Agenzia Delle Entrate Accerta Mancata Fatturazione E-commerce: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per mancata fatturazione delle vendite effettuate tramite e-commerce? In questi casi, l’Ufficio presume che i corrispettivi incassati tramite piattaforme online non siano stati regolarmente documentati e dichiara ricavi non contabilizzati, con conseguente recupero dell’IVA, delle imposte dirette, oltre a sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con la giusta difesa è possibile dimostrare la correttezza degli adempimenti o ridurre la pretesa fiscale.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta la mancata fatturazione e-commerce
– Se le vendite online non sono state documentate con fattura elettronica o registratore telematico
– Se emergono incongruenze tra i dati delle piattaforme (Amazon, eBay, Shopify, ecc.) e la contabilità dichiarata
– Se i corrispettivi incassati tramite carte, PayPal o altri strumenti di pagamento non risultano registrati
– Se le comunicazioni IVA periodiche non coincidono con i flussi di vendita online
– Se l’omessa fatturazione viene interpretata come indice di ricavi occultati

Conseguenze della contestazione
– Recupero dell’IVA sulle operazioni non fatturate
– Recupero delle imposte dirette sui ricavi non dichiarati
– Applicazione di sanzioni per omessa fatturazione e infedele dichiarazione dei redditi
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Possibili accertamenti bancari e controlli estesi alle annualità precedenti

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la regolare registrazione dei corrispettivi, anche tramite sistemi di pagamento tracciabili
– Produrre report delle piattaforme e-commerce e riconciliazioni contabili a supporto
– Contestare errori dell’Agenzia nell’interpretazione dei dati delle piattaforme o delle movimentazioni finanziarie
– Evidenziare vizi di motivazione, carenze istruttorie o decadenza dei termini di accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i flussi di vendita online e i dati contestati dal Fisco
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta applicazione delle norme IVA ed e-commerce
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi dell’accertamento
– Difendere l’imprenditore davanti ai giudici tributari contro richieste fiscali indebite
– Tutelare il patrimonio aziendale e la continuità dell’attività digitale

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione delle sanzioni applicate
– Il riconoscimento della regolarità delle operazioni documentate
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce nei termini, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscalità digitale – spiega come difendersi in caso di contestazioni per mancata fatturazione e-commerce e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli sulle attività di commercio elettronico, individuando molti venditori online che non hanno dichiarato correttamente i ricavi o non hanno emesso le fatture dovute . In particolare, dal 2023-2024 sono stati attivati nuovi strumenti di monitoraggio: le piattaforme digitali (Amazon, eBay, Etsy, Shopify ecc.) devono comunicare al Fisco i dati dei venditori e i volumi di vendita, mentre i prestatori di servizi di pagamento (banche, PayPal, Stripe…) tracciano e segnalano transazioni sospette tramite un sistema centrale europeo (CESOP) operativo dal 2024 . Ciò significa che le vendite online “invisibili” stanno scomparendo: incrociando i dati delle piattaforme, dei conti correnti e delle dogane emergono automaticamente anomalie (ad esempio chi riceve accrediti da PayPal o marketplace senza avere redditi dichiarati congrui) .

Il fenomeno contestato più spesso è la mancata fatturazione di operazioni di e-commerce, sintomo di vendite non dichiarate e di imposte evase. Quando l’Agenzia delle Entrate accerta che un venditore online non ha emesso fattura (o altro documento fiscale) per le proprie transazioni e non ha dichiarato i relativi ricavi, avvia un procedimento di accertamento per recuperare le imposte (IVA, IRPEF/IRES) evase e applicare sanzioni. Da punto di vista del contribuente (il “debitore” verso il Fisco), è fondamentale conoscere i propri obblighi fiscali, capire come avvengono questi controlli e quali strumenti di difesa esistono. Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – fornisce un quadro completo e avanzato della normativa italiana in materia, con riferimenti a leggi e sentenze recentissime (comprese pronunce di Cassazione 2023-2025) e un taglio pratico rivolto a professionisti, imprenditori e privati. Il linguaggio è giuridico ma divulgativo: ogni sezione include esempi concreti, tabelle riepilogative, e una sezione finale di domande e risposte (FAQ).

Scopo: mettere il lettore (in particolare il venditore online che si vede contestare irregolarità) in grado di comprendere i propri obblighi fiscali e come difendersi efficacemente in caso di accertamento per mancata fatturazione e-commerce. Analizzeremo dapprima il quadro normativo (quando un’attività di e-commerce è considerata impresa e richiede fatturazione), poi vedremo come operano i controlli del Fisco e la procedura di accertamento, e infine le possibili strategie difensive (dal contraddittorio obbligatorio introdotto nel 2024 , al ricorso tributario, fino ai rimedi speciali). Il focus sarà il punto di vista del contribuente: quali sono i suoi diritti e i possibili errori dell’Amministrazione finanziaria da sfruttare a proprio vantaggio.

1. Inquadramento normativo: e-commerce, impresa o attività occasionale?

In Italia le vendite online non godono di un regime fiscale di favore: dal punto di vista tributario il commercio elettronico è equiparato al commercio tradizionale, salvo distinguere se l’attività è svolta in modo episodico/occasionale oppure abituale/professionale . Questa distinzione è cruciale perché determina l’obbligo o meno di aprire la partita IVA, di emettere fattura, di addebitare l’IVA sulle vendite e di dichiarare i redditi come redditi d’impresa. Non esiste una soglia fissa per legge: la qualificazione dipende dal numero di transazioni, dalla continuità e dall’organizzazione dell’attività . In sintesi:

  • Vendite completamente episodiche (una tantum di beni personali): non costituiscono attività d’impresa né lavoro autonomo, e non generano reddito imponibile . Non serve partita IVA né fatturazione, in quanto si tratta di alienazione di beni del proprio patrimonio personale senza scopo di lucro (ad es. vendita di un mobile usato di casa) .
  • Vendite occasionali con fine di lucro (non organizzate come impresa): i proventi sono qualificati come “redditi diversi” ex art. 67 del TUIR . In pratica, chi vende saltuariamente oggetti (magari propri manufatti o oggetti usati rivenduti per guadagno) senza professionalità e senza struttura imprenditoriale dichiara gli eventuali utili nel Quadro RL della dichiarazione dei redditi, tassandoli in IRPEF sulla differenza tra ricavi e costi inerenti . Non vi è obbligo di aprire partita IVA né di addebitare l’IVA, poiché l’attività non rientra tra i soggetti IVA (le vendite del privato sono “fuori campo IVA” per mancanza del requisito soggettivo) . Tuttavia, restano obblighi come conservare traccia di ricavi e costi e – se i compensi annui superano certe soglie (es. >5.000 €) – iscriversi alla Gestione Separata INPS per versare contributi previdenziali sui redditi oltre tale soglia .
  • Vendite abituali (attività commerciale a carattere d’impresa): quando le cessioni hanno regolarità e continuità e sono svolte con un minimo di organizzazione e scopo di profitto, scatta l’obbligo di apertura della partita IVA e di assoggettare i ricavi al regime d’impresa . In questo caso il venditore viene considerato a tutti gli effetti un imprenditore, con obbligo di fatturazione (o certificazione fiscale) delle vendite, applicazione e versamento dell’IVA (salvo beni esenti) e tenuta delle scritture contabili (regimi semplificati o ordinari a seconda dei casi) . Il reddito generato è tassato come reddito d’impresa**: se il titolare è persona fisica sarà soggetto a IRPEF (o a imposta sostitutiva 15% se ha i requisiti per il regime forfettario ), mentre se l’attività è svolta tramite società di capitali sarà soggetta a IRES (24%) sugli utili .

Di seguito, una tabella riepilogativa delle categorie di venditore online e il relativo trattamento fiscale:

Tabella 1 – Categorie di venditori online e regime fiscale

CategoriaCaratteristicheTrattamento fiscaleObblighi fiscali principali
Privato (vendita episodica di bene personale)Cessione occasionale, unica di un proprio bene usato (es. oggetto ereditato, mobilio domestico). Nessuna organizzazione d’impresa né intento professionale di lucro.Niente reddito imponibile: il ricavo non genera plusvalenze tassabili (patrimonio personale). IVA non dovuta: operazione fuori campo IVA, mancando il requisito soggettivo d’impresa .Nessun adempimento fiscale: non serve Partita IVA, né fattura o ricevuta fiscale. (Facoltativo fornire una quietanza privata). Esempio: vendita di un mobile usato per €2.000: non è tassabile .
Venditore occasionale (attività non abituale, senza P.IVA)Vendite saltuarie con scopo di lucro, senza struttura imprenditoriale (es. crea e vende oggetti artigianali saltuariamente, oppure rivende sporadicamente oggetti propri per poche migliaia di euro) .Reddito diverso ex art. 67 TUIR: imponibile in IRPEF sul margine (ricavi meno costi inerenti) . IVA non applicabile (cessioni effettuate da privato fuori campo IVA) . Se i compensi >€5.000/anno, sull’eccedenza dovuti contributi INPS Gestione Separata .Dichiarazione dei redditi: indicare il reddito nel Quadro RL come “redditi diversi”. Conservare documentazione di ricavi e costi (ricevute materiali, spese di spedizione, ecc.) . Nessun obbligo IVA (no registri né liquidazioni). Fattura non obbligatoria per vendite a privati B2C (analogamente a commercio al dettaglio); su richiesta dell’acquirente va emessa una ricevuta non fiscale per quietanza .
Venditore professionale (attività d’impresa con P.IVA)Vendite regolari, organizzate e continuative svolte con professionalità (anche senza negozio fisico). Include imprese individuali e società commerciali (es. e-commerce strutturato su Shopify, Amazon store, dropshipping organizzato).Reddito d’impresa: se persona fisica, tassato in IRPEF (aliquote ordinarie sul reddito netto); se società di capitali, tassato in IRES (24%) sugli utili . IVA dovuta sulle vendite (aliquota dipende dal bene). Possibili regimi agevolati: es. forfettario al 15% (5% start-up) se ricavi ≤ €85.000 , con esonero IVA in Italia ma non su vendite estere oltre soglie (richiede OSS) .Partita IVA (codice ATECO commercio elettronico). Fatturazione o scontrino per ogni vendita: per B2C Italia vendite online assimilate a vendite per corrispondenza (fattura non obbligatoria salvo richiesta) , ma registrazione dei corrispettivi. Per B2B o cliente UE extra-UE: obbligo fattura (elettronica se soggetto stabilito in Italia). Adempimenti contabili: registri IVA, liquidazioni IVA periodiche, dichiarazione annuale IVA, redditi (IRPEF/IRES) e IRAP se dovuta, ecc. .

Nota: La distinzione tra attività occasionale e d’impresa non è quantitativa ma qualitativa . Anche poche vendite ripetute con finalità di lucro possono integrare un’attività d’impresa “di fatto” agli occhi del Fisco, indipendentemente dall’importo totale . Ad esempio, la Corte di Cassazione con sentenza n. 7552/2025 ha stabilito che un privato che effettua molteplici vendite online per più anni realizza reddito d’impresa, tassabile come tale, pur senza formale P.IVA e a prescindere dal volume monetario delle vendite . D’altro canto, la stessa Cassazione ha chiarito che la vendita di beni del patrimonio personale (es. mobili usati di casa) non è attività d’impresa né lavoro autonomo se manca un reale intento speculativo e una sistematicità professionale . In tal caso non si può pretendere alcuna imposta, nemmeno sull’eventuale plusvalore, poiché l’operazione resta nel privato (mancando i presupposti dell’art. 2195 c.c. sulle attività commerciali) . Sarà onere del contribuente, eventualmente, provare che le proprie vendite erano sporadiche e che i beni ceduti non erano stati acquistati per rivenderli (assenza di intento di lucro) .

Infine, per completezza, segnaliamo che chi avvia un’attività online con tutti i crismi imprenditoriali può accedere a regimi fiscali agevolati se ne ha i requisiti: in particolare il già citato regime forfettario (L. 190/2014 e succ. mod.) che fino a €85.000 di ricavi annui permette una tassazione sostitutiva del 15% sul reddito determinato forfettariamente (per commercio è imponibile il 40% del fatturato) . Il forfettario semplifica molto gli adempimenti, ma non esime dal dichiarare i ricavi né autorizza a non pagare l’IVA dovuta su operazioni fuori dal suo campo. Ad esempio, un forfettario che vende beni a consumatori in altri Paesi UE deve comunque applicare l’IVA del paese del consumatore se supera le soglie: dal 2021 è in vigore il sistema OSS (One Stop Shop) che consente di dichiarare e versare in Italia l’IVA estera sulle vendite intracomunitarie B2C . Se il venditore forfettario ignora questi obblighi (es. supera la soglia OSS o vende in regime forfettario beni che richiederebbero identificazione IVA all’estero), rischia accertamenti sia in Italia (per omessa fatturazione IVA su operazioni estere) sia da parte di Stati esteri coinvolti. In sintesi: anche i piccoli venditori in regimi agevolati devono mantenere la guardia alta sugli obblighi, perché non esistono zone franche nel digitale. Chi vende online abitualmente – su marketplace o sito proprio – è tenuto a rispettare le regole d’impresa, altrimenti rischia recuperi d’imposta e sanzioni per evasione fiscale o omessa dichiarazione.

2. E-commerce indiretto e obbligo di fatturazione: il caso delle vendite online B2C

Uno degli aspetti specifici del commercio elettronico “indiretto” (cioè la vendita online di beni materiali, con consegna tramite spedizione) riguarda la certificazione dei corrispettivi. La normativa IVA italiana equipara il commercio elettronico indiretto alle vendite per corrispondenza tradizionali: ciò comporta alcune semplificazioni documentali per le vendite B2C (verso privati). In particolare, le cessioni di beni a distanza verso consumatori finali non sono soggette all’obbligo di emissione della fattura, salvo che il cliente la richieda espressamente al momento dell’acquisto . Inoltre tali operazioni sono esonerate dall’emissione dello scontrino o ricevuta fiscale e (dal 2019) dall’obbligo di memorizzazione e trasmissione telematica dei corrispettivi . Questa esenzione è confermata da prassi ufficiale dell’Agenzia (Risoluzione AE n. 274/E/2009) che assimila l’e-commerce indiretto al catalogo vendite per corrispondenza, e dal DM 10/05/2019 che ha escluso queste vendite dall’obbligo di scontrino elettronico . Resta fermo però l’obbligo di registrazione dei corrispettivi giornalieri nel registro dei corrispettivi e di includere tali ricavi nella liquidazione IVA e dichiarazione annuale . In altre parole, il venditore online che vende a privati consumatori italiani può non emettere fattura né scontrino per ogni singola transazione, ma deve comunque registrare l’incasso nei propri registri e computarlo nelle imposte dovute.

Di contro, se il cliente è un soggetto con partita IVA (vendita B2B) oppure un consumatore privato che richiede la fattura, l’operazione deve essere documentata con fattura. Dal 2019 in Italia vige l’obbligo di fattura elettronica XML tramite Sistema di Interscambio per (quasi) tutte le operazioni B2B e B2C effettuate da soggetti IVA: anche i venditori online sono tenuti a emettere fattura elettronica in questi casi, salvo esoneri applicabili (ad esempio, fino al 2024 erano esonerati i forfettari sotto €25.000 annui, ma ora anche questi piccoli contribuenti sono stati inclusi nell’obbligo e-fattura) . Le vendite e-commerce B2C rientrano tra le operazioni per cui non vi è obbligo di fattura di default (art. 22 DPR 633/72), ma se il cliente privato la chiede, il venditore professionale deve emetterla (anche in formato elettronico) entro i termini di legge.

Mancata fatturazione: considerato quanto sopra, vendere online a privati senza emettere fattura non costituisce di per sé violazione, a condizione che l’operazione rientri tra quelle esonerate (vendita al dettaglio a distanza) e che il venditore registri i corrispettivi e adempia al versamento dell’IVA dovuta. Il problema sorge quando il venditore omette completamente la certificazione e la dichiarazione di quei ricavi. In tal caso l’Agenzia delle Entrate contesta la “omessa fatturazione” come violazione dell’art. 6 D.Lgs. 471/1997 – per aver svolto un’operazione imponibile senza emettere fattura o scontrino obbligatorio – e, più gravemente, l’omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs. 471/97) o la dichiarazione infedele se una dichiarazione è stata presentata ma priva di tali ricavi (art. 1 D.Lgs. 471/97). In sostanza, l’accertamento fiscale verte sul fatto che quelle vendite non sono state tassate: l’aspetto della mancata emissione della fattura è rilevante sia come indizio di evasione sia come illecito formale/IVA a sé stante. Occorre distinguere due scenari tipici:

  • Vendite B2C non fatturate e non dichiarate: caso frequentissimo del piccolo e-commerce che vende a privati senza emettere documenti e non dichiarando nulla al Fisco. In sede di accertamento, l’Ufficio tende a ricostruire il volume d’affari (magari attraverso i movimenti su PayPal, estratti Amazon/Etsy o dati bancari) e ad assoggettare ad IVA e imposte dirette tutti i ricavi rilevati, applicando sanzioni sia per l’omessa fatturazione (sanzione amministrativa dal 90% al 180% dell’IVA non documentata, art. 6 D.Lgs. 471/97) sia per l’omessa o infedele dichiarazione (sanzione del 120%–240% dell’imposta evasa, art. 5 D.Lgs. 471/97) . Il contribuente potrà difendersi sostenendo, ad esempio, che alcune somme accreditate non erano vendite (ma rimborsi, donazioni, trasferimenti interni) oppure che trattandosi di vendite occasionali di beni usati non era dovuta IVA né tassazione (vedi Caso 1 più avanti) . Fondamentale sarà provare con documenti la natura di ogni entrata e gli eventuali costi sostenuti, perché l’Ufficio inizialmente presume che tutto l’accreditato sia ricavo tassabile.
  • Vendite B2B non fatturate: se il venditore online ha effettuato cessioni verso altre aziende o professionisti senza emettere fattura (magari perché operava senza P.IVA), la violazione è ancor più netta. In questi casi il cliente business spesso autofattura l’acquisto entro 4 mesi (come era obbligatorio fino al 2024) per regolarizzare l’IVA a proprio carico . Dal 2024, tuttavia, la normativa è cambiata: non è più prevista l’autofattura dal cliente per regolarizzare fatture omesse, ma scatta direttamente una comunicazione all’Agenzia e la relativa sanzione al cedente . Il Fisco quindi potrebbe già avere evidenza di fatture non emesse da segnalazioni dei clienti. La difesa possibile in sede di accertamento è limitata: il venditore dovrà riconoscere l’IVA evasa sulle operazioni e cercare magari di ottenere la riduzione delle sanzioni dimostrando l’assenza di intento fraudolento o la riconducibilità delle vendite a regime forfettario (se applicabile). In alcuni casi, se l’acquirente ha assolto l’IVA con autofattura, si può evitare la “doppia imposizione” invocando il principio di neutralità IVA (l’Erario non ha perso gettito), ma resta la sanzione formale.

Dropshipping e importazioni: un caso particolare di e-commerce indiretto è il dropshipping, in cui il venditore online prende l’ordine e incassa il corrispettivo, ma la merce viene spedita al cliente direttamente dal fornitore (spesso estero). Fiscalmente, nel dropshipping il venditore è comunque considerato il cedente del bene verso il cliente finale, con obbligo di fatturazione e dichiarazione dei ricavi come visto sopra. Se la merce proviene da fuori UE, occorre anche gestire l’IVA all’importazione e i dazi: spesso il fornitore dichiara un valore inferiore o spedisce come “gift” per evitare oneri doganali, ma così facendo il venditore e il cliente violano le norme doganali. L’Agenzia delle Entrate può contestare sia le vendite non dichiarate che l’omessa importazione regolare dei beni. Dal 1° luglio 2021 sono entrate in vigore nell’UE nuove regole IVA e-commerce: per beni di valore ≤ €150 venduti da extra-UE a consumatori UE tramite piattaforme, la piattaforma può fungere da “debitore d’imposta” (IOSS); per vendite dirette, è richiesto l’utilizzo dell’IOSS o l’esazione dell’IVA all’importazione. Un venditore in dropshipping che non ha applicato l’IVA né in dogana né via IOSS si trova esposto a contestazioni sia per IVA evasa in import sia per mancata fatturazione delle vendite interne. La difesa qui può essere complessa, spesso richiede di dimostrare che l’IVA è stata assolta dal cliente all’atto della consegna (se avvenuto) o di appellarsi a eventuali incertezze normative del periodo di transizione 2021. Tuttavia, data la complessità del tema, è essenziale prevenire aprendo posizioni IOSS/OSS quando dovuto.

Marketplace e piattaforme: vendere tramite Amazon, eBay, Etsy o Shopify non trasferisce gli obblighi fiscali sul portale. Molti venditori hanno creduto (erroneamente) che fosse la piattaforma a “occuparsi di tutto”, magari perché i pagamenti al netto delle commissioni arrivano già ripuliti. In realtà, il soggetto passivo d’imposta rimane il venditore: i ricavi incassati tramite marketplace vanno autodichiarati e documentati. Le piattaforme in genere non emettono fattura al cliente finale a nome del venditore (salvo se operano come rivenditori esse stesse in casi specifici), quindi sta al venditore registrare quei corrispettivi. Ad esempio, Amazon fornisce al venditore report dettagliati delle vendite e dei pagamenti (Amazon Seller Central), così come Etsy fornisce uno “storico dei pagamenti”: tali estratti vanno conservati e usati per la contabilizzazione . In caso di controllo, saranno la prova principe dell’entità dei ricavi realizzati e permetteranno anche di calcolare l’incidenza dei costi deducibili (commissioni del marketplace, spese di spedizione, costo del venduto) . Se non si è emessa fattura al cliente B2C, ciò di per sé non verrà sanzionato (dato che la normativa lo consente), ma verrà contestata l’omessa dichiarazione del ricavo . Molti piccoli venditori (specie se in regime forfettario) non emettono alcun documento per le vendite online: in sede di accertamento questo non è l’aspetto principale – l’Agenzia guarda al reddito non dichiarato, mentre la violazione formale di mancata fattura può essere secondaria. Tuttavia, è un comportamento rischioso: ora che i PSP comunicano i movimenti e le piattaforme condividono i dati DAC7, chi “lascia su PayPal” gli incassi senza fatturare rischia grosso . È dunque buona prassi, per ogni incasso da marketplace, registrare almeno un documento interno (una fattura riepilogativa mensile o un registro corrispettivi specifico) per dare evidenza dei ricavi.

3. Controlli fiscali sull’e-commerce: come nascono gli accertamenti

L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza hanno sviluppato metodologie mirate per scovare vendite online non dichiarate. Vediamo quando scatta un accertamento fiscale per e-commerce e quali elementi fanno drizzare le antenne al Fisco:

  • Volumi anomali di incassi online: se un privato o piccola ditta riceve pagamenti elevati su conti bancari, PayPal, Stripe non coerenti con i redditi dichiarati, scatta un alert . Ad esempio, decine di migliaia di euro accreditati da PayPal o bonifici con causale commerciale, a fronte magari di un dichiarativo modesto o nullo, indicano probabili redditi non dichiarati.
  • Superamento di soglie di attività: pur non esistendo una soglia fissa tra hobby e impresa, il Fisco considera sospetto quando le vendite superano certe cifre o frequenza. Già incassi sopra poche migliaia di euro, se ripetuti, possono attivare controlli, specie ora che le piattaforme inviano i dati (DAC7) e i pagamenti sono tracciati (CESOP) anche per piccoli venditori “casalinghi” .
  • Attività estere o strutture estere: se il contribuente utilizza società offshore o conti esteri per canalizzare vendite online, l’Agenzia verifica se c’è esterovestizione (fittizia localizzazione all’estero di attività in realtà svolte in Italia) . Ad esempio, venditori che operano dall’Italia ma incassano su conti di società in paesi a fiscalità favorevole vengono monitorati. Lo scambio di informazioni internazionali è oggi esteso, e l’Ufficio può presumere la residenza fiscale italiana dell’entità estera se amministrata di fatto dall’Italia (art. 73 TUIR) .
  • Mancata apertura della P.IVA nonostante le vendite sistematiche: se una persona fisica effettua centinaia di transazioni online senza avere partita IVA, è molto probabile un intervento. Ad esempio, la Corte di Cassazione ha ribadito che vendere continuamente su eBay senza P.IVA è comunque esercizio d’impresa, quindi soggetto ad accertamento . L’Agenzia incrocia i dati e se individua un soggetto “sconosciuto al Fisco” con alto volume di vendite, interviene aprendo una posizione d’ufficio e contestando l’omessa dichiarazione .
  • Disallineamenti IVA intra-UE: un altro campanello d’allarme è dato dalle vendite in ambito UE o extra-UE senza applicazione dell’IVA corretta. Ad esempio, vendite intracomunitarie B2C sopra soglia senza OSS, o numerosi pacchi provenienti dalla Cina a un destinatario italiano (indicando un’attività di importazione non dichiarata) . Le autorità doganali segnalano flussi anomali (es. centinaia di spedizioni internazionali al medesimo nominativo).

In pratica, il Fisco incrocia molte banche dati: dai movimenti bancari (art. 32 DPR 600/73, l’Agenzia può ottenere estratti conto e liste movimenti), ai dati delle piattaforme digitali (DAC7, obbligo di comunicazione dei gestori di piattaforme digitali dal 2023 ), ai flussi delle carte di credito e PSP (grazie al Regolamento UE 2020/283 e Dir. 2020/284 dal 2024, che impongono ai PSP di tracciare i beneficiari di oltre 25 pagamenti transfrontalieri/trimestre ), fino alle informazioni doganali. La Guardia di Finanza ha persino Nuclei specializzati in e-commerce che monitorano i principali siti e marketplace alla ricerca di venditori non in regola . Un caso tipico: la GdF individua su eBay un utente privato che ha venduto centinaia di oggetti; ottenuti i suoi dati (anche tramite le società che gestiscono le piattaforme, tenute a collaborare), verifica i conti bancari e scopre migliaia di euro di accrediti non dichiarati. Parte così l’accertamento mirato.

Cosa viene contestato solitamente? In un accertamento fiscale su e-commerce/dropshipping, le contestazioni ricorrenti sono:
– Omessa dichiarazione di redditi derivanti dalle vendite online (se il contribuente non ha proprio dichiarato nulla di quei proventi) .
– Mancata apertura della partita IVA pur avendo svolto attività d’impresa continuativa . L’Ufficio può richiedere l’attribuzione retroattiva della P.IVA e applicare le sanzioni per omissione.
– Fatture non emesse o documenti fiscali omessi/irregolari per le operazioni (mancata fatturazione) .
– IVA non versata sulle vendite, sia domestiche che intracomunitarie . Ad esempio, vendite in Italia senza applicare l’IVA (evasione IVA) oppure vendite UE senza OSS con superamento della soglia di €10.000 (fino al 2021 soglia per singolo Stato, ora soglia unica UE).
– Esterovestizione o altri schemi elusivi: se l’attività è formalmente svolta da una società estera ma di fatto gestita dall’Italia, il Fisco contesta la residenza e quindi la tassazione in Italia di tutti i redditi (oltre a eventuali violazioni valutarie e quadro RW per investimenti esteri non dichiarati) .

Oltre a ciò, in caso di accertamento multi-annuale, vengono richieste sanzioni per ogni anno e applicati interessi di mora dal momento in cui le imposte erano dovute. Se le violazioni sono gravi, può scattare anche la segnalazione penale (v. infra). In definitiva, il venditore scoperto rischia un avviso di accertamento con: recupero dell’IVA evasa, IRPEF/IRES sui redditi non dichiarati, addizionali, sanzioni che spesso raddoppiano l’imposta, e interessi. Non solo: l’avviso di accertamento è immediatamente esecutivo, quindi trascorsi 60 giorni dalla notifica diventano riscuotibili coattivamente le somme (salvo sospensioni se si presenta ricorso).

Va segnalato che dal 2024 è divenuto obbligatorio il contraddittorio endoprocedimentale per la generalità degli accertamenti tributari: significa che prima di emettere un avviso di accertamento, l’Ufficio deve in genere notificare una comunicazione al contribuente (lettera di compliance o invito a comparire) prospettando le possibili irregolarità e dando modo di fornire chiarimenti . Fare attenzione a questa fase, perché è sia un’opportunità per difendersi anticipatamente, sia un requisito di legittimità: se l’Agenzia emette l’accertamento senza aver invitato al contraddittorio (nei casi in cui è obbligatorio), l’atto può essere annullato per violazione di legge . Vediamo nel prossimo capitolo come si sviluppa il procedimento di accertamento e come il contribuente può intervenire in ogni fase.

4. Procedura di accertamento fiscale e fasi del contenzioso

Un accertamento fiscale tipico per mancata fatturazione di vendite online può articolarsi in più fasi, dalle prime comunicazioni informali fino all’eventuale giudizio in Cassazione. Di seguito riepiloghiamo le fasi principali del procedimento e i corrispondenti strumenti di difesa che il contribuente può attivare:

Fase 1: Monitoraggio e analisi dei dati (fase preliminare “occulta”) – In molti casi il contribuente scopre di essere sotto controllo solo a seguito di una comunicazione dell’Agenzia, ma in realtà prima vi è tutta una fase interna di analisi. L’Agenzia incrocia i dati a sua disposizione: movimenti bancari, segnalazioni PSP, dati DAC7 delle piattaforme, informazioni da Guardia di Finanza, ecc. In questa fase non c’è coinvolgimento diretto del venditore. Difesa: l’unica difesa possibile qui è preventiva. È buona norma per ogni venditore online mantenere contabilità e documentazione in ordine (estratti conto, report di vendite, ricevute di acquisto merci) in modo da poter giustificare eventuali accrediti . Inoltre, se ci si rende conto di omissioni (es. ricavi non dichiarati negli anni scorsi), è opportuno valutare un ravvedimento operoso spontaneo prima di ricevere contestazioni formali, così da sanare le violazioni con sanzioni ridotte ed evitare guai peggiori.

Fase 2: Lettera di compliance o invito al contraddittorio – Spesso, prima di emettere un avviso di accertamento formale, l’Agenzia invia una comunicazione preventiva al contribuente. Può trattarsi di:
– una lettera di compliance (segnalazione “bonaria” di possibili anomalie, con invito a verificarle e correggerle), oppure
– un vero e proprio invito al contraddittorio (ex art. 5-ter D.Lgs. 218/97, introdotto dal 2023) in cui l’Ufficio espone le risultanze a suo carico e invita il contribuente a fornire spiegazioni ed eventuali documenti .

Ad esempio, si potrebbe ricevere una PEC con scritto: “Dai dati in nostro possesso risultano €50.000 di vendite su Amazon nel 2023 non presenti nelle dichiarazioni fiscali. Si invitano chiarimenti e documentazione entro 15 giorni.” . Oppure un questionario con domande specifiche (es: “Indichi se ha svolto attività di vendita online negli ultimi 5 anni e, in caso affermativo, fornisca dettagli su importi, beni venduti, canali utilizzati”). Dal 18 gennaio 2024 il contraddittorio preventivo è divenuto generalizzato e obbligatorio per la maggior parte degli accertamenti, a pena di nullità dell’atto finale . Fanno eccezione solo gli accertamenti “automatizzati” (liquidazioni da 36-bis, controllo formale 36-ter) e pochi casi urgenti o di particolare frode.

Difesa in fase di contraddittorio: è fortemente consigliato partecipare attivamente. Non ignorare l’invito – non rispondere equivale a lasciar cadere la propria chance di chiarimento, e l’Ufficio procederà presumendo confermate le anomalie. Bisogna invece:

  • Rispondere tempestivamente, fornendo tutti i documenti giustificativi disponibili. Ad esempio, spiegare la natura delle vendite e dei flussi finanziari contestati: se alcune somme accreditate non erano corrispettivi di vendita (ma, ad es., rimborsi per resi, trasferimenti da conto personale, prestiti familiari), occorre specificarlo e provarlo . Se si trattava di vendite di beni propri usati, evidenziare che sono beni personali (meglio allegare prove: foto, ricevute d’acquisto originali, attestazioni) per argomentare che non c’è attività d’impresa.
  • Redigere una memoria difensiva scritta da consegnare all’Agenzia, in cui ricostruire la propria posizione. Qui si può già fare valere giurisprudenza favorevole: ad esempio citare la Cassazione n. 10117/2023 che esclude tassazione su vendite di beni d’arredo usati senza intento speculativo , se il caso è analogo. Oppure sottolineare eventuali errori nei calcoli dell’Ufficio. Questa memoria rimarrà agli atti e, se ben argomentata, potrebbe convincere l’ufficio a soprassedere o ridimensionare l’accertamento.
  • Valutare il ravvedimento operoso “in corsa”: se dal contraddittorio emerge effettivamente che qualcosa è stato omesso (es. non si sono dichiarati redditi di vendite per alcuni anni), il contribuente può ancora porvi rimedio spontaneamente. Finché non viene notificato formale avviso di accertamento, è possibile presentare dichiarazioni integrative e versare le imposte dovute con sanzioni ridotte (ravvedimento) . Questo può mitigare molto la posizione: l’Ufficio vedrà la buona volontà e talvolta potrebbe anche chiudere il caso, oppure al minimo nell’eventuale avviso terrà conto dei versamenti effettuati riducendo le sanzioni.

Da notare: dal 2024 il contraddittorio è obbligatorio (salvo eccezioni) e la sua mancata attivazione è motivo di nullità dell’accertamento . Se dunque ci si ritrova un avviso senza aver mai ricevuto invito o questionario, in sede di ricorso si potrà eccepire questo vizio come rilevante (vedi oltre). La Corte Costituzionale già con sentenza n. 47/2023 aveva rafforzato il principio che il contraddittorio preventivo è parte del diritto di difesa del contribuente , ora recepito dal legislatore (art. 6-bis Statuto Contribuenti introdotto da D.Lgs. 219/2023).

Fase 3: Verifica fiscale (accesso GdF) e PVC – In alcuni casi, specie se l’attività è di dimensioni maggiori o se l’Ufficio sospetta anche altre irregolarità, può essere disposta una vera e propria verifica fiscale sul campo. La Guardia di Finanza può effettuare un accesso presso il domicilio fiscale, l’eventuale sede dell’attività o altri luoghi in cui si ritiene avvengano operazioni (magazzino, laboratorio). Durante la verifica, i funzionari possono richiedere l’esibizione di documenti, libri contabili, estratti conto e ogni informazione utile. Il contribuente verificato ha comunque diritti garantiti dallo Statuto del Contribuente, art. 12 L. 212/2000, come ad esempio il limite di permanenza (30 giorni prorogabili), il diritto all’assistenza di un professionista, e la possibilità di presentare osservazioni al termine . Al termine dell’ispezione, se emergono rilievi, la GdF redige un Processo Verbale di Constatazione (PVC) dettagliando tutte le violazioni riscontrate (es: “abbiamo constatato che sul conto X ci sono versamenti per €100.000 non contabilizzati; che non risulta tenuta la contabilità; che non sono state emesse fatture per n. Y operazioni…”). Il PVC viene consegnato al contribuente.

Difesa dopo il PVC: una volta notificato/verbalizzato il PVC, decorrono 60 giorni durante i quali l’Ufficio non può emettere l’accertamento definitivo (salvo urgenze particolari), e il contribuente ha diritto a presentare osservazioni e richieste per iscritto (art. 12 c.7 Statuto). È molto importante sfruttare questo termine per inviare una memoria in risposta al PVC, contestando punto per punto i rilievi infondati, segnalando errori o omissioni dei verbalizzanti e producendo eventuali documenti che erano stati richiesti ma non immediatamente disponibili . Ad esempio, se la Finanza ha considerato tutti i bonifici come ricavi lordi senza considerare i costi, si potrà allegare in osservazione le fatture d’acquisto delle merci per chiedere che si tassino solo i profitti. Oppure se hanno qualificato “impresa” un’attività che si ritiene occasionale, si citeranno sentenze a supporto (Cass. 10117/2023, ecc.). L’Ufficio deve esaminare queste osservazioni e replicare nell’atto finale: a volte, di fronte a spiegazioni convincenti, può ridurre le pretese o persino chiudere la pratica lì.

Fase 4: Emissione e notifica dell’Avviso di Accertamento – Se, dopo contraddittorio (o verifica) l’Ufficio ritiene di avere elementi sufficienti, emette l’Atto di accertamento vero e proprio. L’Avviso di Accertamento è un atto motivato che viene notificato al contribuente (di solito via PEC se attiva, altrimenti raccomandata AR) e che contiene: l’imposta o maggiore imposta accertata per ogni tributo (IVA, IRPEF, addizionali, IRAP se dovuta), le sanzioni applicate e gli interessi calcolati . L’avviso spiega le ragioni (es. “ricavi non dichiarati quantificati in €X sulla base dei movimenti bancari…”), cita le norme violate, e indica al contribuente cosa fare se intende pagare o impugnare. Importante: dall’anno 2020 gli avvisi di accertamento per imposte sui redditi e IVA valgono anche come atto di intimazione al pagamento (c.d. accertamento esecutivo, DL 159/2015): ciò significa che trascorsi 60 giorni dalla notifica, se il contribuente non paga o non sospende l’atto con un ricorso, l’importo viene iscritto a ruolo e inviato all’Agente della Riscossione per il recupero forzoso . In pratica, l’avviso è sia un atto impositivo sia una cartella di pagamento “differita”.

Il contribuente a questo punto ha diverse opzioni entro 60 giorni dalla notifica :

  • Acquiescenza: è l’accettazione integrale dell’accertamento. Se si riconosce di aver sbagliato e l’importo è corretto (o per evitare il contenzioso), pagando tutto quanto richiesto entro 60 giorni si ha diritto alla riduzione delle sanzioni ad 1/3 . Ad esempio, una sanzione del 120% diventerebbe 40%. L’acquiescenza fa risparmiare soldi e chiude la questione subito, ma implica rinuncia al ricorso: conviene solo se l’atto è fondato e inoppugnabile.
  • Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/97): è un procedimento di definizione concordata. Bisogna presentare istanza all’Ufficio entro 60 giorni dalla notifica, il che sospende i termini di ricorso per un massimo di 90 giorni . Si viene chiamati a un tavolo di trattativa presso l’Agenzia, dove si può ottenere una riduzione dell’imponibile accertato o delle sanzioni, portando elementi a proprio favore. Se si trova un accordo (formalizzato in un atto di adesione), si paga quanto concordato con sanzioni ridotte ad 1/3 (le stesse dell’acquiescenza) . L’adesione può essere utile per evitare la causa e spuntare uno “sconto” sul quantum: ad esempio concordando un imponibile più basso tenendo conto di costi che inizialmente non erano stati considerati . Tuttavia, se non si raggiunge l’intesa, si potrà comunque ricorrere in Commissione Tributaria entro il termine prorogato (150 gg dalla notifica iniziale).
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado (ex Commissione Tributaria Provinciale) – È lo strumento principale di difesa nel merito. Il ricorso va notificato all’Agenzia entro 60 giorni (o 150 se c’era istanza di adesione) . Nel ricorso si devono indicare i motivi di fatto e di diritto per cui si ritiene l’accertamento illegittimo o errato. Contestualmente (o entro 30 gg dalla notifica) il ricorso va depositato presso la Commissione Tributaria competente. Se l’importo in contestazione supera €3.000, va versato un contributo unificato. Effetti sul pagamento: la presentazione del ricorso non sospende automaticamente la riscossione; bisogna se del caso chiedere sospensione al giudice tributario motivando il danno grave e la fondatezza della causa.

Difendersi in giudizio (1° grado): nella fase davanti alla Corte Giustizia Tributaria (CGT) il contribuente può far valere sia vizi formali/procedurali dell’atto, sia aspetti di merito sostanziale. Ecco i principali punti di difesa:

  • Vizi formali dell’atto: esaminare attentamente se l’avviso di accertamento rispetta tutti i requisiti di legge. Ad esempio, mancato contraddittorio preventivo (se dovuto) – come detto, dal 2024 l’assenza di invito è causa di nullità . Oppure motivazione insufficiente o generica dell’atto (deve spiegare in modo intellegibile le ragioni e gli accertamenti compiuti, altrimenti viola l’art. 7 Statuto Contribuente). O ancora notifica tardiva oltre i termini di decadenza (generalmente il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di imposta, esteso al settimo in caso di omessa dichiarazione ). Questi vizi, se provati, possono portare all’annullamento totale dell’atto, indipendentemente dal merito.
  • Errori di calcolo e omessa considerazione di costi: spesso negli accertamenti su e-commerce l’Ufficio ricostruisce i ricavi lordi ma ignora i costi sostenuti dal venditore, tassando quindi un utile inesistente. È fondamentale contestare questo approccio: il contribuente deve far valere tutti i costi documentati (costo delle merci rivendute, spese di spedizione, commissioni marketplace, ecc.) perché riducono il reddito imponibile . La Cassazione ha più volte affermato che non si possono tassare i ricavi lordi senza considerare i costi, se il contribuente ne prova l’esistenza . Ad esempio, se vengono contestate vendite per €100.000 ma €70.000 erano costi di acquisto, il reddito imponibile è solo €30.000 – ignorare ciò significa creare un reddito imponibile fittizio. Persino nell’accertamento induttivo “puro” è ormai riconosciuto (anche dalla Corte Costituzionale, sent. n. 10/2023) che almeno in via presuntiva vanno dedotti i costi correlati, per evitare tassazione forfettaria eccessiva . Una recente ordinanza della Cassazione (n. 19574/2025) ha confermato che il contribuente può far valere costi anche in via indiziaria nell’accertamento induttivo . Dunque, nel ricorso va richiesto (in via subordinata) di ricalcolare l’imponibile al netto dei costi deducibili eventualmente trascurati dall’Ufficio.
  • Qualificazione dell’attività (occasionale vs abituale): un altro cardine del merito è stabilire se l’Ufficio ha correttamente inquadrato la natura dell’attività. Spesso il Fisco qualifica come “d’impresa” ciò che il contribuente ritiene occasionale. In giudizio si potrà far leva sulla giurisprudenza: ad es. citare Cass. 10117/2023 che distingue la vendita di beni personali come non tassabile , o Cass. 6874/2023 sullo “speculatore occasionale” (in ambito opere d’arte) che chiarisce come una singola vendita da patrimonio personale non generi reddito diverso se manca l’abitualità e lo scopo di lucro sistematico . Di contro, l’Ufficio potrà citare Cass. 7552/2025 sulle vendite online ripetute come impresa. Il giudice valuterà caso per caso, ma portare sentenze favorevoli rafforza la difesa. Ad esempio, se il contribuente ha venduto oggetti ereditati, enfatizzare che non erano beni acquistati per commercio e che non c’era iter produttivo (Corte Cost. n. 228/2014, CTP Torino 1101/2024 su vendita opere d’arte ereditate – v. caso in rassegna ).
  • Presunzioni e prova contraria: gli accertamenti su e-commerce si basano spesso su presunzioni (es. tutti i movimenti sul conto sono ricavi, tutti i prelievi servono a costi in nero, ecc.). In giudizio queste presunzioni vanno contrastate con ogni elemento di prova contraria. Il contribuente può depositare estratti conto dettagliati, evidenziare ad esempio che alcuni accrediti erano bonifici da familiari (donazioni) o trasferimenti tra propri conti . Ogni euro contestato dovrebbe essere giustificato: meglio predisporre prospetti che riconcilino i movimenti bancari con le vendite effettive (magari eliminando duplicazioni, resi, commissioni) e allegare i documenti di supporto. Se l’Ufficio ha applicato percentuali forfettarie o studi di settore, contestare la loro applicabilità allo specifico caso.
  • Sanzioni eccessive o errate: nel ricorso conviene sempre inserire un motivo ad hoc sulla quantificazione delle sanzioni, chiedendone la riduzione o l’annullamento in caso di incertezza normativa. Il giudice tributario, infatti, può ridurre le sanzioni applicando il cumulo giuridico (una sola sanzione per violazione continuata su più anni, art. 12 D.Lgs. 472/97) anche se l’Ufficio non l’ha fatto . Oppure può dichiarare non dovute le sanzioni se annulla il tributo (automatismo) o se riconosce che c’era incertezza su obblighi (art. 6 co.2 D.Lgs. 472/97, ripreso dall’art. 10 Statuto) – ad esempio, in passato alcune CTP hanno annullato sanzioni su vendite online ritenendo che il contribuente potesse essere in buona fede circa la non imponibilità . In ogni caso, contestare la qualificazione di eventuali reati (se l’atto parla di “omessa” ma c’era dichiarazione, ecc.) per ricondurre la sanzione al tipo più lieve. (Vedi anche FAQ specifica sulle sanzioni).

Durante il processo di primo grado, è possibile in qualunque momento cercare una conciliazione giudiziale: le parti (contribuente e Agenzia) possono accordarsi per chiudere la lite con un importo concordato, ottenendo in tal caso sanzioni ridotte al 40% (se conciliazione in primo grado) . Se c’è spazio per transigere, può essere vantaggioso proporlo nell’udienza: il giudice ratifica l’accordo e si paga entro 20 giorni. Dal 2023 non è più obbligatorio il tentativo di mediazione/reclamo per le liti minori (soppresso dal 2024) , ma la conciliazione rimane sempre possibile e incentivata.

Fase 5: Appello (2° grado) – Se la sentenza di primo grado è sfavorevole (in tutto o in parte), il contribuente può appellarla in Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado (ex Commissione Regionale). L’appello va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di 1° grado. In appello non si possono introdurre nuove domande né nuovi documenti (salvo casi eccezionali) , quindi è essenziale aver già prodotto tutto nel primo grado. La strategia in appello sarà focalizzata sui punti specifici su cui il giudice di primo grado avrebbe errato: p.es. contestare un’interpretazione giuridica data o la mancata valutazione di prove. Ad esempio, se la CGT di primo grado ha ignorato la mancanza del contraddittorio, in appello si punterà su quella violazione di legge; oppure se non ha riconosciuto i costi nonostante fossero provati, si evidenzierà il vizio di motivazione su quel punto. Anche in appello è possibile conciliare, con sanzioni ridotte al 50% .

In appello, oltre alle questioni ordinarie, si possono far valere anche eventuali interventi di Corti superiori sopravvenuti (Corte UE o Corte Costituzionale) che toccano il caso . Ad esempio, se la Corte UE emettesse una sentenza su e-commerce rilevante, l’appellante potrebbe chiederne l’applicazione. Oppure si può eccepire l’illegittimità costituzionale di una norma (anche se in secondo grado i giudici tendono a non ammettere questioni nuove, ma se riguarda diritto sopravvenuto è possibile). Un esempio: la Corte Costituzionale n. 47/2023 ha sancito l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale come principio generale ; se il primo giudice non ne ha tenuto conto, in appello lo si può evidenziare per far annullare l’atto.

Fase 6: Ricorso per Cassazione – L’ultimo grado possibile, solo per questioni di diritto. Si può ricorrere in Cassazione contro la sentenza di appello entro 60 giorni dalla notifica di essa (o 6 mesi dalla pubblicazione se non notificata). La Cassazione non rivede i fatti, ma solo la corretta applicazione della legge o la coerenza logica della motivazione . Esempi di motivi: violazione dell’art. 67 TUIR nell’aver considerato d’impresa redditi occasionali; violazione dell’art. 6-bis Statuto per mancato contraddittorio; vizio di motivazione se la CTR non ha considerato prove decisive. In ambito e-commerce, la Cassazione ha ormai creato orientamenti chiari (es. Cass. 7552/2025 sul fatto che vendite abituali online = reddito d’impresa tassabile ). Presentare ricorso per Cassazione è complesso e richiede un avvocato cassazionista; il contribuente a questo stadio dovrà valutare costi/benefici (spesso conviene più cercare un accordo transattivo in appello se possibile).

Profili penali: Un accertamento per evasione da e-commerce può avere risvolti penali se i valori superano certe soglie previste dal D.Lgs. 74/2000. In particolare, omessa dichiarazione dei redditi è reato se l’imposta evasa supera €50.000 per periodo d’imposta (pena 2–5 anni di reclusione, art. 5 D.Lgs. 74/2000); dichiarazione infedele se l’imposta evasa > €100.000 o ricavi non dichiarati > 10% del dichiarato (pena fino a 3 anni, art. 4). Anche l’omesso versamento IVA oltre €250.000 annui è penale (art. 10-ter). Dunque, un venditore che abbia evaso decine di migliaia di IVA/IRPEF per più anni rischia una denuncia all’Autorità Giudiziaria. L’accertamento dell’Agenzia indicherà spesso la segnalazione al PM se ravvisa queste soglie (come nel Caso 4 vedremo, con €80k reddito evaso su 2 anni, IVA evasa ~€22k/anno -> omessa dichiarazione) . Come mitigare il rischio penale? Il D.Lgs. 74/2000 prevede alcune cause di non punibilità: ad esempio, il pagamento integrale dei debiti tributari (imposta, interessi, sanzioni) prima del dibattimento estingue i reati di omessa e infedele dichiarazione (art. 13 c.2). Inoltre, se l’importo evaso viene ridotto sotto soglia, il reato può non configurarsi affatto (è uno dei motivi per cui, in sede di adesione, si cerca magari di spalmare il reddito su più anni o di pagare subito parte del dovuto) . Nel caso di specie, un contribuente che sanando le imposte riduca l’evasione residua sotto €50.000 per anno, può ottenere l’archiviazione per particolare tenuità del fatto o perché il fatto non è più previsto come reato. Anche la collaborazione attiva (ravvedimento, adesione, pagamento rateale concordato) gioca a favore di soluzioni meno afflittive: le Procure spesso sospendono il procedimento in attesa dell’esito del contenzioso tributario e della verifica dei pagamenti. Se poi tutto viene pagato, è prassi talvolta chiedere l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. (tenuità del fatto) o lo stralcio per intervenuto ravvedimento operoso. Dunque, dal punto di vista difensivo, muoversi tempestivamente in sede tributaria ha riflessi positivi anche sul penale.

Riassumendo, il contribuente ha un arsenale di strumenti difensivi lungo l’intero percorso dell’accertamento: dal contraddittorio, al ravvedimento, all’adesione, al ricorso, all’appello, ecc. La tempestività e la completezza probatoria sono fondamentali: ogni fase persa o documenti non prodotti tempestivamente possono precludere possibilità più avanti . Allo stesso tempo, le recenti riforme (obbligo di contraddittorio, abolizione reclamo, ampliamento conciliazione) hanno rafforzato i diritti del contribuente. Nei prossimi paragrafi presentiamo alcuni casi pratici emblematici di contestazioni e-commerce e come sono stati affrontati, prima di passare alle FAQ finali.

5. Casi pratici di accertamento e difesa nel commercio online

Di seguito quattro scenari tipici che illustrano come possono presentarsi gli accertamenti per mancata fatturazione e-commerce e quali difese sono risultate efficaci. I nomi sono di fantasia, ma le situazioni sono ispirate a casi reali o frequenti.

Caso 1 – Vendita isolata di un bene personale su Etsy (nessuna attività d’impresa)
Situazione: Mario, pensionato, vende nel 2024 un vecchio armadio ereditato dalla nonna tramite un annuncio online su Etsy. Ottiene €2.000 dall’acquirente (un antiquario). Non ha partita IVA né altre vendite: è un caso di vendita occasionale e di bene personale.
Accertamento: L’Agenzia, vedendo l’accredito di €2.000 sul conto di Mario, presume erroneamente che egli abbia avviato un’attività commerciale di vendita mobili e gli notifica un avviso di accertamento imputandogli €2.000 di ricavi d’impresa non dichiarati, con relativa IVA da versare .
Difesa: Mario presenta ricorso contestando radicalmente la pretesa: dimostra che si trattava di vendita di un bene personale usato, privo di intento commerciale. Allega l’atto di successione da cui risulta che l’armadio era di famiglia e fotografie che lo ritraevano in casa sua da anni. Richiama la sentenza Cass. 10117/2023, la quale ha affermato che la vendita di mobili appartenenti all’arredo domestico non costituisce attività commerciale né produce reddito tassabile in assenza di intento speculativo . Sottolinea inoltre che l’IVA non è dovuta perché manca il presupposto soggettivo (non è un operatore economico). Il giudice tributario gli dà ragione, annullando l’accertamento: la cessione era avvenuta nell’ambito del patrimonio privato di Mario e non rientra né nei redditi d’impresa né tra i redditi diversi di cui all’art. 67 TUIR . (Nota: questo ricalca un caso reale deciso in Cassazione n. 10117/2023, dove fu esclusa ogni imposizione su €58.000 ricavati dalla vendita di mobili di casa da parte di un contribuente, proprio perché privi di intento di lucro commerciale ).

Caso 2 – Vendite occasionali di prodotti artigianali su Shopify (regolarizzazione spontanea)
Situazione: Anna, appassionata di cucito, tra il 2022 e 2023 vende online qualche decina di capi di abbigliamento fatti a mano tramite un piccolo sito Shopify. Non apre P.IVA perché le vendite sono sporadiche. In due anni ricava circa €6.000 (3.000 € all’anno). Per ignoranza, non inserisce questi importi nella sua dichiarazione dei redditi.
Accertamento: L’Agenzia le contesta con un avviso l’omessa dichiarazione di €6.000, qualificando tale attività come impresa occulta. Vengono richieste le imposte su €6.000 come reddito d’impresa, più sanzione piena per omessa dichiarazione (~120% dell’imposta) .
Difesa: Nel contraddittorio, Anna fa presente che la sua era un’attività meramente occasionale, senza organizzazione né intento di profitto significativo. Riconosce però di aver sbagliato a non dichiarare quei proventi come redditi diversi. Decide di adottare una strategia collaborativa: presenta dichiarazioni integrative per il 2022 e 2023, inserendo i €6.000 tra i redditi diversi ex art. 67 TUIR . Contestualmente indica i costi deducibili sostenuti: stoffe e materiali per €1.500, spese di spedizione €200, commissioni PayPal €100. In tal modo il reddito netto imponibile si riduce a ~€4.200 . Paga le imposte dovute su tale base tramite ravvedimento operoso (beneficiando delle sanzioni ridotte). In sede di adesione con l’Ufficio ottiene la riqualificazione della vicenda come reddito diverso occasionale, evitando l’apertura d’ufficio della P.IVA. Le sanzioni, inizialmente al 120%, vengono ridotte a 1/3 per l’adesione e ad ulteriore 1/3 perché applicate sul nuovo imponibile netto più basso . In definitiva paga poche centinaia di euro di penale e chiude la questione. Morale: per importi modesti conviene spesso attivarsi subito: grazie alla collaborazione, Anna ha evitato un lungo contenzioso e soprattutto ha consolidato la qualificazione della sua attività come occasionale (nessuna iscrizione d’ufficio alla gestione IVA, nessun atto impositivo per gli anni successivi). Questo caso evidenzia come le nuove informazioni DAC7 portino alla luce anche “micro-imprese” sommerse, ma se queste corrono ai ripari tempestivamente se la possono cavare con poco .

Caso 3 – Account Amazon condiviso in famiglia (intreccio di posizioni)
Situazione: Sofia ha una piccola attività artigianale regolare (ha partita IVA) e vende i suoi prodotti su Amazon. Suo marito Sergio, invece, da privato ogni tanto vende libri usati della sua collezione, ma – per comodità – usano entrambi lo stesso account Amazon, intestato a Sergio, collegato a un conto bancario intestato a lui. Nel 2019-2021 tramite quell’account transitano vendite per €50.000, in gran parte riconducibili ai prodotti di Sofia; formalmente però tutti gli accrediti Amazon (payout) arrivano sul conto di Sergio.
Accertamento: L’Agenzia ricostruisce dai dati Amazon che l’account di Sergio ha generato €50k vendite in tre anni, e presume che tutto sia reddito di Sergio non dichiarato. Notifica a Sergio un avviso di accertamento per redditi d’impresa non dichiarati 2019-2021 pari a €50.000, con IVA evasa e sanzioni annesse . Sergio cade dalle nuvole, perché in realtà quei soldi erano usati dalla moglie per la sua attività (la quale però, ingenuamente, non li ha dichiarati nemmeno lei per la quota di sua spettanza, confidando erroneamente che essendo sul conto del marito “non si vedessero”).
Difesa: Qui la situazione è intricata. Sergio propone ricorso sostenendo che l’attività era in realtà di Sofia, e che lui fungeva solo da prestanome tecnico dell’account. Cerca di provare che i bonifici Amazon confluiti sul suo conto venivano girati alla moglie, o che i beni venduti erano di proprietà/produzione di Sofia (esibisce qualche fattura di materiali acquistati da Sofia, screenshot dove si vede il nome del negozio riconducibile a lei, ecc.). Tuttavia non erano stati predisposti conti separati né documenti formali, per cui le prove sono labili. È probabile – ammette il legale di Sergio – che l’Ufficio e i giudici respingeranno la tesi: “l’account è tuo, il conto è tuo, quindi i ricavi sono tuoi e dovevi dichiararli tu”. In effetti, una sentenza della CTR Molise del 2020 in un caso analogo ha respinto la difesa di una contribuente che sosteneva “il venditore era mio marito, anche se l’account era a mio nome”, proprio per mancanza di evidenze concrete . La strategia migliore diventa allora negoziale: Sergio (e Sofia, nel frattempo colpita da un secondo accertamento per la sua parte non dichiarata) scelgono di avviare un accertamento con adesione con l’Ufficio, con l’obiettivo di redistribuire la base imponibile in maniera più equa tra i due coniugi ed evitare doppia tassazione. In sede di adesione, riescono a dimostrare almeno che una parte dei €50k erano già stati contabilizzati (anche se non dichiarati) da Sofia. L’Ufficio accetta di scontare dal conto di Sergio quanto già tassato su Sofia, e concorda le sanzioni al minimo, viste le circostanze confusive. Si evita così il contenzioso. Lezione preventiva: Mai mescolare account o conti tra soggetti diversi. Fiscalmente, chi risulta titolare formale è chiamato a risponderne, e poi al massimo potrà rivalersi civilmente sull’altro (ma intanto il Fisco vuole il suo) .

Caso 4 – “Evasore per ignoranza” che vuole rimediare (grande venditore non dichiarato)
Situazione: Luca gestisce di fatto un piccolo business di e-commerce: senza costituire società né aprire P.IVA, nel 2021-2022 ha acquistato merci in Cina (e le ha fatte spedire nei magazzini Amazon con programma FBA) e le ha vendute in tutta Europa tramite Amazon, ricavando circa €100.000 di vendite (con un margine di profitto di circa €80.000, avendo speso €20.000 per acquisti) . Per disinformazione (e un po’ sperando nell’anonimato) non ha mai aperto partita IVA né presentato alcuna dichiarazione dei redditi. Tutti gli incassi Amazon gli sono arrivati su un conto PayPal e poi sul conto personale.
Accertamento: Nel 2025 riceve un avviso di accertamento pesantissimo: l’Agenzia gli contesta ricavi non dichiarati per €100.000 relativi agli anni 2021-22, con IVA evasa su tali vendite, IRPEF su un reddito d’impresa netto stimato in €80.000, sanzioni al 120% per omessa dichiarazione, e addirittura la segnalazione alla Procura per il reato di omessa dichiarazione (avendo superato €50k di imposte evase) . Sommando imposte e sanzioni, gli viene richiesto circa €70.000. Una cifra per lui impossibile da pagare in un’unica soluzione.
Reazione e difesa: Luca, resosi conto della gravità, decide di cambiare atteggiamento e collaborare per ridurre il danno. Innanzitutto, durante il contraddittorio, presenta tardivamente le dichiarazioni dei redditi per il 2021 e 2022, indicando correttamente i €80.000 di reddito d’impresa complessivo (40k + 40k) e contestualmente porta in deduzione i €20.000 di costi documentati (fatture di acquisto dalla Cina, spese di logistica) . Inoltre effettua alcuni versamenti spontanei con ravvedimento operoso: riesce, grazie a un prestito familiare, a versare subito €10.000 tra IVA e imposte arretrate . Questo ravvedimento tardivo – sebbene avviato dopo l’inizio del controllo – dimostra buona fede e riduce l’imposta evasa residua. Avvia poi la procedura di accertamento con adesione: nel contraddittorio con l’ufficio, riesce a ottenere un ricalcolo dell’imponibile basato sui €80.000 (non 100k) e un pagamento rateale in 8 rate semestrali (4 anni) del dovuto. Le sanzioni per adesione scendono a 1/3 del minimo . Profilo penale: grazie alle dichiarazioni presentate e ai primi pagamenti, l’ammontare di imposta evasa per ciascun anno scende sotto la soglia di punibilità (ipotizziamo che sui €40k/anno di reddito, l’IRPEF evasa netta – dopo i versamenti – scenda sotto €50k) . Così Luca potrà invocare la causa di non punibilità per pagamento del debito tributario (art. 13 D.Lgs. 74/2000) o almeno sperare in un’archiviazione per tenuità se il PM ritiene ormai modesto il danno erariale. In ogni caso, aver regolarizzato la posizione fiscalmente lo pone in una luce migliore anche verso il giudice penale. Nel successivo eventuale ricorso tributario (se non ha chiuso tutto in adesione), potrà chiedere l’applicazione del cumulo giuridico delle sanzioni sui due anni (considerando l’evasione come continuativa) e magari tentare una conciliazione in extremis per ridurre ancora del 40% le sanzioni rimanenti .
Esito ipotetico: Grazie a queste mosse, Luca è riuscito a limitare le sanzioni totali intorno al 30-40% (invece del 120% iniziale) e a ottenere una rateizzazione che rende sostenibile il pagamento . Soprattutto, ha dimostrato di essersi ravveduto spontaneamente, il che con ogni probabilità lo metterà al riparo da conseguenze penali pesanti (se la Procura vede che il contribuente ha pagato il dovuto e chiuso con l’Erario, spesso chiude il caso o chiede una pena sospesa minima). Morale: anche se si è in torto marcio inizialmente, muoversi per tempo e con intelligenza (correggere le dichiarazioni, pagare il possibile, dialogare con l’Ufficio) può letteralmente “salvare la pelle” sia finanziariamente che penalmente .

Questi quattro esempi coprono situazioni comuni: la vendita isolata genuinamente privata (non tassabile), le piccole vendite occasionali sanabili, la gestione famigliare impropria di account (rischiosa), e l’attività significativa completamente sommersa poi regolarizzata. Ognuna presenta strategie difensive diverse, ma in comune c’è la necessità di documentare i fatti e di conoscere i propri diritti per poter ottenere un esito favorevole.

6. Domande frequenti (FAQ) su accertamenti e-commerce e difesa del contribuente

Passiamo ora a una serie di domande ricorrenti che venditori online su Shopify, Amazon, Etsy (o altre piattaforme) si pongono riguardo agli aspetti fiscali e agli accertamenti, con risposte basate sulla normativa e la prassi attuale.

D: Vendo solo oggetti usati di mia proprietà su Amazon/Etsy senza partita IVA. Devo preoccuparmi di un accertamento fiscale?
R: Se effettivamente si tratta di beni personali venduti sporadicamente, in genere non c’è obbligo di dichiarazione né tassazione – sono casi non imponibili come abbiamo visto (alienazione di patrimonio personale). Tuttavia occorre essere onesti con sé stessi: le vendite devono restare occasionali e prive di scopo di lucro sistematico . Pochi oggetti usati venduti all’anno per importi modesti normalmente non fanno scattare controlli. Ma attenzione: se le vendite diventano ripetute, consistenti e cominciano a generare profitto, l’Agenzia potrebbe riqualificarle come attività economica abituale, anche in assenza di formale P.IVA . Il confine è sottile e non matematico: 10 vendite l’anno di piccolo importo probabilmente non destano allarme, ma decine di oggetti venduti ogni mese, anche se “usati”, possono indurre il Fisco a ritenere che dietro ci sia un’impresa mascherata. Con i nuovi sistemi di monitoraggio (report DAC7 dalle piattaforme, CESOP per i pagamenti) anche i piccoli venditori casalinghi vengono allo scoperto più facilmente . Il consiglio è: se sei un collezionista che vende qualche pezzo ogni tanto, dormi sereno; se invece ti accorgi che stai superando quella linea e stai di fatto commerciando, meglio regolarizzare prima di ricevere comunicazioni. Aprire la partita IVA (se stai di fatto esercitando un’impresa) o almeno dichiarare quei guadagni come redditi diversi se restano occasionali, ti mette al riparo. In ogni caso, non ignorare eventuali lettere o inviti dall’Agenzia: è sempre opportuno rispondere e spiegare subito la situazione, motivando perché ritieni di essere un privato occasionale, piuttosto che lasciare che il tutto degeneri in un avviso formale .

D: Vendendo su Amazon (programma FBA) o Etsy non ho emesso fatture ai clienti finali perché la piattaforma incassa e poi mi paga. A livello fiscale come mi devo comportare e cosa rischio?
R: È vero che, nelle vendite tramite marketplace, spesso non si emette fattura al cliente B2C: la piattaforma trattiene le commissioni e ti riversa periodicamente i ricavi netti (i cosiddetti pay-out). Tuttavia, dal punto di vista fiscale tu rimani il venditore a tutti gli effetti, e devi dichiarare quei ricavi come tuoi . Il fatto di non aver emesso fattura non significa affatto che quei redditi “sfuggono” al Fisco: vanno autodichiarati. In pratica:
– Conserva con cura i report di incasso forniti dalla piattaforma: ad es. Amazon Seller Central consente di scaricare l’estratto conto venditore (payout mensili, vendite lorde, commissioni), Etsy fornisce il “payment account” con tutte le transazioni . Inoltre conserva gli estratti del conto bancario o PayPal dove arrivano gli accrediti netti . Queste documentazioni saranno fondamentali in caso di verifica per dimostrare l’ammontare esatto dei ricavi.
– Se hai partita IVA, in teoria dovresti emettere un documento fiscale riepilogativo delle vendite B2C effettuate tramite marketplace. Molti piccoli forfettari, ad esempio, non emettono fattura per ogni vendita su Amazon, ma registrano a fine mese i corrispettivi totali magari con un’autofattura interna o nel registro dei corrispettivi (esiste un regime specifico per i corrispettivi da vendite via marketplace introdotto nel 2019) . In ogni caso, in contenzioso non ti contesteranno la mancata fattura al cliente B2C (perché come detto non era obbligatoria), bensì l’omessa dichiarazione del ricavo se non l’hai incluso nei redditi . Quindi il punto chiave è aver dichiarato.
– Nella dichiarazione dei redditi, devi indicare i ricavi lordi (prima delle commissioni) comunicati da Amazon/Etsy, e parallelamente dedurre i costi inerenti (acquisto beni, fee Amazon, spedizioni) nel calcolo del reddito d’impresa (quadro RG/RF se sei impresa) o del reddito diverso (quadro RL se sei privato occasionale) . In tal modo pagherai le imposte sul margine effettivo.
– Se non avevi la P.IVA ma avresti dovuto averla (perché di fatto l’attività era abituale), ormai per il passato il danno è fatto: intanto dichiara quei redditi (come redditi diversi) e poi valuta di aprire la P.IVA per il futuro . L’Agenzia se ne accorgerà comunque incrociando i dati, quindi è inutile sperare di farla franca a lungo. Meglio sistemarsi prima.

In caso di accertamento, la tua miglior difesa saranno proprio quei documenti: gli estratti di Amazon, gli estratti conto bancari, ecc. Ti permetteranno di mostrare l’ammontare preciso dei ricavi e anche di calcolare la percentuale di costi deducibili (es. “Vede, ho avuto 20% di costi tra commissioni e spedizioni, quindi il mio margine era solo l’80% del lordo”) . Quindi, sebbene Amazon/Etsy non ti abbiano “dato le fatture” per ogni vendita, ciò non ti esime: devi tu ricostruire e dichiarare il fatturato. Purtroppo molti venditori improvvisati lasciano accumulare incassi su PayPal pensando che il Fisco non li veda e non dichiarano nulla: oggi, con i PSP che segnalano i movimenti, questi rischiano grosso . La regola generale è: qualsiasi incasso ottenuto per la vendita di beni (o servizi) – con o senza fattura – va monitorato dal contribuente e riportato al Fisco. Se non lo fai, la piattaforma o la banca prima o poi lo faranno emergere loro.

D: Ho aperto partita IVA nel regime forfettario e vendo online su Shopify. Quindi sono a posto, giusto? Il Fisco può contestarmi qualcosa anche se sono forfettario?
R: Avere la partita IVA ed emettere almeno un minimo di fatture (anche solo a se stessi come corrispettivi) è sicuramente un’ottima partenza: ti rende un contribuente “visibile” e adempiente agli occhi del Fisco. Ma attenzione: regime forfettario non significa immunità dai controlli. Ci sono diversi aspetti che l’Agenzia può comunque contestare anche a un forfettario:
– Superamento del limite di ricavi (€85.000): se vendi molto e superi il tetto annuo previsto, perdi il regime agevolato e devi passare al regime ordinario (con IVA, contabilità, etc.). Se non lo fai e continui in forfettario pur sforando il limite, rischi un accertamento che recupera l’IVA non versata sui ricavi eccedenti e ti estromette dal regime retroattivamente . Esempio: dichiari €90.000 ma resti forfettario – l’ufficio ti contesterà IVA su €5.000 e forse l’intero anno fuori regime.
– Cause di esclusione/compatibilità: ad esempio, se sei forfettario ma hai anche un lavoro dipendente oltre €30k annui, o partecipi a società di persone, non avevi diritto al regime. L’Agenzia lo verifica (incrociando CU e visure) e, in caso, ricalcola le imposte come da regime ordinario (addebita IVA, toglie l’imposta sostitutiva già pagata) recuperando la differenza .
– Operazioni con l’estero (IVA): il forfettario è esonerato dall’addebitare l’IVA in Italia, ma se vende a clienti in altri Paesi UE deve comunque rispettare le norme IVA internazionali. Prima del 2021, vendite “a distanza” a privati in altri Stati sopra una certa soglia comportavano l’obbligo di identificazione IVA in quel paese; dal 2021 c’è l’OSS come detto. Se un forfettario ignora questi obblighi e vende, poniamo, €20.000 di merce in Francia senza OSS, l’Agenzia (o lo Stato estero) può contestare omessa fatturazione con IVA per quelle vendite intracomunitarie. Quindi il forfettario che opera all’estero non deve dormire sugli allori: per l’Italia resta esente IVA, ma per le vendite UE deve comunque adempiere (OSS o p. IVA locale).
– Sotto-inositranza di ricavi o incongruenze: se i tuoi ricavi dichiarati risultano incoerenti rispetto ad altri indicatori (es. hai spese elevate su conti ma dichiari incassi molto bassi), potresti finire sotto lente. Ad esempio, se risulti avere margini irrisori (perché il forfettario non scarica costi) ma allo stesso tempo spendi tanto, potresti essere oggetto di un controllo redditometrico o similare per verifica. È più raro, ma non impossibile. In genere il Fisco concentra gli sforzi sui completamente sconosciuti o su chi fa grossi illeciti (fatture false, ecc.), più che sui forfettari . Ma un forfettario non deve pensare di poter ignorare le regole: se per dire fa €100k di vendite su Shopify ma dichiara 80k (sforando il tetto), verrà controllato per la fuoriuscita dal regime e l’IVA evasa sui 15k eccedenti .

In sintesi, essere forfettario in regola (entro limiti, senza cause di esclusione) ti mette relativamente al sicuro da un accertamento grave, perché stai già dichiarando qualcosa. Il Fisco generalmente preferisce perseguire chi è totalmente evasore, piuttosto che chi comunque paga un forfait (per quanto magari ridotto). Tuttavia, se sgarri dalle condizioni, potresti comunque avere grane. Quindi monitora sempre i tuoi limiti (fatturato, dipendenze, partecipazioni) e mantieni una contabilità di base accurata, anche nel forfettario. Ricorda: il regime forfettario riduce gli adempimenti, ma non è una zona franca dove si può fare di tutto.

D: Posso aprire una società all’estero (es. in Bulgaria o a Dubai) per vendere online ed evitare le tasse italiane? Molti influencer lo consigliano…
R: Tecnicamente puoi aprire società ovunque, ma se rimani residente e operi dall’Italia, l’Agenzia ti considererà comunque tassabile qui. Costituire società in paesi a fiscalità leggera (esterovestizione quando la residenza estera è fittizia) è una pratica nota al Fisco e comporta grossi rischi. La normativa italiana – art. 73 TUIR per le imposte, e art. 5 comma 5 D.Lgs. 74/2000 in ambito penale – consente di considerare residenti in Italia società che di fatto sono gestite qui o che qui hanno l’oggetto principale dell’attività . In caso di controllo, il Fisco guarderà dov’è il centro effettivo di direzione: se tutta la gestione (decisioni, amministrazione, magazzino) è svolta in Italia e all’estero c’è solo una scatola vuota o un ufficio di comodo, quasi certamente qualificherà la società come “esterovestita”, ignorando la veste estera. Il risultato sarà: tassazione in Italia di tutti i redditi (con recupero delle imposte evitate, più sanzioni) e, sul fronte penale, contestazione di reati come dichiarazione infedele o omessa a carico degli amministratori/soci . Può scattare anche la sanzione per monitoraggio fiscale (omessa dichiarazione del quadro RW per la partecipazione estera) e l’accertamento di dividendi occulti al socio italiano per gli utili non dichiarati della società estera . Insomma, le conseguenze rischiano di annullare qualsiasi (temporaneo) vantaggio. Diverso è se uno effettivamente si trasferisce all’estero e gestisce tutto da lì: in tal caso, rispettando le regole (ad es. perdere la residenza fiscale italiana, stare fuori >183 giorni, ecc.), è lecito pagare le tasse altrove. Ma se rimani in Italia e mascheri il tutto dietro una LTD inglese o una LLC di Dubai, sappi che il Fisco (italiano ed europeo) ha gli occhi aperti e ci sono sempre più scambi di informazioni automatici (es. il registro beneficial owner, CRS per conti esteri, DAC6 per pianificazioni aggressive). Quegli influencer che promuovono soluzioni estere omettono di dire che ti possono beccare, e quando ti beccano sono dolori. Quindi, la risposta in generale è: no, non puoi semplicemente aprire all’estero e far finta di nulla con la pretesa di evitare le tasse italiane, a meno di trasferire realmente te stesso e la tua organizzazione fuori confine (e anche allora, attento a norme CFC e anti elusione internazionale!) .

D: Le sanzioni fiscali che mi hanno messo sono altissime… Conviene contestarle in giudizio? C’è speranza di ridurle?
R: Sì, spesso conviene contestarle, perché ci sono margini per ridurle notevolmente in sede contenziosa. Le sanzioni tributarie, a differenza di quelle penali, possono essere modulate o persino annullate dal giudice tributario in presenza di certe circostanze. Come accennato:
– Il giudice può applicare il cumulo giuridico: se l’ufficio ha sommato sanzioni per ogni anno o per ogni imposta, il giudice può invece applicarne una unica (la più grave aumentata fino al doppio) per l’illecito continuato, ex art. 12 D.Lgs. 472/97 . Ciò di solito riduce sensibilmente il totale.
– Può riconoscere cause di non punibilità parziale o attenuanti: ad esempio, se riscontra che il contribuente ha commesso la violazione per errore scusabile (magari per incertezza normativa oggettiva), può motivare una riduzione al minimo edittale o addirittura l’esclusione della sanzione (art. 6 co.2 D.Lgs. 472/97, applicazione dell’art. 10 Statuto) .
– Soprattutto, con le definizioni concordate in corso di giudizio (conciliazione), è previsto dalla legge uno sconto sulle sanzioni: se trovi un accordo in primo grado, le sanzioni sono dovute solo al 40%; in appello al 50% . Anche in Cassazione, se chiudi col Fisco prima della sentenza, puoi ottenere riduzioni (ci sono normative recenti che incentivano definizioni agevolate anche tardivamente).
– Inoltre, contestare la sanzione in sé a volte paga: se riesci a far annullare l’imposta, automaticamente decadono pure le sanzioni; oppure se dimostri che il tipo di violazione contestato era sbagliato (es. ti hanno contestato omessa dichiarazione ma tu l’avevi presentata sia pure infedele), allora il giudice può ricondurre la sanzione a quella minore corretta .

Nei ricorsi tributari è prassi chiedere in subordine la disapplicazione totale o parziale delle sanzioni, invocando l’art. 7 D.Lgs. 546/92 (che dà al giudice questo potere in caso di obiettive condizioni di incertezza). Nel settore vendite online, fino a pochi anni fa c’era abbastanza incertezza sulla qualificazione reddituale e sugli obblighi (si pensi al confine tra hobby e impresa): alcune Commissioni hanno in effetti annullato sanzioni ritenendo che il contribuente potesse non avere piena consapevolezza del dovere di aprire P.IVA, ecc. . Certo, se hai torto marcio sul merito (evasione voluta), difficilmente il giudice annullerà solo le sanzioni lasciando l’imposta – però può comunque ridurle al minimo. Ricapitolando: fuori dal processo, l’unico sconto certo è l’acquiescenza (-1/3); dentro il processo, con conciliazione puoi arrivare a -60% in primo grado, e con la discrezionalità del giudice puoi ottenere ulteriori riduzioni. Quindi vale quasi sempre la pena contestare anche le sanzioni, perché magari non toglierai l’imposta, ma uno sconto sulle penalità può essere cospicuo e assolutamente perseguibile .

D: Cosa succede se faccio ricorso, perdo anche in appello e poi non pago ciò che è dovuto? Possono pignorarmi qualcosa?
R: Se alla fine del percorso di accertamento (dopo appello, Cassazione, o scadenza dei termini se non ricorri oltre) l’atto diventa definitivo e tu non provvedi a pagare, si attiva la fase di riscossione coattiva. In pratica:
– L’avviso di accertamento, trascorsi 60 giorni dalla decisione definitiva sfavorevole, viene iscritto a ruolo dall’Agenzia .
– L’Agenzia Entrate-Riscossione (ex Equitalia) emette quindi una cartella di pagamento per gli importi dovuti (imposte, sanzioni, interessi di mora, spese di notifica) . La cartella ti dà ulteriori 60 giorni per pagare spontaneamente.
– Se ancora non paghi, la cartella diventa titolo esecutivo: l’Agente della Riscossione può procedere con misure cautelari ed esecutive. Ad esempio, può disporre un fermo amministrativo sui tuoi veicoli (blocco auto), iscrivere ipoteca su immobili di tua proprietà, e soprattutto avviare pignoramenti . Possono pignorare conti correnti (prelevando le somme dovute fino a capienza), pignorare presso terzi (ad esempio un quinto dello stipendio o della pensione, se ne hai uno), pignorare e mettere all’asta immobili (solo per debiti più ingenti, di solito) .
– Inoltre verrai iscritto nell’elenco dei morosi a ruolo; in casi gravi l’Agenzia può bloccarti eventuali compensazioni di crediti fiscali futuri (se avessi rimborsi o crediti, li trattengono) . Se sei imprenditore, il durc (documento regolarità contributiva) può risultare negativo, impedendoti partecipazione a bandi, ecc.

Nulla accade il giorno dopo la sentenza, ma nel giro di qualche mese partono queste azioni esecutive. Ignorare il debito non lo fa sparire: anzi, nel frattempo maturano interessi e aggio di riscossione . L’obbligo di pagare persiste a meno che tu non riesca a trovare un accordo transattivo anche in extremis, o – se ne hai motivi – ad impugnare la cartella per vizi propri (ma se deriva da accertamento definitivo, di solito c’è poco da fare). Se sei in difficoltà a pagare tutto insieme, puoi chiedere una rateizzazione della cartella: ordinariamente fino a 72 rate (6 anni) o, se dimostri grave e comprovata situazione di difficoltà, anche 120 rate (10 anni) . Devi però iniziare a pagare le rate, altrimenti la dilazione decade. In estrema ipotesi, per persone fisiche o ditte individuali totalmente insolventi esiste la procedura di sovraindebitamento (Legge 3/2012, ora Codice della Crisi) in cui si può proporre al giudice un piano per stralciare parzialmente i debiti tributari non altrimenti pagabili . Ma è un percorso complesso e da ultima spiaggia. In conclusione, se alla fine il Fisco vince, bisogna pagare o trovare un accordo, altrimenti il rischio concreto è di vedersi aggredire il patrimonio e le fonti di reddito. Conviene piuttosto, se si perde in appello, valutare se c’è margine per un ricorso per Cassazione (magari solo su punti di diritto) o per una conciliazione tardiva prima che sia troppo tardi . In alcuni casi, l’Agenzia stessa – prima di passare a riscossione – invia un ultimo sollecito a mettersi in regola: cogliere quell’occasione può evitare i pignoramenti.

Abbiamo così affrontato i dubbi più comuni che affliggono chi vende online in relazione al Fisco. In generale, prevenire è meglio che curare: informarsi sugli obblighi (magari consultando un commercialista prima di iniziare a vendere seriamente) può evitare brutte sorprese dopo. Se invece la contestazione è arrivata, come visto ci sono ancora varie armi difensive – l’importante è reagire informati e tempestivi, possibilmente con l’ausilio di esperti.

D: Ho un caso particolare/dubbi specifici non affrontati qui. Come devo procedere?
R: Date le infinite casistiche possibili nell’e-commerce (marketplace diversi, vendite extra-UE, criptovalute come mezzo di pagamento, ecc.), non si possono coprire tutte le sfumature in una guida. Se hai una situazione specifica, conviene consultare un professionista (dottore commercialista o avvocato tributarista): la materia è complessa e una piccola differenza di fatto (es. essere o meno residenti, o la natura dei beni venduti) può cambiare l’inquadramento fiscale. Questa guida fornisce le basi e riferimenti aggiornati a leggi e sentenze fino al 2025, ma per applicarle al tuo caso concreto è bene farsi seguire.

Fonti normative e giurisprudenziali essenziali

Per chi volesse approfondire, ecco un elenco delle principali norme italiane ed europee richiamate o utili in tema di tassazione e accertamenti sulle vendite online:

  • Art. 67 TUIR (D.P.R. 917/1986) – Definisce i redditi diversi, includendo i proventi da attività commerciali non esercitate abitualmente. È la base per tassare le vendite occasionali con fine di lucro come redditi IRPEF non d’impresa .
  • Art. 55 TUIR (D.P.R. 917/1986) – Definisce i redditi d’impresa, sancendo che un’attività svolta abitualmente e con organizzazione, ancorché minima, configura un’impresa ai fini fiscali . (Nelle vecchie sentenze si citava l’art. 51, poi rinumerato in 55).
  • D.P.R. 633/1972 (IVA) – Artt. 1-5 definiscono presupposti IVA (soggettivo: esercizio d’impresa abituale; oggettivo: cessioni di beni; territoriale), e artt. 13 e seguenti disciplina la base imponibile e l’accertamento IVA. Rilevante: Art. 22 esonera dall’obbligo di fatturazione le vendite al dettaglio salvo richiesta cliente (commercio al minuto e vendite per corrispondenza) ; Art. 24 e DM 21/12/1992 disciplinano il registro dei corrispettivi per vendite non fatturate; Art. 6-bis D.Lgs. 471/97 (introdotto nel 2019) prevede obblighi comunicativi per piattaforme digitali poi superati da DAC7 .
  • D.P.R. 600/1973 (Accertamento imposte dirette) – Art. 32 dà potere all’Agenzia di richiedere dati a terzi (banche, operatori) e di presumere imponibili i movimenti finanziari non giustificati dal contribuente . Art. 39 consente l’accertamento induttivo puro in caso di omessa dichiarazione o contabilità inattendibile . Art. 43 fissa i termini di decadenza per notificare accertamenti: di regola il 31/12 del 5º anno successivo (7º se dichiarazione omessa) .
  • Statuto del Contribuente (L. 212/2000) – Fondamentale per i diritti procedurali: Art. 12 tutela i contribuenti in caso di verifiche in loco (durata max, diritto di controdedurre nei 60 gg dal PVC prima di accertamento) . Art. 6, c. 4 (abrogato nel 2023) prevedeva il contraddittorio per alcuni accertamenti; dal 2024 Art. 6-bis introdotto da D.Lgs. 219/2023 stabilisce l’obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo a pena di nullità . Art. 7 impone la motivazione degli atti e dà al giudice il potere di disapplicare sanzioni in caso di incertezza normativa . Art. 10 sancisce i principi di buona fede e collaborazione (es. nessuna sanzione se il contribuente si è conformato a indicazioni dell’A.F. poi rivelatesi sbagliate).
  • D.Lgs. 471/1997 – Sanzioni tributarie: Art. 6 punisce la mancata emissione di fattura/scontrino con sanzione dal 90% al 180% dell’IVA relativa (minimo €500 se IVA non determinabile); Art. 1 sanziona la dichiarazione infedele (imposte dirette e IVA) dal 90% al 180% della maggior imposta; Art. 5 omessa dichiarazione: dal 120% al 240% dell’imposta (minimo €250) ; Art. 8 omessa dichiarazione IVA.
  • D.Lgs. 472/1997 – Principi generali sanzioni: Art. 13 ravvedimento operoso (riduzioni sanzioni per pagamento spontaneo prima di accertamento); Art. 12 cumulo giuridico (sanzione unica per violazioni continuative); Art. 6 cause di non punibilità (errore scusabile, forza maggiore, obiettiva incertezza).
  • D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari) – Art. 4 dich. infedele (>100k imposta evasa); Art. 5 omessa dichiarazione (>50k imposta); Art. 10-bis omesso versamento tributi; Art. 13 cause di non punibilità (pagamento integrale debito tributario, estinzione reato per omessa/infedele). Art. 5 c.5: esterovestizione societaria punita come omessa dichiarazione.
  • Decreto fiscale 2019 (DL 34/2019 conv. L.58/2019) – Art. 13 ha introdotto obblighi per le piattaforme digitali di comunicare all’Agenzia i dati delle vendite di beni effettuate dai loro utenti, pena responsabilità d’imposta in solido . (Provvedimento attuativo 31/07/2019 n. 660061). Tali obblighi sono stati poi abrogati nel 2021 per evitare doppioni con la DAC7.
  • DAC7 – Direttiva (UE) 2021/514 sulla cooperazione amministrativa fiscale: introdotta in Italia con D.Lgs. 30 marzo 2023 n. 32 . Impone ai gestori di piattaforme digitali di raccogliere e trasmettere annualmente alle Agenzie fiscali i dati sui venditori attivi e i relativi redditi, a partire dal 2023 . Le attività monitorate includono vendita di beni, affitti brevi, servizi personali.
  • Regolamento (UE) 2020/283 e Direttiva (UE) 2020/284: misure contro le frodi IVA e-commerce. La dir. 2020/284 è stata recepita con D.Lgs. 25 febbraio 2023 n. 19. Dal 2024, i Payment Service Providers (banche, istituti di pagamento) devono tenere traccia e comunicare alle autorità fiscali le informazioni sui beneficiari di oltre 25 pagamenti transfrontalieri per trimestre . Questi dati confluiscono in un sistema centrale europeo chiamato CESOP , accessibile dalle autorità tributarie per incrociare pagamenti e vendite.
  • Regime IVA OSS/IOSS (One Stop Shop) – Introdotto dalle Direttive UE 2017/2455 e 2019/1995, recepite col DLgs 83/2021 e provvedimento AE 25/06/2021 n. 168315 . Permette ai venditori online di dichiarare in un unico Stato membro (quello di residenza o identificazione) l’IVA dovuta su vendite a distanza verso consumatori in altri Stati UE, evitando registrazioni multiple. Operativo dal 1° luglio 2021 . Non esime dal pagamento dell’IVA, ma semplifica gli adempimenti.
  • Giurisprudenza recente chiave: Cass. civ. Sez. Trib. 7552/2025 (vendite online abituali = impresa, irrilevante importo) ; Cass. 10117/2023 (vendita beni del proprio appartamento non tassabile senza intento speculativo) ; Cass. 6874/2023 (cessione opere d’arte: distingue collezionista vs speculatore occasionale, reddito diverso solo se finalità speculative) ; Cass. 26987/2019 e 26554/2020 (casi analoghi eBay: affermano che frequenza vendite è sufficiente a qualificare impresa, e onere della prova di occasionalità spetta al contribuente); Corte Cost. 47/2023 (obbligo contraddittorio prima di accertamento) ; Corte Cost. 10/2023 (conferma diritto a deduzione costi anche in accertamento induttivo per coerenza col reddito effettivo) .

Conclusione: Navigare nel mondo fiscale dell’e-commerce può sembrare complesso, ma con le giuste informazioni e fonti autorevoli a supporto è possibile difendersi efficacemente. Questa guida ha cercato di offrire un quadro completo e aggiornato al 2025, ma ogni situazione concreta va valutata attentamente. Dal lato contribuente (il “debitore” d’imposta) è fondamentale non farsi trovare impreparati: conosci i tuoi obblighi, segui l’evoluzione normativa (come l’arrivo di DAC7 e CESOP) e, se capita un controllo, gioca d’anticipo fornendo chiarimenti e regolarizzando il possibile. Le sentenze recenti mostrano che i giudici comprendono le peculiarità del commercio online e, laddove il contribuente agisce in buona fede e con trasparenza, spesso gli danno ragione su aspetti sostanziali (come nel tutelare chi vende beni personali o nel non tassare ricavi lordi ignorando i costi). Dunque, armati di documenti, di conoscenza dei tuoi diritti e – se necessario – di un consulente esperto, e potrai affrontare anche l’accertamento fiscale più insidioso. Buon e-commerce (fiscalmente) consapevole!

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate contesta la mancata fatturazione delle vendite online? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate contesta la mancata fatturazione delle vendite online?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

Con la crescita del commercio elettronico, i controlli del Fisco si sono intensificati. L’Agenzia delle Entrate incrocia i dati provenienti da marketplace, piattaforme di pagamento (PayPal, Stripe, ecc.) e flussi bancari con le fatture e le dichiarazioni IVA. Se rileva discrepanze, presume che vi sia stata omessa fatturazione e quindi evasione. Tuttavia, non sempre le contestazioni sono fondate: possono derivare da errori tecnici, vendite escluse dall’obbligo di fattura o duplicazioni di dati.

👉 Prima regola: verifica se le operazioni contestate erano effettivamente soggette a fatturazione o se potevano essere documentate con altri sistemi (scontrini elettronici, ricevute).


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Vendite online non riportate in fattura né nei corrispettivi;
  • Disallineamenti tra incassi da PayPal/Stripe e registrazioni contabili;
  • Vendite a clienti esteri prive di corretta documentazione IVA;
  • Marketplace che non trasmettono i dati o li trasmettono in ritardo;
  • Dichiarazioni IVA incoerenti rispetto ai flussi reali di vendita.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Recupero IVA e imposte dirette sulle vendite non fatturate;
  • Sanzioni per omessa fatturazione (dal 90% al 180% dell’imposta);
  • Interessi di mora;
  • Rischio di accertamento induttivo, con stima dei ricavi basata sui dati bancari;
  • Possibile esclusione da regimi agevolati (forfettario, OSS).

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Obbligo di fatturazione: la vendita rientrava tra quelle per cui è richiesta la fattura?
  • Dati delle piattaforme di pagamento: sono corretti o duplicati?
  • Alternative documentali: erano stati emessi scontrini elettronici o ricevute valide?
  • Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia deve indicare con precisione le operazioni contestate;
  • Notifica e termini: verifica la regolarità dell’atto.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Fatture emesse e corrispettivi giornalieri;
  • Report dettagliati dei marketplace (Amazon, eBay, Etsy, ecc.);
  • Estratti conto PayPal, Stripe, conti correnti aziendali;
  • Dichiarazioni IVA e LIPE;
  • Comunicazioni con clienti e piattaforme digitali.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare che le vendite erano correttamente documentate anche senza fattura;
  • Contestare i dati dell’Agenzia se duplicati o parziali;
  • Eccepire vizi formali: motivazione insufficiente, decadenza dei termini, notifica irregolare;
  • Correggere errori con ravvedimento operoso per ridurre sanzioni;
  • Richiedere autotutela se i dati erano già stati dichiarati ma non riconosciuti;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per bloccare il recupero;
  • Mediazione tributaria per ridurre sanzioni e interessi.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza i dati bancari e i report delle piattaforme contestati dal Fisco;
📌 Verifica se vi era realmente obbligo di fatturazione per le vendite online;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi per annullare o ridurre le pretese fiscali;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce procedure preventive per una gestione fiscale trasparente e sicura dell’e-commerce.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in IVA e commercio elettronico;
✔️ Specializzato in difesa di venditori online e imprese digitali contro contestazioni fiscali;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni per mancata fatturazione delle vendite e-commerce non sempre sono fondate: spesso derivano da errori tecnici, interpretazioni restrittive o duplicazioni di dati.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la regolarità delle operazioni, evitare accertamenti induttivi e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sulle vendite online inizia qui.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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