soglia 10.000 € fosse superata (e quindi contesta IVA estera non dichiarata), ma il contribuente dimostra con i propri registri che il volume era sotto soglia (es. perché alcune transazioni considerate non rientravano nei servizi elettronici), allora l’intero presupposto cade: quell’IVA non era dovuta all’estero ma era dovuta in Italia, e magari è stata assolta. In autotutela si chiederà l’annullamento sottolineando l’errore sul presupposto d’imposta (art. 10-quater).
– Errore nella persona obbligata: potrebbe accadere con le piattaforme: l’Ufficio contesta al creator l’IVA sui fan, ignorando la regola per cui era la piattaforma il debitore d’imposta. Questo è un tipico errore nell’individuazione del tributo/soggetto passivo. Citando la normativa e la sentenza UE (Fenix), il contribuente può chiedere in autotutela l’annullamento dell’IVA pretesa su tali operazioni, perché la legge non gli attribuisce quell’obbligo .
– Mancato contraddittorio obbligatorio: se l’accertamento è stato emesso senza invitare il contribuente al contraddittorio in un caso in cui la legge o la giurisprudenza lo prevedeva come obbligatorio (ad es. accertamenti basati su indagini finanziarie o su dati da altri Stati, per importi elevati), si potrebbe eccepire la nullità dell’atto. Alcune pronunce (Cass. SU n.24823/2015) hanno sancito che in materia di tributi “armonizzati” come l’IVA il contraddittorio è principio generale, anche se l’assenza comporta nullità solo con prova di concreta lesività. Non rientra nelle cause automatiche di autotutela obbligatoria, ma si può argomentare in autotutela facoltativa che la mancanza di contraddittorio ha precluso al contribuente di chiarire e ciò rende l’atto infondato (magari allegando quelle spiegazioni mai richieste).

In caso di rigetto dell’autotutela o di silenzio, il contribuente non ha rimedi giuridici diretti contro tale diniego (l’autotutela rimane atto discrezionale, salvo i casi obbligatori). Ci si dovrà difendere con gli strumenti seguenti, ma avendo raccolto elementi utili durante l’autotutela.

Di norma conviene tentare l’autotutela quando vi siano motivi solidi e documentati: è uno strumento poco costoso e rapido; se funziona, si evita il contenzioso. In parallelo, però, bisogna tenere d’occhio le scadenze per gli altri rimedi (adesione o ricorso) per non pregiudicarli.

Definizione bonaria: accertamento con adesione e acquiescenza

Spesso il contribuente, pur non condividendo integralmente l’accertamento, preferisce evitare una lunga battaglia legale trovando un compromesso con l’Amministrazione. Il nostro ordinamento prevede la possibilità di “chiudere” il procedimento in via amministrativa con vantaggi sanzionatori, tramite: l’accertamento con adesione oppure l’acquiescenza agevolata.

Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997): è una procedura di natura negoziale in cui l’Ufficio e il contribuente si siedono a tavolino per rideterminare consensualmente il contenuto dell’accertamento. Può avvenire su iniziativa dell’ufficio (invito a adesione) o su proposta del contribuente (istanza di adesione presentata entro 60 giorni dal ricevimento dell’avviso). L’effetto immediato della presentazione dell’istanza da parte del contribuente è la sospensione dei termini di impugnazione per 90 giorni, dando tempo alle parti di dialogare. Nella fase di adesione, il contribuente può esporre le proprie ragioni, evidenziare eventuali errori di quantificazione e soprattutto trattare sulla quantificazione del tributo e delle sanzioni. Non è infrequente infatti che l’Agenzia, pur convinta della fondatezza della pretesa, accetti di ridurre l’imponibile accertato o riconoscere deduzioni in cambio di una definizione immediata (specie se vi sono incertezze probatorie). Se si raggiunge un accordo, viene redatto un atto di adesione con le nuove somme dovute. Il vantaggio per il contribuente è che le sanzioni vengono automaticamente ridotte a 1/3 di quelle originarie. Ad esempio, se inizialmente c’era una sanzione del 90%, aderendo scende al 30%. Inoltre, spesso l’ufficio, nel ricalcolo, applica l’IVA minima effettiva (se c’era contestazione su importi forfettari) e può concedere la dilazione di pagamento in rate trimestrali fino a 8 rate (12 rate se importo > €50.000). Nell’ambito di IVA servizi digitali, l’adesione è utile se il contribuente riconosce almeno in parte il debito ma vuole mitigare le penalità: ad esempio, ammette di aver sbagliato a non dichiarare quell’IVA, ma porta elementi per un calcolo più basso (magari alcuni ricavi erano non imponibili) e ottiene sanzioni ridotte. Una volta firmato l’atto di adesione e pagata la prima rata, l’accertamento si definisce e non è più impugnabile, salvo revoca per mancato pagamento.

Acquiescenza agevolata: se invece il contribuente ritiene di non voler contestare l’accertamento nei suoi aspetti sostanziali, può scegliere di non presentare ricorso e pagare nei 60 giorni, beneficiando di una riduzione delle sanzioni a 1/3 (un terzo) del minimo previsto. Questo è previsto dall’art. 15 del D.Lgs. 218/97 (cosiddetta “acquiescenza”). In pratica: l’avviso di accertamento notifica ad esempio una sanzione del 120%; se il contribuente paga l’imposta, gli interessi e 1/3 della sanzione entro il termine per impugnare (o chiede rateazione in tal senso), le restanti 2/3 di sanzione sono condonate. Questa via ha senso quando l’atto è corretto e magari l’errore è riconosciuto, oppure l’importo è modesto e non conviene litigare. Nell’ambito che trattiamo, l’acquiescenza potrebbe essere scelta ad esempio da un piccolo operatore che ha dimenticato di addebitare €1.000 di IVA: pagando subito limiterebbe la sanzione a circa €300 (invece di 90% = €900). Attenzione: l’acquiescenza esclude ogni successiva impugnazione e perfeziona l’accertamento. Inoltre non è applicabile se si è già presentata istanza di adesione o ricorso.

Confronto adesione vs acquiescenza: Entrambe riducono le sanzioni a 1/3, ma con l’adesione c’è margine di trattativa sul merito (utile se l’avviso è troppo “alto” rispetto al dovuto). L’acquiescenza è unilaterale e rapida, ma implica accettare integralmente i rilievi (salvo la riduzione sanzioni). Nella pratica, se il contribuente ravvisa anche minimi errori nell’atto, conviene tentare l’adesione, perché se anche non si conclude, resta il tempo per ricorrere. Se invece l’atto è del tutto condivisibile, l’acquiescenza fa risparmiare tempo e alcuni oneri (es. niente spese di mediazione/giudizio).

Il processo tributario: ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria

Se l’accertamento è ritenuto infondato in fatto o in diritto, o se non si è raggiunto un accordo in fase amministrativa, il contribuente può ricorrere al giudice tributario per far valere le proprie ragioni. Dal 2023, con la riforma del contenzioso (D.Lgs. 119/2022 e succ.), le Commissioni Tributarie sono state rinominate in Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado, ma la sostanza del processo resta simile. Ecco i punti chiave:

  • Termini e competenza: il ricorso va notificato entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento (o dall’atto finale, se c’è stato rigetto parziale di adesione). Competente è la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio che ha emesso l’atto (generalmente quella provinciale). Il ricorso può essere notificato via PEC se l’Agenzia ha un domicilio digitale, altrimenti a mezzo raccomandata o tramite ufficiale giudiziario.
  • Contenuto del ricorso: deve contenere i motivi di impugnazione, cioè le censure puntuali all’atto, sia formali sia sostanziali, e le richieste (conclusioni). Nel nostro caso, possibili motivi: violazione di legge (es. errata applicazione art. 7-octies, soglia non superata), vizi di motivazione (atto non spiega il criterio di calcolo), illegittimità per difetto di notifica o di contraddittorio, ecc. Vanno indicati i mezzi di prova di cui ci si intende avvalere (documenti, eventuali testimoni se ammessi – la legge 130/2022 ha iniziato a consentire testimonianze scritte in alcuni casi limitati). Il ricorso è un atto tecnico-giuridico: è vivamente consigliato farsi assistere da un avvocato tributarista o esperto di contenzioso fiscale, data la complessità della materia.
  • Contributo unificato: va pagato un contributo unificato per l’iscrizione a ruolo del ricorso, calcolato sul valore della lite (p.es. su €10.000 di valore, CU intorno a €120).
  • Fase di trattazione: dopo la costituzione in giudizio delle parti (il contribuente deposita il ricorso in segreteria entro 30 gg dalla notifica; l’Agenzia si costituisce con controdeduzioni entro 60 gg), la Corte fissa l’udienza. Per le controversie di valore non elevato (fino a €3.000) oggi il giudizio è monocratico (giudice unico), oltre è collegiale (3 giudici). In udienza, le parti possono discutere oralmente o depositare note.
  • Sospensione della riscossione: la notifica del ricorso non sospende automaticamente la riscossione dell’atto impugnato. Tuttavia, l’accertamento esecutivo è di regola sospeso ex lege per 1/3 delle imposte fino alla sentenza di primo grado (il contribuente deve comunque versare il restante 2/3 entro 60 gg, a meno che non ottenga sospensione totale). Il contribuente può presentare un’istanza di sospensione cautelare al presidente della Corte, motivando il “danno grave e irreparabile” che subirebbe pagando prima dell’esito (es. difficoltà finanziaria): se accolta, la riscossione è congelata fino alla sentenza. Nel caso di importi elevati di IVA, spesso si chiede e ottiene la sospensione, specie se la fondatezza del ricorso è plausibile.
  • Sentenza di primo grado: La Corte emette la sentenza che potrà accogliere (annullare l’atto in toto o in parte) oppure respingere (confermare l’atto) oppure dichiarare improcedibile/inammissibile il ricorso se vizi di forma. Se il contribuente risulta vittorioso integralmente, l’atto è annullato e, se aveva pagato 1/3 in pendenza, l’amministrazione dovrà rimborsarlo. Se il ricorso è rigettato o accolto parzialmente, si valuterà l’appello. Entrambe le parti infatti possono appellare la sentenza sfavorevole, entro 60 giorni dalla sua notifica (o 6 mesi se non notificata).
  • Secondo grado e Cassazione: il giudizio di appello si svolge davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (regionale). L’appello non sospende l’esecutività della sentenza di primo grado salvo istanza specifica. In appello non si possono introdurre nuove domande, ma si può contestare la valutazione dei fatti e del diritto fatta dal primo giudice. La sentenza di appello definisce nel merito la controversia. Contro la decisione di secondo grado, l’ultima istanza è il ricorso in Cassazione (Sez. Tributaria), ammesso però solo per motivi di legittimità (errori di diritto o vizi gravi di motivazione) e non sul merito. La Cassazione può confermare la sentenza di appello o annullarla con o senza rinvio. I tempi in Cassazione sono lunghi (3-5 anni) e nel frattempo l’esecutività di quanto dovuto non è sospesa di diritto – dunque se dopo l’appello il contribuente risulta soccombente, deve in genere pagare per intero (salvo eventuale sospensione in Cassazione, rara). Se poi la Cassazione gli darà ragione, recupererà quanto pagato.
  • Costi e spese: Se il contribuente vince, può chiedere la rifusione delle spese legali; se perde, di solito ogni parte paga le proprie (nel tributario vige spesso la compensazione, salvo casi di soccombenza grave). Bisogna considerare i costi del legale e del consulente tecnico eventualmente. Data la complessità, conviene intraprendere il contenzioso per somme significative o principi importanti. Nel caso di piccoli importi, i costi possono superare il beneficio, quindi meglio soluzioni deflative.

Strategie difensive nel merito: Quali argomentazioni può spendere un contribuente in giudizio per contestare l’IVA su servizi digitali? Dipende dal caso concreto, ma alcuni punti chiave potrebbero essere:
– Dimostrare che la soglia di 10.000 € non era superata, quindi l’IVA non era dovuta all’estero ma in Italia (e se in Italia era già stata versata, non c’è evasione di fatto).
– Sostenere che il servizio fornito non rientrava tra quelli elettronici “TTE”, bensì era un servizio di altra natura (ad esempio, consulenza personalizzata online, che segue la regola B2C generale del Paese del prestatore). Se riesce a qualificare il servizio come escluso dalle prestazioni elettroniche standard (magari perché con forte intervento umano), il contribuente può affermare che l’IVA fosse dovuta in Italia e non evasa (o al limite doveva emettere fattura non imponibile per carenza territorialità se cliente extra-UE).
– Invocare la presunzione del soggetto passivo intermediario (art. 9-bis Reg. 282/2011) se si opera tramite piattaforma: come detto, se applicabile, l’IVA verso il consumatore è già assolta dall’intermediario e contestare al fornitore di non averla dichiarata è un errore. La giurisprudenza UE con Fenix rafforza questo argomento .
– Evidenziare eventuali vizi procedurali: mancanza di motivazione dettagliata (art. 7 L. 212/2000 impone chiarezza dell’atto), difetto di firma o di autorizzazione interna, notifica invalida, mancata indicazione del funzionario responsabile, violazione del diritto di difesa se non è stato concesso contraddittorio in casi previsti, ecc. Questi possono portare all’annullamento dell’atto indipendentemente dal merito (anche se col nuovo art. 10-bis Statuto del Contribuente si tende a sanare errori formali non lesivi).
– Contestazione della quantificazione: ad esempio l’Ufficio può aver sovrastimato i ricavi; il contribuente può produrre i report effettivi delle piattaforme o gli estratti conto per dimostrare un imponibile inferiore. Oppure può rivendicare costi deducibili o situazioni che riducono la base imponibile (es. note di credito per rimborsi a clienti, vendite annullate, etc.). Anche se questo incide più su imposte dirette che sull’IVA, potrebbe ridimensionare l’idea di un’attività imprenditoriale (ad es. mostrando che il margine era esiguo).
– Far valere la buona fede e le circostanze attenuanti per chiedere semmai al giudice la disapplicazione di sanzioni per obiettiva incertezza normativa (art. 6 comma 2 D.Lgs. 472/97) – non semplice, ma se la normativa era di difficile interpretazione (ad es. nei primi anni di MOSS qualcuno potrebbe non aver compreso gli obblighi) si può tentare. La Cassazione (SS.UU. n.18184/2021) ha chiarito che le sanzioni tributarie non sono di natura penale ma amministrativa, seppur con funzione deterrente . Il giudice può ridurle al minimo se il contribuente ha cooperato e se la violazione è inquadrabile come errore scusabile.

Durante il giudizio, è possibile che l’Agenzia – valutando rischi di soccombenza – proponga una conciliazione giudiziale. Questo istituto (art. 48 D.Lgs. 546/92) consente alle parti, davanti al giudice, di accordarsi su una soluzione transattiva: il contribuente paga una parte del dovuto e l’ufficio rinuncia al resto. La conciliazione può essere fuori udienza (proposta depositata e omologata dal giudice) o in udienza. I vantaggi: le sanzioni sono ulteriormente ridotte al 40% del minimo se la conciliazione avviene in primo grado (e al 50% in appello). Ad esempio, se residono sanzioni del 90%, diventano il 40% del minimo (cioè 36%). Ciò si somma a eventuali riduzioni sull’imposta concordate. La conciliazione viene formalizzata con verbale o decreto e chiude definitivamente la controversia (senza ulteriori ricorsi). È uno strumento utile se in corso di causa emergono nuovi elementi o se entrambe le parti vogliono evitare l’incertezza della sentenza. Spesso, dopo la fase istruttoria, il contribuente può ottenere una conciliazione più vantaggiosa di quanto era l’adesione iniziale, magari perché l’ufficio preferisce incassare subito che rischiare una sconfitta.

Riassumendo le opzioni difensive e i relativi effetti, ecco una tabella riepilogativa:

Strumento difensivoQuando si utilizzaEffetti su sanzioniNote
Autotutela (istanza annullamento amministrativo)Prima della scadenza dei 60 gg (o anche dopo, se atto definitivo). Utile per vizi macroscopici o prove nuove schiaccianti.Può annullare totalmente l’atto (quindi eliminare anche sanzioni e interessi) o rettificarlo.Non sospende termini ricorso. Autotutela obbligatoria per errori manifesti; facoltativa negli altri casi. Nessun costo. Decisione discrezionale dell’ufficio (no garanzia di esito).
Accertamento con adesioneEntro 60 gg si chiede incontro (istanza) o si aderisce a invito dall’ufficio. Quando si vuole riconoscere parte del dovuto ma ridiscutere importi.Sanzioni ridotte a 1/3 del minimo. (Es: da 90% a 30%).Sospende termini ricorso per 90 gg. Richiede accordo con ufficio su nuova quantificazione. Pagamento dovuto entro 20 gg dall’accordo (rateizzabile). Se fallisce, si può ancora ricorrere.
Acquiescenza (1/3)Entro 60 gg, se si accetta integralmente l’accertamento e si paga. Conveniente per importi piccoli o contestazione indifendibile.Sanzioni ridotte a 1/3 del minimo (stessa riduzione adesione).Si perfeziona col pagamento (anche rate, max 8 rate). Esclude qualsiasi ricorso successivo. Non modifica l’imponibile: si paga tutto il tributo + 1/3 sanzioni + interessi.
Ricorso tributario (contenzioso)Entro 60 gg, se si contestano merito o legittimità dell’atto e non si è definito prima. Per importi rilevanti o principi importanti.Il giudice può annullare l’atto (sanzioni eliminate) o ridurle. In caso di conciliazione giudiziale: sanzioni al 40% del minimo in 1° grado.Procedura formale, costosa e lunga. Possibilità di sospendere la riscossione con istanza. Esito incerto: rischio soccombenza con sanzioni piene (salvo appello). Conciliazione possibile in corso di causa per chiudere con sconto sanzioni.
Ravvedimento operoso (prima dell’accertamento)Non è più difesa, ma prevenzione: prima che arrivi l’atto o comunque prima della notifica, il contribuente può autodenunciarsi correggendo le omissioni.Sanzioni ridotte in misura variabile: da 1/9 a 1/6 del minimo a seconda del ritardo. Se ravvedimento dopo più di 2 anni, oggi 1/7 dal 2024.Ammesso solo prima della notifica accertamento. Consiste nel presentare dichiarazioni integrative OSS/IVA e pagare spontaneamente imposta + sanzione ridotta + interessi. Evita future sanzioni piene e possibili profili penali (pagando si rientra in soglie art.13 DLgs 74/2000).

Una menzione a parte merita il ravvedimento operoso: qualora il contribuente si renda conto dell’errore prima che il Fisco lo contesti, farebbe bene a ravvedersi. Ad esempio, se entro il 2025 nota di non aver dichiarato IVA OSS per il 2023, può ancora presentare la dichiarazione tardiva e versare l’IVA con sanzione ridotta (1/8 o 1/7 del 90%). Nell’ambito MOSS/OSS, come già citato, l’Agenzia ammette il ravvedimento: il soggetto versa l’IVA dovuta al proprio Stato di identificazione e paga sanzioni ridotte allo Stato di consumo. Per un italiano, significa semplicemente usare il ravvedimento come al solito (F24) perché l’Italia coincide spesso con Stato di identificazione e di consumo per piccole vendite. Il ravvedimento è precluso solo se è già stato notificato un atto di liquidazione o accertamento (o eventuale accesso/verifica per quell’anno). Dunque è una soluzione preventiva più che difensiva, ma vale la pena ricordarla: chi sospetta di avere pendenze IVA su servizi digitali non dichiarati, non aspetti l’accertamento, perché allora pagherà molto di più.

In ultimo, val la pena ricordare che il sistema fiscale italiano è in evoluzione: dal 2023 sono state introdotte norme per transazioni fiscali nel quadro della composizione negoziata della crisi d’impresa, nuove cause di non punibilità penale a seguito di pagamenti integrali, e a volte condoni e definizioni agevolate (come la definizione delle liti pendenti prevista dalla L. 197/2022). Se il contribuente si trova già in contenzioso, tenga d’occhio eventuali norme di pace fiscale che periodicamente possono offrire chiusure semplificate (pagando magari solo il tributo, senza sanzioni). Al momento (2025) non sono attive misure del genere specifiche per le liti IVA su servizi digitali, ma il panorama potrebbe cambiare con le riforme fiscali in corso.

Domande frequenti (FAQ) e risposte pratiche

D: Sono un freelance italiano e ho venduto servizi digitali (consulenze via piattaforma online) a privati in vari paesi UE per circa €8.000 nell’anno. Non ho addebitato IVA perché pensavo fosse estera. Devo preoccuparmi?
R: Se il totale annuale di €8.000 è sotto la soglia 10.000 €, la normativa UE (art. 7-octies DPR 633/72) stabilisce che l’IVA sarebbe dovuta nel tuo Paese di origine, cioè in Italia. Quindi avresti dovuto applicare l’IVA italiana sulle tue prestazioni anche se i clienti erano UE. Non farlo significa che hai omesso di versare IVA in Italia per quelle operazioni. Devi sicuramente “preoccuparti” nel senso di regolarizzare: puoi ancora farlo spontaneamente se non sei stato accertato, tramite ravvedimento operoso. Dovrai emettere fatture con IVA 22% (anche tardivamente) o documentare i corrispettivi e versare l’imposta con sanzioni ridotte. In pratica, dei €8.000 incassati, circa €1.440 andrebbero al Fisco come IVA, più una sanzione minima (se ravvedi subito può essere attorno al 1/8 del 90%, quindi ~11% dell’IVA = €158, davvero contenuta rispetto al 90% = €1.296 che rischieresti con accertamento pieno). Se invece attendi e vieni controllato, l’Agenzia vedrà gli incassi esteri e potrebbe imputarti quell’IVA evasa con sanzione 90-120%. Meglio muoversi ora: consulta un commercialista per predisporre le fatture tardive “IVA 22%” ai clienti (potresti dover rettificare i contratti se dicevi “IVA inclusa”), presenta una dichiarazione annuale integrativa per includere quell’imponibile e paga l’IVA con F24 usando i codici tributo del ravvedimento. Dopo, dormi tranquillo: se anche ti controllassero, troverebbero tutto sistemato (e la sanzione l’avrai già assolta ridotta).

D: Ho superato la soglia OSS (incassi oltre 10.000 €) nel 2022 ma non lo sapevo e non mi sono né identificato nei Paesi UE né iscritto all’OSS. Finora non ho ricevuto contestazioni. Come posso rimediare e cosa rischio?
R: Se hai superato la soglia nel 2022, avresti dovuto applicare l’IVA dei Paesi di consumo da quel momento. Non avendolo fatto, attualmente non hai versato quell’IVA né in Italia né altrove. La cosa corretta da fare sarebbe: per le vendite oltre soglia 2022 e poi 2023, dovresti versare l’IVA a ciascun Stato membro coinvolto. Ormai, non essendo registrato OSS, non puoi versarla tramite OSS retroattivamente (Agenzia Entrate ha escluso la possibilità di utilizzare l’OSS per sanare annualità pregresse). Hai due strade: 1) Provare a chiedere una registrazione tardiva OSS nello Stato dove ora eventualmente aderisci (che nel tuo caso è l’Italia). La normativa OSS consente effetti retroattivi solo dal trimestre successivo all’iscrizione, però in alcuni Paesi c’è flessibilità. La AE, nella risposta 253/2023, ha suggerito che uno stato di identificazione estero potrebbe autorizzare un late-registration per coprire il passato. Se ciò avvenisse, potresti dichiarare e versare tramite OSS l’IVA 2022-23 non pagata, poi versare le sanzioni ridotte in Italia e risolvere. Tuttavia, l’Italia come Stato membro di identificazione in genere non permette retroattività oltre il trimestre in corso. 2) La via più concreta: identificarti ai fini IVA direttamente in ogni Paese dove hai clienti principali, per regolarizzare il 2022-23 lì. Ad esempio, se la maggior parte delle vendite erano a clienti in Francia e Germania, dovresti nominare un rappresentante fiscale o ottenere un numero IVA in quei Paesi e presentare dichiarazioni IVA locali tardive per versare quanto dovuto. Parallelamente, dovresti informare l’Agenzia italiana di averlo fatto, per evitare che ti contestino qui. Tieni presente che incorrerai nelle sanzioni di ciascun Paese per tardivo pagamento; alcune giurisdizioni potrebbero comunque applicare sanzioni e interessi. L’Italia dal canto suo potrebbe eventualmente sanzionarti per omessa dichiarazione delle operazioni esterometro o simili, ma se dimostri di aver pagato correttamente all’estero, eviterai il grosso. Cosa rischi se non fai nulla? Grazie a DAC7 e CESOP, come detto, i tuoi flussi 2022-23 potrebbero emergere. Potresti ricevere una richiesta di informazioni da un altro Stato o un accertamento dall’Italia su segnalazione estera. A quel punto pagheresti IVA, sanzioni e interessi interi, magari in contesti meno favorevoli (pensa se ti arriva una cartella estera via Agenzia Entrate-Riscossione: avresti pochi giorni per reagire e dovresti fare ricorso in quel Paese). Quindi conviene un ravvedimento. Suggerimento: contatta un fiscalista internazionale; potresti valutare se iscriverti ora almeno all’OSS italiano per il futuro, e contestualmente chiedere all’AE la prassi migliore per sanare il passato. In base alla circ. 22/E 2016, se tu fossi un soggetto non residente che deve l’IVA in Italia, potresti ravvederti qui pagando imposta + interesse e sanzione ridotta. Essendo invece residente italiano con debiti all’estero, la AE consiglia di registrarsi tardivamente al MOSS se possibile altrove, altrimenti di aprire posizioni IVA nei singoli Stati.

In sintesi: rischi sanzioni e interessi in ogni Stato coinvolto; anticipando tu la regolarizzazione, potresti negoziare sanzioni minori (alcuni Stati hanno programmi di ravvedimento simili). Ignorare può portare a somme ben superiori.

D: L’Agenzia delle Entrate mi ha appena notificato un avviso di accertamento per “IVA non versata su servizi elettronici resi a privati UE” riferito al 2021. Contestano €5.000 di IVA evasa più €5.500 di sanzioni (110%) e interessi. Cosa devo fare subito?
R: In caso di avviso di accertamento ricevuto, hai 60 giorni dalla notifica per reagire. Le opzioni immediate: – Analizzare l’atto nei dettagli: verifica cosa esattamente contestano (l’importo imponibile, la lista operazioni, le prove allegate). Controlla se ci sono eventuali errori (ad es. alcune operazioni potrebbero essere state già tassate, oppure potrebbero averti attribuito ricavi di qualcun altro). – Valutare se aderire o fare ricorso: se in buona parte hanno ragione (hai effettivamente omesso quell’IVA) e non hai motivi forti di contestazione, potresti considerare l’adesione. Con l’accertamento con adesione, come visto, riduci le sanzioni a 1/3 e puoi cercare un aggiustamento se hanno sovrastimato qualcosa. Presenta istanza di adesione entro 60 gg, così sospendi i termini di ricorso e puoi negoziare. I €5.500 di sanzioni scenderebbero a ~€1.833 in caso di accordo, un bel risparmio.
Se invece ritieni l’atto errato (ad es. contestano IVA che non era dovuta, o importi gonfiati, o vizi procedurali), allora prepara un ricorso con un professionista. In parallelo, puoi comunque avviare l’adesione per avere un confronto informale: se l’ufficio in sede di adesione non accoglie le tue ragioni, potrai proseguire col ricorso. – Pagamenti nel frattempo: se non intraprendi nulla entro 60 gg, l’atto diventa esecutivo e ti chiedono 1/3 subito a 60 gg. Facendo ricorso, per importi sopra €5.000, l’esecutività è limitata a 50% dopo 60 gg (per atti 2021, la regola era 1/3, ora è 50%). Puoi chiedere al giudice tributario di sospendere anche quel 50% depositando apposita istanza cautelare col ricorso. Dato che €5.000+ sanzioni non sono enormi, potresti anche valutare di pagare in parte per scongiurare misure cautelari, però perdi liquidità. – Autotutela: contestualmente, se hai prove evidenti che l’ufficio ha sbagliato (mettiamo che alcuni dei servizi li avevi fatti pagare con IVA italiana e loro non lo hanno visto), invia un’istanza di autotutela con quei documenti. Forse riesci a far correggere l’atto prima del ricorso. Ma non contare sui tempi dell’ufficio: è solo un tentativo extra.

Riassumendo: non ignorare (al 61° giorno poi partono le cartelle). Decidi la via: adesione (con vantaggi sanzioni) se ammetti in sostanza il dovuto, oppure ricorso se hai buoni motivi di annullamento. In ogni caso, in queste situazioni avere un avvocato tributarista è utile: lui/lei potrà anche proporre una conciliazione eventualmente dopo il ricorso, se l’ufficio percepisce rischi di perdere e vuole trovare un accordo in giudizio (magari con sanzione ridotta al 40%). Nel tuo caso 110% di sanzione è piuttosto alta, segno che forse c’erano aggravanti (comportamento fraudolento?). Un legale potrebbe trattare per abbassarla.

D: Ho venduto contenuti digitali tramite una piattaforma estera, che tratteneva già l’IVA. Ora il Fisco italiano mi contesta di non aver fatturato ai clienti e non aver versato l’IVA. Come mi difendo?
R: Questo scenario suona come il caso OnlyFans o simili. Se la piattaforma ha gestito l’IVA sui clienti (ad esempio applicando il VAT sulle transazioni fan->piattaforma), allora tu come creator non eri tenuto a pagare l’IVA sui clienti finali . La normativa (art. 9-bis Reg UE 282/2011) presume che la piattaforma abbia comprato da te e rivenduto al cliente. Dunque l’Agenzia potrebbe aver equivocato il modello. In difesa, dovrai: – Spiegare chiaramente il funzionamento della piattaforma (inserendo magari il contratto con essa, le regole: es. OnlyFans addebita IVA agli utenti UE al momento del pagamento). – Richiamare la sentenza della Corte di Giustizia UE C-695/20 (Fenix) che conferma che in quei casi il debitore IVA verso il fan è la piattaforma, non tu . – Argomentare che pertanto l’eventuale pretesa IVA è infondata in quanto tu hai emesso (o dovevi emettere) semmai fattura alla piattaforma per i tuoi compensi (operazione B2B, spesso esente IVA se piattaforma fuori UE o con reverse charge se UE). Probabilmente l’accertamento ti sanziona anche per “mancata fattura” verso la piattaforma: su questo puoi sanare emettendo ora fatture senza IVA (se fuori campo) alla piattaforma, giusto per regolarizzare formalmente. Potrebbero restare sanzioni minori (per fatturazione tardiva, di solito 3-4% del imponibile con max €1.000). Ma la gran parte, ossia l’IVA evasa su vendite, dovrebbe essere annullata quando dimostri che l’hanno già assolta loro. – Se la piattaforma è UE ed emetteva fatture con IVA ai clienti, recupera documentazione di ciò (screenshot con IVA applicata). Se era extra-UE (tipo statunitense) potrebbe aver usato il regime OSS non-UE per versare l’IVA europea – puoi provare a ottenere conferma dal loro supporto che hanno adempiuto all’IVA. Quindi, la difesa sta nel dire: “Egregia AdE, avete individuato ricavi per X euro su piattaforma Y. Confermo il ricavo, ma la struttura dell’operazione era diversa: Y funge da rivenditore e ha già assolto l’IVA. Io non ho versato IVA in Italia perché non era dovuta, e non potevo fatturare al cliente che nemmeno conosco (transazione triangolare). Vi allego normative e sentenza UE a supporto. Al più, l’unica violazione formale che riconosco è di non aver emesso fattura verso Y per i miei compensi, ma trattandosi di operazione fuori campo IVA (o RC), questo non ha leso l’Erario e posso rimediare subito.” Queste argomentazioni andrebbero presentate in istanza di adesione o direttamente in ricorso. Spesso, a seguito del clamore del caso OnlyFans, gli uffici sono già stati istruiti a riguardo: infatti sembra che dopo febbraio 2023 la stessa Agenzia abbia ridotto contestazioni di IVA ai creator, puntando più su redditi e Inps. Se lo stanno contestando a te, magari l’atto era partito prima o è un ufficio inconsapevole. Insisti su questo punto tecnico, perché è vincente: una commissione tributaria di recente (es. c’era un cenno a decisioni di CTR Lazio per influencer) ha accolto ricorsi annullando imposte in casi analoghi.

D: Cosa succede se un altro Paese UE mi chiede l’IVA non pagata? Può l’Italia farmi pagare tasse estere?
R: Sì, esiste una procedura di mutua assistenza al recupero crediti tributari in UE (Direttiva 2010/24/UE). Se, ad esempio, la Francia accerta che devi €1.000 di TVA (IVA francese) per vendite digitali e tu non paghi lì, la Francia può inoltrare una richiesta all’Italia. L’Italia, tramite il suo ufficio preposto (Centro Operativo di Pescara per molti casi), emetterà nei tuoi confronti una cartella di pagamento “per conto” della Francia, con un titolo esecutivo uniforme valido in tutta l’UE. Quindi potresti ricevere da Agenzia Entrate-Riscossione una cartella che cita un “credito tributario estero” e chiede il pagamento. In tale situazione, non puoi contestare nel merito davanti al giudice italiano l’esistenza del debito IVA – andava fatto eventualmente in Francia nei termini (devi seguire le indicazioni di ricorso che lo Stato estero ti ha fornito, di solito c’è tempo 30-60 gg per impugnare l’atto originario davanti all’autorità estera competente). In Italia potresti solo opporre vizi formali della cartella (es. notifica nulla). Se sei in tempo, conviene comunque contattare l’autorità fiscale estera: a volte sono disponibili a definizioni agevolate o rateazioni anche per non residenti. L’Italia fungerà da esattore: se non paghi la cartella, AER procederà come per un debito italiano (pignoramenti etc.), e poi invierà il ricavato alla Francia. Questa cooperazione vale per IVA, dazi e altri tributi. Quindi sì, lo Stato estero può farsi riscuotere in Italia. Per evitare ciò, è bene monitorare eventuali comunicazioni dall’estero: magari ti hanno inviato via e-mail o PEC avvisi di mancata registrazione OSS. Se li ignori, passi a fase coattiva. In sintesi: se arriva un’intimazione estera, muoviti subito. Se è già arrivata cartella italiana per credito estero, verifica con un legale se è possibile fare ricorso dimostrando (ad es.) che il debito era già estinto o che hai in corso un ricorso in Francia (in tal caso dovrebbero sospendere finché non c’è esito). Ma la regola generale è che non puoi discutere il “se dovuta l’IVA” in Italia, dove si esegue e basta. Bisognava farlo in Francia. Anche qui, prevenire è meglio: registra OSS o paga spontaneamente prima che l’ingranaggio del recupero si metta in moto.

D: In fase di contenzioso, posso ottenere una rateazione o devo pagare tutto per forza?
R: Dipende dalla fase. Durante i 60 gg iniziali, se vuoi fare acquiescenza agevolata puoi chiedere di pagare in otto rate trimestrali (importo >€5.000 fino 8 rate, oltre 8 rate ma serve garanzia). Con l’adesione, anche, il D.Lgs. 218/97 consente fino a 8 rate se l’importo >€50.000 (fino a 12 rate se >€100.000) – paghi la prima entro 20 gg dall’accordo e le altre ogni 3 mesi. Una volta iscritto a ruolo (dopo i 60 gg se niente ricorso), la cartella standard prevede rateazione amministrativa fino a 72 rate mensili (8 anni) se dimostri temporanea difficoltà. Basta chiedere ad AER entro 60 gg dalla notifica della cartella. Se invece sei in contenzioso e perdi in primo grado, devi pagare quanto dovuto (per proseguire l’appello, oggi devi pagare l’intero tributo, sanzioni ridotte a 1/3 e interessi – riforma 2022). Rateazioni in appello non sono automatiche, ma puoi sempre accordarti con AER. Inoltre, come da Definizione al terzo (art. 15 D.Lgs. 218/97 aggiornato da L.130/2022), dopo una sentenza sfavorevole, se scegli di non appellare e definire al terzo, puoi pagare 1/3 sanzioni con rate fino a 20 rate (in vigore da sett.2023). In Cassazione, di norma devi aver pagato tutto prima, salvo casi di sospensione. In pratica, il sistema consente rateizzazioni in sede amministrativa e di riscossione, un po’ meno in sede processuale (lì al più ottieni sospensioni). Il consiglio è: se hai difficoltà a pagare un importo grosso, comunica sempre con l’AER e sfrutta le dilazioni previste. Non pagare nulla senza accordi porta a misure esecutive immediate.

D: Le sanzioni mi sembrano sproporzionate (pagherei più di IVA che di ricavo!). Posso farle annullare o ridurre dal giudice?
R: Le sanzioni tributarie in Italia sono effettivamente afflittive. Tuttavia, con la riforma del 2024 alcune sono state abbassate (infedele 70%, omessa 120%). Il giudice tributario può valutare la tua buona fede o colpa lieve: l’art. 6, c.5-bis D.Lgs. 472/97 prevede che non si applichino sanzioni se la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza normativa. Nel tuo caso, se i servizi digitali erano borderline e magari interpretavi male la legge, puoi chiederlo, ma è invocato raramente con successo. Più efficace è utilizzare gli strumenti deflativi: adesione 1/3, conciliazione 40%, ecc., che automaticamente riducono la sanzione. La Cassazione a Sezioni Unite (sent. 18184/2021) ha precisato che le sanzioni tributarie non possono essere ulteriormente modulate dal giudice per equità: sono amministrative sì, ma “para-penali” e quindi soggette al principio di legalità . Ciò significa che il giudice deve applicare quelle previste, eventualmente al minimo, ma non può inventarsi riduzioni extra-legge per proporzionalità. Potrebbe però disapplicarle per conflitto con norme UE se fossero chiaramente eccessive e impedissero la libera prestazione di servizi, ma è teorico. Nella pratica, la via migliore per “tagliare” le sanzioni è concordare con l’Agenzia una definizione. Ad esempio, se davvero la sanzione supera il ricavo, puoi far leva su questo per convincere l’ufficio in adesione o conciliazione a togliere parte imponibile (magari riconoscendo costi che riducono quell’IVA). In giudizio, se vinci sul merito (cioè fai annullare l’IVA), decadono anche le sanzioni. Se vinci parzialmente, il giudice dovrebbe ricalcolare la sanzione in proporzione alla nuova imposta, al minimo. Ma un annullamento solo delle sanzioni mantenendo l’imposta è raro (può succedere se c’è causa di non punibilità tipo errore scusabile, ma di solito se c’è imposta evasa una sanzione rimane).

D: Dopo tutto questo, come prevenire problemi in futuro?
R: La lezione è chiara: – Conosci le regole IVA UE per la tua attività: se vendi digital services B2C, monitora il volume UE e se ti avvicini a 10k, attivati (iscrivi OSS). Se sei sotto soglia, assicurati di applicare l’IVA italiana e di includere comunque quelle vendite nelle tue dichiarazioni come operazioni interne. – Utilizza il regime OSS se hai clienti in vari Stati: oggi l’OSS semplifica molto e ti evita di avere 27 posizioni IVA. È questione di registrarsi sul portale Entrate e fare ogni 3 mesi una piccola dichiarazione online. Ne vale la pena rispetto ai rischi di omissione. – Tieni traccia documentale di tutto: se usi piattaforme, conserva contratti e screenshot di come gestiscono l’IVA. Se fatturi, usa preferibilmente la fatturazione elettronica (anche per estero con codici “non imponibile”): aiuta a dimostrare adempimenti e allinea con l’Agenzia (che riceve copia delle e-fatture). Dal 2024, anche forfettari e piccoli dovranno usarla, quindi conviene abituarsi. – Consulta un fiscalista quando espandi il tuo business online: la normativa cambia (vedi DAC7, CESOP) e un professionista può avvertirti per tempo. Le sanzioni e interessi che eviti sono denaro risparmiato. – Non ignorare comunicazioni: se ricevi email/lettere da una piattaforma su tasse, o questionari dall’Agenzia, affrontali subito. Molti accertamenti nascono da questionari non compilati (il fisco chiede info e se non rispondi, presume il peggio). Come dicono gli avvocati: silenzio = assenso per il Fisco. – Valuta la forma giuridica: se stai crescendo come attività, aprire partita IVA (magari in regime forfettario) e adottare una contabilità ordinata può mettere ordine e ridurre errori. Spesso chi inizia “a caso” online si perde adempimenti. Prevenire è meglio che curare con ravvedimenti.

Conclusione

Le contestazioni IVA su servizi digitali resi a clienti UE possono sembrare complesse e opprimenti, ma con le giuste conoscenze legali e fiscali è possibile difendersi efficacemente. Il quadro normativo – per quanto intricato – offre anche tutele: dalla possibilità di sanare errori in buona fede, alle forme di adesione e conciliazione che evitano il contenzioso lungo. La giurisprudenza recente ha chiarito molti punti oscuri (ad es. ruolo delle piattaforme come soggetti passivi, confini tra attività occasionale e impresa) fornendo appigli ai contribuenti di fronte a pretese errate del Fisco . Dal punto di vista del debitore, il segreto è non farsi trovare impreparati: conoscere i propri diritti (richiedere il contraddittorio, esigere motivazioni dettagliate, eccepire vizi) e doveri (dichiarare e versare l’IVA dove dovuto) consente di affrontare l’Agenzia con argomenti solidi e, se necessario, in tribunale con buone chance di successo.

In definitiva, l’espansione dell’economia digitale non è affatto esente da obblighi fiscali – anzi, è sorvegliata speciale. Ma l’ordinamento ha ormai messo a disposizione strumenti agili come l’OSS per gestire correttamente l’IVA transfrontaliera senza eccessiva burocrazia. Agire in regola è sempre la prima linea di difesa. Se poi scatta un accertamento, questa guida vi ha mostrato che le vie per difendersi ci sono: dall’autotutela immediata al ricorso meditato, passando per possibili accordi. Ogni caso ha la sua miglior soluzione: in alcuni conviene transigere, in altri combattere in giudizio fino all’ultimo grado. L’importante è valutare lucidamente con l’aiuto di esperti e non cedere alla tentazione di “pagare e basta” o, all’opposto, ignorare il problema. Con un approccio proattivo e informato, anche una contestazione IVA pesante può essere gestita e risolta salvaguardando il proprio business digitale e il proprio patrimonio.

Fonti: Normativa: DPR 633/1972 (artt. 7-ter, 7-octies, 74-quinquies), D.Lgs. 42/2015, D.Lgs. 45/2020, D.Lgs. 83/2021, Provv. AE 168315/2021 (OSS), Direttiva 2006/112/CE art.58, Reg. UE 282/2011 art. 9-bis; Prassi: Circolare AE 22/E/2016, Risposta AE 253/2023; Giurisprudenza: Corte di Giustizia UE causa C-695/20 , Cass. SS.UU. 18184/2021 , Cass. 10117/2023, Cass. 6874/2023, CTR Lazio 7194/2015, ecc.

Contestazioni IVA per Servizi Digitali a Clienti UE Non Dichiarati: Come Difendersi

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati servizi digitali resi a clienti UE non dichiarati ai fini IVA?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

Con l’e-commerce e la digitalizzazione, i servizi online (software, hosting, abbonamenti, corsi digitali, consulenze a distanza) resi a consumatori finali UE sono soggetti a regole IVA specifiche. Dal 2015, infatti, l’IVA si applica nel Paese del cliente, con possibilità di usare il regime OSS (One Stop Shop) per semplificare gli adempimenti. Se non dichiarati correttamente, il Fisco può presumere evasione IVA intracomunitaria.

👉 Prima regola: verifica se le operazioni contestate erano soggette a IVA nello Stato del cliente e se rientravano nel regime OSS.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Prestazioni digitali a privati UE non dichiarate né in OSS né con identificazione IVA locale;
  • Fatture emesse senza IVA ma prive di indicazioni corrette;
  • Mancata corrispondenza tra pagamenti ricevuti e dichiarazioni IVA;
  • Dati trasmessi dalle piattaforme di pagamento (PayPal, Stripe, marketplace) non coerenti con le dichiarazioni;
  • Omissione di operazioni transfrontaliere nei registri contabili.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Recupero dell’IVA non versata nello Stato di consumo;
  • Sanzioni per omessa dichiarazione IVA (dal 90% al 180% dell’imposta);
  • Interessi di mora;
  • Rischio di verifiche parallele da parte di altri Stati membri UE;
  • Possibile esclusione temporanea dal regime OSS.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Natura del servizio digitale: rientra tra quelli tassabili nello Stato del cliente?
  • Corretta applicazione del regime OSS: eri registrato e hai dichiarato i corrispettivi?
  • Documentazione dei pagamenti: esistono estratti conto e report che giustificano le operazioni?
  • Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia ha basato la contestazione su dati concreti o solo su presunzioni?
  • Rispetto dei termini di notifica e decadenza.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Dichiarazioni OSS e ricevute di versamento;
  • Fatture elettroniche o documenti commerciali emessi;
  • Report delle piattaforme di pagamento (PayPal, Stripe, ecc.);
  • Registri IVA e dichiarazioni annuali;
  • Comunicazioni PEC o corrispondenza con l’Agenzia.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la corretta dichiarazione dei servizi tramite OSS o altri regimi;
  • Contestare errori dell’Agenzia derivanti da dati incompleti o non aggiornati;
  • Eccepire vizi formali dell’accertamento (notifica irregolare, motivazione insufficiente, decadenza);
  • Ravvedimento operoso per sanare omissioni e ridurre sanzioni;
  • Richiedere autotutela se i pagamenti erano già stati dichiarati e tassati;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni, con possibilità di sospendere la riscossione.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza i dati contestati e le operazioni digitali non dichiarate;
📌 Verifica la corretta applicazione dei regimi IVA internazionali;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per ridurre o annullare la pretesa fiscale;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce soluzioni preventive per una gestione sicura della fiscalità nei servizi digitali transfrontalieri.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in IVA internazionale ed e-commerce;
✔️ Specializzato in difesa di imprese digitali e professionisti contro contestazioni su servizi UE;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni del Fisco sull’IVA non dichiarata per servizi digitali a clienti UE non sempre sono corrette: spesso derivano da errori di interpretazione delle norme o da dati trasmessi in modo incompleto.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la corretta gestione delle operazioni, evitare la doppia imposizione e ridurre drasticamente le sanzioni.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti IVA sui servizi digitali inizia qui.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

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La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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