Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché alcune note di credito emesse o ricevute sono state considerate utilizzate in modo illecito? In questi casi, l’Ufficio presume che lo strumento della nota di credito sia stato impiegato per ridurre indebitamente l’IVA a debito o per abbattere imponibili, con conseguente recupero delle imposte, applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è corretta: ci sono difese e strategie per dimostrare la legittimità delle operazioni.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta le note di credito
– Se le note di credito sono state emesse senza reale rapporto contrattuale o senza operazioni sottostanti
– Se l’importo stornato non trova riscontro in fatture originarie o documentazione di supporto
– Se le note di credito vengono usate per ridurre artificiosamente l’IVA a debito o i ricavi dichiarati
– Se vi sono incongruenze tra i registri IVA e le comunicazioni telematiche (LIPE e dichiarazioni annuali)
– Se l’operazione appare simulata o strumentale a generare indebiti vantaggi fiscali
Conseguenze della contestazione
– Recupero dell’IVA detratta o dei ricavi ridotti tramite note di credito considerate indebite
– Applicazione di sanzioni per indebita detrazione o dichiarazione infedele
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Maggior rischio di controlli anche su altri periodi d’imposta
– Possibile responsabilità penale in caso di frodi IVA particolarmente gravi
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare con contratti, corrispondenza e documentazione commerciale la reale esistenza delle operazioni stornate
– Produrre fatture originarie e giustificativi a supporto delle note di credito emesse o ricevute
– Contestare la riqualificazione come illecito se le note rispettano la normativa e hanno natura correttiva
– Evidenziare errori di calcolo, vizi di motivazione o difetti procedurali nell’accertamento
– Presentare ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione contabile e fiscale relativa alle note di credito contestate
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta applicazione della normativa IVA
– Redigere un ricorso mirato fondato su prove concrete e vizi dell’accertamento
– Difendere l’impresa davanti ai giudici tributari contro pretese indebite
– Tutelare la continuità aziendale e i rapporti commerciali da conseguenze fiscali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della legittimità delle note di credito regolarmente emesse
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce nei termini, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e IVA – spiega come difendersi in caso di contestazioni sull’uso illecito delle note di credito e come tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta l’utilizzo illecito di note di credito (note di variazione IVA in diminuzione) da parte di un contribuente, ci si trova di fronte a una situazione complessa che richiede attenzione sia sul piano tecnico-fiscale sia su quello legale. Le note di credito IVA sono uno strumento fondamentale per garantire la neutralità dell’imposta: permettono al soggetto passivo di rettificare l’IVA addebitata o detratta quando, dopo l’emissione di una fattura, l’operazione viene meno in tutto o in parte (ad esempio per risoluzione del contratto, sconto, inadempimento). Tuttavia, il diritto di emettere note di variazione in diminuzione è sottoposto a condizioni stringenti previste dalla legge, e un uso indebito o fuori dai casi consentiti può portare l’Amministrazione finanziaria a contestare la detrazione o il rimborso IVA connesso, richiedendo il versamento dell’imposta “stornata” e irrogando pesanti sanzioni. Nei casi più gravi, inoltre, l’uso fraudolento di note di credito (ad esempio nell’ambito di false fatturazioni) può innescare procedimenti penali tributari a carico del contribuente coinvolto.
Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 con i più recenti riferimenti normativi e giurisprudenziali – fornisce un quadro avanzato su come difendersi efficacemente quando l’Agenzia delle Entrate contesta note di credito emesse o utilizzate in modo illecito, adottando il punto di vista del contribuente (debitore d’imposta) chiamato a difendersi. Il linguaggio è giuridico ma chiaro e divulgativo, adatto sia ai professionisti (avvocati tributaristi, dottori commercialisti) sia agli imprenditori e privati che desiderino comprendere a fondo i propri diritti. In questa guida troverete:
- Normativa IVA di riferimento e funzione delle note di credito: spiegazione dell’istituto della nota di variazione IVA (art. 26 DPR 633/1972) e delle condizioni e limiti per la sua emissione, con riferimenti alla direttiva UE e alle prassi ufficiali più recenti. Verranno chiariti i casi in cui la legge italiana consente la variazione in diminuzione dell’imposta (nullità contrattuale, risoluzione, procedure concorsuali, ecc.) e i relativi termini temporali, evidenziando cosa accade se una nota di credito è emessa oltre tali termini o al di fuori dei casi ammessi.
- Analisi delle cause tipiche di contestazione delle note di credito: esame approfondito delle situazioni in cui l’Agenzia delle Entrate solleva contestazioni, con particolare focus su: operazioni inesistenti (es. note di credito emesse per stornare fatture relative a operazioni mai avvenute, spesso nel contesto di frodi IVA o “cessioni fittizie”), note di credito emesse tardivamente o senza presupposto legittimo (es. oltre il limite di un anno in assenza di cause giustificative), casi di mancato pagamento del corrispettivo (es. fallimento o insolvenza del cliente) e altre fattispecie peculiari (come l’emissione di note di credito da parte di società estinte). Per ciascuna casistica saranno indicati gli orientamenti normativi e giurisprudenziali più recenti (sentenze di Cassazione 2024-2025, pronunce della Corte UE, documenti di prassi dell’Agenzia) e gli oneri probatori a carico del contribuente e dell’Amministrazione finanziaria.
- Descrizione del procedimento di accertamento tributario e difesa in fase amministrativa: illustrazione di come si sviluppa un’accusa di uso indebito di note di credito dalla fase dei controlli iniziali fino all’emissione dell’atto impositivo. Spiegheremo i poteri dell’Amministrazione (verifiche, PVC – processo verbale di constatazione, questionari) e i diritti del contribuente (presentazione di memorie e osservazioni entro 60 giorni dal PVC, istanze di autotutela, ecc.) . Inoltre, verranno esaminate le possibilità di definizione pre-contenziosa: in particolare l’accertamento con adesione, strumento che consente il confronto con l’ufficio accertatore e può portare a ridurre sanzioni a 1/3 del minimo e concordare l’imposta dovuta. Saranno chiariti i termini per impugnare (60 giorni dalla notifica dell’avviso, estesi fino a 150 giorni se si avvia l’adesione) e gli effetti della mancata impugnazione (formazione del titolo esecutivo e riscossione frazionata di 1/3 dell’imposta).
- Strategie difensive nel contenzioso tributario: consigli su come preparare un ricorso efficace dinanzi alle nuove Corti di Giustizia Tributaria (già Commissioni Tributarie) di primo e secondo grado. Verrà spiegato come impostare le eccezioni preliminari (vizi dell’atto, difetto di motivazione, violazioni dello Statuto del Contribuente, ecc.) e come sviluppare le argomentazioni di merito. In particolare, esamineremo come difendersi nel merito in caso di contestazione di operazioni inesistenti (dimostrando l’effettività delle operazioni con documenti di trasporto, pagamenti tracciati, contratti, ecc., e la propria buona fede in caso di frodi carosello), in caso di note di credito “fuori termine” (provando che l’evento correttivo rientra nelle cause esimenti previste dalla norma, ad es. una risoluzione contrattuale sopravvenuta e non un semplice accordo tardivo), e in caso di insolvenza del cliente (mostrando di aver rispettato le condizioni per il recupero IVA in procedura concorsuale). Saranno indicati gli strumenti probatori utilizzabili (documentali, presunzioni, perizie) e i relativi limiti – ad esempio ricordando che nel processo tributario la prova testimoniale orale è vietata per legge, ma si possono produrre dichiarazioni rese in altri procedimenti o documenti attestanti i fatti.
- Profili sanzionatori e rischi penali: panoramica delle sanzioni amministrative applicabili in caso di utilizzo indebito di note di credito IVA, con indicazione delle norme aggiornate. In genere, l’indebita detrazione o il rimborso non spettante di IVA è punito con una sanzione dal 90% al 180% dell’imposta; vedremo come questa si applica nei vari casi (operazione inesistente, errore formale, ecc.) e le possibilità di riduzione (per esempio tramite acquiescenza con pagamento entro 60 giorni dall’accertamento, che riduce le sanzioni a 1/3). Sul piano penale, analizzeremo quando una contestazione di note di credito può sfociare in reati tributari: l’emissione o utilizzo di fatture per operazioni inesistenti oltre determinate soglie configura i reati di cui agli artt. 8 e 2 D.Lgs. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante fatture false) con soglie di punibilità e pene detentive che sono state inasprite dal 2019. Ad esempio, l’utilizzo di false fatture per evadere IVA oltre 100.000 € annui comporta la segnalazione in Procura e può portare a condanne penali. Si richiameranno le ultime novità normative in ambito penale tributario, come l’estensione delle cause di non punibilità in caso di integrale pagamento del debito tributario e sanzioni prima del dibattimento (introdotte con le riforme 2019-2023), nonché la recente giurisprudenza di legittimità: ad esempio la sentenza Cass. pen. n. 41238 dell’11 novembre 2024 ha statuito che non commette reato di omesso versamento IVA l’imprenditore che non versa l’imposta perché non ha effettivamente incassato le relative fatture, riconoscendo l’assenza di dolo in tali circostanze.
- Domande e Risposte frequenti (FAQ): una sezione finale in forma di Q&A affronterà i dubbi più comuni, ad esempio: “Quali sono i termini per emettere una nota di credito valida ai fini IVA?”, “Come mi devo comportare se ricevo un avviso di accertamento sulle note di credito?”, “Posso ancora recuperare l’IVA se il mio cliente fallisce?”, “Rischio il penale in caso di fatture false?”, “Quanto tempo ho per fare ricorso e devo pagare subito?”, “Come posso dimostrare che l’operazione era reale e la nota di credito legittima?”, ecc. Le risposte forniranno indicazioni pratiche e riferimenti normativi utili.
- Tabelle riepilogative e casi pratici: infine, alcune tabelle sintetizzeranno concetti chiave per agevolare la comprensione. In particolare, proporremo uno schema delle cause che legittimano le note di credito e relativi termini (nullità, procedure concorsuali, accordi tra le parti, ecc.) e una tabella comparativa delle operazioni inesistenti oggettive vs. soggettive con le differenze in termini fiscali e difensivi. Saranno anche illustrate brevi simulazioni pratiche basate su casi reali semplificati (es. emissione di nota di credito oltre l’anno per risoluzione di un contratto: esito in contenzioso; nota di credito usata in frode carosello: conseguenze per i soggetti coinvolti; recupero IVA in fallimento: tempistiche e adempimenti corretti) per mostrare come applicare i principi esposti alla realtà operativa italiana. L’obiettivo è fornire al lettore strumenti concreti per valutare la propria posizione e difendersi consapevolmente.
Importante: tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate sono riportate nel testo con collegamenti ipertestuali nel formato 【N†LX-LY】. Si tratta di riferimenti a fonti ufficiali (sentenze di Cassazione, documenti dell’Agenzia delle Entrate, direttive UE, ecc.) aggiornate fino al 2025. Al termine della guida è presente una sezione “Fonti” per un elenco completo, utile per eventuali approfondimenti. Si ricorda che le situazioni concrete possono presentare particolarità uniche: questa guida fornisce un quadro generale avanzato, ma è sempre consigliabile, in caso di contestazione da parte del Fisco, farsi assistere da professionisti qualificati che possano adattare la strategia difensiva alle specifiche circostanze del caso.
Quadro normativo: note di credito IVA e limiti di legge
Per affrontare una contestazione sulle note di credito, è essenziale partire dal quadro normativo di riferimento. La disciplina italiana delle note di variazione IVA in diminuzione è contenuta nell’art. 26 del DPR 633/1972 (c.d. Decreto IVA). Tale norma stabilisce in quali casi e con quali modalità un contribuente può emettere una nota di credito (o “nota di variazione”) per recuperare l’IVA relativa a una fattura precedentemente emessa. In altre parole, la nota di credito consente al cedente/prestatore di stornare o ridurre l’imponibile o l’imposta di una fattura emessa, quando sopravvengono eventi che modificano o annullano in tutto o in parte l’operazione originaria.
Casi ammessi per l’emissione di note di variazione (art. 26 DPR 633/72)
L’art. 26 individua precisamente le situazioni in cui è ammesso emettere una nota di variazione IVA in diminuzione (variazione dell’imponibile o dell’imposta a favore del cedente/prestatore). Tali casi, elencati al comma 2, includono:
- Nullità o annullamento del contratto: quando l’operazione viene meno perché il contratto è dichiarato nullo o annullato (retroattivamente, ex tunc).
- Revoca, risoluzione o rescissione: quando il contratto viene sciolto per accordo delle parti o per inadempimento (risoluzione consensuale o giudiziale) oppure sciolto per cause legali (es. rescissione per lesione). In generale tutti gli eventi risolutivi che estinguono l’obbligazione originaria rientrano in questa categoria.
- Abbuoni o sconti contrattuali previsti in origine: riduzioni del corrispettivo pattuite contrattualmente (ad esempio, sconti quantità, bonus, ecc.), che comportano a posteriori una diminuzione del prezzo rispetto a quanto fatturato inizialmente.
- Errori di fatturazione che abbiano comportato indebite indicazioni di imposta (ad esempio, fattura emessa con IVA per errore su operazione non imponibile, o errore di calcolo dell’imponibile). In tal caso si rettifica la fattura errata.
- Mancato pagamento del corrispettivo per procedure concorsuali o esecutive infruttuose: è il caso in cui il cessionario/committente non paga in tutto o in parte il dovuto a causa di insolvenza conclamata, ossia quando è assoggettato a fallimento, liquidazione giudiziale, concordato preventivo liquidatorio o altra procedura concorsuale, oppure quando nei suoi confronti sono state tentate esecuzioni forzate risultate infruttuose. Si tratta dell’ipotesi tipica di cliente fallito o nullatenente: l’operazione originaria non viene mai pagata e il legislatore consente al fornitore di recuperare l’IVA pagata su quella vendita mai incassata.
Al di fuori di queste ipotesi specifiche e tassative, non è consentito emettere note di variazione in diminuzione dell’IVA. La ratio è chiara: evitare che i contribuenti possano “aggiustare” a piacimento l’imposta già addebitata in fattura, garantendo così il principio di neutralità dell’IVA ma solo entro limiti ben precisi. Infatti l’addebito dell’IVA in fattura non è facoltativo ma un obbligo di legge al momento dell’operazione imponibile; consentire variazioni libere dopo l’emissione della fattura aprirebbe spazi a possibili abusi (ad esempio, stornare l’IVA per non versarla all’Erario).
Va evidenziato inoltre che la normativa nazionale è allineata a quella UE: l’art. 90 della Direttiva IVA 2006/112/CE prevede che in caso di annullamento, risoluzione, rescissione o mancato pagamento, gli Stati membri possono consentire la riduzione della base imponibile IVA. La stessa direttiva però consente deroghe per il mancato pagamento (lasciando agli Stati la possibilità di limitare il recupero IVA in caso di insolvenza). L’Italia ha esercitato questa deroga in modo restrittivo, ammettendo il recupero solo nei casi di procedure concorsuali o esecuzioni infruttuose, e non per qualsiasi mancato pagamento. Ciò a tutela del gettito erariale: il semplice insoluto commerciale (cliente che non paga ma non fallisce) di per sé non dà diritto a una variazione IVA, perché altrimenti sarebbe facile simulare mancati pagamenti per ottenere rimborsi d’imposta.
Di seguito presentiamo una tabella riepilogativa delle principali cause ammesse per l’emissione di note di credito IVA e il relativo trattamento temporale previsto dalla legge:
Causa dell’emissione della nota di credito (evento successivo alla fattura) | Termine per emettere la nota di variazione IVA | Riferimenti normativi |
---|---|---|
Nullità/annullamento del contratto (incluse cause di invalidità originaria) | Nessun limite temporale: la variazione può avvenire in qualsiasi momento dopo che l’atto è dichiarato nullo o annullato. | Art. 26 co.2, DPR 633/72; Dir. 2006/112/CE art.90 |
Revoca, risoluzione, rescissione (scioglimento del contratto con effetto retroattivo o per inadempimento) | Nessun limite temporale, analogamente ai casi di nullità: trattandosi di eventi risolutivi “legali”, la variazione è sempre consentita successivamente. | Art. 26 co.2, DPR 633/72 |
Abbuoni o sconti contrattuali previsti già nel contratto originario (riduzione del corrispettivo) | Nessun limite temporale (l’evento è contrattualmente previsto sin dall’inizio, la riduzione può emergere anche dopo oltre un anno, es. bonus fine anno). | Art. 26 co.2, DPR 633/72 |
Mancato pagamento per procedure concorsuali del debitore o esecuzioni infruttuose | Nessun limite temporale per l’emissione dovuto alla natura dell’evento (insolvenza). Tuttavia la detrazione dell’IVA recuperata deve essere esercitata al più tardi entro la dichiarazione annuale relativa all’anno in cui si verifica l’evento (vedi comma 3-bis e art.19 co.1). Ad es., se il cliente fallisce nel 2025, nota di credito entro il 2025 e detrazione entro dichiarazione IVA 2025 (aprile 2026). | Art. 26 co.2 e co.3-bis, DPR 633/72 (come modif. da DL 73/2021); Art.19 co.1, DPR 633/72; Dir. 2006/112/CE art.90 (deroga mancato pagamento) |
Accordi sopravvenuti tra le parti che modificano l’operazione (es. riduzione prezzo concordata successivamente, senza clausole originarie) | Sì, limite di 1 anno dalla data dell’operazione originaria: in caso di modifica consensuale tardiva, la legge impone che la variazione avvenga entro un anno dalla fattura. Trascorso un anno, la nota di credito non è più ammessa se la riduzione dipende solo da accordi tra le parti. | Art. 26 co.3, DPR 633/72 |
Rettifiche di inesattezze della fatturazione (errori materiali che hanno comportato errata applicazione dell’IVA, es. aliquota sbagliata) | Sì, limite di 1 anno dalla data della fattura, se l’errore da correggere è emerso successivamente ed è dovuto a accordo sopravvenuto o a necessità di regolarizzare ex art. 21 co.7 DPR 633 (fattura emessa con IVA non dovuta). | Art. 26 co.3, DPR 633/72 (in combinato disposto con art.21 co.7) |
Legenda: Procedura concorsuale infruttuosa indica fallimento, liquidazione giudiziale o altra procedura dove il creditore non soddisfa il suo credito (art.26 co.2); “1 anno” si riferisce all’anno dalla effettuazione dell’operazione (data fattura)._
Come si evince dalla tabella, la regola generale introdotta dall’art. 26 comma 3 è che se la variazione dipende da un accordo tra le parti sopravvenuto, essa dev’essere fatta entro un anno dalla fattura originaria. Questo per evitare che le parti, magari a distanza di molto tempo, simulino aggiustamenti contrattuali al solo scopo di recuperare IVA. Invece, quando la variazione dipende da cause oggettive non volontarie (nullità, fallimento, ecc.), non vi è limite di tempo imposto dalla norma fiscale: l’importante è che il contribuente eserciti la detrazione dell’IVA “stornata” nel primo periodo d’imposta utile, comunque non oltre la dichiarazione annuale relativa all’anno in cui si è verificato il presupposto. Ad esempio, dopo la riforma introdotta dal DL 73/2021 (decreto “Sostegni-bis”), se un cliente viene dichiarato fallito (liquidazione giudiziale) nel 2025, il fornitore può emettere subito la nota di credito nel 2025, anche se la fattura risale a oltre 12 mesi prima, purché recuperi l’IVA entro la dichiarazione relativa al 2025 (da presentare entro aprile 2026). Questa modifica normativa ha anticipato il momento di emissione della nota di variazione in caso di insolvenza, allineando la legge italiana al principio di neutralità IVA (il fornitore non deve attendere la chiusura della procedura fallimentare per recuperare l’IVA su crediti irrecuperabili).
Attenzione: le nuove regole sulle procedure concorsuali (art. 26 co.3-bis) si applicano solo alle procedure aperte dopo il 26 maggio 2021. Per i fallimenti più vecchi, resta la disciplina previgente: la nota di credito potrà essere emessa solo a conclusione infruttuosa della procedura (es. chiusura del fallimento), secondo i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate. In altre parole, la semplificazione introdotta nel 2021 non è retroattiva.
La “cartolarità” dell’IVA e il principio di neutralità: obbligo di versamento e diritto alla detrazione
Per comprendere perché la legge è così rigida sul punto, occorre considerare due principi cardine del sistema IVA:
- Da un lato, il principio di “cartolarità” dell’IVA (ossia formalità): l’emissione di una fattura con addebito di IVA fa nascere l’obbligo di versare quell’IVA all’Erario, anche se l’operazione sottostante potrebbe poi rivelarsi non realizzata o invalidata. È una regola anti-evasione sancita sia dalla normativa nazionale che da quella UE: chiunque emette fattura recante IVA è debitore d’imposta verso lo Stato (cfr. art. 21, co.7 DPR 633/72 e art. 203 Direttiva 2006/112/CE). Questo per impedire che si possano generare crediti IVA fittizi con fatture false: se bastasse emettere e poi annullare una fattura, si potrebbe facilmente evadere l’IVA dovuta.
- Dall’altro lato c’è il principio di neutralità dell’IVA: l’IVA dovrebbe gravare solo sul consumatore finale, non sulle imprese. Quindi se un’operazione va a monte o viene stornata, in teoria né il fornitore né il cliente dovrebbero rimetterci l’IVA. Da qui nasce l’istituto della nota di credito: consentire al fornitore di recuperare l’IVA versata su operazioni non più realizzate, ma solo quando ciò non comporta rischi per l’Erario.
La sfida della normativa è bilanciare questi due principi. Per questo, l’art. 26 consente la variazione in diminuzione solo in casi tassativi e controllati, per assicurare che il recupero dell’imposta non si traduca in una perdita di gettito per lo Stato.
Un esempio chiarirà il perché: immaginiamo che Alfa emetta fattura + IVA a Beta, poi le parti stornino l’operazione con nota di credito. Se Beta avesse già detratto l’IVA e poi, malgrado la nota di credito, non restituisse quell’IVA detratta, lo Stato perderebbe gettito (Alfa si riprende l’IVA e Beta l’ha detratta). Evitare il “doppio beneficio” (fornitore che non versa e cliente che detrae) è fondamentale. Pertanto fornitore e cliente devono fare corrispondere esattamente fattura originaria e nota di variazione: la nota di credito deve riferirsi alla stessa operazione e l’IVA stornata dal fornitore deve essere eliminata dalla detrazione del cliente. La Cassazione ha più volte sottolineato questo requisito di identità tra fattura e nota di credito: occorre che vi sia corrispondenza tra oggetto della registrazione originaria e oggetto della registrazione della variazione. In pratica, bisogna poter collegare in modo inequivoco la nota di credito alla sua fattura di riferimento (indicando data e numero fattura originaria, riferimento al contratto annullato, etc.), per dimostrare che si tratta del “reversal” della medesima operazione. Il contribuente che emette la nota di variazione ha l’onere di provare la ricorrenza dei presupposti dell’art. 26, comma 2, e di documentare la corrispondenza tra i due atti contabili.
Conseguenze dell’emissione “illegittima” di una nota di credito
Se una nota di credito viene emessa al di fuori dei casi consentiti oppure oltre i termini previsti, essa non produce gli effetti ai fini IVA. In altri termini, l’Amministrazione finanziaria considererà inesistente o inefficace quella variazione: di conseguenza l’IVA originariamente fatturata resta dovuta dal cedente, e se questi ha già “portato in detrazione” (cioè ha ridotto l’IVA a debito nella propria liquidazione) l’importo della nota di credito, tale detrazione verrà ripresa a tassazione come indebita. Lo stesso vale per il cessionario/committente: se ha registrato una nota di credito riducendo l’IVA a credito precedentemente detratta, ma la nota non era legittima, rischia che gli venga contestata un’indebita detrazione per aver stornato un’imposta non rettificabile.
In pratica, un uso illegittimo della nota di variazione si traduce quasi sempre in un avviso di accertamento con cui l’Agenzia chiede il pagamento dell’IVA “recuperata” indebitamente tramite la nota di credito, più interessi e sanzioni. A seconda dei casi, l’atto potrà essere indirizzato al fornitore (che ha emesso la nota di credito abbattendo l’IVA da versare) e/o al cliente (che eventualmente ne ha tratto vantaggio in detrazione).
Va anche osservato che la giurisprudenza tributaria e della Corte di Giustizia UE ha individuato rare eccezioni in cui, pur in presenza di fatture per operazioni inesistenti, il fornitore può evitare di versare l’IVA, ma solo a strettissime condizioni legate all’assenza di danno erariale. La Cassazione, con la recentissima sentenza n. 22795 del 7 agosto 2025, ha ribadito che l’emissione di fatture per operazioni inesistenti genera comunque l’obbligo di versare l’IVA, a meno che il contribuente dimostri di aver eliminato tempestivamente ogni rischio di perdita di gettito. In particolare, richiamando la Corte UE, la Cassazione ammette che il fornitore che ha emesso una fattura falsa possa ottenere il rimborso dell’IVA versata, ma solo a condizione di provare che il destinatario non abbia mai detratto quell’IVA. Ciò richiede evidenze come: la fattura è stata subito stornata e non registrata dal cliente, oppure il Fisco ha già definitivamente negato la detrazione al cliente in questione. Se tali condizioni non sono soddisfatte, l’IVA resta dovuta. Questo principio, consolidato in ambito UE (sentenza Corte di Giustizia 8 maggio 2019, causa C-712/17), riafferma che il sistema IVA tollera la rettifica dell’imposta solo se non c’è pericolo che qualcuno abbia beneficiato indebitamente della detrazione. In sintesi, l’unico modo per evitare gli effetti di una fattura “sbagliata” o fittizia è dimostrare di aver annullato il rischio di detrazione indebita. Altrimenti, come regola generale, l’IVA indicata in fattura va pagata e la nota di credito “abusiva” viene disconosciuta.
Riassumendo, la cornice normativa entro cui muoversi è chiara: le note di credito sono strumenti delicati, da usare con precisione chirurgica nei casi previsti. Se il contribuente ne travalica i limiti, l’Agenzia delle Entrate avrà solide basi legali per contestare l’operazione e recuperare l’imposta. Nei capitoli che seguono analizzeremo proprio le situazioni tipiche di abuso o utilizzo illecito delle note di credito, per capire come difendersi caso per caso.
Tipologie di contestazioni frequenti sulle note di credito
In questa sezione esamineremo le principali fattispecie in cui l’Agenzia delle Entrate contesta l’utilizzo di note di credito. Queste situazioni, emerse sia dalla prassi accertativa che dalla giurisprudenza recente, rientrano per lo più in alcune macro-categorie:
- Operazioni inesistenti e frodi IVA – note di credito impiegate nell’ambito di fatture false o operazioni fittizie, spesso con lo scopo di creare crediti IVA indebiti o nascondere transazioni fraudolente (es. “giro bolla” con fatture emesse e stornate).
- Note di credito emesse fuori termine o senza causa legittima – ad esempio l’emissione di note di variazione oltre il limite annuale in assenza di un evento oggettivo giustificativo, o per meri accordi sopravvenuti tra le parti non riconosciuti dall’art. 26.
- Insolvenza del cliente (fallimenti) e utilizzo improprio della variazione IVA – casi in cui il fornitore tenta di recuperare l’IVA su un credito non incassato ma senza rispettare le condizioni previste (p.es. emettendo nota di credito per mancato pagamento prima della dichiarazione di fallimento, o addirittura in mancanza di procedure).
- Altre casistiche particolari, come l’emissione di note di credito da parte di società che nel frattempo si sono estinte, o la “rinuncia” unilaterale al credito da parte del fornitore per accelerare il recupero dell’IVA.
Analizziamo ciascuna di queste situazioni, illustrando il punto di vista del Fisco e le possibili tesi difensive del contribuente.
1) Operazioni inesistenti e utilizzo fraudolento di note di credito
Scenario: Un caso classico di contestazione si verifica quando le note di credito sono collegate a fatture per operazioni inesistenti, ossia emesse a fronte di cessioni di beni o servizi mai realmente avvenute (operazioni oggettivamente inesistenti) oppure emesse da soggetti interposti fittizi in operazioni triangolari/carosello (operazioni soggettivamente inesistenti). In contesti di frode IVA, talvolta i contribuenti utilizzano le note di credito come parte dello schema: ad esempio, una società “cartiera” può emettere fatture con IVA a favore di un’altra società, permettendole di detrarre indebitamente l’IVA, e successivamente stornare tali fatture con note di credito per non versare l’IVA a debito, cercando di chiudere il cerchio fraudolento a saldo zero.
Contestazione del Fisco: L’Agenzia delle Entrate, spesso a seguito di verifiche della Guardia di Finanza, contesta che le operazioni erano fittizie e quindi sia le fatture sia le relative note di credito costituiscono documentazione ideologicamente falsa. Di conseguenza, l’IVA detratta dal cessionario sulle fatture originali viene ripresa a tassazione (come detrazione indebitamente operata), e al contempo l’IVA “stornata” con le note di credito viene contestata al cedente come non legittimamente recuperabile. In pratica, il Fisco disconosce l’intero meccanismo: considera come realmente dovuta l’IVA sulle fatture (anche se l’operazione non c’era) e bolla le note di credito come inesistenti (quindi inefficaci ai fini IVA). Non c’è alcun diritto alla variazione in diminuzione in caso di operazioni inesistenti, perché manca a monte una cessione reale su cui esercitare il diritto di detrazione. Come già evidenziato, l’ordinamento impone comunque il versamento dell’IVA indicata in fattura, a meno che il contribuente provi di aver completamente neutralizzato il rischio di detrazione da parte dell’altro soggetto. Ma in uno schema fraudolento tipico, il destinatario ha già fruito della detrazione, quindi quel rischio si è concretizzato e non può essere eliminato a posteriori.
Spesso, queste contestazioni sfociano in rettifiche simmetriche: la società A (cedente) vede negato il diritto di storno dell’IVA, e la società B (cessionaria) vede negata la detraibilità dell’IVA sugli acquisti. Entrambe possono ricevere avvisi di accertamento coordinati. Inoltre, il Fisco può ravvisare gli estremi di reati tributari: l’emissione di fatture false (a carico di A) e l’utilizzo di fatture false in dichiarazione (a carico di B), con segnalazione alla Procura della Repubblica.
Difesa del contribuente: Se il contribuente si trova coinvolto in tali contestazioni, la linea difensiva varia a seconda che egli sia accusato come emittente di false fatture o come utilizzatore in detrazione. Dal punto di vista del cedente (emittente della fattura e della successiva nota di credito), un’eventuale difesa consiste nel sostenere che l’operazione in realtà si è rivelata fittizia e che la nota di credito è stata emessa proprio per stornare una fattura errata, senza arrecare danno all’Erario. Si potrebbe argomentare, ad esempio, che la fattura originaria era stata emessa per errore o su presupposti poi caduti, e che il destinatario non ha mai esercitato la detrazione. Questa difesa, per avere successo, richiede prove molto solide: occorre dimostrare che la controparte non ha utilizzato la fattura (ad es. dichiarazione del destinatario, mancanza di registrazione nei suoi acquisti, comunicazioni in tal senso). Qualora si riesca a provare che la fattura falsa è stata “sterilizzata” in tempo (ritirata e non contabilizzata dal cliente), allora – in teoria – il cedente può appellarsi al principio di neutralità per non versare un’IVA che nessuno ha detratto indebitamente. La Cassazione 22795/2025, come visto, ammette questa possibilità solo se il rischio di detrazione è stato completamente eliminato. Tuttavia, nella pratica, tali situazioni sono rare: spesso le note di credito in frodi vengono emesse solo dopo che la detrazione è stata già effettuata dal complice, quindi il danno erariale c’è stato.
Dal punto di vista del destinatario (utilizzatore della fattura falsa), la difesa si incentra sul dimostrare che l’operazione era in realtà soggettivamente inesistente ma oggettivamente reale. Questo capita nelle cosiddette frodi “carosello”: il contribuente può sostenere di aver realmente acquistato beni/servizi, solo che il fornitore indicato in fattura era un prestanome (inesistenza soggettiva). Se riesce a provare che i beni ci sono stati (con DDT, movimentazione di magazzino, pagamenti effettuati), allora l’IVA su quell’acquisto in teoria sarebbe detraibile se il cessionario prova anche la propria buona fede, cioè di non essere consapevole della frode. La giurisprudenza UE (principio Kittel) e nazionale tutela il diritto alla detrazione del cessionario in buona fede, pure in presenza di frodi, purché egli non sapesse né potesse sapere dell’altrui frode. Dunque, la difesa del cessionario consisterà nel mostrare tutte le verifiche e cautele adottate (controllo della partita IVA del fornitore, riferimenti commerciali, normalità dei prezzi, ecc.), per convincere il giudice che fu vittima inconsapevole. Se ciò passa, si potrebbe ottenere l’annullamento della ripresa a tassazione dell’IVA a credito (anche se magari rimangono sanzioni ridotte o solo l’indeducibilità dei costi ai fini dirette).
Tuttavia, va detto che nelle operazioni oggettivamente inesistenti (cioè la merce non è mai esistita), al cessionario è preclusa ogni detrazione: non c’è modo di “sanare” la falsità oggettiva. In questi casi la difesa può puntare su vizi procedurali o sulla mancanza di prove da parte del Fisco. Infatti il Fisco ha l’onere di dimostrare, anche tramite presunzioni qualificate, che le operazioni erano fittizie. Se l’Amministrazione finanzia comunica solo sospetti ma non elementi concreti, il contribuente potrà contestare la carenza probatoria. In giudizio, tipicamente, il Fisco produce PVC della Gdf con descrizione di circostanze (es. società fornitrice irreperibile, mancanza di struttura, incongruenze documentali) che configurano presunzioni gravi precise e concordanti di inesistenza delle operazioni. A quel punto spetta al contribuente fornire una prova contraria convincente (es. provare consegne, contratti, utilizzo delle merci).
Conseguenze e giurisprudenza recente: La linea della Corte di Cassazione è rigida: su fatture soggettivamente inesistenti, la detrazione spetta solo al contribuente totalmente ignaro e diligente; su fatture oggettivamente inesistenti, la detrazione va negata sempre, a prescindere dalla buona fede, perché manca il requisito stesso dell’effettuazione dell’operazione (art. 19 DPR 633/72 richiede un acquisto reale). La sentenza di Cass. n. 20411 del 23 luglio 2024, ad esempio, ha riaffermato il primato del principio di cartolarità nelle frodi: l’IVA indicata in fattura va versata anche se l’operazione è finta, salvo poi poter chiedere rimborso solo se si prova che nessuno l’ha detratta. Dunque chi emette fatture fittizie resta debitore dell’IVA verso lo Stato finché non dimostra di aver annullato ogni effetto di quelle fatture. Nel caso concreto del 2025 (coinvolgente un giro di fatture false nel settore energia), la Cassazione ha dato ragione all’Agenzia che pretendeva l’IVA indebitamente detratta dal gruppo tramite meccanismi a saldo zero, negando il rimborso perché il rischio di perdita per l’Erario non era stato eliminato in tempo.
Rischio penale: In parallelo, questi scenari espongono a reati tributari gravi. L’emissione di fatture inesistenti è punita dall’art. 8 D.Lgs. 74/2000 (fino a 8 anni di reclusione, soglie di rilevanza penale molto basse o assenti a seguito delle riforme). L’utilizzo in dichiarazione di fatture false integra l’art. 2 D.Lgs. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta), anch’esso con pene detentive severe se l’imposta evasa > €100.000. In indagini penali, l’emissione di note di credito per stornare le fatture false potrebbe essere interpretata come ulteriore elemento di frode (tentativo di copertura delle tracce). Tuttavia, a livello penale, un’eventuale restituzione dell’IVA o ravvedimento può essere valutata come attenuante. La recente tendenza (Cass. 41238/2024) di escludere il dolo nell’omesso versamento IVA se le fatture non sono incassate dal contribuentenon si applica alle frodi con fatture false, dove c’è un intento evasivo chiaro. In tali casi, la difesa penale può puntare semmai sull’assenza di dolo specifico (es. se il contribuente dimostra di aver confidato nella regolarità delle operazioni, cercando di evitare la contestazione di frode).
Conclusione operativa: Il contribuente coinvolto in contestazioni relative a operazioni inesistenti deve predisporre una difesa su due fronti: tecnico-fiscale (nel processo tributario, per evitare di pagare due volte l’IVA o subire sanzioni) e penale (in caso di procedimento penale parallelo). Nel processo tributario, come visto, occorre produrre tutta la documentazione possibile a supporto della realtà delle operazioni e/o della buona fede. Nel seguito della guida (sezione difesa in contenzioso) torneremo su come impostare questa difesa. Intanto, passiamo ad altre tipologie di contestazioni.
2) Note di credito emesse tardivamente o senza presupposti (fuori dai casi Art.26)
Scenario: Un’altra situazione ricorrente è quella in cui il contribuente emette una nota di credito per rettificare una fattura, ma oltre i termini consentiti o in assenza di un vero presupposto tra quelli elencati dall’art. 26 co.2. Ciò spesso accade per mera convenienza o errore: ad esempio, due parti ridiscutono il prezzo di una fornitura quando è passato più di un anno dalla fattura originaria; per praticità emettono una nota di credito a storno della differenza, senza considerare che la legge non lo consentirebbe perché si tratta di un accordo sopravvenuto tardivo. Oppure, un contribuente scopre di aver fatturato male un’operazione (magari soggetta a reverse charge) dopo il decorso di un anno, ed emette ugualmente una nota di credito sperando di sistemare l’errore. Altra ipotesi: l’emissione di una nota di credito “di comodo” per sistemare partite contabili, ad esempio stornare un acconto per riallineare gli importi con l’atto definitivo (come nel caso di una compravendita immobiliare in cui si è versato un acconto, poi riassorbito nel saldo).
Contestazione del Fisco: L’Agenzia delle Entrate, quando intercetta simili operazioni (spesso in sede di controllo formale o di verifica IVA), disconosce la validità della nota di credito ai fini IVA se ritiene che essa sia stata emessa fuori dai casi e tempi dell’art. 26. Un esempio concreto è dato da un caso deciso in Cassazione con l’ordinanza n. 8984/2024: qui una società immobiliare aveva emesso nel 2009 una nota di credito per stornare un acconto fatturato nel 2006, al fine di poter emettere una nuova fattura di acconto allineata al prezzo aggiornato nel rogito. L’Agenzia contestò che tale variazione era oltre il termine annuale e senza rientrare in nullità o simili cause; di conseguenza negò la detrazione IVA relativa a quella nota di credito per la società acquirente, e recuperò l’IVA “stornata” nei confronti della venditrice. La Cassazione diede ragione al Fisco: ribadì che se le parti modificano consensualmente il prezzo, la nota di variazione va fatta entro 1 anno, altrimenti non è efficace. Il fatto che l’Erario non avesse subito pregiudizio (perché l’IVA era stata comunque versata dal compratore che aveva ricevuto la nota di credito) fu ritenuto irrilevante: ciò che conta è il rispetto delle condizioni legali, non la mancanza di danno erariale ex post. In altre parole, la Cassazione ha affermato che la manovra contabile escogitata – seppur neutra nei numeri – violava la norma e dunque andava sanzionata.
Analogamente, se un contribuente emette una nota di credito oltre l’anno per rettificare un errore di fatturazione, l’Ufficio potrebbe contestare che l’art. 26 co.3 non lo permette (salvo i casi di procedure concorsuali che fanno eccezione). Oppure, se emette nota di credito per un “cambio idea” contrattuale (ad esempio, le parti decidono di non proseguire con una fornitura, ma lo fanno con ritardo e senza formalizzare una risoluzione contrattuale), il Fisco potrebbe sostenere che non c’è stata una vera risoluzione legale ma solo un accordo tardivo, quindi la variazione andava fatta entro un anno.
In sintesi, il Fisco in questi casi contesta l’indebita detrazione dell’IVA tramite la nota di credito tardiva e richiede il pagamento dell’imposta. Tipicamente individua questi errori confrontando date e causali: se la data della nota > 1 anno dalla fattura, scatta un campanello; se la causale non è riconducibile alle ipotesi di legge (es. si legge “variazione prezzo per nuovo accordo”), è contestabile.
Difesa del contribuente: La difesa, in queste situazioni, può essere complessa perché il dato normativo è oggettivo: se l’evento non rientra in quelli ammessi o se è intervenuto oltre il termine, la nota di credito è effettivamente fuori regola. Tuttavia, alcune possibili linee difensive includono:
- Sostenere che l’evento rientra invece tra quelli ammessi: A volte la qualificazione di un fatto non è netta. Ad esempio, le parti che hanno modificato il prezzo potrebbero cercare di qualificare il nuovo accordo come una “risoluzione del primo contratto e stipula di uno nuovo” (evento che potrebbe assimilarsi a risoluzione e nuovo contratto, quindi senza limite), anziché come mera modifica sopravvenuta. Se ci sono elementi (es. un recesso formale e nuovo contratto) si può provare a rientrare nelle cause senza limite temporale. Analogamente, un contribuente che ha fatto una nota di credito tardiva per un errore potrebbe invocare che la fattura originaria era affetta da “nullità” (es. perché emessa in violazione di legge) e che quindi la variazione rientra nelle ipotesi di nullità senza limite. Si tratta, chiaramente, di interpretazioni che devono reggere a livello probatorio: serve documentare l’evento come nullità, risoluzione effettiva etc. La Cassazione ha enfatizzato che il contribuente deve indicare nella nota di credito una causale precisa che la riconduca a un caso del comma 2; in mancanza, essa resta soggetta al limite annuale.
- Invocare l’esimente dell’incertezza normativa ed errore in buona fede: Sul piano sanzionatorio, si può cercare di evitare le sanzioni (o farsele annullare dal giudice) invocando l’art. 6, co.2 D.Lgs. 472/97, ovvero che vi fossero “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria”. Nel nostro contesto, non è semplice provarlo, perché l’art. 26 è abbastanza chiaro. Però, in alcune situazioni di confine, un contribuente può dire: “Ritenevo in buona fede che la nostra modifica rientrasse in una risoluzione contrattuale, c’era incertezza sull’interpretazione”. Se questa tesi convince, le sanzioni potrebbero essere annullate, pur restando dovuta l’imposta. Alcune Commissioni Tributarie hanno annullato sanzioni in casi di errore scusabile, specie se il contribuente ha agito senza occultare nulla e nella convinzione di rispettare la legge.
- Verificare vizi formali dell’accertamento: Come sempre, non dimentichiamo di esaminare se l’atto impositivo presenta vizi procedurali o di motivazione che possano portare al suo annullamento indipendentemente dal merito. Ad esempio, se prima dell’avviso non è stato inviato il PVC con 60 giorni per controdedurre in un caso dove era necessario, o se l’avviso non spiega chiaramente perché la nota di credito non fosse ammessa (difetto di motivazione). Sono aspetti che vanno sempre considerati nella strategia difensiva (anche se riparare al vizio procedurale spesso porta solo a un annullamento “tecnico” con possibilità per l’Ufficio di riemissione dell’atto corretto).
Giurisprudenza e prassi a favore: Esistono situazioni in cui l’Agenzia stessa ha riconosciuto rimedi per chi ha emesso note di credito tardive. Ad esempio, con la risposta a interpello n. 858/2021, l’Agenzia ha chiarito che se un fornitore ha emesso una nota di credito oltre i termini (in violazione dell’art. 26) e subisce un accertamento che gli recupera l’IVA, egli può comunque rivalersi sul cliente per recuperare l’imposta, ai sensi dell’art. 60, ultimo comma, DPR 633/72. In pratica: se la nota di credito è “nulla” ai fini IVA, il cedente deve restituire l’IVA allo Stato, ma ha diritto di chiederla al cessionario (perché in definitiva l’IVA torna ad essere dovuta come se la fattura originaria non fosse mai stata stornata). Il cessionario, a sua volta, potrà detrarre quest’IVA ora versata al fornitore, alle condizioni originarie (se ovviamente ne aveva diritto). Questo meccanismo evita in parte la doppia imposizione. Però attenzione: l’Agenzia ha precisato che il cliente può detrarre ora l’IVA solo se ne aveva diritto “al momento originario”, il che in un contenzioso pendente potrebbe non essere certo. Dunque se c’è un dubbio sulla detraibilità originaria (es. costo non inerente), finché quel dubbio non è risolto, la detrazione rimane sub iudice. In ogni caso, la sostanza è: la legge permette di sistemare a posteriori la questione tra le parti (il che è rilevante soprattutto se fornitore e cliente non sono in conflitto tra loro). Dal punto di vista difensivo, un fornitore che incorra in tale problema potrà dimostrare di aver emesso fattura di rivalsa verso il cliente per la maggior IVA dovuta (ai sensi dell’art. 60 co.7), riducendo così il proprio danno e “chiudendo il cerchio”. Non elimina l’imposta da pagare, ma almeno evita che il pagamento resti definitivamente a suo carico se il cliente era contrattualmente tenuto a corrispondergli l’IVA.
Inoltre, la stessa Agenzia, con il Principio di Diritto n. 11 del 6 agosto 2021, ha ammesso che se la risoluzione contrattuale è oggetto di lite giudiziaria, il fornitore può comunque emettere subito la nota di variazione senza attendere l’esito definitivo della causa. Questo è un chiarimento di favore: per l’Agenzia, anche se il cliente contesta in giudizio la legittimità di una clausola risolutiva espressa (ad esempio), il fornitore può emettere nota di credito; se poi il giudice dovesse dargli torto (ossia la risoluzione non valeva), dovrà emettere una nota di debito e restituire l’IVA, ma intanto non è sanzionabile per aver fatto la variazione. Ciò per dire che, a volte, le regole sulle note di credito non sono di immediata applicazione e lasciano margini di interpretazione: il contribuente accorto può sfruttare a proprio vantaggio i chiarimenti ufficiali per giustificare il proprio operato.
Conclusione operativa: In definitiva, un contribuente che riceva una contestazione su note di credito tardive o fuori presupposto dovrà in primis verificare la qualificazione esatta degli eventi collegati: ad esempio, c’è stata davvero una risoluzione contrattuale? c’è un documento che la attesti? Oppure era proprio un mero accordo nuovo? Da questa qualificazione dipende la linea di difesa giuridica (includere il caso nel comma 2 oppure no). Se la violazione è palese (es. accordo nuovo oltre l’anno), la strategia punterà a limitare i danni: dimostrare la buona fede, chiedere clemenza sulle sanzioni, oppure utilizzare strumenti come l’accertamento con adesione per negoziare una chiusura con sanzioni ridotte. Nel contenzioso, si potranno citare i principi affermati in Cassazione (ad es. onere probatorio del contribuente nel dimostrare i presupposti ex art.26) ma anche eventuali pronunce più favorevoli di merito. È bene mettere in conto che le chance di annullare totalmente l’imposta in questi casi sono modeste se i fatti sono documentalmente incontestabili; più realisticamente, si potrà ottenere la riduzione delle sanzioni o la non applicazione di interessi di mora particolarmente elevati, specie se l’errore è stato spontaneamente corretto prima dell’intervento del Fisco (ad esempio mediante dichiarazione integrativa a sfavore per restituire l’IVA, c.d. “ravvedimento operoso”). Da ultimo, conviene ricordare che per l’IVA non recuperata con note di credito tardive esiste una strada alternativa: la richiesta di rimborso IVA ex art. 21 D.Lgs. 546/92 per “errato versamento”. In taluni casi, contribuenti che non hanno fatto in tempo la variazione hanno chiesto direttamente al Fisco il rimborso dell’IVA versata su operazioni venute meno. Questa via – talvolta definita “rimborso anomalo” – può avere esiti incerti ed è spesso oggetto di contenzioso, ma va considerata se la nota di credito formale non era più possibile.
3) Mancato pagamento e fallimento del cliente: come e quando recuperare l’IVA
Scenario: Una delle situazioni più delicate per imprenditori e professionisti è il fallimento (o altra insolvenza) di un cliente. In tali casi, il fornitore ha emesso fattura, ha addebitato e versato l’IVA sulle sue vendite, ma non incasserà mai (o solo parzialmente) il corrispettivo. La legge IVA, come visto, consente di emettere una nota di variazione per recuperare l’IVA quando il mancato pagamento è dovuto a procedure concorsuali infruttuose. Tuttavia, in passato era necessario attendere l’esito finale della procedura (ad esempio la chiusura del fallimento con insufficienza di attivo). Dal 2021, la norma è cambiata: ora è possibile emettere la nota di credito già a partire dalla data di apertura della procedura concorsuale (sentenza dichiarativa di fallimento o provvedimento equivalente). Questo ha anticipato notevolmente i tempi di recupero, che prima potevano durare anni.
Possibili contestazioni: Nonostante il quadro normativo sia più favorevole, sorgono contestazioni quando il fornitore non rispetta comunque le formalità. Due casistiche frequenti:
- Il fornitore non emette affatto la nota di credito (magari perché non sa di poterlo fare subito) entro i termini previsti. Se costui tenta poi tardivamente di recuperare l’IVA (ad es. tramite dichiarazione integrativa a rimborso), l’Agenzia potrebbe eccepire decadenza: la nota andava fatta entro l’anno della procedura (o entro la dichiarazione annuale relativa).
- Il fornitore emette una nota di credito in situazione non ancora maturata per legge. Ad esempio, prima del 2021 alcuni fornitori emettevano note di credito già alla sentenza di fallimento, ma la legge all’epoca richiedeva di attendere la fine del fallimento. L’Agenzia, in tali casi, contestava l’anticipazione indebita. Un caso particolare di “anticipazione” è la rinuncia unilaterale al credito: il creditore rinuncia al proprio credito nel fallimento (ad esempio per chiudere prima la procedura) e pretende di emettere la nota di credito subito. L’Agenzia ha escluso categoricamente questa possibilità con la risposta a interpello 203/2024: la rinuncia volontaria non è un evento ammesso dall’art.26, quindi l’IVA si recupera solo al termine naturale della procedura.
- Un’altra fattispecie: se il cliente è solo in ritardo nei pagamenti ma non fallito, il fornitore non può emettere nota di credito (non basta l’inadempimento commerciale, serve il fallimento o un’esecuzione tentata e fallita). Qualcuno invece ha cercato di usare la nota di credito in casi di crediti difficilmente esigibili ma senza procedura (es. cliente estero irreperibile). Queste note di credito vengono contestate perché il mancato incasso di per sé non rientra nelle ipotesi (infatti l’Italia, come detto, ha escluso il semplice “mancato pagamento” dalle cause di variazione, avvalendosi della deroga UE).
Difesa del contribuente nei casi di insolvenza:
- Se l’Agenzia contesta che la nota di credito è stata emessa troppo tardi, la difesa consisterà nel dimostrare di aver comunque rispettato i termini di legge o, in subordine, che c’era un’incertezza sulla decorrenza del termine. Ad esempio, la norma art. 19 co.1 dice che la detrazione va esercitata entro la dichiarazione dell’anno in cui il diritto sorge. Ma potrebbe esserci dibattito su quando il diritto sorge: è la data della sentenza dichiarativa? O la data di chiusura se la procedura era pre-2021? Se il contribuente aveva dubbi e ha atteso la fine credendo (erroneamente) fosse necessario, può invocare l’incertezza normativa. Tuttavia, dopo i chiarimenti ufficiali del 2021-2022, questa incertezza è ridotta.
- Se si contesta che la nota è anticipata indebitamente (es. prima del fallimento o per rinuncia), la difesa è difficile perché la risposta 203/2024 dell’Agenzia è chiara: la rinuncia unilaterale non equivale a un’insolvenza legale. L’unica strada sarebbe impugnare la norma stessa a livello comunitario, sostenendo che limita troppo il diritto di recupero IVA rispetto all’art.90 Dir. IVA. Ma l’art.90 consente deroghe per mancato pagamento, quindi la nostra norma nazionale è compatibile col diritto UE (l’Italia ha scelto l’opzione restrittiva permessa). Dunque, un fornitore che abbia rinunciato al credito non potrà che attendere la chiusura del fallimento per emettere nota di credito (cosa che però la rinuncia rende inutile, avendo egli abdicato al credito).
- In caso di nota di credito emessa correttamente alla dichiarazione di fallimento ma contestata perché la procedura era iniziata prima del 26.5.2021 (quindi soggetta a vecchie regole), il contribuente potrebbe sostenere l’applicazione retroattiva della norma nuova o che comunque l’attesa della chiusura è un onere sproporzionato. C’è stata a riguardo una pronuncia della Cassazione (sent. n. 35518 del 19/12/2023 citata dall’Agenzia) la quale forse ha adottato una posizione più favorevole su quando ritenere definitivo il mancato incasso. Ma l’Agenzia ha espresso disaccordo in quell’interpello (facendo capire che mantiene la sua linea).
- Se il problema è che il cliente non ha pagato ma non c’è fallimento, il fornitore purtroppo non ha difese: la legge non concede recupero IVA se non prova di aver esperito un’esecuzione forzata risultata infruttuosa (pignoramento negativo). Quindi senza un decreto di pignoramento negativo o un fallimento, la nota di credito è illegittima. La sua unica speranza potrebbe essere far fallire il debitore o agire legalmente. In giudizio tributario, potrebbe richiamare qualche pronuncia di merito di equità, ma tendenzialmente perderà.
Prassi aggiornata e suggerimenti: Per evitare contestazioni in quest’area, l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato chiarimenti: con la Risoluzione n. 47/E del 19 settembre 2024, ad esempio, ha chiarito che se una società fornitrice si è estinta (liquidazione volontaria e cancellazione dal Registro Imprese) prima di emettere la nota di credito per il credito insoluto, i soci subentranti non possono più emetterla. La liquidazione volontaria, infatti, non è come una fusione: non c’è successione nei crediti d’imposta attivi, ma solo nei debiti eventualmente rimasti (fino a 5 anni dalla cancellazione). Quindi l’omessa emissione tempestiva della nota di credito entro la vita della società può far perdere il diritto al recupero IVA. Questo è un monito per i contribuenti: nelle crisi d’impresa, pianificare la gestione dell’IVA sui crediti incagliati è fondamentale prima di chiudere la partita IVA.
Un altro chiarimento importante è venuto, come detto, con la Risposta AE 203/2024 sulla rinuncia nel fallimento: l’Agenzia ha ribadito che la rinuncia è un atto meramente finanziario che non modifica l’operazione sottostante e non può essere equiparato a una risoluzione o a un annullamento. In sostanza, se io fornitore decido di abbandonare la mia pretesa nel fallimento del cliente, sto solo scegliendo di non incassare, ma l’operazione commerciale originaria resta valida e conclusa (la merce fu ceduta, il servizio reso). Non c’è un annullamento contrattuale, c’è solo un’insolvenza. Perciò l’IVA non può essere stornata in via anticipata. Il fornitore dovrà attendere che il fallimento finisca constatando ufficialmente che nulla è stato pagato. Diversamente – ammonisce l’Agenzia – si aprirebbe spazio a elusione: un soggetto potrebbe far fallire un debitore compiacente, rinunciare al credito e recuperare subito l’IVA senza attendere. Tale comportamento viene precluso.
Conclusione operativa: Nelle contestazioni sul recupero IVA in caso di insolvenza, la migliore difesa è spesso la prevenzione: ossia conoscere e rispettare esattamente le procedure e tempistiche normative. Un contribuente assistito bene saprà emettere la nota di variazione nel momento giusto (es. subito dopo la dichiarazione di fallimento, o subito dopo l’esito negativo di un pignoramento, e comunque entro il termine della dichiarazione annuale). Se, nonostante ciò, il Fisco muove rilievi, di solito si tratta di divergenze interpretative minori (ad es. contestazione su procedure aperte prima del 2021) su cui si può ragionare in sede di contenzioso, magari citando principi UE di neutralità per sostenere una visione pro-contribuente. Invece, se l’errore è stato a monte (es. nota di credito fuori legge), la difesa può solo puntare su aspetti formali o chiedere clemenza sulle sanzioni.
Va aggiunto che in caso di verifica fiscale, all’operatore economico potrebbe venir chiesto di esibire l’eventuale documentazione della procedura concorsuale per giustificare le note di credito emesse (es. sentenza di fallimento, decreto di chiusura). È importante avere tali pezze d’appoggio. Se il contribuente era in regola, la verifica non avrà seguito. Se invece emergono note di credito senza supporto (es. scoperte note di credito su crediti inesigibili ma senza copia della sentenza fallimentare o del pignoramento negativo), ciò sarà visto con sospetto e probabilmente sfocerà in una ripresa.
Inoltre, se il contribuente subisce un accertamento e perde in giudizio, c’è la possibilità di far valere l’IVA come credito chirografario nel fallimento (inserendosi al passivo tardivamente) per recuperare almeno in parte. Ma questo esula dal tributario ed entra nel diritto fallimentare, menzioniamolo solo per dire che la partita IVA/fallimento è sfaccettata.
4) Altre casistiche particolari: società estinte, fusioni e operazioni straordinarie
Società estinte: Abbiamo accennato al caso delle società cancellate dal Registro Imprese. Se una società che aveva emesso fatture a clienti insolventi si estingue senza aver emesso le relative note di variazione IVA, i soci subentrano nei debiti tributari (per legge, per 5 anni) ma non nei crediti d’imposta potenziali come il diritto a emettere nota di credito. La Risoluzione 47/E/2024 lo ha chiarito: la cancellazione non crea successione attiva e dunque i soci persone fisiche non possono emettere essi stessi note di credito a nome della società cessata. Questo significa che, post-estinzione, il “treno è perso”: il recupero IVA non è più attuabile e l’Erario tratterrà l’imposta versata. Invece i debiti IVA non assolti dalla società possono essere richiesti ai soci (entro i limiti delle somme ricevute in liquidazione). Dunque dal punto di vista difensivo, i soci non hanno titolo a emettere note di credito e un’eventuale nota emessa da essi sarebbe nulla. Se il Fisco la trovasse registrata, la contesterebbe come atto privo di efficacia. Non c’è una vera difesa, se non eventualmente impugnare la norma per disparità di trattamento (cosa improbabile da vincere). Messaggio pratico: se si assiste una società in liquidazione, conviene farle emettere prima della chiusura tutte le note di credito per crediti rimasti insoluti e richiesti (così i soci potranno al limite chiedere rimborsi).
Fusioni e operazioni straordinarie: Diverso è il caso delle fusioni o incorporazioni: qui la società risultante subentra in tutti i rapporti attivi e passivi, quindi può emettere note di credito al posto della incorporata, perché c’è successione universale (la Risoluzione 47/E distingue appunto queste situazioni). Se il Fisco contestasse a una società incorporante di aver emesso una nota di credito riferita a una fattura emessa dalla società incorporata oltre un anno prima, come se il termine ripartisse, la difesa evidenzierebbe che il subentro non altera i termini (l’incorporante continua la partita IVA dell’incorporata). In genere non ci sono contenziosi su ciò, è pacifico.
Casi di cessioni di contratti o crediti: Bisogna fare attenzione se un credito viene ceduto: ad esempio, Tizio vende il suo credito IVA verso l’Erario (caso raro) o cede crediti commerciali. Chi ha il diritto di emettere la nota di credito? La regola generale è che la nota di credito la emette sempre il cedente originario (chi ha emesso la fattura). Se il credito è ceduto a una società di factoring, comunque la nota di credito la farà il fornitore originario, restituendo eventualmente la parte di prezzo al factor. Se un accertamento nota che Caio (cessionario del credito) ha emesso una sorta di nota di variazione, la dichiarerà priva di effetti.
Fatture elettroniche rifiutate dalla PA: Una curiosità: nel regime di fatturazione elettronica verso la Pubblica Amministrazione (Sistema di Interscambio), se una fattura viene rifiutata dall’ente, non va emessa una nota di credito tradizionale (perché la fattura non è mai stata accettata contabilmente), ma va semplicemente riemessa la fattura corretta. Questo lo si cita perché qualche contribuente per errore emetteva note di credito per fatture PA rifiutate. L’Agenzia (Principio di diritto n.17/2021) ha chiarito che in caso di rifiuto della fattura PA bisogna emettere nuova fattura e semmai stornare la precedente nei registri interni. In altre parole la nota di credito formalmente non serve perché la fattura rifiutata è come se non fosse mai entrata nelle scritture dell’ente pubblico.
A questo punto, avendo esplorato i principali scenari di contestazione, possiamo passare ad esaminare come difendersi concretamente, dapprima nella fase amministrativa (accertamento) e poi in quella del contenzioso tributario.
Procedimento di accertamento e difesa nella fase amministrativa
Quando l’Agenzia delle Entrate rileva un possibile uso illecito di note di credito, l’iter di accertamento segue generalmente questi passaggi:
- Verifiche e controlli iniziali: La contestazione può emergere durante una verifica fiscale (accesso della Guardia di Finanza o funzionari AE in azienda), da controlli incrociati delle dichiarazioni, oppure da attività di analisi del rischio (es. incrocio fatture elettroniche, elenco clienti-fornitori, etc.). Spesso, errori sulle note di credito vengono individuati in sede di liquidazione automatica o controllo formale della dichiarazione IVA: se risulta, ad esempio, un importo a credito richiesto anomalo, l’Ufficio invia un questionario o fa approfondimenti.
- Processo Verbale di Constatazione (PVC): Se la questione nasce da una verifica sul campo (della GdF), questa si conclude con un PVC dove vengono contestati i rilievi, tra cui l’eventuale utilizzo indebito di note di variazione. Il contribuente che riceve il PVC ha diritto di presentare osservazioni e memorie difensive entro 60 giorni prima che l’Ufficio emetta l’avviso di accertamento . Questo è un momento cruciale per far valere le proprie ragioni in via amministrativa: per esempio, se alcuni fatti non sono stati considerati (un contratto di risoluzione esiste ma non era stato esibito, etc.), si possono produrre ora.
- Avviso di accertamento o atto di recupero: Decorso l’eventuale termine o a seguito di controlli interni, l’Agenzia emette l’atto impositivo. A seconda dei casi, può trattarsi di un avviso di accertamento (specie se c’è IVA e magari imposte dirette connesse, come costi indeducibili legati alle note di credito) oppure di un atto di contestazione/sanzioni se il problema è solo formale. Nel contesto IVA, è frequente l’“avviso di accertamento” unico che liquida l’imposta dovuta, interessi e sanzioni. Da notare che gli avvisi di accertamento emessi dal 1° luglio 2020 sono anche “esecutivi”: significa che dopo 60 giorni dalla notifica, diventano titolo per la riscossione coattiva di 1/3 delle somme, anche se si fa ricorso (gli altri 2/3 sono comunque sospesi fino alla sentenza di 1° grado). Quindi la tempistica è importante.
A questo punto il contribuente ha diverse opzioni di difesa prima di arrivare in giudizio:
- Autotutela: Può presentare all’ufficio un’istanza di autotutela, chiedendo il riesame e l’annullamento (totale o parziale) dell’atto, se ritiene che l’accertamento contenga errori palesi (es: ha ignorato documenti decisivi, ha applicato male la legge). L’autotutela però non sospende i termini per ricorrere né quelli di pagamento; inoltre è discrezionale per l’amministrazione. È utile soprattutto se c’è un errore macroscopico riconoscibile dall’ufficio (ad esempio, il contribuente aveva già versato quell’IVA e l’atto non ne ha tenuto conto). In materia di note di credito, non è comune che l’AE riconosca un proprio errore, a meno di scambiare date o importi. Inviare una memoria in autotutela comunque può essere strategico per anticipare argomenti che poi si useranno in giudizio.
- Accertamento con adesione: Strumento molto rilevante. Entro il termine per presentare ricorso (60 giorni), il contribuente può presentare istanza di accertamento con adesione. Ciò sospende il termine per impugnare per 90 giorni. Durante questo periodo, si tiene un incontro con i funzionari dell’Ufficio per discutere la pretesa e cercare un accordo. Nel contesto di note di credito, l’adesione può portare a:
- Un’eventuale riduzione dell’imposta accertata se emergono elementi nuovi o se l’ufficio è disponibile a un compromesso (ad esempio, potrebbe riconoscere la legittimità di una nota di credito su due contestate, riducendo la base).
- Sicuramente una riduzione delle sanzioni: per legge, se si perfeziona l’adesione, le sanzioni amministrative si applicano al 1/3 del minimo edittale. Spesso l’ufficio offre in sede di adesione di ridurre le sanzioni al minimo (90%) e poi a 1/3 = 30%. È il trattamento di favore previsto (in giudizio le sanzioni sarebbero al 100% o 90% intero).
- Rateazione più agevole: l’accertamento con adesione consente fino a 8 rate trimestrali (16 rate se importi oltre 50.000 €), invece in caso di perdita in giudizio le rate sono meno.
Decidere se aderire o meno dipende dalla valutazione costi/benefici. Se il contribuente ha una buona chance di vittoria in giudizio (es. un chiaro errore dell’ufficio, o giurisprudenza favorevole), può convenire fare ricorso. Se invece la posizione è debole e l’ufficio offre uno sconto significativo, aderire evita spese e incertezze. Talvolta conviene presentare istanza di adesione anche solo per guadagnare tempo (90 giorni in più) e usare quell’intervallo per preparare meglio la difesa o valutare con calma. Nell’incontro, si può tentare di convincere i funzionari su alcuni punti, portando magari documenti non visti prima.
Nel nostro contesto, ad esempio, se è contestata una nota di credito tardiva, si potrebbe far leva sul fatto che tanto l’IVA è stata versata dall’altra parte, quindi proporre di rinunciare al rimborso ma chiedere sanzioni minime. Oppure se ci sono più annualità coinvolte, trovare un accordo su una definizione forfettaria.
- Acquiescenza all’accertamento: Se il contribuente riconosce la fondatezza dell’atto o non intende fare causa, può optare per il pagamento entro 60 giorni con acquiescenza. In tal caso ha diritto alla riduzione delle sanzioni a 1/3 di quelle irrogate. Spesso negli avvisi l’AE applica già la sanzione minima (90%); con acquiescenza pagherebbe il 30%. È una scelta drastica ma a volte conveniente se l’alea giudiziaria è alta. Importante: fare acquiescenza preclude ogni ricorso e anche ogni successiva istanza di rimborso su quegli importi.
- Definizioni agevolate o condoni: Al 2025, ci sono state varie misure straordinarie (pace fiscale, definizione liti, ecc.). Se la contestazione rientra in qualche finestra di definizione agevolata (ad es. sanatoria liti pendenti pagando il tributo senza sanzioni), il contribuente valuterà anche queste opportunità. Sono misure occasionali, ma in un’ottica di completa informazione è bene ricordarne l’esistenza.
Trascorsa la fase amministrativa, se non si è trovato un accordo o se si è scelto di non aderire, l’unica via per far valere le proprie ragioni resta il ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria (CGT).
Prima di passare al processo, due note pratiche sulla fase amministrativa:
- Sospensione feriale: I 60 giorni per impugnare (o per presentare adesione) sono sospesi dal 1° agosto al 31 agosto di ogni anno. Quindi se un avviso viene notificato, ad esempio, a luglio, la scadenza effettiva tiene conto di questa pausa.
- Pagamento in pendenza di ricorso: Come detto, dopo 60 giorni dalla notifica l’atto diventa esecutivo per 1/3 dell’imposta. Per evitare la riscossione coattiva (cartella/ingiunzione) di quel terzo, il contribuente può:
- Pagarlo (senza pregiudicare il ricorso sul restante, ma mostrando buona fede).
- Chiedere alla CGT una sospensione dell’esecuzione dell’atto, se ci sono gravi e fondati motivi (es. importo elevato e rischio di danno grave). La CGT può sospendere tutto o parte delle somme fino alla decisione di merito.
Di norma, in questioni IVA relative a note di credito, i giudici sospendono la riscossione se vedono fumus boni iuris nella difesa (es. una controversia interpretativa seria) e periculum (importo ingente). Se invece la pretesa appare fondata in fatto e diritto, difficilmente sospendono solo per l’importo alto.
In sintesi, la fase amministrativa rappresenta un’occasione per ridurre il contendere o almeno preparare il terreno al contenzioso. Un contribuente ben consigliato userà il periodo tra il PVC e l’avviso, e poi quello dell’adesione, per raccogliere documenti, ottenere perizie se servono (ad es. attestare data effettiva di conoscenza di un insoluto), e magari negoziare un esito favorevole evitando la causa. Se però l’accordo non è soddisfacente o l’Agenzia rimane rigida, si dovrà procedere col ricorso.
Difendersi nel contenzioso tributario: strategie e oneri probatori
Il processo tributario è la sede nella quale il contribuente può far valere in modo indipendente le proprie ragioni di fronte a giudici terzi. Dal 2023 le Commissioni Tributarie hanno assunto la nuova denominazione di Corti di Giustizia Tributaria di primo grado (ex CTP) e di secondo grado (ex CTR). La riforma ha anche introdotto alcune novità procedurali (come il rinforzo del principio del contraddittorio endoprocedimentale e l’ufficio del processo tributario), ma qui ci concentriamo sugli aspetti pratici di difesa nel merito della contestazione sulle note di credito.
Presentazione del ricorso e vizi formali da eccepire
Il ricorso va notificato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto (salvo sospensioni e proroghe per adesione come detto). Già in questa fase occorre valutare se far valere eventuali vizi formali/procedurali dell’avviso, che potrebbero portare al suo annullamento a prescindere dal merito. Ad esempio:
- Mancato rispetto del contraddittorio endoprocedimentale: Se si trattava di un accertamento “a tavolino” (senza PVC GdF) per il quale era obbligatorio il preventivo avviso di accertamento con invito a comparire (in alcune materie lo è dal 2020) o comunque il rispetto dei 60 giorni dopo il PVC (nei casi in cui lo Statuto del Contribuente art.12, c.7 si applica, tipicamente dopo accessi in loco), e ciò non è avvenuto, si può eccepire la nullità dell’atto. Esempio: se la Guardia di Finanza ha chiuso un PVC e l’ufficio ha emesso l’avviso prima dei 60 giorni senza urgenza motivata, c’è violazione dell’art.12 c.7 L.212/2000.
- Difetto di motivazione: L’avviso deve spiegare chiaramente le ragioni della ripresa d’imposta e le prove a sostegno. Se l’atto si limita ad affermare “nota di credito fuori termine, IVA dovuta” senza indicare quali fatture, quali date, e perché, si può invocare la carenza di motivazione. Tuttavia, spesso l’avviso richiama il PVC GdF o l’esito di un controllo dove questi dettagli ci sono, quindi bisogna leggere bene.
- Errore nel quantum o calcoli: Capita di trovare sbagli di calcolo (es. l’imposta ricalcolata male). Se l’errore è evidente, si segnala nel ricorso; a volte l’ufficio stesso in giudizio lo riconosce e riduce la pretesa.
- Notifica irregolare: Un vizio di notifica può essere sanato dalla costituzione in giudizio, ma se l’atto non fosse stato notificato affatto correttamente (ipotesi rara), il ricorso potrebbe far valere l’intempestività.
Questi vizi, se fondati, possono portare all’annullamento dell’atto. Nel caso di note di credito, però, la sostanza spesso prevale: i giudici potrebbero annullare per un vizio formale ma l’ufficio potrebbe rinnovare l’atto sanando il vizio (salvo decadenze dei termini). Ad ogni modo, vanno sempre segnalati nel ricorso, quantomeno come c.d. motivi aggiunti o preliminari, perché se accolti risolvono subito la questione.
Onere della prova e impostazione delle difese di merito
Principio generale: Nel contenzioso tributario l’onere della prova è ripartito tra le parti a seconda delle circostanze. In un caso di note di credito:
- Spetta all’Agenzia provare i fatti costitutivi della pretesa tributaria. Ad esempio, se contesta operazioni inesistenti, deve fornire elementi di prova (o presunzioni) dell’inesistenza. Se contesta note di credito fuori termine, deve dimostrare che l’evento non rientrava nel comma 2 o che è avvenuto oltre l’anno.
- Spetta al contribuente provare eventuali esimenti o circostanze che danno diritto all’agevolazione/detrazione. Dunque, per stare nelle regole dell’art.26, sarà il contribuente a dover provare che la sua nota di variazione rientrava in uno dei casi ammessi. Ad esempio, se sostiene che c’era una risoluzione contrattuale, dovrà produrre il contratto e l’atto di risoluzione. Se afferma che la fattura era stata annullata e mai detratta dal cliente (caso di operazione inesistente corretta in tempo), dovrà portare lettere, dichiarazioni del cliente, ecc.
In giudizio il contribuente dovrà quindi documentare il più possibile la propria versione. È fondamentale depositare copia di: contratti, eventuali cause civili o atti giuridici relativi all’operazione, corrispondenza con la controparte (lettere di credito, solleciti di pagamento, lettera di rinuncia al credito se rilevante, ecc.), bilanci e documenti contabili (ad es. se la nota di credito era stata registrata subito, provare come è stata contabilizzata), visure e atti della procedura concorsuale (sentenza fallimento, stato passivo).
Difendersi caso per caso:
- Se contestano operazione inesistente: come detto, puntare su effettività e buona fede. Il ricorso deve sottolineare, se applicabile, che l’operazione era reale (produrre DDT, prove di magazzino, utilizzo beni) e citare giurisprudenza UE (ad es. cause Mahagében/Kittel) e Cassazione che tutelano il diritto a detrazione del terzo in buona fede. Al contempo, attaccare l’eventuale fragilità delle prove del Fisco: se questo non ha provato nulla salvo la mancanza di fattore X, rimarcare l’insufficienza.
- Se contestano note di credito tardive/senza presupposto: qui la difesa è più giuridica. Si dovrà argomentare magari che l’evento sopravvenuto è assimilabile a un caso del comma 2 (se possibile). Ad esempio: “L’accordo intervenuto in data X va qualificato come risoluzione consensuale del contratto originario, non come modifica sopravvenuta” e citare magari dottrina o prassi se esiste. Inoltre, si può fare leva sul principio di neutralità: se davvero l’Erario non ha perso nulla (perché l’IVA era comunque stata assolta, magari dal cliente) si può invocare la proporzionalità della sanzione e l’assenza di danno (questo spesso tocca la sanzione più che l’imposta). Un giudice potrebbe, in equità, annullare le sanzioni riconoscendo che non c’era intento evasivo ma solo non perfetto rispetto formale.
- Se contestano insolvenza/fallimento anticipato: qui si può citare la recente evoluzione normativa, magari sostenere che il contribuente ha agito secondo un’interpretazione che poi l’Agenzia non condivide ma su cui c’era incertezza. Per esempio, se uno ha emesso nota di credito alla sentenza di fallimento nel 2020 (quando formalmente non era ancora consentito) potrebbe dire che già la direttiva UE lo avrebbe permesso e che è intervenuta norma nel 2021 proprio per riconoscere quell’esigenza. Quindi invocare l’applicazione retroattiva favorevole, o l’errore scusabile. Si può citare quella Cass. 2023 (35518/2023) se affermava qualcosa di utile (bisognerebbe vedere il contenuto esatto, ma l’AE l’ha citata quindi forse era pro-contribuente).
- Se contestano rinuncia al credito: qui la difesa è dura. Forse l’unica carta è dire che la rinuncia del creditore potrebbe essere vista come un “accordo transattivo” col curatore per chiudere il fallimento, quindi quasi come un evento di definizione concordata (ma l’AE ha detto di no). Oppure, provare che comunque il fallimento chiuderà senza pagamento e invocare l’ovvio esito. Molto probabile che in questi casi convenga non rinunciare affatto e attendere la chiusura per fare la nota (questa sarebbe stata la condotta corretta).
Presentazione di testimoni: come anticipato, nel processo tributario non è ammessa la testimonianza orale (art. 7 D.Lgs. 546/92). Quindi non si può portare in udienza il cliente a dire “sì, ho firmato la risoluzione il tal giorno” o il camionista a dire “ho consegnato la merce”. Però, è possibile utilizzare prove documentali di vario genere: – Dichiarazioni sostitutive di atti notori rese dalle controparti o da terzi (non hanno valore di prova testimoniale piena, ma come meri indizi sì). – Verbali di conciliazione giudiziale o dichiarazioni rese in altri giudizi (es. se il cliente in una causa civile ha ammesso qualcosa, quel verbale si può produrre). – Perizie tecniche giurate (es. un commercialista che attesta contabilità). – La richiesta di informazioni alla controparte tramite l’ufficio (ex art. 210 cpc analogico) raramente viene concessa, ma si può tentare di far ordinare all’AE di esibire atti se li ha.
Svolgimento del processo: Il processo è principalmente scritto. Il contribuente fa il ricorso, l’Ufficio resiste con controdeduzioni, poi eventuali memorie aggiuntive. In udienza, si discutono i punti salienti. Nel caso di note di credito, spesso la decisione verte sull’interpretazione della norma e sulla valutazione delle prove fornite. Se il contribuente ha svolto bene la sua difesa e ha ragione, il giudice potrà annullare l’accertamento. Se il contribuente ha parzialmente torto, a volte si vedono sentenze di accoglimento parziale: ad esempio, confermano l’IVA ma tolgono le sanzioni per buona fede, oppure riconoscono la nota di credito per alcune fatture e non per altre (riducendo l’imposta dovuta).
Appello e Cassazione: Sia il contribuente sia l’Ufficio possono appellare la sentenza di primo grado entro 60 giorni (o 6 mesi se non notificano). Durante l’appello, la riscossione rimane sospesa per 1/3 se il Fisco ha appellato dopo una vittoria contribuente (in caso di soccombenza erariale, ora se l’AE appella non può riscuotere, a meno che ottenga una sospensione dell’efficacia della sentenza di primo grado dal giudice d’appello). In secondo grado si ripete la dinamica, poi eventuale ricorso per Cassazione ma solo su legittimità. In Cassazione, sulle note di credito, oramai i principi sono abbastanza consolidati (le ordinanze del 2024 ne sono esempio). Dunque in ultimo grado la spunta il principio di diritto più che l’equità.
Sanzioni nel processo: Se anche l’imposta viene confermata, il giudice può sempre ridurre le sanzioni se ricorrono cause di non punibilità (buona fede, incertezza normativa obiettiva). Spesso lo fa se vede che il contribuente è caduto in un errore scusabile o formale. Ad esempio, Commissioni hanno annullato sanzioni in casi di note di credito tardive ritenendo che non vi fosse evasione ma solo errore di interpretazione. Vale la pena quindi insistere su questo aspetto: evidenziare che non c’era intento evasivo, che l’IVA era sempre stata contabilizzata, ecc. Ciò può portare magari a ridurre la sanzione al minimo edittale o eliminarla, anche se l’imposta resta.
Riepilogo delle differenze tra operazioni inesistenti oggettive e soggettive (tavola di sintesi)
Come approfondimento collegato alle strategie difensive, riportiamo una tabella che confronta le caratteristiche delle operazioni inesistenti oggettive vs soggettive e le relative implicazioni in materia di note di credito e detrazioni IVA:
Caratteristica | Operazioni oggettivamente inesistenti (fittizie) | Operazioni soggettivamente inesistenti (frode carosello) |
---|---|---|
Descrizione | Nessuna cessione/prestazione reale sottostante alla fattura. La fattura è completamente falsa, emessa per operazione mai avvenuta. | Cessione/prestazione avvenuta realmente, ma il fornitore indicato in fattura è fittizio/interposto. Beni o servizi provenuti da soggetto diverso (spesso “cartiera”). |
Esempio tipico | Azienda emette fattura per vendita mai effettuata; poi la storna con nota di credito per non versare l’IVA (schema di frode a “cartiera pura”). | Azienda acquista merce realmente consegnata, ma il fornitore in fattura è un prestanome (la merce arriva da altro operatore). IVA detratta dall’acquirente in buona o malafede. |
Diritto alla detrazione IVA | Negato in ogni caso al cessionario: non essendoci operazione, l’IVA non è detraibile (manca il presupposto dell’acquisto di beni/servizi). Buona fede irrilevante (impossibile ignorare una transazione inesistente). | Possibile se l’acquirente è in buona fede: se prova di non sapere del coinvolgimento di una cartiera e che l’operazione economica era reale, la giurisprudenza UE/nazionale tende a riconoscere la detrazione (onere prova buona fede a carico contribuente). Se invece era consapevole, detrazione negata. |
Obbligo di versare l’IVA da parte del cedente | Sì, l’emittente fattura è debitore IVA in base al principio di cartolarità. Può evitare il versamento solo provando che ha annullato tempestivamente gli effetti (fattura mai registrata dal cliente, etc.). Altrimenti l’IVA va versata e l’eventuale nota di credito non è riconosciuta. | Il fornitore formale (cartiera) è tenuto a versare l’IVA fatturata. In realtà spesso non lo fa (essendo entità fittizia); il Fisco tende a rivolgersi al beneficiario effettivo. Nota: se l’acquirente era in buona fede, egli ha diritto a detrazione e il Fisco colpisce solo la cartiera; se era consapevole, viene trattato come coautore della frode (vedi colonna a sinistra). |
Utilizzo della nota di credito | Nota di credito spesso usata fraudolentemente per stornare la fattura fittizia a fine periodo. Non ammessa legalmente: non esiste causa reale per variazione (operazione non c’è mai stata). È un documento falso a sua volta. | Nota di credito meno frequente (in frodi carosello di solito non si stornano fatture, si lascia che la cartiera non versi l’IVA). Se il fornitore “cartiera” emette nota di credito (es. per fingere resi), comunque non legittima il cliente a detrarre perché l’operazione rimane simulata. |
Prova a carico del Fisco | Deve provare che l’operazione non è avvenuta affatto (es. mancata movimentazione, contraddizioni nelle dichiarazioni). Spesso tramite indizi concordanti: mancanza di sede, di dipendenti, etc. | Deve provare l’esistenza di una frode e che il contribuente ne era consapevole (o almeno “avrebbe dovuto sapere”). Indizi: la società fornitrice è irreperibile, prezzi anomali, pagamenti a soggetti terzi, giro di fatture tra società collegate, ecc. |
Linea difensiva del contribuente | Difficile: unica via è contestare la prova dell’AE (dimostrare che l’operazione in realtà c’è stata – ma se è realmente inesistente non si può) o puntare su vizi formali. Spesso conviene chiudere con sanzioni ridotte se ammette la violazione. | Provare che la transazione era reale (documenti di trasporto, uso dei beni) e dimostrare diligente comportamento per escludere la conoscenza della frode. Produrre contratti, visure del fornitore, prove che al tempo nulla faceva sospettare irregolarità. Enfatizzare la buona fede per salvare la detrazione o almeno abbattere sanzioni. |
Risvolti penali | Emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs.74/2000) a carico dell’emittente; Dichiarazione fraudolenta con fatture false (art.2) a carico di chi le usa. Entrambi reati di frode fiscale. Pene severe, soglie di punibilità modeste. | Dichiarazione fraudolenta (art.2) per l’utilizzatore consapevole; Emissione fatture false (art.8) per chi ha messo a disposizione le fatture (cartiera). L’acquirente in buona fede non è punibile penalmente (manca il dolo). In questi schemi spesso le cartiere sono nullatenenti e i reali beneficiari rischiano sanzioni amministrative e penali se provata la consapevolezza. |
Questa comparazione aiuta a capire come, sebbene dal punto di vista fiscale entrambe le categorie comportino contestazioni su fatture e note di credito, le possibilità difensive divergano molto. Nel caso di frode “carosello” con operazioni soggettivamente inesistenti, il contribuente ha spazio per difendersi (puntando sulla propria estraneità alla frode); nel caso di operazioni totalmente inesistenti, la difesa sul merito è quasi impossibile e ci si concentra su aspetti formali o transattivi.
Profili sanzionatori e conseguenze in caso di soccombenza
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta note di credito illegittime, oltre al recupero dell’IVA indebitamente detratta o rimborsata, vengono applicate le sanzioni amministrative tributarie. Vediamo quali sono e con che criteri vengono eventualmente ridotte:
- Sanzione base per indebita detrazione/rimborso IVA: Ai sensi dell’art. 6, comma 6, D.Lgs. 471/1997, il cattivo esercizio del diritto alla detrazione (in particolare l’utilizzo di un credito inesistente o non spettante, o la detrazione indebitamente eseguita) è punito con una sanzione che va dal 90% al 180% dell’importo dell’IVA indebitamente detratta/rimborsata. In pratica, nella prassi, l’Agenzia applica il 90% (il minimo edittale) se non ci sono aggravanti. Ad esempio, se contesta 10.000 € di IVA da note di credito illegittime, la sanzione iniziale sarà 9.000 €. Se però ravvisasse condotte particolarmente fraudolente o recidive, potrebbe proporre aliquote più alte (rare).
- Sanzione per fatture per operazioni inesistenti (emittente): C’è una sanzione specifica (art. 6, comma 1, D.Lgs.471/97) per chi emette fatture false: 100% dell’IVA indicata in fattura, solidalmente con l’utilizzatore. Ma generalmente, se già si recupera l’IVA e si sanziona al 90%, non si somma anche questa, altrimenti ci sarebbe duplicazione (dipende dai casi, ma di solito contestano quell’unica sanzione del 90%).
- Interessi moratori: decorrono dalla data in cui l’IVA sarebbe stata dovuta (o indebitamente rimborsata) fino al pagamento, al tasso legale annuo (aggiornato periodicamente). Gli interessi non sono sanzione ma accessori, e non sono riducibili nemmeno con l’adesione (vanno pagati per intero).
- Sanzioni penali: Come già trattato, l’uso illecito di note di credito può sottendere reati di frode fiscale. In questa sede basti ricordare le soglie principali: dichiarazione fraudolenta mediante fatture false è punita con reclusione 4-8 anni (soglia evaso > 100k, ma per fatture false credo sia senza soglia minima, va per atto), emissione fatture false reclusione 4-8 anni (anche qui soglie minime ridotte dal 2019). Oltre a questi, se la nota di credito era un mero stratagemma per non versare l’IVA dovuta, potrebbe configurarsi anche l’omesso versamento IVA (art.10-ter D.Lgs.74/2000, soglia 250k). Su questo ultimo aspetto c’è la novità Cassazione 2024 che scagiona chi non versa per mancato incasso, ma bisogna valutare caso per caso. In ogni caso il processo penale è separato: la sentenza tributaria non vincola il giudice penale (se non per fatti accertati in giudicato), e viceversa. Spesso però in caso di frodi gravi il procedimento penale corre parallelo e l’esito penale (ad es. assoluzione per mancanza di dolo) può influenzare in melius il giudice tributario.
Riduzioni e definizioni delle sanzioni:
- In adesione: 1/3 della sanzione irrogata (quindi il 30% circa dell’imposta, se sanzione base 90%). Ad esempio su 9.000 € la si riduce a 3.000 €.
- In acquiescenza: 1/3 della sanzione (simile all’adesione).
- In caso di vittoria parziale: se il giudice accoglie in parte il ricorso, spesso ridetermina le sanzioni in proporzione. Inoltre, se ritiene che il contribuente fosse in buona fede, può annullare o dimezzare le sanzioni. Ha facoltà di applicare l’art. 7 D.Lgs. 472/97 (circostanze attenuanti) per ridurre sotto il minimo. Per es., Commissioni in passato, su note di credito tardive ma senza evasione, hanno ridotto la sanzione al minimum (90%) e poi ulteriormente a 1/3 in via di equità.
- Cause di non punibilità amministrativa: come detto, l’art. 6, co.2 D.Lgs.472/97 esclude sanzioni se c’era incertezza normativa oggettiva o errore inevitabile. Queste sono da far valere nel processo: se accolte, sanzioni zero (imposta e interessi comunque vanno). La “buona fede” generica non basta ad annullare sanzioni, ma aiuta. Spiegare che il contribuente era convinto (ragionevolmente) di poter emettere quella nota, magari supportato da un parere o da una prassi equivoca, può convincere il giudice a togliere le sanzioni.
Esempio sanzionatorio finale: Torniamo al caso della società immobiliare con nota di credito tardiva: aveva 50.000 € di IVA contestata. Sanzione base 45.000 € (90%). In adesione ottiene 15.000 €. In giudizio perde ma i giudici le riconoscono che c’era buona fede -> riducono sanzione a 10% (5.000 €). Totale pagherà 50k + interessi + 5k sanzione. Questi conteggi vanno sempre tenuti in considerazione quando si sceglie la via giudiziale: a volte l’Agenzia in adesione offre sanzione 30% e sembra tanto, ma poi i giudici potrebbero ridurla a 0 se convinti.
Pagamento e riscossione post sentenza:
- Se il contribuente vince completamente in primo grado, non deve pagar nulla e ha diritto (in teoria) a eventuale rimborso se aveva versato il terzo. L’AE di solito appella, ma nel frattempo l’atto è annullato quindi non esecutivo. Con la riforma, sembra che la sentenza di primo grado favorevole al contribuente sia immediatamente esecutiva per le somme, salvo che il giudice d’appello la sospenda su istanza AE.
- Se il contribuente perde, deve pagare l’imposta, interessi e 2/3 delle sanzioni (perché 1/3 era già esigibile). Può chiedere la rateazione al concessionario (Agenzia Riscossione) normalmente fino a 72 rate mensili (6 anni) se importo > €120, e oltre 120 rate in casi eccezionali. Inoltre, se non paga volontariamente entro 60 giorni dalla sentenza definitiva, parte la riscossione coattiva.
- Se in appello la sentenza ribalta a favore del Fisco, allora quello diventa esecutivo (sempre 1/3 subito se il contribuente vuole andare in Cassazione). Il contribuente può ancora cercare di pagare e definire riduzioni di sanzioni (in Cassazione non c’è definizione agevolata se non quella di pagare prima e cercare causa di non punibilità penale per estinguere il reato, ma è altra storia).
Aspetti reputazionali: Anche se non è “sanzione”, va ricordato che contestazioni su fatture false e note di credito possono portare anche ad altre conseguenze: inserimento in black list dei fornitori “a rischio” (inibendo per 1 anno compensazioni o rimborsi IVA sopra certi importi, secondo l’art. 17 DL 78/2009 per chi ha processi verbali con rilievi penali), oppure pregiudicare i rapporti con le banche se si viene imputati per frode fiscale. Quindi la faccenda può avere impatto oltre il mero pagamento.
In conclusione, difendersi proattivamente è essenziale: un contribuente che dimostri trasparenza e collaborazione spesso riesce a limitare i danni (ad esempio, in adesione potrebbe strappare la non applicazione di alcune sanzioni accessorie).
Passiamo adesso alle Domande frequenti, per riepilogare in forma chiara e diretta alcune questioni.
Domande frequenti (FAQ)
D: Ho ricevuto un avviso di accertamento che mi contesta IVA indebitamente recuperata tramite note di credito. Quanto tempo ho per fare ricorso?
R: Dal momento in cui ti viene notificato l’avviso di accertamento, hai 60 giorni di tempo per presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente. Il termine di 60 giorni è perentorio: se lo superi senza agire, l’atto diventa definitivo e l’Agenzia potrà iscrivere a ruolo le somme. Puoi però ottenere una proroga presentando istanza di accertamento con adesione: in tal caso il termine di 60 giorni rimane sospeso per 90 giorni (cioè guadagni 90 giorni in più). Ad esempio, notificato l’avviso il 1° settembre, normalmente dovresti ricorrere entro 30 ottobre; se presenti adesione il 20 ottobre, il termine ricomincia a contare dopo la sospensione di 90 gg, cadendo intorno a fine gennaio. Attenzione inoltre al periodo feriale: dall’1 al 31 agosto i termini sono sospesi per legge, quindi se la notifica avviene a metà luglio, il conteggio dei 60 gg si ferma ad agosto e riprende a settembre. In sintesi: 60 giorni ordinari (estendibili fino a 150 con l’adesione) per il ricorso. È fondamentale rispettare questo termine per non perdere il diritto alla difesa.
D: L’Agenzia mi propone l’accertamento con adesione per chiudere la vertenza. Mi conviene aderire o fare ricorso?
R: Dipende dal caso. L’adesione è utile se pensi che l’Ufficio abbia ragione almeno in parte, o se comunque vuoi evitare un lungo contenzioso e cerchi un compromesso. I vantaggi dell’adesione: puoi discutere direttamente con i funzionari e spesso ottenere uno sconto sulle sanzioni (a 1/3) e talvolta anche sull’imposta (se l’ufficio riconosce qualche tuo argomento). Inoltre puoi pagare in maniera dilazionata (fino a 8 rate trimestrali, o 16 se l’importo supera 50.000 €). Di contro, se sei convinto di aver ragione e hai prove solide (es. un contratto che l’ufficio ignorava, o una sentenza favorevole analoga al tuo caso), il ricorso potrebbe portare all’annullamento totale senza pagare nulla (tranne magari le spese legali, in parte recuperabili se vinci). Devi valutare anche l’importo: per somme molto alte, un accordo potrebbe comunque significare pagare tanto; viceversa, un contenzioso lungo potrebbe incidere sulla liquidità per via del 1/3 provvisoriamente esigibile. Una strategia può essere: presentare istanza di adesione comunque (così sospendi i termini e prendi tempo), andare all’incontro con l’ufficio e vedere cosa offrono. Se propongono un forte abbattimento (ad es. riconoscono buona parte delle note di credito, o tagliano le sanzioni al minimo) puoi accettare. Se invece pretendono quasi tutto (magari offrendo solo lo sconto di legge sulle sanzioni, cioè 1/3 del 90%), allora può valere la pena proseguire col ricorso. In breve: conviene aderire se ritieni probabile una sconfitta in giudizio o vuoi chiudere presto limitando danni; conviene ricorrere se hai validi motivi di difesa e sei disposto ad affrontare tempi e costi del processo.
D: In caso di sconfitta in giudizio, dovrò pagare oltre all’IVA anche sanzioni e interessi. Posso rateizzare questi importi?
R: Sì. Se perdi il ricorso (o decidi di non impugnare l’accertamento), la normativa prevede possibilità di rateizzare il debito tributario. Ci sono varie opzioni: – Accertamento con adesione: se trovi un accordo, come detto, puoi avere fino a 8 rate trimestrali (o 16 rate se l’importo supera 50.000 €). – Avviso “ordinario” dopo sentenza o acquiescenza: le somme vengono affidate all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione, ex Equitalia). A quel punto puoi chiedere una dilazione: tipicamente fino a 72 rate mensili (6 anni) per importi fino a €100.000; oltre, o per comprovate situazioni di difficoltà, si può arrivare a 120 rate (10 anni) o in casi eccezionali anche 160. La rateazione viene generalmente concessa se dimostri di non poter pagare subito l’intero. – Pagamento in appello/Cassazione: se stai appellando e devi pagare intanto, puoi comunque chiedere la rateazione all’agente della riscossione per il terzo esecutivo.
Attenzione: la rateazione comporta comunque interessi sulle rate dilazionate. Inoltre, se salti una certa quantità di rate (di solito 5) decadi dal beneficio. Ma è senz’altro uno strumento per gestire l’esborso. Ad esempio, se devi pagare 50.000 € totali, potresti ottenere di pagare ~700 € al mese per 6 anni. Ricorda che la richiesta va fatta tempestivamente una volta che il debito è iscritto a ruolo (di solito ti arriva una comunicazione con le istruzioni).
D: Posso evitare di pagare le sanzioni amministrative se dimostro che ero in buona fede e non volevo evadere?
R: La buona fede, da sola, non esonera automaticamente dal pagamento delle sanzioni tributarie, perché vige un principio di oggettività: conta l’inosservanza della norma, indipendentemente dal dolo, salvo specifiche esimenti. Tuttavia, l’ordinamento prevede alcune attenuanti legate alla buona fede: – Se c’erano obiettive condizioni di incertezza sulla norma o errore incolpevole, l’art. 6, co.2, D.Lgs. 472/97 esclude proprio la punibilità. Bisogna però provare che la situazione normativa o fattuale fosse effettivamente ambigua. Nel caso delle note di credito, ad esempio, se davvero c’era una circolare equivoca o una prassi contraddittoria, si può invocare. In pratica non è facile ottenerla: bisogna convincere che qualunque contribuente diligente si sarebbe confuso. – Anche se non c’è incertezza normativa riconosciuta, la buona fede può portare almeno a una riduzione sanzionatoria. Alcune Commissioni hanno annullato o ridotto le sanzioni riconoscendo che il contribuente ha agito senza volontà di evasione e con ragionevole affidamento. Ad esempio, se la tua nota di credito tardiva è stata fatta su consiglio di un professionista o seguendo un comportamento diffuso, potresti farlo presente. – Inoltre, in sede di adesione o acquiescenza, la buona fede di per sé non evita la sanzione, ma il sistema già ti riduce la sanzione a 1/3. In giudizio, i giudici possono ridurre le sanzioni al minimo o sotto il minimo se ritengono sproporzionato punire severamente un errore formale commesso in buona fede. – Nota bene: la buona fede è invece determinante in ambito penale. I reati tributari di frode richiedono il dolo specifico di evasione. Se riesci a dimostrare di aver agito in buona fede (es. credevi veri i documenti), puoi evitare condanne penali. Ma per le sanzioni amministrative, la soglia è più bassa: contano gli atti oggettivi (nota di credito indebita emessa) a prescindere dall’intento.
In sintesi, evidenziare la buona fede vale sempre la pena: non garantisce l’azzeramento delle sanzioni tributarie, ma può persuadere l’ente in adesione o il giudice in contenzioso a trattarti col massimo favore (sanzione minima o nulla). Soprattutto se puoi allegare elementi che mostrino l’assenza di intenti fraudolenti – ad esempio, hai dichiarato in IVA quella variazione, quindi non l’hai nascosta; hai eseguito l’operazione spinto da un’interpretazione plausibile della norma, ecc. Ciò detto, preparati anche al fatto che la legge di base non premia spontaneamente la buona fede, per cui l’abbattimento sanzioni resta una decisione discrezionale.
D: L’Agenzia delle Entrate ha già recuperato l’IVA dal mio cliente/fornitore (hanno fatto un accertamento a lui) e ora la chiedono anche a me negandomi la detrazione. Non è una doppia imposizione? Posso difendermi sostenendo che lo Stato così incassa due volte?
R: Capisco l’obiezione di equità: può succedere che il Fisco, per scrupolo, colpisca entrambi i lati di un’operazione contestata, risultando di fatto creditore di un importo doppio dell’IVA (una volta pagata dal fornitore, una volta negata al cliente). In linea di principio, dal punto di vista legale, non si configura doppia imposizione illegittima: fornitore e cliente sono due soggetti distinti, ciascuno obbligato per norme diverse (l’uno a versare l’IVA sulle vendite, l’altro a non detrarre indebitamente). Quindi l’Erario è legittimato, ad esempio, a incassare l’IVA dal fornitore e contemporaneamente negarla al cessionario, anche se ciò significa che nessuno dei due l’ha “persa” (e lo Stato ci guadagna). La Cassazione ha più volte affermato che questa situazione, per quanto possa apparire doppia, è conseguenza del sistema normativo: la detrazione IVA non è mai automatica ma condizionata alla regolarità dell’operazione, e se viene negata, l’IVA resta dovuta dal cedente indipendentemente dal fatto che il cessionario poi non la recuperi. D’altronde, se l’operazione era irregolare/fraudolenta, l’Erario tutela il gettito su entrambi i fronti.
Detto ciò, in sede di difesa puoi certamente far presente questa circostanza per ragioni equitative. Qualche giudice tributario, in passato, ha cercato di evitare risultati iniqui interpretando le norme in modo da impedire un indebito arricchimento erariale. Ad esempio, in casi di frodi carosello, alcune sentenze di merito hanno ritenuto che se l’IVA è stata comunque versata dal cedente, negarla al cessionario configurerebbe una sorta di arricchimento senza causa dello Stato – e hanno accolto (ma sono casi minoritari). In generale però la Cassazione non sposa questa tesi: ritiene che l’indebito arricchimento dello Stato non si configuri quando si applicano correttamente le norme antifrode.
In concreto, se il tuo fornitore ha pagato l’IVA con avviso e ora la chiedono pure a te, puoi provare a: – Segnalare all’Agenzia (magari in adesione) che ha già incassato quell’imposta dal fornitore, invitandola a chiudere bonariamente il tuo caso (magari rinunciando alle sanzioni). Non è vincolata a farlo, ma a volte un funzionario di buon senso potrebbe accogliere un’adesione a zero imposta e solo sanzione minima per chiudere. – In giudizio, evidenziare la cosa per indurre il giudice, se è favorevole, a eliminare almeno le sanzioni (visto che l’Erario non ha subito danno). Alcuni giudici potrebbero, ad esempio, dire: “Ok, l’IVA non spetta, ma poiché lo Stato l’ha comunque avuta dal fornitore, considero la buona fede del cessionario e niente sanzioni”. – Valutare se ci sono gli estremi per un ricorso per regolamento di equità (strumento ipotetico: in caso di duplice prelievo su stessa operazione, qualcuno ha teorizzato di far intervenire la Corte Costituzionale per violazione principi, ma finora non ci sono stati esiti concreti).
Riassumendo: sì, lo Stato può incassare due volte la “stessa” IVA in ambito antifrode, e legalmente non è considerata doppia imposizione illegittima. Puoi usare l’argomento per suscitare clemenza sul piano sanzionatorio, ma difficilmente ti esonererà dal pagare l’imposta contestata. L’ideale sarebbe coordinarsi col fornitore: se lui ha pagato, potrebbe rifarsi su di te chiedendoti l’IVA (ex art.60 DPR 633) e tu a quel punto detrarla “ora per allora”. Quella norma, come visto, evita al sistema di incassare doppio: tu ridai l’IVA al fornitore e la detrài, e tutto torna all’equilibrio originario legale. Però ciò presuppone collaborazione tra le parti, cosa non sempre semplice in tali contesti.
D: Ho utilizzato una nota di credito su fattura emessa da una società che poi è fallita ed è stata cancellata. Ora l’Agenzia sostiene che la nota di credito non vale perché la società era estinta. È vero?
R: Se la nota di credito è stata emessa dopo l’estinzione della società fornitrice, l’Agenzia ha ragione: la società cessata, non esistendo più, non poteva emettere alcun documento fiscale valido. E i soci o altri soggetti non subentrano nel potere di emetterla (lo subentrano solo nei debiti eventualmente). Dunque la nota di credito è considerata inesistente ai fini IVA. Questo comporta che tu, cessionario, non avevi titolo per registrarla in detrazione: l’IVA doveva restare pagata. Purtroppo in questi casi non c’è molto da fare: la normativa (art.2495 c.c. e prassi AE) è chiara nel dire che l’estinzione taglia ogni rapporto attivo. L’unica cosa che puoi verificare è: la società era già formalmente cancellata alla data della nota di credito? Se per caso la nota porta data precedente la cancellazione, allora era valida (anche se magari è stata registrata dopo). Bisogna guardare i tempi. Se invece effettivamente l’hai ricevuta da una società che legalmente non esisteva più, la difesa è quasi impossibile. Puoi eventualmente eccepire che tu eri in buona fede e non sapevi della cancellazione (magari l’hai appresa dopo), per chiedere di non applicare sanzioni. Ma l’IVA con ogni probabilità dovrai restituirla.
Questa situazione è un monito: se hai rapporti con fornitori che cessano l’attività, assicurati di risolvere prima tutte le variazioni (note di credito, eventuali storni) quando sono ancora attivi. Dopo la cessazione, ogni documento fiscale emesso è nullo. L’Agenzia cita a supporto anche pronunce Cassazione che ribadiscono il principio di diritto: la nota di credito post-estinzione manca del requisito soggettivo (non c’è un cedente esistente).
D: Ho emesso una fattura, il cliente non mi ha pagato e sembra sparito (non è fallito, semplicemente irreperibile). Posso emettere nota di credito per il mancato incasso?
R: Purtroppo no, non in automatico. Il mancato pagamento di per sé non rientra tra i casi che ti autorizzano a emettere nota di credito. Come abbiamo approfondito, per recuperare l’IVA su crediti inesigibili devi passare attraverso: – Una procedura concorsuale (fallimento, liquidazione giudiziale, concordato preventivo) oppure – Un’esecuzione forzata infruttuosa (ad esempio: ottieni un decreto ingiuntivo, tenti pignoramento e ti viene certificato ufficialmente che non ci sono beni da pignorare).
Se il tuo cliente è semplicemente irreperibile, tecnicamente dovresti promuovere un’azione legale (un ricorso per decreto ingiuntivo, poi tentare di pignorare). Solo dopo, se l’ufficiale giudiziario redige un verbale di pignoramento negativo perché il debitore è nullatenente non trovabile, hai il presupposto “procedura esecutiva infruttuosa” per la nota di credito. So che è macchinoso, ma la legge lo esige per evitare abusi.
Altrimenti, l’unica altra strada è attendere eventuali iniziative: se per esempio il debitore viene d’ufficio dichiarato fallito (può succedere se aveva altre pendenze), allora potrai agire.
Se invece tu oggi emettessi una nota di credito semplicemente perché decidi di abbuonare il credito come inesigibile, sarebbe considerata una “rinuncia unilaterale” – che, come discusso, non ti dà diritto al recupero IVA. L’Agenzia lo contesterebbe come indebito (Risposta 203/2024 docet).
Quindi, per ora, non puoi emettere legittimamente una nota di credito. Quello che potresti fare è dedurre la perdita ai fini delle imposte dirette (trascorsi i termini di legge), ma l’IVA purtroppo rimane a tuo carico finché non c’è uno dei trigger formali di cui sopra. Capisco sia frustrante – stai pagando IVA su una vendita non incassata – ma il sistema IVA italiano, a differenza di altri paesi, è costruito così.
D: Quali prove deve fornire il Fisco in caso di contestazione relativa a note di credito per operazioni inesistenti?
R: Il Fisco deve innanzitutto provare che le operazioni sottostanti alle fatture (poi stornate con note di credito) non erano reali. Non può limitarsi a una generica affermazione: servono indizi gravi, precisi e concordanti oppure evidenze dirette. Ad esempio, potrebbe produrre documentazione dalla quale risulta che la merce oggetto di fattura non esisteva o non è mai transitata (es. verifica di magazzino, contraddizioni nelle dichiarazioni IVA dei coinvolti), oppure che le società coinvolte erano riconducibili al medesimo soggetto in una simulazione (es. stesso amministratore occulto, movimenti finanziari circolari).
Nelle frodi complesse spesso allega copie di fatture di acquisto/vendita a catena, verbali di testimonianze raccolte penalmente (che nel tributario diventano indizi), movimentazioni bancarie sospette, ecc. Deve emergere un quadro logico e coerente che lasci poco dubbio sul fatto che le fatture erano di comodo.
Se parliamo di note di credito, il Fisco dovrà anche evidenziare come sono state utilizzate: ad esempio “Tizio ha emesso fattura a Caio per 100+IVA, Caio ha detratto 22 di IVA, poi Tizio ha emesso nota di credito per 100+IVA verso Caio a distanza di sei mesi, cercando di recuperare l’IVA di 22. Caio però nel frattempo non ha rettificato la detrazione.” Questo per dimostrare la frode: Caio si è tenuto la detrazione e Tizio ha ripreso l’IVA -> danno erariale compiuto.
Se invece Caio avesse rettificato la detrazione, come visto allora la posizione di Tizio sarebbe più difendibile (niente danno). Ma in genere se contestano, è perché pensano che il destinatario l’abbia detratta.
Riassumendo: il Fisco deve fornire un minimo di prova dell’inesistenza dell’operazione e dell’indebito utilizzo delle note di credito. Spesso lo fa con il PVC della Guardia di Finanza allegato, che contiene tutte le investigazioni fatte. Una volta che il Fisco presenta questi elementi (poniamo: documenti che mostrano che il magazzino di Caio non ha mai ricevuto la merce fatturata, o che Tizio e Caio hanno stessi soci occulti), la palla passa a te per confutarli. Se il Fisco non fornisse nulla di concreto e fosse tutto basato su sospetti, in giudizio potresti ottenere l’annullamento per difetto di prova. Ma realisticamente, quando arrivano a fare un accertamento su queste materie, qualche evidenza la raccolgono.
D: Ci sono state novità normative nel 2023-2025 che impattano su questi accertamenti di cui dovrei essere a conoscenza?
R: Sì, ne abbiamo citate diverse nel corso della guida. Riassumo le principali novità recenti pertinenti: – Riforma delle procedure concorsuali (DL 73/2021): ha introdotto il comma 3-bis all’art. 26 DPR 633/72, valido dal 26 maggio 2021, che consente di emettere la nota di credito già alla data di apertura di una procedura concorsuale (fallimento/liquidazione giudiziale) senza attendere la chiusura. Inoltre ha chiarito che la detrazione va fatta entro la dichiarazione annuale dell’anno del fallimento. Questo ha cambiato significativamente la tempistica per il recupero IVA in caso di insolvenze dal 2021 in poi. Se i tuoi casi riguardano fallimenti recenti, tienilo presente (mentre per quelli vecchi valgono le regole passate). – Risposta AE 203/2024 (ottobre 2024): ha specificato che la rinuncia unilaterale al credito nel fallimento non permette la nota di variazione. È un chiarimento di prassi, ma importante: se qualcuno pensava di accelerare rinunciando, sappia che non può recuperare l’IVA prima. – Risoluzione AE 47/E/2024 (settembre 2024): chiarisce il discorso società estinte e note di credito (nessuna successione attiva). Se hai casi di società incorporate, segui quel principio. – Riforma della Giustizia Tributaria (L. 130/2022): operativa dal 2023, ha cambiato il nome alle Commissioni in Corti, e ha introdotto il fatto che il giudice tributario può ammettere una sorta di testimonianza scritta (sotto forma di dichiarazioni rese e confermate con mezzi tecnologici). È ancora da vedere come verrà applicato; per ora ricorda che la testimonianza orale resta vietata, ma c’è un piccolo spiraglio per dichiarazioni rese fuori dal processo che il giudice potrebbe valutare. – Norme penali tributarie: il DLgs 75/2020 e DL 124/2019 hanno abbassato alcune soglie e aumentato le pene per i reati di fatture false. Ad esempio, l’omessa dichiarazione e la dichiarazione fraudolenta hanno pene fino a 8 anni adesso. Inoltre, la riforma 2019 ha esteso l’causa di non punibilità per pagamento del debito tributario: oggi se paghi integralmente imposte, sanzioni e interessi prima del giudizio penale di primo grado, per alcuni reati (come dichiarazione fraudolenta) la pena può essere diminuita fino alla metà e c’è un istituto di speciale tenuità. E per l’omesso versamento IVA (art.10-ter), la Cassazione 2024 ha interpretato che se non hai versato perché non incassato, il fatto non costituisce reato. Questo è più ambito penale, ma è bene esserne al corrente. – Digitalizzazione e e-fattura: c’è una “Guida alla compilazione della fattura elettronica” aggiornata a marzo 2024 che ha precisato alcuni codici per le note di credito (es. quando usare TD04 vs TD16). Riguarda più la tecnica di emissione che il diritto sostanziale. Se emetti fatture elettroniche, assicurati di usare il codice giusto per le note di credito (TD04 per normale, TD08 se semplificata, oppure se rettifichi fatture estere con inversione va TD16 etc.). Un uso errato dei codici può far scattare controlli, anche se non è di per sé evasione. – Processo tributario telematico obbligatorio: ormai tutti gli atti si notificano via PEC e i depositi sono telematici. Questo è attivo già da un po’, ma dal 2023 è completamente obbligatorio. Se fai ricorso, ricordati di utilizzare il canale telematico. – Nuovi termini di decadenza accertamento IVA: dal 2016 i termini sono allungati a 31 dicembre del quinto anno successivo (o settimo in caso di reati). Questo non è nuovissimo, ma per dire: un utilizzo illecito di note di credito nel 2020 può essere accertato fino al 31/12/2025, e se c’è ipotesi reato fino al 2027.
In conclusione, le novità normative più rilevanti per il nostro tema sono quelle relative ai fallimenti (che hanno reso più agevole il recupero IVA per i contribuenti diligenti, ma al contempo fissato un termine stringente di esercizio), e i chiarimenti di prassi del 2024 su rinuncia e società estinte che hanno chiuso potenziali scappatoie.
D: Nel processo tributario posso portare testimoni a mio favore (es. il trasportatore che confermi la consegna della merce)?
R: No, nel processo tributario vige il divieto di prova testimoniale orale (art. 7 D.Lgs. 546/92). Ciò significa che non puoi far comparire un testimone in udienza per essere ascoltato, diversamente da quanto avviene in un processo civile o penale. Questo complica un po’ le cose per dimostrare fatti se non hai documenti.
Tuttavia, puoi utilizzare alcuni surrogati: – Dichiarazioni scritte: puoi far sottoscrivere al trasportatore una dichiarazione sostitutiva di atto notorio in cui attesta la consegna in tal data al tal luogo. Non ha lo stesso valore di una testimonianza, ma è comunque un indizio scritto. Il giudice può valutarla liberamente. – Documenti di terzi: ad esempio, una e-mail del cliente che riconosce di aver ricevuto la merce, un verbale di conciliazione, qualsiasi cosa di scritto proveniente dal terzo. – Richiesta di informazioni: in teoria, il giudice tributario potrebbe chiedere informazioni ad altre amministrazioni o, raramente, disporre una consulenza tecnica d’ufficio. Ma non c’è uno strumento per costringere un privato a testimoniare in forma scritta se non vuole.
C’è una novità: la riforma 2022 prevede che su istanza di parte il giudice può autorizzare la deposizione testimoniale in forma scritta in casi particolari. Però serve l’accordo di tutte le parti oppure una deliberazione molto motivata. È un istituto ancora poco sperimentato (essendo nuovo). Quindi, realisticamente, devi fare affidamento su prove documentali.
Nel tuo esempio del trasportatore: meglio presentare i documenti di trasporto con firma di consegna, oppure fatture di noleggio automezzi ecc., e magari allegare una sua dichiarazione giurata. Il giudice non potrà darle lo stesso peso di un esame testimoniale con controinterrogatorio, ma se coerente col resto aiuta.
Ricorda che nel tributario vige il principio del “libero convincimento del giudice” senza formalismi: lui può formarsi un convincimento anche su indizi e presunzioni semplici. Quindi un pacchetto di elementi concordanti (DDT + dichiarazione autista + registro di carico/scarico merci) può persuaderlo tanto quanto un testimone dal vivo.
D: Se vinco il ricorso in primo grado, l’Agenzia farà appello? E nel frattempo devo pagare qualcosa?
R: Spesso, se vinci totalmente in primo grado, l’Agenzia delle Entrate propone appello alla Corte di secondo grado (hanno interesse a non arrendersi subito, specie se la questione ha valore o principio generale). Però tu, avendo vinto, ottieni l’annullamento dell’atto e non devi pagare nulla nell’immediato. Prima della riforma, in caso di appello del Fisco la riscossione restava sospesa fino a decisione d’appello (se avevi vinto al 100%). Con la riforma, la sentenza a tuo favore è esecutiva: l’AE eventualmente deve anche restituirti il terzo già riscosso, salvo chiedere sospensiva.
Se hai vinto parzialmente (es. ti hanno tolto metà dell’imposta), la parte di imposta confermata in sentenza diventa dovuta trascorsi 60 giorni, a meno che tu faccia appello su quella parte e ottenga sospensione. In pratica, su quella parte “cristallizzata” in primo grado, l’Agenzia può richiedere il pagamento (un terzo di quella, in attesa del secondo grado, perché la sentenza di primo grado fa cessare la sospensione solo sulla parte confermata).
In generale, la prassi è: se il contribuente vince in primo grado, non paga (anzi, se aveva pagato il 1/3 iniziale, ne chiede la sospensione del rimborso finché la sentenza non è definitiva). Se poi perde in appello, pagherà allora (con interessi maturati). L’Agenzia a volte decide di non appellare se la questione è di scarsa rilevanza o se la sentenza appare ineccepibile – ma è raro.
Tu comunque dovresti continuare a comportarti correttamente: se hai vinto e l’atto è annullato, quell’IVA torna ad essere tuo credito etc. Ma magari prudentemente non lo compensi subito, attendi che scadano i termini d’appello o che la controversia sia definita, per evitare possibili future riprese (difficile ma cautela non guasta).
D: Cosa posso fare per prevenire future contestazioni sulle note di credito?
R: Ottima domanda. La prevenzione è la miglior difesa in ambito fiscale. Alcuni consigli pratici: – Conosci a fondo la disciplina IVA sulle variazioni: come abbiamo dettagliato, bisogna sapere esattamente in quali casi puoi emettere note di credito e entro quando. Quindi, ogni volta che c’è un evento che incide su fatture emesse, consulta l’art. 26 DPR 633/72: verifica se rientra in nullità/risoluzione ecc. Se no, non emettere la nota senza un confronto col tuo consulente. – Documenta sempre gli eventi: se c’è una risoluzione contrattuale, redigila per iscritto con data e firma di entrambe le parti. Se c’è uno sconto, accertati che fosse previsto da contratto o fatti firmare un accordo integrativo. Questo ti fornirà pezze d’appoggio in caso di controllo. – Rispetta i termini temporali: metti in agenda scadenze critiche. Ad esempio, se vendi a creditori a rischio, monitora se falliscono; in caso di fallimento, procedi subito alla nota di variazione senza attendere oltre l’anno. Se fai uno storno per accordo sopravvenuto, fallo entro 12 mesi. Se ti accorgi di un errore di fatturazione, agisci prontamente entro l’anno successivo all’operazione, altrimenti, oltre quell’anno, consulta il consulente per strade alternative (come istanza di rimborso). – Evita “scorciatoie” non consentite: ad esempio, rinunciare a un credito per recuperare IVA prima del tempo, come abbiamo visto, non è permesso. Oppure emettere note di credito “fittizie” solo per motivi contabili – potrebbero allettarti per sistemare i conti, ma fiscalmente creano guai. – Due diligence sui clienti/fornitori: specialmente per evitare di cadere in frodi carosello (operazioni soggettivamente inesistenti), verifica sempre con chi stai lavorando. Controlla la solvibilità dei clienti (ti aiuta anche a capire se incasserai o se rischi insoluti), controlla l’affidabilità dei fornitori (visura camerale, storico, attività reale). Se un affare puzza di strano (prezzi troppo bassi, richieste particolari di fatturazione e successivo storno, ecc.), approfondisci: potresti scoprire che dietro c’è uno schema poco pulito. – Forma lo staff amministrativo: assicurati che chi emette le fatture e le note di credito in azienda conosca le regole. Spesso gli errori nascono in buona fede dall’ufficio fatturazione che per accontentare il cliente emette note di variazione tardive ignaro delle implicazioni. Una formazione o una procedura interna di doppio controllo (es. ogni nota di credito fuori dall’ordinario deve avere l’ok del responsabile finanziario) può evitare errori costosi. – Conserva tutta la corrispondenza e i contratti: in caso di contestazione, più prove hai meglio è. Email in cui il cliente accetta uno sconto, PEC in cui comunichi l’emissione di nota di credito con motivazione, ecc. Aiutano a dimostrare la buona fede e la trasparenza. – Consulta esperti prima di operazioni straordinarie: se stai liquidando la società, occhio ai crediti IVA da recuperare; se fai cessioni d’azienda o fusioni, chiedi come gestire eventuali note di credito aperte. A volte piccoli accorgimenti (es. emettere note di credito prima della fusione se conviene) evitano problemi post. – Aggiornati con le circolari dell’Agenzia: la normativa IVA evolve. Ad esempio, tieni d’occhio eventuali modifiche all’art. 26, nuove risoluzioni o sentenze importanti. Anche leggere riviste o siti specializzati (come quelli citati qui) aiuta a capire il clima. Se, ad esempio, esce una Cassazione che fa giurisprudenza su un caso simile al tuo, meglio saperlo per adeguarsi.
In sintesi: regolarità, tempestività e tracciabilità. Se mantieni le tue operazioni in quest’alveo, minimizzi il rischio di contestazioni. E laddove non puoi evitare situazioni rischiose (come crediti insoluti), preparati con la strategia corretta (procedura concorsuale, ecc.) invece di azioni impulsive (tipo nota di credito non consentita).
Così facendo, avrai la coscienza fiscale pulita e, se mai dovesse comunque arrivare un controllo, potrai affrontarlo forte delle tue ragioni.
Conclusione
Difendersi efficacemente di fronte a una contestazione dell’Agenzia delle Entrate sull’uso illecito di note di credito richiede una combinazione di conoscenza tecnica della normativa IVA, analisi critica dei fatti e strategia legale. In questa guida abbiamo esaminato in dettaglio la disciplina delle note di variazione IVA, le situazioni più frequentemente oggetto di accertamento e gli strumenti a disposizione del contribuente per tutelarsi, citando fonti normative e giurisprudenziali aggiornate al 2025. Dal quadro tracciato emergono alcuni principi cardine:
- Rispettare le condizioni e i termini di legge è fondamentale: le note di credito devono essere emesse solo nei casi previsti (art.26 DPR 633/72) e nei limiti temporali fissati, pena la loro inefficacia fiscale. L’Agenzia e i giudici tributari adottano un approccio rigoroso nel disconoscere variazioni improprie, come confermato dalle pronunce più recenti.
- Il principio di neutralità IVA tutela il contribuente solo se non c’è rischio di perdita di gettito per l’Erario: in caso di operazioni inesistenti o simulate, l’IVA va comunque versata salvo prova contraria che il destinatario non l’abbia detratta. Ciò impone al contribuente di agire tempestivamente per annullare gli effetti di eventuali errori, altrimenti la sanatoria postuma (nota di credito) non verrà riconosciuta.
- Nel contenzioso tributario occorre articolare una difesa su misura per la fattispecie concreta: nei casi di mera violazione formale (es. nota tardiva per accordo sopravvenuto) si punterà su interpretazioni estensive delle cause di variazione e sull’assenza di intento evasivo; nelle frodi IVA si dovrà insistere sulla buona fede e sull’effettività delle operazioni, ribaltando l’accusa di inesistenza. Il contribuente ha l’onere di provare i presupposti della variazione in diminuzione e deve farlo con documenti e argomenti solidi.
- Gli strumenti deflativi (adesione, acquiescenza) e le circostanze attenuanti possono ridurre significativamente le sanzioni: anche quando la pretesa d’imposta è fondata, è spesso possibile limitare la penalizzazione economica usufruendo delle riduzioni previste (sanzioni ridotte a un terzo) o convincendo il giudice a non applicare sanzioni per errore scusabile. Ciò può fare la differenza tra il tracollo finanziario e una soluzione sostenibile.
- La collaborazione e la trasparenza con l’Amministrazione finanziaria, unite a un’approfondita preparazione tecnica, sono la chiave di una difesa vincente: un contribuente che dimostra di aver agito in buona fede, che porta evidenze concrete e che conosce diritti e doveri avrà maggiori chance di convincere l’ufficio o il giudice della bontà delle proprie ragioni. Al contrario, tentativi opachi o improvvisati di rimediare a comportamenti non conformi (come note di credito “creative”) vengono invariabilmente scoperti e sanzionati.
In conclusione, affrontare un accertamento sulle note di credito richiede tempra e metodo: occorre analizzare a fondo i fatti, incardinarli nelle norme corrette, e far emergere – con rigore giuridico ma anche con argomentazioni equitable – la legittimità dell’operato del contribuente oppure, se vi è stato un errore, la sua scusabilità. Le sentenze e le fonti citate testimoniano che, pur in un quadro normativo stringente, c’è spazio per far valere i propri diritti: da Cass. 22795/2025 che ammette il rimborso IVA in caso di fatture fittizie neutralizzate, alle aperture sulla buona fede nei casi di frode soggettiva, fino alla normativa aggiornata che facilita il recupero IVA nelle insolvenze (DL 73/2021). Sfruttare questi appigli normativi e giurisprudenziali è compito del difensore tributario.
Va da sé che ogni vicenda presenta sfumature proprie: questa guida ha fornito una base di riferimento avanzata, ma in sede applicativa sarà necessario adattarla al caso concreto (importi, prove disponibili, sede locale di giudizio, etc.). Il consiglio finale, dunque, è di non improvvisare: affidarsi a professionisti esperti in diritto tributario può fare la differenza tra un esito sfavorevole e uno di successo, soprattutto in materie complesse come quella qui trattata.
Con un’adeguata preparazione, un contribuente potrà affrontare la contestazione dell’Agenzia delle Entrate a testa alta, facendo valere le proprie ragioni e – laddove abbia operato correttamente o in buona fede – ottenere giustizia, sia essa sotto forma di annullamento dell’atto o di significativa riduzione delle penalità. In definitiva, conoscere come difendersi equivale a sapersi meglio conformare in futuro: l’esperienza di un contenzioso, per quanto ardua, può trasformarsi in un’opportunità di migliorare la gestione fiscale della propria attività, evitando che errori similari si ripetano e rafforzando la cultura della legalità fiscale nel proprio agire imprenditoriale.
Fonti e riferimenti:
- Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 – Artt. 19 e 26 (Disciplina della detrazione IVA e note di variazione).
- Direttiva 2006/112/CE del Consiglio (sistema comune IVA) – Art. 90 (riduzioni base imponibile).
- D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 – Art. 6 (sanzioni IVA per indebite detrazioni e fatture false).
- D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – Artt. 7 e 61-66 (disposizioni su prove nel processo tributario e impugnazioni).
- Cassazione Civile, Sez. Trib., ord. n. 8984/2024 (limiti temporali emissione note di variazione, onere probatorio del contribuente).
- Cassazione Civile, Sez. Trib., sent. n. 22795/2025 (fatture per operazioni inesistenti, obbligo versamento IVA salvo eliminazione rischio detrazione).
- Corte di Giustizia UE, sentenza 8 maggio 2019, causa C-712/17 (EN.SA.) – (principio: diritto a rimborso IVA su fattura inesistente se destinatario non detrae l’imposta).
- Agenzia Entrate – Risoluzione n. 120/E/2009 e Risposta interpello n. 427/E/2023 (identità tra fattura e nota di credito, condizione per variazione).
- Agenzia Entrate – Risoluzione n. 47/E/2024 (società estinte, impossibilità emissione note di credito post estinzione).
- Agenzia Entrate – Risposta interpello n. 858/2021 (applicazione art.60 comma 7: recupero IVA da note di credito tardive tramite rivalsa su cessionario).
- Agenzia Entrate – Risposta interpello n. 203/E/2024 (rinuncia unilaterale credito in fallimento non è presupposto per nota di variazione IVA).
- Agenzia Entrate – Principio di diritto n. 11/2021 (variazione IVA in caso di risoluzione contrattuale contestata in giudizio: legittimità emissione immediata nota di credito).
- Cassazione Penale, Sez. III, sent. n. 41238/2024 (omesso versamento IVA non punibile penalmente se fatture non incassate).
- Documentazione varia di prassi AE (Guida compilazione e-fattura v.1.9/2024, Circolari esplicative) e Dottrina (articoli Fisco e Tasse, Il Sole 24 Ore, etc., es. Fisco e Tasse, 27/08/2025; Edotto, 17/10/2024) per commenti e orientamenti.
Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ritiene che tu abbia utilizzato note di credito in modo illecito per abbattere l’imponibile o l’IVA dovuta? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?
Le note di credito sono strumenti legittimi per correggere errori di fatturazione, gestire resi o applicare sconti successivi. Tuttavia, se il Fisco le considera inesistenti o artificiose, può accusare il contribuente di avere indebitamente ridotto le imposte, con gravi conseguenze fiscali.
👉 Prima regola: documenta sempre le ragioni della nota di credito e dimostra la reale esistenza dell’operazione sottostante.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Note di credito emesse senza giustificativi (resi, sconti, annullamenti reali);
- Emissione retroattiva per ridurre imponibili di periodi già chiusi;
- Operazioni inesistenti tra società collegate o con soggetti compiacenti;
- Duplicazioni di note di credito sugli stessi importi;
- Utilizzo sistematico di note di credito per abbattere IVA o reddito imponibile.
📌 Conseguenze della contestazione
- Recupero IVA detratta o non versata;
- Maggiori imposte dirette accertate su redditi ridotti indebitamente;
- Sanzioni amministrative per dichiarazione infedele o operazioni inesistenti;
- Interessi di mora;
- Possibile rischio di reato tributario se gli importi sono rilevanti.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Esistenza della causa della nota di credito: reso merce, storno, errore di fatturazione;
- Documentazione a supporto: contratti, ordini, bolle di reso, corrispondenza;
- Tempistica: la nota è stata emessa entro i termini previsti dalla legge?
- Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia deve provare l’inesistenza dell’operazione;
- Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.
🧾 Documenti utili alla difesa
- Copie delle fatture originarie e delle note di credito collegate;
- DDT (documenti di trasporto) e bolle di reso;
- Contratti o accordi commerciali che prevedono sconti o annullamenti;
- Estratti conto e prove dei pagamenti effettivamente effettuati o restituiti;
- Comunicazioni con i clienti/fornitori relative all’operazione.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la reale esistenza dell’operazione che ha generato la nota di credito;
- Contestare presunzioni arbitrarie dell’Agenzia non supportate da prove;
- Eccepire vizi formali: motivazione carente, notifica irregolare, decadenza;
- Richiedere autotutela se la documentazione era già agli atti;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per annullare l’accertamento;
- Mediazione tributaria (quando obbligatoria) per ridurre sanzioni e chiudere la lite.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza le note di credito contestate e la relativa documentazione;
📌 Verifica la legittimità della contestazione e la corretta applicazione della normativa IVA;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per annullare o ridurre la pretesa fiscale;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce strategie preventive per gestire in sicurezza emissione e utilizzo delle note di credito.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in accertamenti IVA e contenzioso tributario;
✔️ Specializzato in difesa di imprese e professionisti contro contestazioni su note di credito;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni del Fisco sull’uso illecito delle note di credito non sempre sono fondate: spesso derivano da errori formali o da mancanza di valutazione della documentazione a supporto.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la correttezza delle operazioni, evitare la riqualificazione come operazioni inesistenti e ridurre drasticamente le sanzioni.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sulle note di credito inizia qui.