Contestazioni Su Libretti Di Risparmio Non Dichiarati: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché non hai dichiarato uno o più libretti di risparmio? In questi casi, l’Ufficio presume che le somme depositate costituiscano redditi non dichiarati o attività finanziarie occultate, e procede al recupero delle imposte con applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è corretta: con la giusta documentazione è possibile dimostrare la provenienza lecita delle somme e difendersi efficacemente.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i libretti di risparmio
– Se i saldi o i movimenti non risultano coerenti con i redditi dichiarati
– Se i libretti non sono stati riportati nel quadro RW (in caso di detenzione all’estero)
– Se i versamenti effettuati non sono giustificati da redditi dichiarati o altre fonti lecite
– Se i movimenti appaiono frequenti e sproporzionati rispetto alla capacità contributiva
– Se emergono incongruenze tra i dati bancari e le dichiarazioni fiscali presentate

Conseguenze della contestazione
– Attribuzione delle somme come redditi imponibili non dichiarati
– Recupero delle imposte dirette e indirette sulle somme contestate
– Applicazione di sanzioni per omessa o infedele dichiarazione
– Interessi di mora sulle imposte accertate
– Rischio di ulteriori controlli su rapporti finanziari e patrimoni familiari

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la provenienza lecita delle somme (donazioni, eredità, risparmi accumulati, rimborsi)
– Produrre documentazione bancaria, atti notarili o dichiarazioni sostitutive di atto notorio
– Contestare la presunzione automatica di redditività dei movimenti se non supportata da prove concrete
– Evidenziare errori di calcolo, difetti di motivazione o decadenza dei termini nell’accertamento
– Presentare ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i movimenti dei libretti di risparmio e la documentazione collegata
– Verificare la legittimità della contestazione alla luce della normativa fiscale
– Redigere un ricorso mirato fondato su prove documentali e vizi dell’accertamento
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari contro pretese indebite
– Tutelare il patrimonio personale da indebite tassazioni e azioni esecutive

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della provenienza lecita delle somme depositate
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto secondo la legge

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce in tempo, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e difesa fiscale – spiega come difendersi in caso di contestazioni su libretti di risparmio non dichiarati e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Le contestazioni su libretti di risparmio non dichiarati riguardano, in genere, quei depositi bancari o postali (i cosiddetti libretti di risparmio) che il titolare non ha comunicato al Fisco in sede di dichiarazione dei redditi o che risultano comunque sconosciuti all’erario. Tali contestazioni si verificano spesso quando l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza, nell’ambito di controlli finanziari, scoprono l’esistenza di depositi o movimenti su libretti che il contribuente non ha giustificato nelle proprie dichiarazioni. Da quel momento, il contribuente (sia esso un privato cittadino, un imprenditore individuale o il rappresentante di un’azienda) assume il ruolo di debitore contestato dal Fisco e deve predisporre un’adeguata difesa per evitare sanzioni e tassazioni indesiderate.

In questa guida avanzata – aggiornata ad agosto 2025 – esamineremo in dettaglio la normativa italiana vigente, la prassi degli accertamenti finanziari e le più recenti sentenze in materia, fornendo un taglio operativo sia per professionisti legali (avvocati tributaristi) sia per contribuenti privati e imprenditori. Il linguaggio utilizzato sarà giuridico ma divulgativo, per consentire a tutti di comprendere concetti complessi.

Affronteremo le diverse tipologie di libretti di risparmio oggetto di possibili contestazioni, come i libretti cointestati, quelli al portatore (ormai non più consentiti), i libretti estinti o dormienti, e spiegheremo come l’Amministrazione finanziaria viene a conoscenza di tali rapporti attraverso l’Anagrafe dei rapporti finanziari e le verifiche bancarie mirate. Saranno illustrati i passi del contenzioso tributario dal punto di vista del contribuente, con attenzione ai diritti di difesa quali l’accesso agli atti e la presentazione di memorie.

Troverete inoltre tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione di domande e risposte che chiariranno i dubbi più frequenti. L’obiettivo è fornire una panoramica completa delle strategie difensive a disposizione del debitore contestato per un libretto non dichiarato, basandoci sulle normative vigenti e sulle più autorevoli pronunce giurisprudenziali aggiornate.

(Nota: Ci riferiremo spesso all’“Agenzia delle Entrate” come organo accertatore, ma gran parte delle considerazioni valgono anche se il controllo è avviato dalla Guardia di Finanza o se la riscossione è curata da Agenzia Entrate-Riscossione. Parleremo di “libretti di risparmio” includendo sia i libretti bancari sia quelli postali, salvo dove diversamente specificato.)

Quadro normativo e strumenti di controllo del Fisco

Per comprendere come difendersi, è fondamentale conoscere quali norme regolano la materia e come opera il Fisco nel rintracciare e contestare libretti di risparmio non dichiarati. In questa sezione esamineremo i riferimenti normativi chiave e gli strumenti a disposizione dell’Amministrazione finanziaria, tra cui l’Archivio dei Rapporti Finanziari (spesso detto “Anagrafe dei conti correnti”) e i poteri di indagine finanziaria previsti dal legislatore.

Obblighi dichiarativi e natura dei libretti di risparmio

In Italia non esiste un obbligo generale di dichiarare in Unico i conti correnti o i libretti di risparmio detenuti presso banche italiane, poiché gli eventuali interessi maturati su tali depositi sono normalmente soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (ad esempio, con aliquota del 26% per gli interessi bancari ordinari, 12,5% per interessi su libretti postali fruttiferi emessi in passato, ecc.). Diverso è il caso di conti o libretti esteri, per i quali vige l’obbligo di monitoraggio fiscale nel Quadro RW, ma la nostra guida si concentra sui rapporti nazionali.

Tuttavia, quando si parla di “libretto non dichiarato” in ambito tributario, ci si riferisce in genere a due situazioni: (1) somme depositate sul libretto che derivano da redditi non dichiarati al Fisco (e quindi potenzialmente evasione d’imposta), oppure (2) esistenza stessa del libretto non resa nota al Fisco in contesti in cui andava invece comunicata (ad esempio, in risposte a questionari o in sede di istruttoria patrimoniale). In breve, il problema non è tanto l’omessa indicazione formale del libretto, quanto il fatto che quelle somme potrebbero rappresentare ricavi o redditi sottratti a tassazione.

Per questo motivo, la normativa cardine da considerare è l’art. 32 del D.P.R. 600/1973 (in materia di imposte sui redditi, con disposizione analoga in art. 51 D.P.R. 633/1972 per l’IVA). Questa norma, specie dopo le modifiche introdotte dalla legge 311/2004 (Finanziaria 2005), attribuisce all’Amministrazione finanziaria poteri molto ampi di accertamento tramite l’esame dei conti bancari e postali dei contribuenti. In sostanza, qualsiasi versamento riscontrato su conti o libretti intestati al contribuente si presume reddito imponibile non dichiarato, salvo prova contraria fornita dal contribuente stesso . Si tratta di una presunzione legale a favore del Fisco: una volta che l’Ufficio accerti l’esistenza di movimenti bancari “sospetti” (come versamenti in contanti non giustificati), spetta al contribuente l’onere di dimostrare che essi non costituiscono materia imponibile (ad esempio perché originati da redditi già tassati, da risparmi accumulati negli anni, da donazioni esenti, ecc.). In mancanza di giustificazioni convincenti, tutti i movimenti possono essere considerati operazioni imponibili e il reddito dichiarato viene rideterminato di conseguenza .

Va evidenziato che fino al 2004 tale presunzione valeva pienamente solo per i titolari di reddito d’impresa, mentre per i lavoratori autonomi e altri contribuenti “privati” l’uso delle indagini bancarie era più limitato. Dal 2005 in poi, invece, l’art. 32 citato è stato esteso, consentendo accertamenti bancari anche nei confronti delle persone fisiche prive di contabilità e dei professionisti, nonché sui conti di terzi soggetti ritenuti legati al contribuente . Questa estensione ha aumentato l’efficacia dei controlli anti-evasione, ma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: in particolare, la Corte Costituzionale (sent. n. 228/2014) è intervenuta dichiarando l’illegittimità della presunzione relativa ai prelevamenti ingiustificati per i soggetti non obbligati a tenuta di contabilità (privati e professionisti) . In altre parole, oggi anche i privati possono essere chiamati a giustificare i versamenti sui propri conti, mentre per i prelievi bancari ingiustificati la presunzione di evasione opera solo nei confronti degli imprenditori (perché un prelievo non giustificato da un conto aziendale potrebbe celare un costo “in nero” o acquisti per attività d’impresa non dichiarate, mentre per un privato cittadino prelevare contante non è di per sé indice di evasione) . Questo aspetto tecnico può rivelarsi utile nella difesa: se il Fisco contestasse prelievi dal libretto di un privato sostenendo che finanziano spese in nero, si potrebbe eccepire l’inapplicabilità di tale presunzione ai sensi della sentenza costituzionale del 2014.

Riassumendo i principi chiave: i versamenti non giustificati su un libretto sono presunti reddito non dichiarato, a meno che il contribuente provi il contrario; tale presunzione è valida erga omnes (per imprese, professionisti e privati) dal 2005 in avanti . I prelievi ingiustificati, invece, rilevano solo per imprese (mentre non possono essere usati contro le persone fisiche non imprenditori, grazie al correttivo della Corte Costituzionale). È importante anche notare che la presunzione legale inverte l’onere della prova: l’Ufficio non deve dimostrare che quei soldi sono reddito tassabile, basta che evidenzi l’anomalia; è il contribuente a dover fornire una spiegazione documentata.

L’Archivio dei Rapporti Finanziari (Anagrafe dei conti correnti)

Come fa l’Amministrazione finanziaria a scoprire l’esistenza di un libretto di risparmio non dichiarato? Uno strumento fondamentale è l’Archivio dei Rapporti con Operatori Finanziari, più comunemente noto come Anagrafe dei conti correnti. Si tratta di una gigantesca banca dati istituita presso l’Anagrafe Tributaria, alimentata dalle comunicazioni che banche, Poste Italiane, istituti finanziari, assicurazioni, società di gestione del risparmio e altri intermediari sono obbligati per legge ad effettuare periodicamente.

Già dal 2005 è previsto che tutti gli operatori finanziari comunichino all’Anagrafe informazioni sull’esistenza dei rapporti bancari/postali intestati ai vari soggetti, con indicazione della natura del rapporto (conto corrente, libretto di risparmio, conto titoli, carta di credito, deposito a risparmio, finanziamento, cassetta di sicurezza, etc.), i dati anagrafici dell’intestatario (nome, codice fiscale), la data di apertura e di eventuale chiusura . Dal 2012 in poi, l’obbligo di comunicazione è stato esteso anche ai saldi e movimenti: attualmente gli intermediari inviano annualmente (entro il 15 febbraio dell’anno successivo) i saldi di inizio e fine anno di ogni conto/libretto, la giacenza media annua, nonché il totale degli importi movimentati (somme totali di accrediti e addebiti in conto) . In pratica, il Fisco non solo sa che un certo contribuente ha un libretto di risparmio, ma conosce anche quanto denaro vi è transitato in un dato anno e quali erano le giacenze. Non vengono invece trasmesse in Anagrafe le singole operazioni con dettaglio (esempio: bonifico X il giorno Y), che restano disponibili solo tramite richiesta mirata all’intermediario. L’Anagrafe fornisce dunque un quadro sommario ma preziosissimo per selezionare i contribuenti a rischio evasione: ad esempio, se un soggetto dichiara redditi modestissimi ma dall’Anagrafe risulta titolare di conti con saldi elevati o movimentazioni incompatibili con quel reddito, scatta un campanello d’allarme.

Come viene utilizzata l’Anagrafe finanziaria? Vi sono due profili: uno prevenivo/selettivo, l’altro accertativo. Sul fronte preventivo, l’Agenzia delle Entrate esegue periodiche analisi incrociando i dati dei conti con quelli delle dichiarazioni dei redditi, spesso tramite strumenti informatici avanzati (noti giornalisticamente come “evasometro” o “risparmiometro”). Si tratta di algoritmi che confrontano i risparmi e le spese di un contribuente con i redditi dichiarati, segnalando scostamenti anomali . Ad esempio, il sistema può evidenziare che un contribuente non preleva mai contante dal conto ma paga spese ingenti (affitti, bollette, carte di credito): ciò potrebbe far ipotizzare che disponga di altre entrate in nero non transitanti sul conto . Oppure, al contrario, che accumula somme sul conto molto superiori ai redditi ufficiali, indicatore tipico di possibili ricavi non dichiarati. A partire dal 2024, con il D.Lgs. 5 agosto 2024 n. 108, l’Italia ha potenziato questi sistemi sostituendo il vecchio redditometro con un nuovo meccanismo di accertamento sintetico (il cosiddetto “evasometro”), che consente controlli ancora più mirati sui conti correnti mediante tecnologie avanzate e analisi di rischio automatiche . Ad esempio, tra i criteri attivati dal 2025 vi è un controllo approfondito per i contribuenti con elevati debiti fiscali (oltre 50.000 €) e sproporzione tra spese sostenute e reddito dichiarato . Tutto ciò aumenta la probabilità che libretti di risparmio “occulti” vengano individuati, direttamente o indirettamente, dall’occhio elettronico del Fisco.

Quando poi un contribuente è selezionato per un potenziale accertamento, l’Anagrafe funge da base informativa: l’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate può consultare l’elenco di tutti i rapporti finanziari intestati o cointestati a quel codice fiscale (anche rapporti chiusi in passato, poiché restano registrati con la data di chiusura). In caso di verifica fiscale formale, i funzionari possono richiedere all’intermediario i dettagli dei movimenti su quei rapporti – questa attività rientra nelle “indagini finanziarie” disciplinate sempre dall’art. 32 DPR 600/73. Dal 2006 tali indagini avvengono in modo telematico e standardizzato: l’ufficio invia una richiesta attraverso canali protetti al server centrale (SID) che smista alle banche interessate, le quali rispondono fornendo estratti conto e documentazione . Il contribuente di norma viene a conoscenza di queste richieste solo a posteriori (non c’è obbligo di preavviso durante l’indagine, per evitare di vanificare il controllo), anche se la Circolare 32/E del 2006 dell’Agenzia delle Entrate prevedeva che gli intermediari informassero i clienti a indagine conclusa in ossequio a principi di trasparenza . In ogni caso, una volta ottenuti i dati bancari, l’Ufficio li analizzerà alla ricerca di movimenti non coerenti con la posizione fiscale dichiarata. Tipicamente, l’attenzione si concentra sui versamenti in contanti o sui bonifici di provenienza ignota sul libretto, specie se di importo rilevante.

Da quanto sopra si comprende come, attualmente, detenere un libretto di risparmio “non dichiarato” è sempre più difficile senza che il Fisco prima o poi lo scopra. Attraverso l’Anagrafe dei rapporti finanziari, l’Agenzia sa dell’esistenza di quasi tutti i rapporti bancari/postali e ne monitora le consistenze. Non a caso, in una relazione della Corte dei Conti del 2017 sull’uso dell’Anagrafe, si evidenziava come l’incrocio delle informazioni bancarie avesse fatto emergere ingenti valori mobiliare prima non dichiarati dai contribuenti, contribuendo a potenziare l’azione di contrasto all’evasione .

Tabella – Esempi di dati comunicati all’Anagrafe dei Rapporti Finanziari
(fonte: Provv. Ag. Entrate 25/01/2016 e succ. modifiche)
| Tipo di informazione | Contenuto dettagliato | |———————————–|———————————————-| | Identificativi rapporto | Codice fiscale intestatario, numero rapporto, natura (codice tipo: es. 01 conto corrente, 02 deposito titoli, 03 libretto risparmio nominativo, 04 libretto al portatore, ecc.), data apertura, data chiusura se cessato . | | Saldi e giacenze medie | Saldo contabile al 1° gennaio e al 31 dicembre di ogni anno; giacenza media annua (calcolata su base giornaliera). Non comunicata se il saldo < 5.000 €? (NB: soglia tolta dal 2020, ora tutti i saldi sono comunicati). | | Importi totali movimentati | Importo complessivo dei movimenti in accredito e in addebito effettuati nel corso dell’anno. (Non la lista delle singole operazioni, ma il totale cumulativo entrate/uscite). | | Altre info* | Segnalazione di particolari eventi: ad es. se il rapporto è cointestato, se c’è un delegato ad operare, se è in sofferenza, ecc. Alcune operazioni “extra-conto” di rilievo come acquisti oro, cassette sicurezza, cambi valuta ≥ €15k. |

Nota: i libretti al portatore sono stati eliminati nel 2018, come si dirà oltre; qui sono indicati per completezza storica della tabella.

Libretti nominativi vs libretti al portatore: evoluzione normativa e sanzioni

Una distinzione cruciale per i libretti di risparmio è quella tra libretti nominativi e libretti al portatore. I libretti nominativi riportano intestato il nome del titolare e solo quest’ultimo (o un suo delegato) può effettuare operazioni; l’intermediario conosce l’identità del titolare e la legge impone rigorose procedure di identificazione (normative antiriciclaggio). I libretti al portatore, invece, erano titoli di credito anonimi: chiunque li deteneva fisicamente poteva presentarsi per effettuare prelievi o riscossioni, senza un nome registrato stabilmente. In passato venivano usati per trasferire liquidità senza lasciare troppe tracce nominative. Proprio questa loro caratteristica li ha resi uno strumento opaco, spesso sfruttato per fini di evasione fiscale o riciclaggio di denaro.

L’abolizione dei libretti al portatore

Negli ultimi anni vi è stata una stretta normativa che ha portato alla completa eliminazione dei libretti al portatore in Italia. Già dal 2007, con il D.Lgs. n. 231/2007 (normativa antiriciclaggio di recepimento UE), erano stati introdotti limiti: ad esempio, dal 2011 il saldo di un libretto al portatore non poteva superare €999,99, pena sanzioni, e non era consentito il trasferimento di libretti al portatore (cioè il passaggio materiale a un altro soggetto) per importi superiori a tale soglia. La vera svolta è arrivata con il D.Lgs. 25 maggio 2017 n. 90 (entrato in vigore il 4 luglio 2017), che ha vietato l’emissione di nuovi libretti al portatore da quella data . Ciò significa che dal 4 luglio 2017 banche e Poste possono emettere solo libretti nominativi e nessun nuovo libretto anonimo può più circolare. Contestualmente è stato imposto ai possessori di libretti al portatore esistenti di procedere alla loro estinzione entro il 31 dicembre 2018 . In alternativa all’estinzione (chiusura del rapporto e riscossione dei fondi), era possibile chiedere la conversione del libretto al portatore in un libretto nominativo intestato al portatore stesso, oppure il trasferimento dell’intero saldo su un diverso strumento nominativo (per esempio su un conto corrente intestato al titolare effettivo). Queste opzioni andavano esercitate sempre entro la fine del 2018 .

Allo scadere di quel termine, dal 1° gennaio 2019 i libretti al portatore residui hanno perso validità. In pratica un vecchio libretto al portatore non estinto è diventato inutilizzabile: se oggi qualcuno si recasse in banca o in Posta con quel titolo, l’operatore non potrebbe consentire alcuna operazione e anzi è tenuto a segnalarlo al Ministero dell’Economia e Finanze . Il possessore “ritardatario” va incontro anche ad una sanzione amministrativa. La legge infatti prevede che, qualora un portatore non abbia provveduto nei termini, venga fatta una comunicazione al Ministero, il quale applicherà una multa da €250 a €500 per il mancato adempimento . Questa sanzione (tutto sommato non elevatissima) ha più che altro funzione deterrente e punitiva per la violazione formale; ben più importante è che finché non si estingue il libretto, il denaro è bloccato. Dal 2019 in poi, per rientrare in possesso delle somme, il portatore deve comunque presentarsi all’intermediario per estinguere il libretto (convertendolo o prelevando i fondi) e, come detto, subirà la sanzione pecuniaria per il ritardo . Se invece non si fa nulla, le somme resteranno congelate.

È utile sottolineare che la ratio di questa misura è totalmente antiriciclaggio: impedire l’esistenza di strumenti finanziari anonimi. Di riflesso, ciò ha effetti anche in ambito fiscale: ogni libretto di risparmio oggi deve avere un intestatario nominativo, quindi almeno formalmente tutte le disponibilità bancarie sono riconducibili a un codice fiscale. Questo elimina una delle scappatoie che in passato potevano essere usate per occultare patrimoni (si pensi a evasori che custodivano denaro in libretti al portatore non intestati, difficili da collegare loro).

Come difendersi in caso di contestazioni su un libretto al portatore? Anzitutto, se il contribuente nel 2025 dovesse ancora avere in mano un vecchio libretto al portatore non estinto, la priorità sarebbe regolarizzarlo immediatamente (estinzione e pagamento della sanzione ridotta). Dal punto di vista strettamente fiscale, la contestazione tipica consiste nell’individuazione, da parte del Fisco, di somme provenienti da un libretto al portatore che non erano mai state dichiarate. Ciò può accadere, ad esempio, durante una verifica quando vengono rinvenuti documenti o ricevute di operazioni relative a tale libretto, oppure se il contribuente stesso, in un momento successivo, converge i fondi in un conto nominativo (in tal caso l’operazione di convergenza potrebbe emergere all’Agenzia).

Facciamo un esempio: Tizio nel 2018 aveva un libretto al portatore con saldo di €50.000, non dichiarato al Fisco perché alimentato da pagamenti in nero. Nel dicembre 2018 Tizio non ha estinto il libretto. Nel 2025, deciso a recuperare quei soldi, Tizio porta il libretto in banca. La banca, come da obbligo, segnala il fatto al Ministero dell’Economia e Finanze e converte il libretto in un conto nominativo intestato a Tizio, applicando la sanzione amministrativa. A questo punto, però, emerge ufficialmente che Tizio detiene €50.000 finora mai dichiarati: l’Agenzia delle Entrate, tramite l’Anagrafe, vedrà l’apertura del nuovo conto con quel saldo iniziale o riceverà comunicazione specifica. Scatterà facilmente un accertamento per redditi sottratti a tassazione, presumendo che quei €50.000 siano frutto di ricavi non dichiarati.

In uno scenario del genere, le strategie difensive possibili sono limitate ma comunque da tentare: Tizio potrebbe sostenere, se plausibile, che quelle somme provenivano in realtà da redditi di anni ormai prescritti fiscalmente (ad esempio, era denaro guadagnato negli anni ’90 e tenuto in contanti, poi depositato su libretto al portatore). Se riuscisse a provarlo con documenti o per lo meno a renderlo verosimile, l’Ufficio non potrebbe pretendere imposte su redditi così remoti (il potere di accertamento decade tipicamente dopo 5 o 7 anni). Oppure Tizio potrebbe affermare che quei fondi derivavano da attività lecite non tassabili – ad es. una donazione familiare esente, una vincita o risarcimento, o redditi già tassati all’origine. L’onere della prova, comunque, ricade interamente su di lui: un grosso importo anonimo, per giunta mantenuto in violazione delle norme antiriciclaggio, viene visto dal Fisco con presunzione fortemente negativa. Conviene in questi casi raccogliere qualsiasi evidenza utile: testimonianze scritte di familiari donanti, estratti conto passati che mostrino prelievi di contante compatibili, ecc., e presentarle prontamente all’ufficio.

Riassumendo, i libretti al portatore sono ormai un retaggio del passato (dal 2019 formalmente scomparsi). Se il contribuente ne ha detenuti in passato, le contestazioni oggi possono riguardare essenzialmente le somme che vi erano depositate, qualora vengano alla luce. Difendersi significa dimostrarne la liceità e la natura non reddituale (o comunque già tassata). Dal punto di vista sanzionatorio, oltre alle imposte evase ed eventuali sanzioni tributarie (generalmente il 90% delle imposte evase per infedele dichiarazione), c’è la citata sanzione fissa 250-500€ per la violazione antiriciclaggio. Quest’ultima non assorbe né sostituisce le eventuali altre: ad esempio, pagare 300€ di multa al MEF per tardiva estinzione non evita un avviso di accertamento dell’Agenzia sulle somme in questione.

Tabella – Libretti nominativi vs Libretti al portatore
Principali differenze e disciplina (aggiornata al 2025)
| Caratteristica | Libretto nominativo | Libretto al portatore (abolito) | |———————————|————————-|————————————-| | Intestazione | Intestato a una persona fisica (o giuridica) identificata. Può essere cointestato a più nomi. | Nessun nome intestatario fisso; il possessore fisico è considerato il titolare di fatto. Anonimo. | | Operatività | Operazioni consentite solo al titolare (o delegato) previa identificazione. | Operazioni consentite a chiunque presenti il libretto. Anonimato durante l’operazione. | | Tracciabilità | Elevata: l’intermediario registra ogni operazione a nome dell’intestatario; soggetto a norme antiriciclaggio (soglia contanti, adeguata verifica, ecc.). | Molto bassa: difficoltà ad associare movimenti a una persona. Per questo considerato strumento a rischio riciclaggio. | | Normativa vigente | Consentiti e diffusi. Soglia contanti: non vi è limite di saldo, ma restano limiti al prelevamento di contante per volta (norme antiriciclaggio generali). | Emissione proibita dal 4/7/2017 . Obbligo di estinzione entro 31/12/2018 . Oggi non più validi: i residui sono bloccati. Sanzione €250-500 per chi non ha estinto in tempo . | | Esempi di contestazione fiscale | Redditi non dichiarati rilevati su saldo/versamenti (il titolare deve giustificare origine lecita e fiscalmente non imponibile). | Somme ingenti scoperte su libretto anonimo poi confluito a nominativo o trovato in verifica: presunzione di evasione altissima. Difficile difesa se non con prove concrete di provenienza (donazioni, risparmi pregressi, ecc.). |

Libretti cointestati: presunzioni e ripartizione delle somme

Una situazione frequente è quella dei libretti (o conti) cointestati a più persone, ad esempio tra coniugi, tra genitore e figlio, tra socio e familiare, ecc. In tali casi, quando uno dei cointestatari è oggetto di un controllo fiscale, sorge il problema di attribuire le somme presenti sul libretto: appartengono interamente al contribuente accertato oppure vanno divise pro quota con l’altro intestatario? E i movimenti di versamento/prelievo, di chi sono?

Dal punto di vista civilistico, vige una regola di massima: le somme su un conto/libretto cointestato si presumono di proprietà comune dei cointestatari in parti uguali, salvo prova di diverso accordo interno (art. 1854 c.c. per conti bancari, richiamato analogicamente) . Ad esempio, due coniugi cointestatari si presumono ciascuno proprietario del 50% del saldo. Questa è però una presunzione “di comodo” che regola i rapporti interni e con la banca, non una verità assoluta: se uno dei due dimostra di avervi messo tutti i soldi lui dal proprio patrimonio, può rivendicare la titolarità esclusiva delle somme (la presunzione di contitolarità non è assoluta e può essere vinta con prova contraria, anche tramite presunzioni semplici gravi e precise) . La giurisprudenza civile più recente (Cass., Sez. I, ord. n. 1643/2025) ha ribadito che l’origine dei fondi versati è determinante nel superare la presunzione di comproprietà, specie in ambito familiare: se tutti i versamenti derivano da assegni o bonifici intestati a uno solo dei coniugi, le giacenze sono da considerarsi appartenenti a quest’ultimo . Questo principio tutela, ad esempio, il coniuge che figura cointestatario solo per praticità ma non ha contribuito alle somme: non può l’altro appropriarsi del 50% in caso di separazione o successione, se c’è prova che il denaro proveniva esclusivamente dall’altro intestatario.

In ambito fiscale, tuttavia, la prospettiva è diversa: l’Agenzia delle Entrate tende a considerare rilevanti per intero ai fini dell’accertamento tutti i movimenti registrati su un conto cointestato, se uno degli intestatari è sotto verifica, a meno che quest’ultimo fornisca elementi per ripartire o escludere le operazioni che lo riguardano. Già dal 2015 la Cassazione ha chiarito che il contribuente con conto cointestato con un familiare deve dimostrare l’attribuibilità di ogni movimento a quest’ultimo, altrimenti è lecito per il Fisco presumere che tutte le operazioni (versamenti e prelievi) siano a lui riferibili e dunque imponibili . In una parola, l’intestazione congiunta di per sé non basta a evitare l’accertamento: l’Ufficio può legittimamente effettuare indagini finanziarie su conti cointestati e considerare quei flussi come redditi del contribuente accertato, data la stretta connessione che la cointestazione implica tra i soggetti . Lo ha affermato la Corte di Cassazione in più occasioni, ad esempio con l’ordinanza n. 1298/2020 . Addirittura, la giurisprudenza è andata oltre, ritenendo possibili controlli persino su conti formalmente intestati a terzi (non cointestati) se vi è motivo di credere che dietro vi sia disponibilità del contribuente – tipicamente conti intestati a familiari stretti, conviventi ecc. (cfr. Cass. nn. 22089 e 22093 del 2018) . In questi casi si parla di “presunzione di riferibilità” dei movimenti dei conti di terzi al contribuente, fondata sul vincolo familiare o simile, sempre salva la prova contraria da parte del contribuente . Ad esempio, se un professionista sottrae ricavi e li versa sul conto del padre pensionato, il Fisco può ugualmente contestarglieli come propri compensi non dichiarati: spetterà al figlio provare che quei soldi sono davvero del padre e non frutto del suo lavoro.

Tornando ai libretti cointestati, dal punto di vista della difesa del contribuente, la strategia consiste nel dimostrare con documentazione la reale titolarità delle somme e la destinazione delle operazioni. Alcune situazioni tipiche e come affrontarle:

  • Caso del conto cointestato con un familiare “benestante”: Una fattispecie comune è l’intestazione con un genitore anziano o coniuge facoltoso, magari fatta per comodità (es. gestione condivisa dei risparmi). Se il contribuente viene accusato di non aver dichiarato redditi corrispondenti ai versamenti su tale conto, potrà difendersi provando che le somme derivano in realtà dal patrimonio o reddito dell’altro cointestatario. Ad esempio, mostrando che i bonifici versati sul libretto sono stipendi o pensioni del genitore, o provengono dalla vendita di un immobile di proprietà dell’altro intestatario. È importante fornire pezze d’appoggio solide: estratti conto che evidenzino l’origine dei versamenti, ricevute di assegni intestati al co-intestatario, ecc. Anche una dichiarazione scritta del co-intestatario può essere utile: la Cassazione ha espressamente riconosciuto che il contribuente può introdurre nel processo tributario dichiarazioni rese da terzi (come la moglie, il padre, ecc.) con valore di elementi indiziari, esattamente come può fare l’Agenzia con le dichiarazioni di terzi raccolte in fase di verifica . Tali dichiarazioni non bastano da sole a vincere la presunzione, ma il giudice deve valutarle e possono concorrere a convincerlo . Nel 2016 la Cassazione (sent. 18065/2016) ha proprio censurato una Commissione tributaria che aveva ignorato la lettera in cui la moglie del contribuente si assumeva la titolarità di certi versamenti sul conto cointestato, avendo i giudici locali erroneamente ritenuto di non poter considerare quella prova in quanto “testimonianza” non ammessa . La Suprema Corte ha invece chiarito che non si trattava di prova testimoniale in senso processuale, ma di dichiarazione extraprocessuale di terzo, e come tale utilizzabile a fini probatori al pari delle dichiarazioni rese da terzi a favore del Fisco . Questo principio garantisce parità delle armi: il contribuente può far valere dichiarazioni di terzi (es. il co-intestatario) con lo stesso peso indiziario delle eventuali dichiarazioni di terzi raccolte dall’Ufficio . Dunque, far sottoscrivere al familiare una dichiarazione dettagliata sull’origine dei fondi (magari allegando copia di documenti di supporto) e depositarla come memoria difensiva può avere un impatto positivo.
  • Caso del conto cointestato tra coniugi usato per l’attività di uno dei due: Spesso nelle piccole imprese familiari o tra professionisti si cointesta il conto a marito e moglie per praticità, ma di fatto viene usato per incassi/pagamenti dell’attività di uno solo. In un accertamento, l’Ufficio attribuirà tutti i movimenti al soggetto titolare dell’attività. Qui la difesa potrebbe cercare di “separare” le acque: ad esempio, evidenziare che alcuni versamenti erano lo stipendio dell’altro coniuge (se ha un lavoro dipendente) e non ricavi dell’attività. Però se sul conto confluiscono indistintamente entrate personali e professionali, è una situazione complicata. La Cassazione ha affermato che l’intestazione congiunta non esime dai controlli e anzi obbliga il contribuente a giustificare puntualmente ogni movimento : dunque è prudente, ex ante, evitare di mescolare flussi di redditi diversi su conti comuni. In sede di difesa, si dovrà suddividere i movimenti in categorie e giustificarli singolarmente (es.: “questo versamento di 5.000€ del 10 marzo è il TFR di mia moglie accreditato sul conto cointestato, come da lettera dell’INPS allegata, dunque non è un mio ricavo tassabile”; “quest’altro prelievo di 3.000€ l’ho usato per pagare l’impresa edile per i lavori di casa, come da fattura che ho in copia, quindi non è un costo occulto dell’azienda ma una spesa personale” e così via). Un lavoro meticoloso, ma necessario per convincere il giudice.
  • Caso del cointestatario estraneo all’economia del contribuente: Può accadere che una persona risulti cointestataria solo formalmente, magari messa per fiducia ma senza mettere o togliere soldi. Ad esempio, un figlio che cointesta con il padre anziano solo per aiutarlo nella gestione. Se il figlio viene controllato, di norma quell’account appare in Anagrafe come cointestato e quindi viene esaminato. Se però risulta che tutte le operazioni riguardavano pensione e spese del padre, il figlio dovrebbe uscirne: dovrà dimostrare che lui non ha mai usato quei fondi a proprio beneficio. Anche qui, la dichiarazione dello stesso padre può servire (es: “confermo che i soldi sul libretto cointestato sono solo miei risparmi/pensione, mio figlio ha la firma solo per aiutarmi ma non ha versato nulla di suo né prelevato per sé”). I documenti contabili (estratti) evidenzieranno magari che i prelievi servivano per pagare bollette, spese mediche del padre, etc., tutte cose coerenti con il reddito del padre. L’assenza di movimenti verso conti del figlio o per acquisti del figlio sarebbe un punto a favore. In casi simili, si può riuscire a convincere il Fisco (o il giudice in sede contenziosa) che la presunzione di riferibilità integrale al contribuente è superata, assegnando di fatto i movimenti all’altro contitolare. Va ricordato che in teoria ci sarebbe la regola civile del 50/50: uno potrebbe pensare “quantomeno, riconoscetemi che la metà non è mia!”. In pratica, però, l’esperienza insegna che le Commissioni tributarie difficilmente applicano d’ufficio una divisione a metà se il contribuente non dimostra chi ha fatto cosa. Anzi, la citata Cass. 18065/2016 ha evidenziato che se la contabilità parallela non distingue le quote, non basta dire “era cointestato, quindi metà è di mia moglie” per salvarsi, occorre portare elementi precisi . In quella vicenda, come abbiamo visto, il ricorrente invocava il conto cointestato alla moglie per dimezzare l’imponibile, ma la Cassazione non gli ha dato ragione su questo punto (ha invece accolto il motivo sulle dichiarazioni della moglie ignorate). Ciò fa capire che la difesa “spartitoria” pura e semplice è rischiosa: il Fisco può replicare che la cointestazione era fittizia o comunque irrilevante se non si prova la diversa provenienza delle somme. Dunque, meglio puntare direttamente a provare di chi erano i soldi, più che affidarsi a una divisione automatica.

Riassumendo: nei libretti cointestati il Fisco presume che le somme siano anche del contribuente verificato (presunzione di disponibilità), e che i movimenti possano nascondere suoi redditi non dichiarati . Per difendersi, il contribuente deve produrre ogni prova contraria possibile sulla titolarità effettiva delle somme. Ciò include documenti bancari, contratti, buste paga, attestazioni di terzi, e quant’altro serva a convincere che taluni movimenti non lo riguardano oppure che i denari versati erano già stati tassati altrove. In ultima analisi, se rimangono movimenti non giustificati in modo convincente, l’Ufficio – e con buona probabilità la Commissione tributaria – li considererà reddito imponibile proprio del contribuente. Pertanto la regola d’oro è: anticipare il problema, evitando per quanto possibile conti comuni per gestioni economiche distinte, oppure mantenendo una traccia chiara di chi contribuisce cosa.

Libretti “dormienti” e rapporti estinti: profili fiscali

Con libretti dormienti si intendono quei depositi di risparmio che non vengono movimentati per un lungo periodo di tempo (oltre 10 anni) e che pertanto, in base alla legge, devono essere estinti dall’intermediario con trasferimento delle somme a un apposito Fondo statale. La normativa relativa ai “rapporti dormienti” è stata introdotta dalla legge finanziaria 2006 (l. 266/2005, art. 1 commi 345 e segg.) e dal D.P.R. 22 giugno 2007 n. 116 che ne ha definito il regolamento attuativo. In sintesi, un libretto bancario o postale si definisce dormiente se non registra operazioni o movimentazioni per oltre 10 anni e presenta un saldo superiore a €100 (sotto tale soglia, alcuni conti dormienti possono essere esclusi dall’attivazione della procedura). L’intermediario ha l’obbligo di comunicare al titolare (tramite lettera raccomandata) l’imminente qualificazione a “dormiente” se l’inerzia perdura, dopodiché – trascorsi 180 giorni dalla comunicazione senza che il cliente effettui alcuna operazione – il rapporto viene estinto d’ufficio e le somme vengono devolute al Fondo istituito presso il MEF (gestito da Consap) . Il titolare o i suoi aventi diritto hanno poi 10 anni di tempo per rivendicare le somme dal Fondo (mediante apposita richiesta a Consap); decorso anche questo termine di prescrizione, il denaro è acquisito permanentemente dallo Stato .

Dal punto di vista fiscale, la questione dei libretti dormienti può emergere in due modi:

1. Il contribuente “dimentica” un libretto non dichiarato, che diventa dormiente e confluisce al Fondo dormienti. In questo caso paradossale, la persona perde il denaro (se non lo reclama entro i 10 anni successivi) e, a rigore, il Fisco potrebbe comunque contestare la mancata dichiarazione di quelle disponibilità se e quando ne venisse a conoscenza. Come può scoprirlo? Ad esempio, attraverso l’Anagrafe dei rapporti finanziari: quando la banca comunica la chiusura del rapporto per dormienza, segnala anche l’importo trasferito al Fondo. Dunque l’Agenzia può vedere che il soggetto Tizio aveva un libretto con X euro che è stato estinto per dormienza. Se X era cospicuo e Tizio non ne ha mai parlato al Fisco, potrebbe insospettire l’Ufficio, il quale potrebbe avviare un controllo chiedendo spiegazioni sull’origine di quei fondi (anche se ormai non sono più in suo possesso, rimane il dubbio che fossero redditi in nero). Una strategia difensiva in tale evenienza consisterebbe nel sostenere che quelle somme provenivano da redditi di molti anni prima, o eredità, o comunque da qualcosa di già noto al Fisco. In pratica si tratta di fornire ex post le giustificazioni che non si diedero all’epoca. Non è una posizione semplice: l’Ufficio potrebbe obiettare che se uno lascia dormire €50.000 su un libretto per 10+ anni fino a perderli, o era un “evasore distratto” o quelle somme non gli servivano perché frutto di contanti accumulati al nero. Ogni caso concreto farà storia a sé.

Per fortuna, queste contestazioni non sono frequentissime, anche perché un libretto che entra in dormienza nel 2023, ad esempio, con somme frutto di evasione fiscale del 2010, potrebbe essere fuori dai termini di accertamento (gli anni di imposta 2010 ormai non sono più accertabili, salvo casi di reato). Il Fisco potrebbe magari contestare l’omessa dichiarazione di redditi più recenti se ci sono movimenti successivi (ma per definizione, dormiente significa assenza di movimenti da 10 anni). Quindi spesso la cartuccia investigativa della dormienza è scarica: il contribuente potrebbe cavarsela eccependo la decadenza dei termini per tassare quelle somme. Resta il fatto che la presenza di depositi dormienti può far scattare approfondimenti sulla generale situazione fiscale del soggetto, come indice di possibili ricchezze non spiegate.

2. Il contribuente, al momento del controllo, ha già perso traccia del libretto dormiente e/o ne reclama tardivamente il rimborso. Qui la contestazione tributaria potrebbe intrecciarsi con il tentativo di recupero delle somme: immaginiamo Caio, che nel 2025 scopre di avere un vecchio libretto postale dormiente da €20.000 trasferito al Fondo nel 2014 (perché fermo dal 2004). Caio fa istanza a Consap e riesce a ottenere il rimborso (poniamo) nel 2025. A quel punto quell’incasso potrebbe comparire sul suo conto corrente. Formalmente è una restituzione di capitale, non un reddito, e il Fisco non dovrebbe tassarla (anche perché quei soldi quando sono stati versati sul libretto in origine provenivano da qualche fonte). Tuttavia, se Caio nel 2004 non aveva dichiarato redditi sufficienti a giustificare €20.000, l’Agenzia, vedendo ora il rimborso, potrebbe chiedergli conto di dove li avesse presi all’epoca. Anche qui, Caio dovrebbe ricostruire la storia: magari erano soldi risparmiati su redditi dichiarati negli anni ’90, oppure provenienti da vendita di un terreno esente, ecc. Se non fornisce elementi, c’è il rischio di un accertamento “induttivo” sul 2025 contestando quei €20.000 come reddito. In sua difesa potrebbe eccepire che tassare nel 2025 un importo che in realtà era posseduto ben prima equivarrebbe a tassare un patrimonio e non un reddito (in Italia non c’è imposta sul patrimonio finanziario interno, se non l’imposta di bollo e, per l’estero, l’IVAFE). Un buon difensore evidenzierebbe che l’accertamento deve riguardare l’anno di formazione del reddito, non l’anno di emersione, e se quello è ignoto o prescritto, non si può procedere. Si entrerebbe in tecnicismi, ma l’argomento è valido.

Libretti estinti: diverso dal dormiente è il caso in cui il contribuente estingue volontariamente un libretto (magari proprio per far sparire le tracce) traendo i contanti o trasferendo i fondi altrove. Anche queste chiusure vengono segnalate all’Anagrafe (tipo comunicazione “Chiusura” con data e motivo). Se durante un controllo risulta che un certo libretto è stato estinto poco prima di un accertamento o in epoca sospetta, il Fisco potrebbe chiedere: “che fine hanno fatto quei soldi?”. Qui la difesa dovrebbe mostrare l’effettivo reimpiego delle somme: ad esempio, se alla chiusura del libretto il contribuente ha versato il denaro su un altro conto a lui intestato, non ha fatto nulla di illecito e tutto è tracciato (l’Ufficio potrà controllare anche quell’altro conto, ma non c’è evasione per il solo atto di spostare soldi). Se invece ha ritirato tutto in contanti e non si sa dove siano andati a finire, si crea un’ombra: potrebbe averli nascosti per non farli trovare in caso di pignoramento, o per non farli risultare nell’ISEE, o per altri motivi. Dal punto di vista tributario, prelevare contante non è di per sé tassabile (lo era, come detto, solo per gli imprenditori in certi limiti, ma per i privati no), quindi il Fisco non può contestare un “reddito da prelievo”. Però, se successivamente il contribuente sostiene spese o incrementi patrimoniali che non tornano, quell’ammanco potrebbe rientrare nel calcolo sintetico del reddito. In pratica, estinguere un libretto e tenere i soldi “sotto il materasso” può non far sfuggire dal radar: le somme in contanti possedute, se accertate durante un’ispezione fisica (non frequente ma possibile, ad esempio in perquisizioni per reati tributari), potrebbero essere oggetto di sequestro e confisca a meno che se ne provi la provenienza.

Dal lato difensivo, se l’Ufficio contesta che “ha chiuso il libretto X con saldo €10.000 in contanti, crediamo li abbia usati per attività in nero”, il contribuente può proteggersi documentando un uso lecito e privato: ad esempio, che quei €10.000 sono stati utilizzati per pagare il matrimonio del figlio (esibendo ricevute di banqueting, fotografo, etc. per importi coerenti), oppure per effettuare un acquisto di beni registrati (auto, moto) il cui pagamento in contanti è tracciato dalla fattura. Se riesce a dimostrare che non li ha reimmessi in un ciclo produttivo occulto, l’accusa di evasione perde forza.

In conclusione, libretti dormienti o estinti richiedono al contribuente una particolare attenzione alla tracciabilità retrospettiva: deve ricostruire la storia del denaro. Il miglior consiglio è, per il futuro, di non lasciar “morire” i rapporti finanziari senza curarsene: se un libretto non serve più, meglio chiuderlo trasferendo i fondi su conti attivi, in modo da non incorrere nella procedura dormienti e mantenere la disponibilità documentata. E se lo si è lasciato dormire, ricordarsi di recuperarlo entro i 10 anni dal trasferimento al Fondo, altrimenti addio soldi.

Procedura di accertamento e contenzioso: diritti e strategie difensive

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta a un contribuente un libretto di risparmio “non dichiarato” o, più correttamente, somme non dichiarate rinvenute su un libretto, si entra nell’ambito del procedimento di accertamento tributario. È cruciale, per difendersi efficacemente, conoscere quali sono i passi procedurali che il Fisco deve seguire e quali sono i diritti del contribuente in ogni fase. Spesso, infatti, errori o omissioni procedurali dell’Ufficio possono portare all’annullamento dell’atto impositivo, così come un contribuente informato dei propri diritti può farli valere per ottenere giustizia. Di seguito descriviamo le principali fasi, con i connessi strumenti difensivi.

Fase istruttoria: accessi, questionari e contraddittorio preventivo

La prima fase è quella istruttoria, in cui l’Amministrazione raccoglie elementi e valuta se procedere a un accertamento formale. Nel caso di indagini su conti e libretti, è frequente che il contribuente venga coinvolto tramite un questionario o invito a fornire chiarimenti. Ad esempio, l’Agenzia delle Entrate potrebbe inviare un questionario ex art. 32 DPR 600 chiedendo di spiegare una serie di versamenti rilevati su determinati rapporti bancari (già acquisiti via indagine finanziaria). Oppure, a seguito di un Processo Verbale di Constatazione (PVC) redatto dalla Guardia di Finanza (ad esempio dopo un’ispezione in azienda che ha trovato libretti non dichiarati), l’ufficio notifica al contribuente il PVC concedendogli 60 giorni di tempo per presentare osservazioni e memorie difensive prima di emettere l’eventuale avviso di accertamento. Questo diritto deriva dallo Statuto del Contribuente (L. 212/2000, art. 12 comma 7) che impone, nei controlli sostanziali, un termine dilatorio di 60 gg salvo urgenza, proprio per garantire il contraddittorio preventivo.

È fondamentale non ignorare questi invitisilenzio del contribuente viene interpretato molto negativamente dal Fisco. Invece, rispondere per iscritto fornendo spiegazioni e documenti può talvolta evitare l’accertamento o ridurne la portata. Ad esempio, se l’Ufficio vi chiede di dettagliare la provenienza di 10 versamenti sul libretto in un certo anno, e voi inviate una memoria spiegando che 5 sono bonifici dal vostro datore di lavoro (già tassati) e 5 sono piccoli rimborsi assicurativi esenti IRPEF, allegando prove, è possibile che l’istruttoria si chiuda lì con un’archiviazione.

La presentazione di memorie difensive entro il termine (tipicamente 60 giorni dal PVC o dall’invito a comparire) è un diritto del contribuente e un dovere per l’ufficio valutarle. Se l’Agenzia emette l’accertamento prima dei 60 giorni senza un motivo di particolare urgenza motivato, l’atto è nullo per violazione del contraddittorio . Ciò è stato affermato da varie pronunce, anche di Cassazione, a tutela del diritto al contraddittorio anticipato. Dunque, qualora ci si veda notificare un avviso di accertamento troppo in fretta (ad es. a soli 15 giorni dal PVC, senza urgenza di incassi in scadenza che lo giustificasse), si potrà eccepire la nullità dell’atto in giudizio per mancato rispetto dei termini procedimentali .

Durante la fase istruttoria, il contribuente ha anche il diritto di accedere agli atti del procedimento (salvo che ciò comprometta indagini in corso). In particolare, dopo che l’ufficio ha acquisito le risposte dalle banche con i vostri estratti conto, potete richiederne copia integrale esercitando il diritto di accesso ai documenti amministrativi (L. 241/1990). È buona prassi farlo immediatamente, anche tramite il proprio professionista delegato: conoscere esattamente quali informazioni bancarie l’Agenzia possiede è essenziale per costruire la difesa. L’Avviso di accertamento conterrà di solito un prospetto sintetico dei movimenti contestati, ma ottenere gli estratti completi permette di individuare eventuali errori (doppioni, date sbagliate, interpretazioni scorrette). Inoltre, visionare gli atti vi consente di verificare se il procedimento è stato regolare (es. se c’è la dovuta autorizzazione alle indagini finanziarie). Gli studi difensivi consigliano questo passo come primo atto: «Come primo passo, è fondamentale esercitare il diritto di accesso agli atti e ottenere la completa documentazione bancaria raccolta dall’Ufficio…» . Se l’Agenzia nega l’accesso (talvolta accade, invocando segreto istruttorio), può essere il segnale di una forzatura: in giudizio, potrete lamentare violazione del diritto di difesa e chiedere al giudice di ordinare l’esibizione.

Un altro aspetto della fase istruttoria è l’eventuale accesso diretto o perquisizione: non comunissimo in questi casi, ma possibile se si sospetta che il contribuente detenga documenti o valori non dichiarati. Ad esempio, la Guardia di Finanza in indagini penali può perquisire casa o ufficio e trovare libretti di risparmio (il cartoncino del libretto, o ricevute) inaspettati. Se il procedimento è penale (es. reato di omessa dichiarazione), entrano in gioco garanzie e regole proprie, che esulano da questa guida, ma comunque i dati acquisiti potranno essere usati anche nel parallelo accertamento fiscale.

Emissione dell’avviso di accertamento e onere della prova

Se le controdeduzioni presentate non hanno convinto l’Ufficio, si giunge all’avviso di accertamento. In esso saranno elencati i movimenti bancari ritenuti non giustificati (solitamente in un prospetto analitico o per macrocategorie) e, sulla base di essi, verrà determinato un maggior reddito imponibile per uno o più anni d’imposta. L’atto indica le maggiori imposte dovute (IRPEF, addizionali, eventualmente IVA o IRAP se pertinenti) e le sanzioni amministrative tributarie, in genere il 90% delle imposte evase per infedele dichiarazione (D.Lgs. 471/1997) salvo attenuanti. Ad esempio, se si contestano €50.000 di ricavi non dichiarati, con aliquota media IRPEF del 30%, l’imposta evasa è €15.000 e la sanzione base sarà €13.500 (90%) più interessi. Qualora le somme “non dichiarate” siano molto elevate, l’ufficio potrebbe anche fare segnalazione per reato tributario: oggi la soglia per il penale in caso di infedele dichiarazione è imposta evasa > €100.000 e ricavi non dichiarati > 10% del dichiarato o comunque > €2 milioni. Dunque, se il libretto occulto cela importi enormi, si rischia parallela denuncia penale per dichiarazione fraudolenta o infedele, ma questo esula dal contenzioso tributario e va gestito sul piano penale con avvocato dedicato. In ogni caso, l’accertamento tributario va impugnato a prescindere anche se c’è un procedimento penale in corso, perché hanno tempi e esiti distinti (anzi, un esito favorevole nel tributario può aiutare il penale).

Dal punto di vista probatorio, come già detto, nell’avviso l’Agenzia ritiene assolto il proprio onere semplicemente elencando i versamenti non giustificati e applicando la presunzione di legge. Compito del contribuente, nel ricorso, sarà dimostrare la non imponibilità di quelle somme. Qui è bene tenere a mente una massima: al giudice tributario non basta la mera narrazione, servono prove. E purtroppo il processo tributario, fino al 2022, non ammetteva la prova testimoniale orale. Questo ha spesso penalizzato i contribuenti che volevano avvalersi di testimoni per provare fatti (es: “questi contanti erano un regalo di mio suocero, lui può testimoniarlo”). In passato, l’unica via era farsi fare una dichiarazione scritta dal terzo (come il suocero) e usarla come indizio (non prova piena). Come visto, la Cassazione almeno consente di considerare tali dichiarazioni come elementi utili , sebbene “non da sole sufficienti a fondare la decisione”Novità 2023: con la riforma della giustizia tributaria (L. 130/2022) è stata introdotta, seppur con limiti, la possibilità di assumere testimonianza scritta nel processo tributario. In pratica, la parte può chiedere al giudice di ammettere un testimone, il quale però non verrà in udienza ma renderà una dichiarazione giurata scritta sui fatti di cui è a conoscenza. Questa novità è soggetta a varie condizioni e non è un “liberi tutti” (ad esempio non è ammessa per provare patti tra contribuente e Fisco, né se il giudice ritiene la circostanza già provata aliunde, etc.). Non essendo qui il focus, basti sapere che dal 2023 avete un’arma in piùfar testimoniare per iscritto un terzo. Dunque, se la vostra difesa ruota attorno alla spiegazione che certe somme sul libretto provenivano – poniamo – da aiuti in denaro di un parente, ora potete chiedere che tale parente venga ammesso come teste (in forma scritta). Se il giudice lo consente, il testimone dovrà compilare un modulo di deposizione scritta autenticando la firma e rispondendo ai quesiti posti. Questa prova, se ammessa, avrà valore pieno (non più solo indiziario). Sarà quindi importante valutare, caso per caso, se chiedere l’ammissione di testimonianze nel ricorso: ciò va fatto sin dal ricorso introduttivo, indicando su quali fatti si vuole testimoniare e chi è il teste.

A parte la testimonianza, le prove documentali sono il pilastro. Il contribuente dovrebbe già allegare al ricorso tutti i documenti utili a supportare le sue tesi difensive. Alcuni esempi efficaci: – Copie di estratti conto da cui si evinca che un versamento contestato era semplicemente un trasferimento da altro conto sempre intestato al contribuente. In tal caso si fa presente che tassare quel versamento equivale a tassare due volte la stessa disponibilità (una volta all’uscita da conto A e una all’entrata su conto B), cosa illegittima. Si chiede quindi lo stralcio di tali duplicazioni. – Documenti che provino la natura già tassata di certi accrediti: ad esempio, se sul libretto confluisce l’accredito di uno stipendio o pensione (che sconta ritenuta alla fonte e viene dichiarato dal datore), allegare la busta paga o il CUD. Oppure, se c’è un bonifico per affitto di casa già dichiarato, mostrare il contratto di locazione e l’indicazione nei quadri RB della dichiarazione dei redditi di quell’anno. – Documenti che provino la natura esente/non imponibile: es. un risarcimento assicurativo (che per certe tipologie di danno non è tassabile) – si allegherà copia della quietanza assicurativa. O una somma proveniente da donazione: se la donazione è formalizzata per atto pubblico o scrittura privata registrata, esibirla (in Italia le donazioni tra parenti stretti non scontano imposta fino a 1 milione di euro, dunque non generano imponibile, ma vanno documentate). Se non c’è atto, almeno una dichiarazione del donante (magari integrata dalla nuova testimonianza come sopra). – Prospetti di calcolo che dimostrino errori dell’Ufficio: succede, ad esempio, che sommando movimenti l’Agenzia faccia doppio conteggio di un importo transitato due volte (classico: giroconto interno sul medesimo libretto contato sia in entrata che in uscita come fosse ricavo e costo). Oppure attribuzioni all’anno sbagliato. Preparare una tabella con tutte le operazioni contestate, riconciliandole con le proprie giustificazioni, aiuta a far chiarezza al giudice. La chiarezza è un’alleata: un ricorso dettagliato e ben documentato ha più chance di successo.

Dopo la notifica dell’avviso, il contribuente ha una finestra per tentare un accordo con l’ufficio: l’accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997). Si tratta di un procedimento di confronto in cui si può cercare una mediazione, ottenendo riduzione delle sanzioni (1/3 del minimo) se si trova un accordo sulle somme da pagare. Presentare istanza di adesione entro 60 gg dalla notifica sospende tra l’altro i termini per fare ricorso per ulteriori 90 gg. Valutare l’adesione è opportuno se si riconosce almeno in parte la fondatezza della pretesa o se comunque si vuole guadagnare tempo per raccogliere prove. Durante l’adesione si possono portare ulteriori elementi e discutere col funzionario. Spesso, in casi di movimenti bancari, l’Agenzia può proporre un “sconto” parziale riconoscendo alcune giustificazioni e riducendo sanzioni. Se però si ritiene il tutto infondato, oppure l’ufficio non recede, tanto vale prepararsi al ricorso alla Commissione Tributaria (ora rinominata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado).

Il contenzioso tributario: fasi e tecniche difensive

Il ricorso va presentato entro 60 giorni (prorogati di eventuali 90 se c’è stata adesione senza accordo) dalla notifica dell’accertamento, davanti alla Corte di Giustizia Tributaria provinciale competente. Nel ricorso si devono indicare i motivi di impugnazione, che possono essere di legittimità (vizi procedurali, errori formali) e di merito (insussistenza della pretesa, prova contraria).

Vizi procedurali comuni da eccepire in tema di accertamenti finanziari: – Mancata indicazione dell’autorizzazione alle indagini finanziarie: benché oggi non sia più obbligatorio allegare materialmente l’atto autorizzativo del Direttore, l’accertamento deve almeno dar conto che l’indagine è stata autorizzata e svolta secondo legge. Se si sospetta un abuso (ad es. indagine partita senza autorizzazione, o su conti non pertinenti), sollevare la questione può indurre il giudice a chiedere prova all’Ufficio. In caso di difetto effettivo, l’intera base probatoria crolla. – Violazione del contraddittorio: come detto, se l’avviso è stato emanato prematuramente o senza considerare le memorie, si eccepisce la nullità (ci sono state pronunce favorevoli al contribuente su questo, richiamarle se disponibili). – Motivazione inadeguata: l’avviso deve spiegare come sono stati quantificati i redditi e perché le giustificazioni fornite (se fornite) non sono state ritenute valide. Se è troppo generico, si può censurare la motivazione. Ad esempio, se voi avevate documentato l’origine di 10 movimenti e l’ufficio li ha ignorati senza spiegare perché, insistete su questo punto.

Nel merito, la difesa davanti ai giudici tributari sarà essenzialmente il consolidamento di quanto già argomentato: dimostrare che le somme non erano “redditi sottratti a imposizione”. Bisogna convincere il collegio che le spiegazioni del contribuente sono fondate e documentate, mentre la tesi dell’Ufficio risulta eccessivamente presuntiva. Non è facile invertire una presunzione legale, ma la Cassazione ha ricordato che il giudice deve valutare con attenzione tutte le prove offerte dal contribuente e non può trincerarsi dietro la presunzione ignorando elementi rilevanti .

Se le prove documentali sono scarse, può essere utile fare leva su elementi logici ed equitativi: ad esempio, evidenziare che il tenore di vita del contribuente è rimasto modesto e coerente col dichiarato, che non c’erano spese o investimenti “in nero” suggeriti dall’Ufficio (in assenza di questi, può apparire improbabile l’evasore accumulatore a vuoto). Se parliamo di redditi d’impresa, sottolineare se negli anni successivi l’andamento dell’attività è stato in crisi: talvolta i giudici considerano l’evasione poco credibile in contesti di difficoltà economica, oppure oppongono il fatto che l’ufficio non ha individuato alcuna corrispondente vendita non contabilizzata (il mero versamento potrebbe essere esito di altro). Insomma, costruire una narrazione coerente e credibile attorno ai dati.

Durante la fase processuale, è possibile (anzi prassi consigliata) chiedere una sospensione dell’atto se l’importo preteso è elevato e la sua esecuzione immediata vi danneggerebbe. Il giudice può sospendere la riscossione fino alla decisione se c’è fumus boni iuris (motivi non pretestuosi nel ricorso) e periculum (rischio grave per il contribuente). Ad esempio, se vi chiedono €100.000 e iniziano a pignorarvi il conto, evidenziate che l’accertamento è basato solo su presunzioni rigide e che subire l’esecuzione vi manderebbe in rovina, per ottenere la sospensiva.

La sentenza di primo grado potrebbe confermare integralmente l’accertamento, annullarlo in toto, oppure più spesso esiti intermedi (es: riconoscere solo una parte dei redditi contestati). Se la decisione è sfavorevole, valutate l’appello (secondo grado) alla Corte di Giustizia Tributaria regionale. Nel frattempo, la riscossione va avanti per 1/3 delle imposte accertate anche se avete impugnato; se vincete poi vi verrà rimborsato.

Un’ultima notazione: spesso nei contenziosi su movimenti bancari “sospetti”, gli uffici si mostrano più propensi a transigere in appello o in mediazione (istituto deflattivo per importi sotto 50mila euro) se il contribuente porta ulteriori elementi. Ciò perché sanno che l’interpretazione delle prove è discrezionale del giudice e c’è il rischio che un accertamento troppo massivo venga ridimensionato (come a volte accade). Dunque, il margine di trattativa esiste sempre: ad esempio, si può proporre di aderire parzialmente riconoscendo come imponibili alcuni movimenti ma non altri, chiudendo la partita. Questo ovviamente dipende dalla convenienza economica e dalla vostra posizione – se siete sicuri di avere ragione al 100%, andrete fino in Cassazione se serve.

Strategie difensive riassuntive dal punto di vista del debitore (checklist)

Dal punto di vista del contribuente-debitore che subisce la contestazione, possiamo riepilogare alcune strategie difensive fondamentali:

  • Chiarire da subito la situazione: rispondere a questionari e inviti spiegando l’origine dei fondi contestati, allegando documenti. Una buona risposta iniziale può evitare l’accertamento o costituire già base per il ricorso (se l’ufficio ignora quei chiarimenti, sarà un punto a vostro favore evidenziare la mancata valutazione).
  • Esercitare il diritto di accesso agli atti: ottenete i documenti bancari che vi riguardano in possesso del Fisco . Controllate se coincidono con i vostri (a volte ci sono errori persino di persona, ad es. omonimie, o un codice fiscale comunicato male dalla banca). Se trovate anomalie, segnalatele subito.
  • Verificare la procedura: controllate date e iter. L’accertamento è arrivato prima dei 60 gg dal PVC? Non vi hanno mai inviato un PVC prima dell’accertamento (in violazione di obblighi specifici per alcuni controlli)? Manca la firma del capo ufficio? Ogni vizio formale va evidenziato.
  • Raccogliere tutte le prove possibili: fate una lista di ogni versamento contestato e scrivete accanto la sua possibile giustificazione. Poi cercate per ciascuno un documento a supporto (estratto conto, ricevuta, contratto, ecc.). Se non esiste nulla di scritto, pensate a chi potrebbe attestare la circostanza (parente donante, ecc.) e fatevi preparare una dichiarazione firmata, magari anticipando che potrebbe servire anche come testimonianza in giudizio.
  • Non lasciar correre i termini: se ricevuto l’atto, valutarne la fondatezza ma comunque presentare ricorso nei termini (salvo accordo trovato). Anche se pensate di trattare con l’ufficio, fatevi sempre prorogare i termini con l’adesione o simili, per non decadere.
  • Considerare la definizione agevolata se offerta: periodicamente ci sono “pace fiscali” o sanatorie. Ad agosto 2025, ad esempio, è in corso la definizione agevolata degli atti del 2018-2022 (ipotesi). Se rientrate, potrebbe convenire pagare il dovuto senza sanzioni piuttosto che fare causa. Valutate costi/benefici con un fiscalista.
  • Curare l’argomentazione giuridica: oltre ai fatti, citate normative e sentenze di supporto. Ad esempio, se contestano prelievi su conto personale, citate la sentenza Corte Cost. 228/2014 che li rende inapplicabili . Se il giudice sa che c’è dietro un orientamento giurisprudenziale a voi favorevole, sarà più sensibile. Analogamente, citate Cassazione 18065/2016 per sostenere che le dichiarazioni dei terzi a vostro favore hanno valore probatorio e non vanno scartate .
  • Mostrarsi collaborativi e di buona fede: nel processo tributario non esiste più, in teoria, la non punibilità per obiettiva buona fede, però l’atteggiamento può influire su sanzioni. Se si dimostra che l’errore fu dovuto a confusione e non dolo, alcuni giudici riducono le sanzioni. Inoltre, se davvero c’è stata omissione involontaria (es. un erede che ignorava l’esistenza del libretto intestato al de cuius), far emergere questi aspetti può umanizzare il caso di fronte al giudice.
  • Contestare l’importo anche in subordine: qualora il giudice fosse orientato a dar ragione in parte al Fisco, è utile aver sollevato contestazioni su quantificazione, duplicazioni, calcolo interessi, ecc., perché potrebbe almeno ridurre la pretesa.

In definitiva, difendersi da contestazioni su libretti non dichiarati è impegnativo ma possibile. Serve rigore nel merito (prove factuali) e attenzione ai dettagli giuridici. La cornice normativa è favorevole al Fisco (presunzioni, poteri di indagine) ma non priva di contrappesi a tutela del contribuente (contraddittorio, limiti sulle prove, ecc.). Con un’adeguata assistenza tecnica, il contribuente-debitore può far valere le proprie ragioni ed evitare esiti iniqui, soprattutto laddove l’apparenza di “nero” sia frutto di fraintendimenti o coincidenze più che di reale evasione.

Domande frequenti (FAQ) su libretti non dichiarati e difesa del contribuente

D: Cosa si intende esattamente per “libretto di risparmio non dichiarato”?
R: In ambito fiscale, è un’espressione colloquiale per indicare un libretto di deposito (bancario o postale) su cui esistono somme o movimenti che non trovano riscontro nella dichiarazione dei redditi del titolare. Non c’è un obbligo di dichiarare il mero possesso di un libretto domestico, ma se vi affluiscono redditi non dichiarati (es. incassi in nero) o se il libretto stesso non era conosciuto al Fisco e rivela capacità contributiva inespressa, allora si parla di “conto/libretto non dichiarato” in senso lato. Ad esempio, se avevo un libretto al portatore con 30.000 € provenienti da vendite non fatturate, quello è un libretto non dichiarato.

D: L’Agenzia delle Entrate come può scoprire che ho un libretto di risparmio?
R: Grazie all’Archivio dei Rapporti Finanziari (Anagrafe dei conti). Tutti gli intermediari comunicano periodicamente all’Agenzia l’elenco di conti e libretti intestati ai vari codici fiscali, con saldi e movimentazioni . Inoltre, se sei oggetto di un controllo, l’Agenzia può chiedere copia degli estratti conto di qualsiasi rapporto a te intestato (previa autorizzazione interna) e troverà eventuali libretti collegati. In pratica, a meno che sia un libretto al portatore anonimo (ormai abolito), il Fisco prima o poi sa che esiste. Anche in sede di ISEE oggi c’è un incrocio: se dichiari di non avere conti, l’INPS verifica con l’Anagrafe se invece risultano . Insomma, il margine per nascondere conti è molto ridotto.

D: Non ho inserito gli interessi del libretto nella dichiarazione dei redditi: è un problema?
R: Se il libretto è italiano, di norma no, perché gli interessi bancari/postali sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (imposta sostitutiva) che esaurisce lì la tassazione. Quindi non vanno inseriti in dichiarazione (e se li inserissi, faresti doppia tassazione). L’omessa dichiarazione di quell’interesse non comporta evasione poiché la banca/poste ha già trattenuto l’imposta dovuta. Potrebbe essere un problema solo in casi particolari: ad esempio, interessi esteri su libretto estero (ma qui usciamo dal caso domestico) o ipotesi in cui hai optato per il regime di gross taxation (raro). Il vero problema, come detto, non è l’interesse ma il capitale se deriva da redditi nascosti.

D: Ho un libretto cointestato con mia moglie. L’Agenzia delle Entrate può tassare a me l’intero saldo?
R: Può tentare di tassare l’intero importo dei versamenti non giustificati, presumendo che siano redditi tuoi salvo prova contraria . La cointestazione di per sé non basta a evitare la contestazione, perché l’Ufficio presume che, se tu sei sotto accertamento, tu abbia disponibilità su tutto il conto . Starà a te dimostrare che una parte (o la totalità) di quelle somme appartiene all’altro coniuge e non costituisce reddito imponibile tuo. Ad esempio, se su quel conto confluisce lo stipendio di tua moglie, dovrai farlo presente e documentarlo, così quell’importo non va tassato a te. La Cassazione ha chiarito che chi ha il conto cointestato con un familiare deve dimostrare la riconducibilità all’altro di tutte le movimentazioni bancarie riprese a tassazione, altrimenti si presume che siano sue operazioni imponibili . Quindi sì, inizialmente il Fisco ti addebiterà tutto; poi tu potrai far valere la quota di tua moglie portando le prove (cedolini, ecc.), idealmente fino a farti riconoscere almeno il 50% o anche di più come non tuo, a seconda delle evidenze . In assenza totale di prove, rischi che ti tassino l’intero, purtroppo.

D: La moglie/marito o il co-intestatario può intervenire nel mio accertamento per dire che i soldi erano suoi?
R: Formalmente il co-intestatario, se non è coobbligato nell’atto, non è parte del procedimento di accertamento (che è individuale). Tuttavia, può rendere una dichiarazione scritta che tu produrrai come prova. Inoltre, nel processo tributario riformato, puoi chiedere che sia ammessa come testimone (scritto). Ad esempio, tua moglie può testimoniare per iscritto che quelle somme provenivano interamente dal suo patrimonio personale . Il giudice valuterà questa testimonianza insieme al resto. Quindi, indirettamente, la voce del co-intestatario può farsi sentire. Ci sono casi in cui le dichiarazioni della moglie hanno salvato il contribuente perché i giudici le hanno ritenute attendibili e supportate da riscontri .

D: Avevo un libretto al portatore con sopra dei risparmi in contanti. Non l’ho estinto entro il 2018. Cosa devo fare e cosa rischio?
R: Devi recarti al più presto presso la banca o posta che lo ha emesso e estinguere quel libretto al portatore. Ormai non puoi più convertirlo in nominativo (il termine è scaduto), quindi ti liquideranno il saldo. La banca segnalerà il tuo caso al Ministero dell’Economia e Finanze perché sei fuori tempo: il MEF ti comminerà una sanzione amministrativa da 250 a 500 euro per non aver chiuso entro il 2018 . Nel frattempo, dal 2019 ad oggi quei fondi erano congelati (nessuna operazione era possibile). Una volta incassati, se l’importo è elevato, preparati a possibili domande del Fisco sull’origine di quei contanti. Potresti quasi aspettarti un accertamento se la cifra è davvero importante e non ci sono spiegazioni pregresse. In pratica, fiscalmente rischi che considerino quell’importo come un reddito non dichiarato accumulato in passato. Starà a te dimostrare eventualmente che erano risparmi di redditi regolari già tassati o denaro lecito non imponibile (donazioni, ecc.). Ma attenzione: se sono passati molti anni, l’Agenzia non può accertare redditi troppo vecchi, però può sempre aprire un’indagine e magari trovare altri collegamenti. Comunque l’azione immediata è: chiudere il libretto, pagare la multa antiriciclaggio e tenere traccia documentale di quell’importo (ad es. versandolo su un conto nominativo a te intestato, per non tenerlo in contanti non tracciati).

D: Un libretto “dormiente” trasferito al Fondo dormienti può essere oggetto di verifica fiscale?
R: Sì, in teoria l’Agenzia vede che il rapporto è stato chiuso per dormienza e l’importo devoluto al Fondo. Potrebbe quindi chiederti come mai avevi quei soldi non movimentati (per capire da dove venivano). Come spiegato, però, spesso i dormienti riguardano somme ferme da oltre 10 anni, quindi coperte da tempi di prescrizione fiscale. L’Agenzia potrebbe comunque utilizzarlo come spunto: ad esempio, se stai avendo un accertamento per redditi 2019-2020 e scoprono un dormiente trasferito nel 2018, possono insinuare che magari alimentavi quel libretto con redditi in nero fino al 2008. Non potranno emettere avviso per il 2008 ora, ma potrebbero – in mala fede – estendere la presunzione a periodi accertabili se trovano un appiglio. In generale è raro che i dormienti generino accertamenti specifici, a meno che la somma fosse ingente e totalmente incompatibile con il profilo del contribuente. In quel caso, come detto, la difesa consiste nel provare che era patrimonio accumulato legittimamente (e se possibile già tassato) in epoca remota. Consigliamo, se recuperate oggi dei soldi da un dormiente di anni fa, di conservare tutta la pratica Consap e i documenti originari in caso un domani qualcuno chieda lumi.

D: In sede di contenzioso, posso portare nuovi documenti o dovevo darli prima all’Agenzia?
R: Nel processo tributario, la produzione documentale è ammessa sino a 20 giorni prima dell’udienza di primo grado. Quindi sì, puoi portare anche documenti che non avevi esibito in fase amministrativa (magari perché non li trovavi o non pensavi servissero). Ovviamente, se li avevi già, sarebbe stato meglio fornirli subito all’Ufficio per cercare di evitare la lite. Ma se per caso l’Agenzia non te li ha chiesti o li ha ignorati, hai tutto il diritto di esibirli al giudice. Anzi, spesso in ricorso saltano fuori ricevute che i verificatori non avevano visto. Non c’è la preclusione propria del processo civile sulle nuove prove (salvo quelle non documentali). Quindi integra pure il fascicolo con tutto il necessario entro i termini processuali.

D: Quali sanzioni tributarie si rischiano per libretti non dichiarati?
R: Sul piano tributario, se l’accertamento stabilisce che su quel libretto c’erano redditi imponibili non dichiarati, ti applicheranno le sanzioni per dichiarazione infedele: tipicamente il 90% dell’imposta evasa (se non avevi proprio presentato dichiarazione sarebbe il 120%, ma di solito c’è dichiarazione infedele). Ad esempio per €10.000 di imponibile evaso (metti IRPEF 23% = 2.300 € evasi) la sanzione base è 2.070 €. Questa può essere aumentata se ci sono aggravanti (es. uso di artifici, ma nel caso di movimenti bancari di solito no) o ridotta se paghi in adesione o acquiescenza (riduzione a 1/3). Ci sono anche interessi legali su imposta e sanzione. Sul lato extra-tributario, come già detto, possedere un libretto al portatore dopo il 2018 comporta sanzione antiriciclaggio 250-500 €. Non ci sono altre sanzioni amministrative specifiche per “conti non dichiarati” in sé, perché non c’è obbligo di dichiararli: tutto si riconduce alle sanzioni sulle imposte evase. In caso di evasione molto rilevante, può scattare la denuncia penale: ad esempio, se l’imposta evasa supera 100.000 € o se i ricavi non dichiarati superano 2 milioni (soglie per i reati di infedele dichiarazione). In ambito penale, le sanzioni vanno dall’ammenda fino alla reclusione (nei casi più gravi, 2-4 anni). Ma parliamo di evasioni notevoli. Per importi modesti, c’è solo la sanzione amministrativa pecuniaria e l’obbligo di pagare le tasse dovute.

D: Se il mio libretto conteneva solo soldi già tassati (perché risparmi di stipendi su cui ho pagato IRPEF), posso stare tranquillo?
R: Abbastanza, ma devi poterlo dimostrare. Se in accertamento riesci a provare che l’origine di quei depositi sono redditi che tu hai regolarmente dichiarato (o fonti esenti), l’Agenzia non può pretenderci altre imposte – sarebbe una duplicazione. Ad esempio, se hai versato sul libretto 5.000 € all’anno provenienti dal tuo stipendio netto (già tassato in busta paga), e lo dimostri, quell’importo non è nuovo reddito imponibile. Un pericolo tuttavia è la capitalizzazione dei risparmi: poniamo che tu negli anni hai speso meno di quanto guadagnavi e hai accantonato soldi sul libretto. Il Fisco potrebbe dire: “ok, erano stipendi tassati, ma allora perché non li hai consumati? se li hai potuti accumulare, forse avevi altre entrate non tassate che ti hanno fatto vivere?”. Questo è tipico del redditometro (metodo sintetico basato su spese e risparmi). È un argomento un po’ capzioso e difficile da sostenere da parte loro se tu provi che con il tuo stipendio potevi vivere e accantonare. In generale, il risparmio non è tassabile (non c’è imposta sui risparmi), purché il reddito che lo ha generato sia stato tassato. Quindi in tribunale la tua difesa sarebbe vincente: “quelle somme vengono dal mio reddito X degli anni Y, come da estratti conto e dichiarazioni allegate”. Nessuna nuova imposta. L’importante è avere tracce, per quanto possibile, di quei flussi (es: bonifici dello stipendio girati sul libretto). Se è tutto contante, si complica: devi ricostruire che ogni mese prelevavi, ma ne mettevi via una parte. Fattibile con un minimo di ragionamento e provando le tue spese modeste.

D: L’Agenzia ha usato i movimenti sul conto di mio padre (dove io confluivo denaro) per accertare me. Può farlo?
R: Sì, lo ha fatto e può farlo in base alla giurisprudenza attuale, se c’è un rapporto stretto familiare e evidenze che indicano che tu avevi disponibilità su quel conto . È un’estensione delle indagini finanziarie ai conti formalmente di terzi, ammessa dalla Cassazione già in varie sentenze (hanno considerato conti di mogli, figli, genitori). La logica è: se tu versavi soldi sul conto di tuo padre, probabilmente erano soldi tuoi che cercavi di occultare. Anche in questo caso, però, la presunzione è relativa: tu puoi difenderti provando che i movimenti su quel conto non ti riguardavano. Magari versavi lì soldi perché tuo padre li custodisse, ma se erano originati da reddito tuo non dichiarato, resta evasione tua. Se invece dimostri che erano fondi di tuo padre (ad esempio sul suo conto affluivano la sua pensione o vendite di suoi beni e tu hai solo il potere di firma), potresti convincerli che non c’entrano con te. Tieni conto che l’art. 32 DPR 600 parla di conti intestati al contribuente o di cui abbia disponibilità. Quindi legalmente, se l’ufficio prova che tu avevi delega o potere di movimentazione sul conto di tuo padre, rientra già nel tuo perimetro di verifica. Alcune difese argomentano che se il delegato opera per altri, i movimenti non sono suoi redditi; è corretto, ma devi supportarlo con i fatti. In sintesi, possono farlo, ma devi ribattere caso per caso.

D: Se l’Agenzia delle Entrate mi contesta 100 versamenti e io ne giustifico 70, cosa succede per gli altri 30?
R: Idealmente, l’Agenzia dovrebbe riconoscere i 70 come non imponibili e tassarti i restanti 30. In pratica, spesso gli uffici tendono a mantenere un atteggiamento rigido fino al giudizio, mentre il giudice tributario invece fa questo distinguo. Ad esempio, in sentenza la Commissione potrebbe annullare parzialmente l’accertamento riconoscendo valide 70 giustificazioni su 100. È importante dunque contestare analiticamente ogni singolo movimento in cui hai ragione, perché il giudice può accogliere in parte. Non funziona il “tutto o niente”. Anche se solo il 30% delle somme è davvero reddito non dichiarato, quell’importo sarà tassato (con relative sanzioni). Però avrai salvato il restante 70%. In molti casi reali, l’accertamento iniziale viene sensibilmente ridotto grazie alle prove portate, pur non eliminato del tutto. Preparati a questa eventualità e valuta se una definizione parziale conviene (ad esempio in adesione potresti patteggiare sul 30% imponibile e chiudere).

D: Ho perso in primo grado. Mi conviene fare appello?
R: Dipende dalla valutazione del tuo consulente legale. Se ritieni che il giudice di primo grado non abbia valutato bene le prove (capita purtroppo, specie se c’è carico di lavoro elevato), l’appello può ribaltare la situazione presentando meglio le ragioni. In tema di accertamenti bancari, le CTR (Corti di secondo grado) talvolta sono più attente ai dettagli e alla sostanza. Inoltre, nel frattempo puoi aggiungere eventuali nuovi elementi scoperti (in appello sarebbe tardivo portare nuove prove, ma se sono sopravvenute o non acquisite per causa di forza maggiore, si può provare). Considera che con la riforma 2022, nei gradi di merito ora siedono anche giudici togati specializzati: c’è la tendenza a uniformare interpretazioni, con maggiore attenzione ai principi. Ad esempio, la Cassazione ha spesso ripetuto il concetto di parità di trattamento delle dichiarazioni di terzi pro-Fisco e pro-contribuente : se il primo giudice l’ha ignorato, un appello ben costruito può farlo valere. Certo, c’è il costo e il tempo da mettere in conto. Se la somma in ballo e/o il principio sono importanti, prosegui. Se invece la differenza sarebbe minima e hai magari accesso a definizioni agevolate (stralcio di sanzioni, ecc.), valuta la convenienza economica immediata.

D: In conclusione, qual è il miglior consiglio per evitare guai con libretti di risparmio e Fisco?
R: Trasparenza e tracciabilità. Cerca di evitare di avere disponibilità finanziarie non allineate ai tuoi redditi ufficiali. Se ricevi somme occasionali (regali, aiuti, ecc.), magari informa il tuo consulente fiscale e valuta se predisporre qualche documento (scrittura privata di donazione, ad esempio) così da avere giustificativi pronti. Non tenere grandi importi in contanti o su strumenti anonimi: oltre a essere rischioso per furti e prescrizioni (dormienza), ti espone a sospetti di evasione. Se hai conti cointestati, tieni memoria di chi versa cosa; se usi il conto di un familiare per qualsiasi ragione, annota il perché e i movimenti chiave. In caso di controllo, collabora subito fornendo spiegazioni: mostrarsi ragionevoli e proattivi spesso evita l’inasprirsi del contenzioso. Infine, nel dubbio, consulta un esperto tributario prima di muovere somme anomale: a volte basta fare un bonifico con causale chiara invece di un versamento contante per dissipare futuri sospetti. La prevenzione (anche documentale) è la miglior difesa con il Fisco.

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ti contesta la presenza di libretti di risparmio non dichiarati? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ti contesta la presenza di libretti di risparmio non dichiarati?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

I libretti di risparmio, anche se spesso percepiti come strumenti “minori” rispetto ai conti correnti, rientrano tra le attività finanziarie soggette a controllo fiscale. Se non dichiarati o non giustificati, il Fisco può presumere che i movimenti rappresentino redditi non dichiarati o patrimoni occultati, con recupero delle imposte e applicazione di sanzioni.

👉 Prima regola: dimostra sempre l’origine delle somme depositate e la loro eventuale irrilevanza fiscale.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Libretti al portatore o nominativi mai comunicati all’Agenzia;
  • Movimenti di denaro non coerenti con i redditi dichiarati;
  • Versamenti in contanti senza giustificazione;
  • Omissione degli interessi maturati nella dichiarazione dei redditi;
  • Presunzione di redditi occultati in base agli accertamenti bancari.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Recupero delle imposte su redditi presunti;
  • Sanzioni per dichiarazione infedele o omessa;
  • Interessi di mora;
  • Rischio di ulteriori accertamenti patrimoniali e fiscali su altri rapporti finanziari;
  • Possibile configurazione di evasione fiscale in caso di importi elevati.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Origine dei depositi: risparmi personali, donazioni, eredità o somme già tassate?
  • Interessi maturati: sono stati regolarmente tassati alla fonte?
  • Titolarità del libretto: appartiene a più persone (cointestazione) o a un familiare?
  • Motivazione dell’accertamento: il Fisco deve indicare con precisione i movimenti contestati;
  • Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Estratti conto del libretto di risparmio;
  • Quietanze, ricevute o contratti che giustificano i versamenti;
  • Documentazione di donazioni, successioni o prestiti familiari;
  • Certificazioni bancarie sugli interessi già tassati;
  • Dichiarazioni dei redditi degli anni contestati.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare che i depositi non costituiscono reddito imponibile (risparmi, donazioni, successioni);
  • Provare la corretta tassazione degli interessi già effettuata alla fonte;
  • Contestare le presunzioni automatiche dell’Agenzia prive di riscontri concreti;
  • Eccepire vizi formali: motivazione insufficiente, notifica irregolare, decadenza dei termini;
  • Chiedere autotutela se i dati erano già noti o comunicati;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per bloccare il recupero;
  • Mediazione tributaria (quando prevista) per ridurre sanzioni e interessi.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza la posizione patrimoniale e i movimenti contestati;
📌 Verifica la legittimità della presunzione di redditi occulti;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi per escludere la tassazione indebita;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce strategie preventive per la corretta gestione e dichiarazione dei rapporti finanziari.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in accertamenti bancari e contenzioso tributario;
✔️ Specializzato in difesa di privati e famiglie contro contestazioni su libretti di risparmio;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni del Fisco sui libretti di risparmio non dichiarati non sempre sono fondate: spesso derivano da presunzioni generiche o da dati incompleti.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la vera origine delle somme, evitare la tassazione indebita e proteggere i tuoi risparmi.

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  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
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La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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