Agenzia Delle Entrate Accerta Conti Cointestati Usati Per Occultare Redditi: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché un conto cointestato è stato considerato utilizzato per occultare redditi non dichiarati? In questi casi, l’Ufficio presume che i movimenti bancari sui conti condivisi siano riferibili anche al contribuente accertato e li qualifica come redditi imponibili non dichiarati. La conseguenza è il recupero delle imposte con sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: ci sono strumenti difensivi per dimostrare la reale titolarità delle somme e tutelare i propri diritti.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i conti cointestati
– Se risultano versamenti o prelievi non coerenti con i redditi dichiarati dal contribuente
– Se le movimentazioni non trovano giustificazione documentale
– Se l’Ufficio presume che i fondi appartengano in parte al contribuente accertato, indipendentemente dal reale titolare
– Se emergono incongruenze tra la capacità reddituale e i flussi presenti sul conto
– Se il conto viene ritenuto uno strumento per schermare redditi o capitali occulti

Conseguenze della contestazione
– Attribuzione dei movimenti come redditi imponibili non dichiarati
– Recupero delle imposte dirette e indirette sulle somme considerate imponibili
– Applicazione di sanzioni per omessa o infedele dichiarazione dei redditi
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Rischio di ulteriori accertamenti patrimoniali su altri conti o rapporti finanziari

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la reale titolarità delle somme con documentazione bancaria e contrattuale
– Produrre prove della provenienza dei fondi (stipendi, pensioni, donazioni, risparmi dell’altro cointestatario)
– Contestare l’automatica presunzione di redditività dei movimenti sui conti cointestati
– Evidenziare errori di ricostruzione, difetti di motivazione o vizi procedurali nell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i movimenti del conto e la documentazione bancaria collegata
– Verificare la legittimità della contestazione secondo la normativa fiscale e la giurisprudenza
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi dell’accertamento
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari contro pretese indebite
– Tutelare il patrimonio personale da indebite tassazioni e azioni esecutive

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della non imponibilità delle somme intestate all’altro cointestatario
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto secondo la legge

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce nei termini, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e difesa fiscale – spiega come difendersi in caso di contestazioni sui conti cointestati e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Le indagini finanziarie dell’Agenzia delle Entrate sui conti correnti rappresentano uno strumento potente per individuare redditi occultati al fisco, anche quando il contribuente tenta di celarli utilizzando conti intestati ad altri o conti cointestati. Negli ultimi anni, complice l’abolizione del segreto bancario e l’evoluzione giurisprudenziale, i controlli sui movimenti bancari sono divenuti sempre più mirati e invasivi . Una recente giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente agevolato l’attività di accertamento del Fisco sui conti cointestati, chiarendo i criteri con cui attribuire al contribuente verificato le somme transitanti su tali conti .

Questa guida, aggiornata ad agosto 2025, offre un approfondimento avanzato – ma dal taglio divulgativo – sul tema degli accertamenti fiscali basati su conti bancari cointestati o intestati a terzi. È rivolta sia a professionisti del diritto tributario, sia a privati contribuenti e imprenditori che vogliono capire come difendersi efficacemente da contestazioni fiscali riguardanti movimenti su conti non esclusivamente propri.

Dal quadro normativo italiano alle strategie difensive, passando per le più recenti sentenze della Corte di Cassazione in materia (anche in ambito penale, come l’autoriciclaggio e altri reati tributari), esamineremo in dettaglio:

  • I poteri dell’Agenzia delle Entrate nelle indagini finanziarie e le presunzioni legali su versamenti e prelevamenti;
  • La possibilità di estendere gli accertamenti ai conti di familiari, conviventi, soci o comunque soggetti terzi, con i relativi limiti probatori;
  • Il caso particolare dei conti correnti cointestati e la ripartizione delle somme tra co-intestatari in sede fiscale (presunzione di contitolarità e sua eventuale deroga);
  • Gli strumenti di difesa del contribuente, dal contraddittorio con l’Ufficio alle procedure deflattive del contenzioso (accertamento con adesione, reclamo-mediazione) fino al ricorso davanti alle Corti di Giustizia Tributaria;
  • I possibili risvolti penali in caso di utilizzo di conti altrui per occultare redditi (ad esempio il reato di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1 c.p. se il comportamento ostacola l’identificazione di proventi illeciti , o i reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000);
  • I profili relativi alla pignorabilità dei conti cointestati in sede di riscossione coattiva, qualora il debito d’imposta (o altro debito) non venga pagato e si passi all’esecuzione forzata.

Il taglio adottato è quello del debitore/contribuente sotto verifica: analizzeremo quindi come tutelare i propri diritti e il proprio patrimonio di fronte a pretese fiscali basate su movimentazioni bancarie “sospette”. Troverete anche tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione di domande e risposte frequenti, per rendere più chiari i punti chiave e fornire un vademecum operativo completo su come difendersi in queste situazioni complesse. Procediamo dunque con ordine, iniziando dal quadro normativo di riferimento.

Quadro normativo di riferimento

Le verifiche fiscali fondate sulle movimentazioni bancarie trovano base in precise norme del sistema tributario italiano. Due disposizioni cardine sono l’art. 32, co. 1, n. 2 del D.P.R. 600/1973 (accertamento delle imposte sui redditi) e l’art. 51, co. 2, n. 2 del D.P.R. 633/1972 (accertamento IVA) . Tali norme autorizzano l’Amministrazione finanziaria a richiedere a banche, Poste ed altri intermediari finanziari “dati e notizie relativi ai rapporti e alle operazioni” riferibili al contribuente, e a utilizzarli come base per l’accertamento salvo prova contraria del contribuente . In pratica, ogni versamento bancario non giustificato dal contribuente è presunto un ricavo/non dichiarato e posto a tassazione, mentre ogni prelevamento ingiustificato – se rientrante nelle condizioni di legge – può essere considerato impiego di denaro “in nero” per spese non documentate .

È importante evidenziare che queste sono presunzioni legali relative: operano automaticamente e spostano sul contribuente l’onere di provare il contrario (cioè che quei movimenti non costituiscono materia imponibile) . Trattandosi di presunzioni stabilite per legge, non richiedono i requisiti di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. . Ciò conferisce al Fisco un notevole vantaggio probatorio in giudizio.

Parallelamente, il legislatore ha progressivamente potenziato gli strumenti di indagine finanziaria e rimosso ostacoli alla trasparenza bancaria. Già dal 1991, con la L. 413/1991 (e poi L. 197/1991), è stato abolito ogni segreto bancario a fini fiscali: gli intermediari finanziari devono fornire all’Amministrazione le informazioni sui conti dei clienti richieste in sede di accertamento . Dal 2006 è operativo l’Archivio dei Rapporti Finanziari presso l’Anagrafe Tributaria (introdotto dall’art. 37 D.L. 223/2006 conv. in L. 248/2006): si tratta di un maxi-database in cui banche, Poste, società di gestione del risparmio etc. comunicano periodicamente al fisco gli elementi essenziali di ogni rapporto finanziario (intestatari, co-intestatari, saldi, movimenti, giacenze medie…) . Ciò significa che l’Agenzia delle Entrate, tramite specifiche richieste telematiche, può ottenere una panoramica completa di tutti i conti intestati o anche solo cointestati a un dato codice fiscale, inclusi eventuali conti su cui il contribuente risulta delegato ad operare . L’epoca del “nascondere i soldi sul conto altrui” è dunque tramontata: il Fisco ha gli strumenti normativi e tecnologici per mappare l’intero universo finanziario riconducibile al contribuente.

Contestualmente, va ricordato che anche il contribuente ha dei diritti e garanzie procedurali, sanciti dallo Statuto dei Diritti del Contribuente (L. 212/2000), pienamente operanti anche in materia di accertamenti bancari. Ad esempio, l’art. 7 L. 212/2000 impone che ogni avviso di accertamento sia motivato in modo chiaro e comprensibile, indicando i fatti e le norme su cui si fonda; la mancata indicazione dei movimenti bancari contestati e del perché essi si ritengano imponibili può portare alla nullità dell’atto per difetto di motivazione . Ancora, l’art. 10 Statuto garantisce al contribuente il diritto ad un comportamento leale e alla collaborazione con l’amministrazione, nonché il diritto di accesso agli atti. L’art. 12, infine, prevede il diritto al contraddittorio dopo accessi o ispezioni (in genere 60 giorni per controdedurre). Nel caso degli accertamenti bancari “a tavolino”, pur non essendovi un obbligo di legge di confronto anticipato, è prassi ormai diffusa che gli Uffici inviino inviti al contraddittorio o notifiche di processi verbali di contestazione (PVC) prima di emettere l’accertamento, elencando i movimenti sospetti e dando tempo (30 o 60 giorni) per presentare osservazioni e giustificativi . Ciò concretizza il diritto al contraddittorio endoprocedimentale e spesso consente di chiarire almeno in parte la posizione prima che l’atto diventi definitivo.

Un’altra norma fondamentale da citare è la modifica introdotta nel 2017 in tema di presunzioni sui prelievi bancari. In recepimento di un’importante sentenza della Corte Costituzionale (la n. 228/2014), il legislatore ha limitato le ipotesi in cui i prelevamenti di contante possono essere considerati ricavi non dichiarati. Dal 2017, infatti, l’art. 32 DPR 600/1973 include la lettera b-1) che esclude per i lavoratori autonomi e i privati non imprenditori la presunzione sui prelievi, fatta eccezione per importi superiori a €1.000 giornalieri o €5.000 mensili . In altre parole, per imprenditori individuali l’amministrazione può ancora presumere che prelievi in contante sopra tali soglie siano serviti a pagare costi “in nero” poi tradottisi in ricavi non dichiarati (specularmente a quanto avviene per i versamenti) . Viceversa, per professionisti e privati, sotto queste soglie nessun prelievo può più essere contestato come possibile ricavo occulto . Ciò ha ridimensionato molto le contestazioni su prelievi personali: oggi un libero professionista non può vedersi imputare come reddito un prelievo di, ad es., 2.000€ in contanti, mentre rimane pienamente valida la presunzione sui versamenti sul conto, per qualsiasi categoria di contribuente . Il principio è chiaro: i versamenti bancari inspiegati sono sempre sospetti di evasione, i prelievi solo se abnormi e in contesti imprenditoriali.

Riassumendo il quadro normativo: l’Agenzia delle Entrate ha ampia facoltà di indagare sui conti bancari di un contribuente e dei soggetti a lui collegati, e la legge le fornisce potenti presunzioni per riprendere a tassazione le somme non giustificate . Il contribuente, dal canto suo, ha diritto ad un procedimento trasparente e partecipato, e soprattutto ha la possibilità di vincere tali presunzioni fornendo la prova contraria (come vedremo, prova che dev’essere rigorosa e analitica). Nei paragrafi successivi entreremo nel vivo delle diverse situazioni: prima vedremo come operano concretamente le indagini bancarie e come il Fisco tratta i conti intestati a terzi o cointestati; successivamente ci concentreremo sulle strategie difensive da adottare per proteggersi da queste contestazioni.

Indagini finanziarie: come funzionano gli accertamenti bancari

Prima di affrontare i casi specifici di conti altrui o cointestati, è utile descrivere brevemente come si svolge un accertamento bancario tradizionale. In genere, l’iter è il seguente :

  1. Richiesta alle banche dei dati: L’Ufficio fiscale (Agenzia delle Entrate o Guardia di Finanza) invia tramite l’Anagrafe dei Rapporti Finanziari una richiesta telematica a tutti gli intermediari presso cui il codice fiscale del contribuente risulta censito . Le banche e Poste rispondono fornendo l’elenco di tutti i rapporti finanziari intestati o cointestati al soggetto, nonché quelli in cui egli risulta delegato. Per ciascun conto vengono comunicati i movimenti (accrediti e addebiti) nell’anno d’imposta sotto verifica, i saldi iniziale e finale, la giacenza media e spesso le causali delle operazioni . In pratica, l’Agenzia ottiene un estratto conto completo di tutti i flussi finanziari riguardanti il contribuente in quel periodo.
  2. Analisi dei movimenti: L’ufficio elabora i dati ricevuti per individuare anomalie o movimenti non coerenti con i redditi dichiarati. Tipicamente, viene fatto un semplice confronto quantitativo: si sommano tutti i versamenti (entrate) su ogni conto che il contribuente non è riuscito a giustificare documentalmente, e l’importo complessivo viene considerato reddito non dichiarato da recuperare a tassazione . Allo stesso modo, per gli imprenditori si esaminano anche i prelevamenti: se eccedono le soglie normative (1.000€ al giorno o 5.000€ al mese), e non se ne indica il beneficiario, si presumono utilizzati per acquisti in nero poi rivenduti o impiegati a fini produttivi non dichiarati (quindi si trattano come ricavi occulti aggiuntivi) . Ad esempio, se una ditta individuale ha dichiarato €100.000 di ricavi ma sui suoi conti emergono €30.000 di versamenti senza giustificazione, l’Ufficio potrà rettificare il reddito a €130.000 salvo prova contraria del contribuente . Se inoltre vi fossero prelievi non spiegati per €20.000 oltre soglia, questi potrebbero anch’essi sommarsi come ricavi non contabilizzati. Per un privato o professionista, invece – dopo la riforma 2017 – i prelevamenti (sotto soglia) non vengono considerati materia imponibile , restando centrali solo i versamenti.
  3. Contraddittorio (eventuale): Come accennato, spesso prima di emettere l’avviso di accertamento l’Ufficio invia al contribuente un elenco delle operazioni ritenute imponibili, invitandolo a fornire spiegazioni e documenti entro un termine (solitamente 30 giorni) . Questo contraddittorio anticipato, pur non obbligatorio in materia di imposte dirette, è diventato prassi diffusa per rafforzare l’istruttoria e prevenire contenziosi. Il contribuente in questa fase può produrre documentazione giustificativa (es. documenti attestanti che un versamento era il rimborso di un prestito, o la restituzione di capitale, ecc.) al fine di ottenere uno sgravio totale o parziale prima ancora dell’emissione formale dell’atto. In mancanza di chiarimenti convincenti, però, l’ufficio procede.
  4. Emissione dell’avviso di accertamento: L’Agenzia emette l’atto motivato in cui elenca i movimenti bancari considerati ricavi/compensi non dichiarati, indicando per ciascuno l’importo e spesso la data e il conto su cui è transitato. Viene rideterminato il maggiore reddito imponibile e le maggiori imposte dovute (IRPEF/IRES, addizionali, IVA se rileva) con relative sanzioni per infedele dichiarazione o omessa dichiarazione, a seconda dei casi. Le sanzioni amministrative tributarie per redditi occultati sono molto elevate (normalmente dal 90% al 180% dell’imposta evasa, riducibili in caso di adesione o conciliazione come vedremo) e, per importi rilevanti, possono scattare anche profili penali (ad es. dichiarazione infedele, se l’imposta evasa supera 100.000 € ). L’avviso deve essere notificato al contribuente (di regola entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, termine prorogabile in caso di reati, rottamazioni, ecc.).
  5. Fase contenziosa o deflattiva: Una volta ricevuto l’accertamento, il contribuente può decidere se aderire (nelle forme che vedremo: accertamento con adesione, reclamo-mediazione) oppure presentare direttamente ricorso alla Commissione/Corte Tributaria entro 60 giorni. Queste opzioni difensive saranno approfondite più avanti. Se non viene intrapresa alcuna azione nei termini, l’accertamento diventa definitivo e l’imposta viene iscritta a ruolo per la riscossione coattiva (con emissione della cartella di pagamento).

È in questo contesto procedimentale che si inseriscono le peculiarità dei conti cointestati o intestati a terzi. Infatti, il passaggio cruciale è l’identificazione dei movimenti “non giustificati” da parte dell’ufficio. Quando tali movimenti emergono su conti formalmente intestati ad altri soggetti (ad esempio il coniuge, un figlio, un genitore, un socio) oppure su conti cointestati tra il contribuente e qualcuno, si pone un delicato problema: fino a che punto il Fisco può considerare quei movimenti come “del contribuente” e tassarli a suo carico? I prossimi capitoli affronteranno proprio questa tematica, esaminando le presunzioni applicate, gli orientamenti giurisprudenziali e le possibili difese in tali scenari.

Accertamenti su conti intestati a terzi: familiari, conviventi e soci

Un principio generale ormai consolidato è che l’estensione delle indagini finanziarie ai conti correnti di soggetti terzi (non intestati direttamente al contribuente verificato) è legittima se vi è ragione di ritenere che tali conti siano di fatto riferibili a quest’ultimo . In altre parole, il Fisco non può “fare pesca a strascico” sui conti di chiunque, ma se riscontra legami stretti o una natura fittizia dell’intestazione, può utilizzare anche quei dati. La prassi amministrativa (Circolare Agenzia Entrate n. 32/E del 19.10.2006) e la giurisprudenza di Cassazione hanno chiarito che, pur mancando una previsione normativa espressa, è ormai pacifico che le indagini bancarie possano riguardare conti formalmente intestati a soggetti diversi dal contribuente, purché questi ne sia il reale utilizzatore o beneficiario . Ad esempio, nelle verifiche a carico di società è routine acquisire anche i conti personali di soci e amministratori, specie se si sospetta una commistione tra finanze societarie e personali.

Tuttavia, quando si tratta di conti di familiari o conviventi del contribuente, la questione è particolarmente delicata. La giurisprudenza tributaria degli ultimi anni si è molto occupata di definire i confini di tale estensione, introducendo il concetto di “presunzione qualificata”.

In sostanza, non basta il mero vincolo familiare per imputare al contribuente le somme sui conti altrui: servono indizi ulteriori, concreti e consistenti, che facciano presumere che quei movimenti bancari siano nella disponibilità economica del contribuente stesso e frutto di suoi redditi non dichiarati. Vediamo due pronunce emblematiche della Corte di Cassazione:

  • Cass. ord. n. 20816/2024 – In questo caso la Cassazione ha ritenuto legittimo l’accertamento che aveva ripreso a tassazione ricavi non dichiarati rinvenuti sui conti della moglie e della madre del contribuente . Perché? Vi erano evidenti elementi sintomatici di interposizione: la madre e la coniuge collaboravano di fatto nell’attività del contribuente, ed entrambe avevano redditi propri estremamente modesti a fronte dell’ingente movimentazione sui loro conti . Inoltre la contribuente (soggetta a verifica, una professionista) risultava delegata ad operare sui conti del marito e della madre, e molti pagamenti effettuati da tali conti riguardavano spese della contribuente stessa . In tale contesto, la Corte ha confermato che l’Agenzia poteva ben presumere che quei flussi fossero in realtà ricavi della contribuente occultati al fisco, in quanto “esistono elementi sintomatici (es. lavoro presso il contribuente, forte sproporzione reddituale, etc.)” tali da qualificare la presunzione . Dunque, quando i familiari intestatari non hanno capacità economica coerente con le somme movimentate e risultano inseriti nell’attività del contribuente, i loro conti possono essere trattati come “contenitori” dei redditi di quest’ultimo.
  • Cass. ord. n. 7583/2025 – Di segno opposto questa pronuncia, che ha cassato un accertamento fondato esclusivamente sul rapporto affettivo con un convivente. Nel caso concreto, l’Agenzia aveva esteso l’indagine al conto del convivente more uxorio del contribuente, senza altri riscontri se non la relazione sentimentale. La Suprema Corte ha censurato tale operato, affermando che “la sussistenza dello stretto vincolo familiare (more uxorio) non è di per sé una presunzione qualificata” per imputare al contribuente le somme del conto altrui . Occorre anche qui una comunione di vita stabile e altri elementi: ad esempio la gestione economica condivisa come in un nucleo familiare, spese o acquisti in comune, una marcata sproporzione tra i redditi ufficiali del convivente e le somme sul conto, o altri indizi di interposizione fittizia . In assenza di tali circostanze, “le somme sui conti del convivente non possono automaticamente imputarsi al contribuente” . In altri termini, vivere insieme non implica che i soldi dell’uno siano dell’altro, a meno che si provi che di fatto c’era una commistione patrimoniale assimilabile a un rapporto coniugale in comunione dei beni. Questa sentenza ha quindi annullato l’accertamento, perché basato su una presunzione non sufficientemente qualificata (mancavano riscontri ulteriori oltre al mero vincolo affettivo) .

Da queste pronunce emerge un principio chiave: il Fisco può servirsi dei conti di terzi legati al contribuente solo se riesce a dimostrare, anche con presunzioni, che dietro l’intestazione formale c’è un’utilizzazione sostanziale da parte del contribuente stesso . Il vincolo di parentela o affettivo è un indizio, ma da solo non basta a spostare l’onere della prova. Se però viene combinato con altri elementi (deleghe ad operare, modesto profilo fiscale del terzo, spese a beneficio del contribuente, ecc.), allora l’amministrazione fiscale dispone di una presunzione “forte” (qualificata) che il giudice tributario è tenuto a considerare.

Dal punto di vista difensivo, quando l’Agenzia delle Entrate tenta di attribuire al contribuente redditi basandosi su conti intestati a familiari o terzi, occorre agire su due fronti:

  • Contestare la carenza degli indizi: Il contribuente può provare a dimostrare che gli elementi addotti dal Fisco non sono così univoci. Ad esempio, se l’Ufficio sostiene che la moglie aveva redditi troppo bassi per giustificare i movimenti, il contribuente potrà esibire documenti che mostrano fonti di ricchezza proprie della moglie (eredità, donazioni ricevute, redditi esenti, ecc.), in modo da sgonfiare la tesi della sproporzione . Oppure evidenziare che alcune spese contestate su quel conto sono del tutto estranee al contribuente (magari pagamento di spese personali del familiare). L’obiettivo è far emergere che manca la prova presuntiva “qualificata” a carico del contribuente.
  • Fornire comunque una prova contraria analitica: In parallelo, è opportuno – per quanto possibile – giustificare voce per voce i versamenti contestati, anche se riguardano il conto di terzi . Ad esempio, se sul conto del coniuge c’è un versamento di 5.000€ contestato, si potrà sostenere (e dimostrare) che trattasi della vendita di un bene di proprietà del coniuge stesso, o di una donazione fatta al coniuge da un parente, o ancora di redditi propri del coniuge già tassati. Se ogni entrata trova una spiegazione credibile e documentata estranea al reddito del contribuente, la presunzione legale viene vinta . In questo modo anche qualora gli indizi iniziali fossero sfavorevoli, il contribuente costruisce un caso solido per annullare (in tutto o in parte) l’atto impositivo.

Un contesto particolare è quello delle società di piccole dimensioni, dove spesso soci e amministratori coincidono con la gestione aziendale e possono utilizzare conti personali per operazioni d’impresa. La Cassazione ha affermato principi specifici anche qui:

  • In presenza di società a ristretta base (es. società familiari, piccole S.r.l.), è legittimo per il Fisco estendere le presunzioni relative ai conti bancari anche ai conti intestati ai soci o ai loro familiari . Se la compagine sociale è limitata e vi sono stretti rapporti familiari, è elevata la probabilità che movimenti sui conti personali dei soci in realtà celino ricavi sociali non dichiarati . Lo ha ribadito di recente la Cass. ord. n. 22273/2025, confermando la validità di un accertamento societario fondato su versamenti rinvenuti sui conti dei soci e dei congiunti . Anche in tal caso, però, vale la regola dell’inversione dell’onere della prova: una volta che l’ufficio ha ricostruito maggiori ricavi con i dati bancari, spetta alla società (o al socio) provare che ogni singola movimentazione è estranea all’attività d’impresa . Non basta una generica giustificazione: serve una dimostrazione analitica e specifica per ciascun importo .
  • Un importante correttivo evidenziato dalla stessa Cass. 22273/2025 riguarda la deduzione dei costi correlati ai ricavi accertati . Cioè, se tramite le presunzioni bancarie si accertano ricavi aggiuntivi, bisogna anche riconoscere i costi sostenuti per produrre quei ricavi, altrimenti l’imposizione sarebbe illogicamente al 100% del fatturato occulto. Nel caso di specie, la Cassazione ha cassato la sentenza di merito proprio perché non aveva considerato i costi deducibili connessi ai maggiori ricavi presunti, rinviando per una nuova valutazione . Questo principio evita che chi viene scoperto ad aver omesso ricavi sia tassato sull’intero importo lordo senza tenere conto delle spese: al contribuente spetta sollevare la questione in giudizio, evidenziando – anche in via presuntiva, se del caso – quali costi avrebbe sostenuto in relazione a quei ricavi non contabilizzati.

In definitiva, quando nel mirino del Fisco finiscono conti non intestati al contribuente ma a persone a lui vicine, la partita si gioca sull’intensità degli indizi. Il solo legame personale non basta: l’amministrazione deve costruire una presunzione qualificata di riferibilità, e il contribuente può ribaltarla mostrando l’autonomia reddituale dei terzi e dando una spiegazione dettagliata delle operazioni contestate. La Cassazione, con le pronunce più recenti, sta cercando di tracciare un confine equilibrato: né consentire al contribuente di far transitare impunemente i propri redditi sui conti altrui (vanificando i controlli), né permettere al Fisco di tassare somme di familiari innocenti solo per parentela o convivenza. Come vedremo ora, un discorso in parte analogo – ma con specificità proprie – vale per i conti correnti cointestati.

Conti correnti cointestati: presunzioni e realtà dei fatti

Il conto corrente cointestato (intestato a più persone) rappresenta un caso particolare, a metà strada tra un conto “proprio” e un conto di terzi. Qui il contribuente è effettivamente intestatario del conto, ma assieme ad un altro soggetto. Tipicamente si tratta di conti tra coniugi, oppure tra genitore e figlio, o anche tra soci in ambito aziendale. La domanda cruciale è: se su un conto cointestato transitano somme non dichiarate, in che misura vanno imputate al contribuente sottoposto a verifica?

La presunzione civilistica di contitolarità (50 e 50)

In diritto civile, l’art. 1854 c.c. stabilisce che, nel conto corrente cointestato a firme disgiunte (ossia con facoltà per ciascun intestatario di operare separatamente), “gli intestatari sono considerati creditori o debitori solidali dei saldi del conto”. Ciò ha sempre portato la dottrina e la giurisprudenza a ritenere che le somme sul conto siano di proprietà comune degli intestatari in parti uguali, salvo prova contraria sui rapporti interni . In pratica, si applica l’art. 1298, comma 2, c.c., secondo cui tra coobbligati solidali (o cocreditori) si presume l’uguaglianza delle quote . Questa presunzione paritetica implica che, in assenza di indicazioni differenti, ognuno dei cointestatari è titolare del 50% delle giacenze e delle movimentazioni del conto (nel caso di due intestatari; sarebbe 1/3 ciascuno se fossero tre, etc.). Importante: è una presunzione iuris tantum, dunque superabile con prova contraria – anche mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti . Ad esempio, se uno dei cointestatari prova che il 90% dei versamenti sul conto proviene da lui soltanto (magari esibendo buste paga, bonifici a suo favore, assegni a lui intestati), potrà rivendicare una diversa ripartizione interna delle somme . In mancanza di prova contraria, però, rimane ferma l’uguaglianza delle quote .

Questa regola civilistica ha rilievo principalmente nei rapporti interni tra i co-intestatari (ad esempio, nelle cause di separazione tra coniugi per dividere i soldi comuni, o nelle successioni ereditarie). Anche la Cassazione civile recente l’ha confermata: ad esempio con ordinanza n. 1643/2025 ha ribadito che la cointestazione fa presumere la contitolarità e l’eguaglianza delle quote, inversione dell’onere della prova a carico di chi afferma una diversa proprietà delle somme . In quel caso specifico, un coniuge è riuscito a vincere la presunzione provando che i fondi sul conto provenivano da assegni circolari intestati esclusivamente a lui, quindi di sua esclusiva pertinenza: la Corte ha dato rilievo decisivo all’“origine cartolare della provvista” per superare la presunzione di comproprietà .

Applicazione in ambito tributario: quanta parte tassare?

Sul piano fiscale, l’amministrazione finanziaria inizialmente tende ad applicare la medesima logica: in linea generale, in un conto cointestato ogni movimentazione si presume riferibile per metà a ciascun intestatario . Così, ad esempio, un versamento di €10.000 su un conto cointestato marito-moglie verrebbe, in assenza di altre informazioni, attribuito per €5.000 al marito e €5.000 alla moglie ai fini dell’eventuale tassazione . Questa regola “50 e 50” è, possiamo dire, il punto di partenza.

Tuttavia, l’esperienza pratica mostra che il Fisco non si ferma qui. L’Agenzia delle Entrate cercherà di capire chi realmente abbia alimentato il conto e per quale scopo. Se uno dei cointestatari è sotto verifica, sarà suo interesse (ed onere) dimostrare quale parte del denaro gli appartiene effettivamente e quale invece è riferibile all’altro . E se non lo fa? In tal caso, l’Amministrazione finanziaria – soprattutto in presenza di squilibri reddituali tra i cointestatari – potrebbe persino sostenere che l’intero importo dei movimenti sia di fatto imputabile al contribuente verificato. Ciò suona in apparenza contrario alla presunzione 50/50, ma vediamo perché può accadere:

La Cassazione ha chiarito che la presunzione civilistica di comproprietà può senz’altro essere superata dalle risultanze concrete in sede tributaria . Se un cointestatario prova che talune somme in entrata erano esclusivamente dell’altro, quelle somme non vanno imputate al primo . Viceversa, attenzione: se il contribuente non fornisce alcuna prova contraria, l’Agenzia – specie se l’altro cointestatario risulta persona senza redditi propri o al contrario con grande disponibilità – potrebbe arrivare ad attribuire l’intero importo al soggetto verificato .

Un caso illuminante è quello già citato della Cass. ord. 18125/2015: in tale vicenda, una contribuente aveva un conto cointestato con la madre, persona molto benestante. L’Agenzia recuperò a tassazione tutti i versamenti sul conto come redditi della contribuente. La difesa obiettava che il conto era cointestato e che la madre, ricca, poteva essere la fonte di quei soldi. Ebbene, la Cassazione ha dato ragione al Fisco, affermando che se la contribuente non prova la riconducibilità dei movimenti all’altro contitolare “benestante”, tutte le operazioni sono imponibili in capo a lei . In altri termini, la mera cointestazione con un familiare facoltoso non salva dal controllo: bisogna dimostrare in modo puntuale che i versamenti contestati derivano da disponibilità dell’altro cointestatario, altrimenti si presume che fossero redditi propri del contribuente. Dunque, riprendendo l’esempio: se Tizio ha un conto cointestato con la moglie e l’Agenzia contesta €50.000 di versamenti non dichiarati, Tizio dovrà provare (documenti alla mano) che, ad esempio, €20.000 erano lo stipendio della moglie accreditato sul conto, altri €10.000 una rendita di investimento intestato alla moglie, ecc. Se non produce prove convincenti, potrebbe essere tassato sull’intera somma di €50.000, soprattutto se la moglie risulta senza redditi o se ci sono elementi per ritenere che lui gestisse di fatto tutto il conto .

Bisogna sottolineare che non sempre gli uffici adottano questo approccio “draconiano” di attribuire il 100%. In alcuni casi, in mancanza di elementi più precisi, la stessa Agenzia o le Commissioni Tributarie si sono limitate ad applicare pro quota il criterio 50/50 . Cioè, se non si sa di chi fossero i soldi, si tassa la metà al contribuente e la metà (eventualmente) all’altro contitolare se anch’egli è soggetto a controllo. Tuttavia, l’orientamento spinto dalla Cassazione (18125/2015 citata) è che quando uno dei cointestatari ha un ruolo preminente o un interesse diretto nelle somme, si possa imputare tutto a lui salvo prova contraria . Ad esempio, se marito e moglie hanno un conto comune, ma la moglie non lavora e tutti i versamenti derivano dall’attività del marito, sarebbe artificioso tassarne solo il 50%: in realtà è reddito del marito al 100%.

Come difendersi nei casi di cointestazione

Dal punto di vista pratico, chi dispone di conti cointestati con familiari dovrebbe adottare alcune cautele. Idealmente, meglio evitare di mescolare in un unico conto le entrate di persone diverse, soprattutto se si tratta di redditi imponibili. Mantenere separati i conti individuali consente di avere una chiara tracciabilità. Se però il conto cointestato è già in essere (spesso per comodità gestionale in famiglia) o inevitabile, è fondamentale conservare traccia dell’origine dei fondi: ad esempio annotare che su quel conto confluisce regolarmente il solo stipendio di uno dei due, oppure che un certo versamento deriva dalla vendita di un bene intestato a uno specifico contitolare, ecc. . Queste informazioni potranno poi essere usate come prova in caso di verifica fiscale.

In sede di accertamento, l’interessato dovrà fornire quantomeno elementi per ripartire correttamente le somme . Se, poniamo, su €100.000 di movimenti annui sul conto cointestato marito-moglie, si può mostrare che €40.000 provengono da bonifici relativi allo stipendio della moglie, quell’importo andrà sottratto dall’imponibile del marito (e semmai contestato alla moglie se non giustificato da lei, ma almeno non duplicato). Altri €30.000 magari risultano da assegni di terzi intestati esclusivamente al marito: quelli si possono attribuire al marito. I restanti €30.000, se non chiari, potrebbero al limite dividersi a metà. Più dettagli si forniscono, meglio è: l’ideale è costruire un prospetto che, movimento per movimento, indichi il presunto titolare e la natura (es: “versamento del 10/06: €5.000, provenienza vendita gioielli di proprietà della moglie, somma non imponibile per il marito”).

Ricordiamo le parole severe della Cassazione in proposito: la prova liberatoria a carico del contribuente non può essere generica o basata su mere ipotesi, ma deve “indicare e dimostrare la provenienza dei singoli accrediti” . Il giudice tributario valuterà con rigore tali prove e non potrà discostarsi dallo schema legale di inferenza se esse mancano . Dunque, in assenza di chiarimenti convincenti, il Fisco avrà buon gioco a sostenere che i fondi sul conto erano sostanzialmente gestiti dal contribuente e quindi a lui imputabili .

In ultima analisi, per i conti cointestati la regola generale “50 e 50” può essere vista come punto di partenza, ma la ripartizione effettiva ai fini fiscali dipende dalle evidenze concrete. Una tabella riassuntiva dei possibili approcci aiuta a chiarire:

Scenario conto cointestatoTrattamento fiscale dei movimentiRiferimenti giurisprudenziali
Nessuna prova specifica fornita <br> (conto cointestato inerte)Presunzione 50% al contribuente e 50% all’altro contitolare. <br>(Alcune Commissioni applicano questa divisione in mancanza di elementi ulteriori.)Art. 1854 c.c. presunzione paritaria; orientamento di prassi .
Contribuente con maggior coinvolgimento <br> (es. l’altro intestatario senza redditi o funge da prestanome)Possibile imputazione al 100% in capo al contribuente verificato, salvo prova contraria. <br>(Il Fisco può ignorare il 50/50 se è palese che il denaro è tutto di uno solo.)Cass. 18125/2015: tutte le operazioni imputate interamente al contribuente se non prova che erano fondi dell’altro .
Prova contraria fornita dal contribuente <br> (es. documenti che tracciano la titolarità delle somme)Imputazione solo della parte effettivamente riconducibile al contribuente; escluse le somme provate come appartenenti all’altro contitolare.Cass. 1643/2025: presunzione vinta provando provenienza esclusiva delle somme .

Come si vede, il rischio per il contribuente titolare di un conto cointestato è di trovarsi tassato anche su fondi che in teoria sarebbero altrui, se non è in grado di dimostrarlo. Dal punto di vista del Fisco, il conto cointestato può facilmente diventare uno schermo per nascondere redditi (si pensi a un evasore che versa i proventi sul conto del figlio o della moglie per non destare sospetti: la cointestazione gli permette comunque di disporne). Per questo l’approccio degli uffici è spesso di non accontentarsi della divisione a metà, ma di scavare più a fondo. E la Cassazione – come visto – legittima questo approccio aggressivo purché vi siano elementi concreti.

In sintesi, difendersi in caso di accertamenti su conti cointestati significa: prepararsi a ripartire analiticamente ogni movimento contestato, armarsi di documenti (estratti conto, ricevute, contratti, titoli di credito, ecc.) e, idealmente, gestire preventivamente i propri flussi finanziari evitando commistioni non tracciabili. Nel prossimo capitolo passeremo in rassegna gli strumenti di difesa formali e procedurali a disposizione del contribuente una volta che l’Agenzia abbia acceso i riflettori sui suoi (o altrui) conti bancari.

Come difendersi: diritti del contribuente e strategie pre-contenziose

Trovarsi di fronte a un accertamento basato su indagini bancarie può intimorire, ma il contribuente-debitore non è privo di strumenti. La difesa inizia già nella fase di verifica e prosegue eventualmente davanti al giudice tributario. Vediamo passo dopo passo quali sono le azioni da intraprendere.

Accesso agli atti e contraddittorio iniziale

Appena si viene a conoscenza che l’Agenzia sta effettuando indagini finanziarie (ad esempio tramite una comunicazione o invito a comparire), è fondamentale esercitare i propri diritti di partecipazione. In primis, il diritto di accesso agli atti: si ha diritto a ottenere copia di tutta la documentazione bancaria acquisita dall’Ufficio che ci riguarda . Questo include estratti conto, elenchi di movimenti, report riepilogativi generati dall’Anagrafe dei Rapporti Finanziari, ecc. Conoscere nel dettaglio i dati in mano al Fisco è essenziale per predisporre le controdeduzioni. L’art. 7 dello Statuto del Contribuente rafforza questo aspetto, richiedendo trasparenza e motivazione chiara: il contribuente deve poter capire quali movimenti gli vengono contestati e perché . Se ciò non fosse evidente, può richiederne spiegazione.

Quando l’ufficio convoca per il contraddittorio endoprocedimentale, è un’occasione da non perdere. In tale sede (solitamente un incontro o uno scambio scritto antecedente l’avviso definitivo) il contribuente può presentare una memoria difensiva con allegati tutti i documenti giustificativi disponibili. È consigliabile strutturare la risposta in modo sistematico: elencare i movimenti contestati uno per uno, e per ciascuno fornire la relativa spiegazione e prova. Ad esempio:

  • Versamento X del 12/03 di €5.000 – Provenienza: restituzione finanziamento da parte di [Nome terzo]. Prova: copia bonifico da conto di [Nome terzo] a mio favore; scrittura privata di prestito del 2019.
  • Versamento Y del 07/06 di €3.000 – Provenienza: ricavo già dichiarato (fattura n.10/2024, incasso tardivo). Prova: copia fattura e evidenza che l’importo era stato incluso nel reddito 2024.
  • Versamento Z del 20/09 di €10.000 – Provenienza: vendita auto usata intestata a mia moglie. Prova: atto di vendita dell’auto con indicazione prezzo, bonifico dell’acquirente sul conto cointestato.

E così via. È importante allegare tutta la documentazione utile (e, se complessa, spiegare brevemente la rilevanza). Non basta affermare che “quei soldi non sono reddito” – occorre dimostrarlo con elementi oggettivi . Ad esempio, non è sufficiente dire “sono soldi di mia madre, che è ricca”: bisogna produrre prova che la madre li ha dati, magari tramite copia di assegno a lei intestato poi girato, o estratto conto della madre con il prelievo corrispondente e successivo versamento sul conto cointestato.

La Cassazione ha ammonito i giudici a non accettare giustificazioni vaghe: “la prova liberatoria non può essere generica o ipotetica, ma deve indicare e dimostrare la provenienza dei singoli accrediti” . Ciò significa che anche nel contraddittorio amministrativo il contribuente deve adottare la massima precisione possibile. Tanto più che se l’ufficio non viene convinto e si va in giudizio, il giudice tributario valuterà ex post se quelle spiegazioni erano fondate o meno.

Un altro suggerimento è di verificare la correttezza formale e sostanziale dei dati bancari in mano all’ufficio: talvolta possono esservi errori di imputazione (es. un giroconto interno potrebbe essere stato conteggiato due volte, come prelievo da un conto e versamento su un altro) o movimenti che erano stati già tassati e vengono erroneamente ripresi. Ad esempio, un assegno versato e poi protestato/annullato potrebbe figurare come entrata senza che poi si consideri l’uscita di storno. Incontrando i funzionari o nelle memorie, si può evidenziare questi aspetti: “il movimento n. 123 di €2.000 corrisponde in realtà al trasferimento interno da conto X a conto Y, quindi non è un ricavo effettivo”. Segnalare queste anomalie con prove (estratti conto a supporto) può portare a depurare la pretesa fiscale dagli importi inesistenti o duplicati .

La ripartizione dell’onere della prova

Conviene qui ribadire un concetto giuridico fondamentale che già è emerso: la partita probatoria negli accertamenti bancari si gioca sulle presunzioni legali di cui all’art. 32 DPR 600/73. L’onere della prova è invertito a carico del contribuente per quanto riguarda la giustificazione dei movimenti. Ciò significa che, una volta che il Fisco ha individuato dei versamenti non spiegati, si presume per legge che essi siano redditi non dichiarati . Non spetta al Fisco dimostrare di quali redditi si tratti o da dove vengano quei soldi: spetta al contribuente provare che così non è (ad esempio provando che sono redditi esenti, somme già tassate, rimborsi, trasferimenti patrimoniali, etc.) .

Tuttavia, attenzione: se parliamo di conti intestati a terzi (come visto sopra), c’è un onere a monte anche per il Fisco, ovvero quello di fornire almeno una presunzione qualificata che quei conti siano riferibili al contribuente. La Cassazione ha infatti precisato che, per spostare l’onere della prova in capo al contribuente su somme che non transitano sui suoi conti, l’Ufficio deve prima motivate adeguatamente il perché ritiene quei conti di terzi collegati al contribuente . Solo se questa motivazione regge (ad esempio: “conto intestato al convivente, con spese a favore del contribuente e sproporzione di redditi”), allora scatta la presunzione e il contribuente deve provare movimento per movimento l’estraneità . Se invece l’ufficio si limita a dire “siccome Tizio è sposato con Caia, analizziamo anche il conto di Caia”, ciò è un difetto di motivazione e una carenza probatoria che il contribuente potrà far valere per far annullare l’atto (come in Cass. 7583/2025, dove la sola relazione affettiva fu ritenuta insufficiente a costituire presunzione ).

In sintesi: sui conti del contribuente o cointestati la presunzione opera pienamente e l’onere è suo di discolparsi; sui conti di terzi l’onere è suo solo dopo che il Fisco abbia dato una base presuntiva seria per includerli (altrimenti l’atto è illegittimo). Nella pratica, comunque, quando un accertamento arriva a notifica, di solito l’Ufficio ha già costruito almeno indizi di collegamento per i conti di terzi; raramente si espone ad annullamento immediato su questo punto. Sarà allora cruciale concentrarsi sulla prova contraria movimento per movimento, come già sottolineato.

Strumenti deflattivi: adesione e mediazione

Se, nonostante le difese presentate in fase precontenziosa, l’Agenzia delle Entrate emette l’avviso di accertamento (confermando in tutto o in parte le pretese iniziali), il contribuente ha a disposizione alcuni strumenti per evitare il contenzioso giudiziario o quantomeno ridurre il danno prima di affrontare la causa:

  • Accertamento con adesione: disciplinato dal D.Lgs. 218/1997, è una procedura di confronto amichevole con l’Ufficio . Entro 30 giorni dalla notifica dell’avviso, il contribuente può presentare istanza di adesione, il che sospende nel frattempo i termini per fare ricorso . Segue un incontro (o più d’uno) in cui contribuente e funzionari dell’Agenzia trattano per eventualmente rideterminare consensualmente la pretesa. Nel caso di accertamenti bancari, l’adesione può essere utile se alcune contestazioni appaiono effettivamente fondate e difficilmente confutabili, mentre altre sono discutibili: si può puntare a un compromesso, ottenendo magari lo sgravio di una parte delle somme e accettando di pagarne un’altra parte. Ad esempio, su €50.000 di versamenti contestati, si potrebbe riconoscere che €20.000 effettivamente non erano giustificabili (magari erano frutto di ricavi in nero) mentre sugli altri €30.000 si insiste che erano legittimi; l’ufficio potrebbe accettare di tassare solo €20.000 e annullare la contestazione sui restanti €30.000 . Il vantaggio per il contribuente, oltre a ridurre base imponibile e imposte, è che le sanzioni amministrative vengono ridotte a 1/3 del minimo edittale . Considerando che le sanzioni piene per redditi omessi partono dal 90% dell’imposta evasa, con l’adesione spesso si scende intorno al 30% dell’imposta (un bel risparmio). Se l’accordo viene formalizzato (atto di adesione), il contribuente dovrà poi pagare le somme concordate – anche a rate, ma in tempi brevi (di solito 8 rate trimestrali per importi < €50.000). Se invece la trattativa fallisce, viene redatto verbale di mancato accordo e il contribuente ha 60 giorni da tale verbale per proporre ricorso (termine che si aggiunge ai 30+60 originari, guadagnando quindi tempo) .
  • Reclamo e Mediazione tributaria: si tratta di una procedura obbligatoria ante causam per le controversie di valore non elevato. Attualmente la soglia è di €50.000 (valore della causa, inteso come imposte + sanzioni, al netto degli interessi) per gli atti notificati fino al 2022, elevata a €100.000 per gli atti emessi dal 2023 in poi . Se l’accertamento rientra in questa soglia, il contribuente che intende contestarlo deve prima presentare un reclamo all’ufficio, che vale anche come istanza di mediazione . In pratica è un atto simile a un ricorso, indirizzato però all’Agenzia stessa, in cui si espongono i motivi per cui l’atto sarebbe errato o illegittimo e – facoltativamente – si può formulare una proposta di mediazione (ad esempio chiedendo la riduzione delle sanzioni, o la rideterminazione di alcune voci). L’ufficio, ricevuto il reclamo, ha 90 giorni di tempo per rispondere . Può accogliere totalmente (annullando in autotutela l’atto se riconosce l’errore), può formulare un accordo di mediazione, oppure può non accogliere. Se si raggiunge un accordo in mediazione, le sanzioni sono ridotte al 35% del minimo – riduzione meno cospicua dell’adesione (che è 33%), ma comunque significativa. Se invece decorrono 90 giorni senza intesa, il reclamo si considera rigettato e a quel punto il contribuente può perfezionare il ricorso presso la Commissione Tributaria: infatti il reclamo introduttivo, trascorsi i 90 giorni, vale come ricorso depositato (entro i successivi 30 giorni). In sintesi, la mediazione tributaria è un tentativo obbligatorio di soluzione bonaria: conviene sfruttarlo soprattutto se ci sono evidenti errori nell’accertamento che l’ufficio potrebbe riconoscere (ad esempio un computo sbagliato, una doppia imposizione, oppure nuovi documenti risolutivi che non erano stati considerati) . L’ufficio spesso in sede di reclamo rivede almeno parzialmente le proprie pretese per evitare il contenzioso.
  • Istanza di autotutela: a prescindere dalle procedure sopra, il contribuente può sempre presentare un’istanza di annullamento in autotutela all’autorità che ha emesso l’atto . Nell’istanza vanno indicati i motivi per cui si chiede la cancellazione totale o parziale dell’accertamento: tipicamente errori evidenti di fatto o di diritto (ad es. un versamento che risulta già tassato altrove, oppure un vizio di notifica, ecc.). L’autotutela è discrezionale per l’amministrazione: l’ufficio valuta e, se riconosce il motivo, annulla/riduce l’atto, altrimenti lo conferma tacitamente. Spesso, se è già pendente un ricorso, gli uffici tendono a lasciar decidere il giudice salvo casi lampanti, ma tentare non nuoce. Ad esempio, se nell’accertamento notate che hanno conteggiato come ricavo un versamento che in realtà avevate indicato in dichiarazione, siete di fronte a un errore palese: segnalatelo in autotutela presentando la prova (dichiarazione e relativo estratto conto). Potreste ottenere l’annullamento parziale senza bisogno di causa . Va però detto che, in assenza di palesi sviste, difficilmente l’ufficio ammetterà spontaneamente la debolezza della propria presunzione; ci si dovrà allora difendere in giudizio.

Da notare: accertamento con adesione e reclamo-mediazione sono alternativi nelle tempistiche (la proposizione dell’adesione sospende i termini del ricorso e quindi anche del reclamo). In generale, per importi modesti conviene passare per il reclamo obbligatorio; per importi alti (sopra soglia) si valuta se tentare comunque un’adesione. Nulla vieta, peraltro, di avviare l’adesione anche per atti sotto soglia: in tal caso, se l’accordo non si perfeziona, si dovrà poi comunque notificare il ricorso/reclamo entro 60 giorni dalla notifica (perché sotto soglia il ricorso stesso vale come reclamo). È un tecnicismo procedurale da valutare con attenzione (spesso con l’aiuto di un avvocato tributarista), per incastrare bene i termini ed evitare decadenze.

In ogni caso, l’obiettivo degli strumenti deflattivi è di ridurre il contenzioso trovando una soluzione prima del giudizio. Se però nessuna soluzione bonaria va in porto, non resta che il ricorso al giudice tributario.

Il contenzioso tributario (ricorso in Commissione / Corte di Giustizia Tributaria)

Se l’accertamento non viene definito né annullato, il contribuente può presentare ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale (ora rinominata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado dopo la riforma attuata con L. 130/2022). Il termine ordinario è 60 giorni dalla notifica dell’atto , salvo sospensioni dovute a eventuale adesione o altre procedure. Il ricorso va notificato all’ente impositore e poi depositato (telematicamente) in segreteria entro 30 giorni dalla notifica.

Nel predisporre il ricorso è fondamentale articolare tutti i motivi di illegittimità e infondatezza dell’accertamento. Ad esempio: vizi procedurali (mancato contraddittorio se dovuto, motivazione insufficiente o contraddittoria, uso di dati bancari di terzi senza motivazione adeguata , decadenza dei termini, ecc.) e vizi di merito (insussistenza della pretesa per mancanza di presupposti, prova contraria fornita, errori di calcolo). È importante riproporre tutte le eccezioni magari già sollevate in fase amministrativa, per non incorrere in decadenze. Nel merito, si dovrà insistere sulla carenza o inidoneità degli elementi presuntivi raccolti dall’Ufficio (specialmente per i conti di terzi) e parallelamente sulla validità delle prove contrarie fornite dal contribuente. Il ricorso deve essere ben strutturato, possibilmente con allegata (in appendice) la documentazione bancaria e ogni altra prova a supporto.

Da questo punto di vista, va ricordato che il processo tributario recentemente riformato è abbastanza favorevole al contribuente sul piano probatorio: vige infatti un principio di libertà dei mezzi di prova. Ad esempio, oggi è ammessa anche la prova testimoniale per iscritto (non orale) da parte di terzi . Ciò significa che, qualora potesse giovare, si possono produrre dichiarazioni giurate di terze persone a conferma di una certa circostanza (es: una dichiarazione sostitutiva di atto notorio di un parente che attesti di averti donato quella somma in contanti poi versata in banca). Inoltre, è data la possibilità di produrre nuovi documenti anche in appello, purché si giustifichi il perché non siano stati presentati prima . Quindi, se per qualche ragione ci si procura una prova dopo il primo grado (o se l’ufficio aveva negato l’accesso a certi atti, poi ottenuti), c’è modo di inserirla successivamente. Questo amplia le chance difensive anche in secondo grado.

Nel giudizio di merito, il giudice esaminerà se l’Amministrazione ha effettivamente fornito gli elementi presuntivi necessari e, in caso affermativo, se il contribuente ha fornito la prova liberatoria richiesta . Il tutto secondo gli schemi normativi visti: se l’ufficio ha provato la riferibilità dei conti di terzi e l’esistenza di versamenti non giustificati, starà al contribuente aver dimostrato che se ne è tenuto conto nelle dichiarazioni o che erano somme non imponibili . Il giudice valuterà quindi nel merito movimento per movimento. È possibile che la decisione sia parzialmente favorevole: ad esempio, riconosce valide le spiegazioni per alcuni versamenti e non per altri. In tal caso l’accertamento verrà annullato solo in parte (rideterminando il maggior reddito in misura inferiore) . Se invece il giudice ritiene che tutti i movimenti rimasti contestati siano ingiustificati, rigetterà il ricorso confermando integralmente l’atto.

Negli ultimi anni, peraltro, molte Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado hanno adottato in sentenza i principi della Cassazione in materia di indagini bancarie . È frequente leggere sentenze di merito che richiamano pronunce di legittimità: ad esempio “Visto che il contribuente non ha dimostrato analiticamente la natura non imponibile di quei versamenti, l’accertamento è legittimo (Cass. 13112/2020)” ; oppure “Considerato che l’Ufficio non ha provato l’utilizzo dei conti del coniuge da parte del contribuente, l’atto è illegittimo (Cass. 7583/2025)” . Ciò significa che le “regole del gioco” delineate dalla Suprema Corte (come quelle che abbiamo esaminato sui conti cointestati e sui conti di familiari) vengono applicate concretamente nei tribunali tributari. Per il contribuente, dunque, è essenziale conoscere tali principi e citarli a sostegno della propria tesi, per orientare il giudice di merito. Una difesa ben argomentata in diritto, con riferimenti puntuali a giurisprudenza favorevole, può fare la differenza nell’esito.

Va infine ricordato che dal 2023 le Commissioni Tributarie sono diventate “Corti di Giustizia Tributaria” con giudici professionali selezionati per concorso, il che – nelle intenzioni del legislatore – dovrebbe garantire maggiore competenza e terzietà. Inoltre, la riforma ha introdotto una sezione specializzata (Sezione tributaria centrale) in Cassazione per velocizzare i giudizi di legittimità tributaria. Insomma, il contenzioso tributario è in evoluzione e tende a uniformarsi sempre più ai principi affermati nei gradi superiori.

Profili penali: reati tributari e autoriciclaggio

Oltre alle conseguenze amministrative (pagamento delle imposte evase più sanzioni e interessi), l’utilizzo di conti bancari per occultare redditi può avere rilievo penale in diversi scenari. È importante che il contribuente ne sia consapevole, sia per evitare condotte che potrebbero configurare reato, sia perché in sede di difesa occorre coordinare l’aspetto tributario con eventuali procedimenti penali.

1. Reati tributari (D.Lgs. 74/2000) – Il decreto legislativo n. 74/2000 disciplina i principali reati fiscali. Non tutte le omissioni di redditi integrano reato: occorre superare determinate soglie e condizioni. Ad esempio, la dichiarazione infedele (art. 4) scatta se l’imposta evasa supera €100.000 e l’ammontare degli elementi attivi sottratti a tassazione supera il 10% del dichiarato o comunque €2 milioni . L’omessa dichiarazione (art. 5) è reato se l’imposta evasa supera €50.000. Ci sono poi reati di dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3) se si usano fatture false o altri artifici, indipendentemente dalle soglie (ma con soglie più basse per la punibilità). In un caso tipico di occultamento di ricavi tramite conti esterni, il reato configurabile può essere la dichiarazione infedele (se le cifre sono rilevanti) oppure, se si supera proprio il limite di punibilità, l’omessa dichiarazione (qualora il contribuente non abbia presentato affatto la dichiarazione pur avendo prodotto reddito). Le pene variano a seconda del reato: per l’infedele dichiarazione la reclusione va da 2 a 4 anni (massimo aumentato dal 2015), per l’omessa dichiarazione da 2 a 5 anni, per la fraudolenta con fatture da 4 a 8 anni, e così via.

Nel nostro contesto, utilizzare conti intestati ad altri o cointestati per non dichiarare redditi potrebbe costituire un mezzo fraudolento (art. 3) se accompagnato da altri artifici idonei a ostacolare l’accertamento (per esempio, movimentazioni complesse, false annotazioni, ecc.). Di per sé, però, la mera interposizione di un conto terzo non è espressamente tipizzata come artificio; spesso resta nell’alveo dell’infedele. C’è però un altro reato tributario da menzionare: la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000). Questo scatta quando, per evadere il pagamento di imposte già dovute o di sanzioni, si alienano simulatamente o si compiono atti fraudolenti sui propri beni in modo da renderne inefficace la riscossione. Ad esempio, se dopo un avviso di accertamento, sapendo di dover pagare somme ingenti, un contribuente sposta tutto il proprio denaro su un conto intestato al coniuge per evitare il pignoramento, potrebbe integrare questo reato. La soglia è debiti per imposte > €50.000. La pena è la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Dunque, attenzione: trasferire patrimoni a terzi o su conti cointestati quando si hanno già debiti fiscali accertati può non solo far scattare comunque il pignoramento (come vedremo), ma anche una denuncia penale se il fine è di frustrare l’esazione.

2. Autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.) – Introdotto dalla fine del 2014, punisce chi impiega, sostituisce, trasferisce in attività economiche o finanziarie denaro o beni provenienti da un proprio delitto presupposto, così da ostacolare la identificazione della provenienza delittuosa. In parole semplici: se commetto un reato (ad es. frodo il fisco per milioni) e poi ripulisco i proventi in qualche modo, sto commettendo anche autoriciclaggio. L’evasione fiscale oltre soglia è considerata delitto presupposto (la Cassazione ormai lo riconosce), quindi chi occulta ingenti redditi commette quel reato tributario; se in più poi ne occulta le tracce finanziarie, rischia l’autoriciclaggio. Una domanda sorge spontanea: mettere i soldi in banca sul proprio conto può essere considerato autoriciclaggio? Sì, può esserlo. La Cassazione più recente ha chiarito che anche operazioni formalmente tracciabili, come il deposito su un conto corrente personale o un giroconto, possono integrare il reato se rendono più difficile risalire all’origine illecita . Ad esempio, con sentenza n. 25348 del 9 luglio 2025, la Suprema Corte ha affermato che il semplice versamento in banca di denaro “sporco” (in quel caso proventi di reati, ma il principio vale anche per reati fiscali) costituisce autoriciclaggio perché la fungibilità del denaro bancario – ossia il fatto che la banca restituisce non le stesse banconote ma denaro equivalente – di fatto ostacola l’identificazione della provenienza . Non serve realizzare complesse triangolazioni o intestazioni fittizie: “non è necessario impedire del tutto l’identificazione: basta ostacolarla”, dice la Cassazione . Depositi, trasferimenti tra conti, acquisto di strumenti finanziari: sono tutte operazioni che, pur tracciate, riciclano il denaro illecito perché lo confondono col denaro lecito . Dunque, se un imprenditore ha evaso somme ingenti (reato di infedele dichiarazione) e poi versa quei contanti sul conto cointestato con la moglie, sta certamente ostacolando l’identificazione dell’origine (i contanti si mescolano con altri fondi e col conto della moglie) e potrebbe essere accusato anche di autoriciclaggio, con pene fino a 8 anni di reclusione (proporzionate alla gravità).

Va precisato che l’autoriciclaggio esclude le condotte meramente consumative del profitto illecito: la legge dice che non è punibile chi si limita a godere o utilizzare per esigenze personali i proventi del reato presupposto. Ma la giurisprudenza ha visione restrittiva di questa scriminante. Versare i soldi su un conto e pagarci spese, secondo alcune pronunce, non è semplice godimento ma già ostacolo alla tracciabilità. Sicuramente aprire conti a nome di terzi e trasferirvi i fondi è autoriciclaggio o almeno riciclaggio.

3. Riciclaggio “di terzi” (art. 648-bis c.p.) – Collegato al punto precedente, se un terzo soggetto (che non ha commesso il reato fiscale presupposto) aiuta l’evasore a occultare il denaro, può rispondere del reato di riciclaggio tradizionale. Ad esempio, se un padre fa transitare sul proprio conto (senza aver partecipato all’evasione del figlio) i soldi in nero del figlio per poi restituirglieli “ripuliti”, il padre sta compiendo un’attività che ostacola l’identificazione della provenienza delittuosa ed è punibile. La Cassazione Penale, Sez. II, nella sentenza n. 29346 del 6 luglio 2023, ha proprio stabilito che commette riciclaggio chi mette a disposizione il proprio conto corrente per farvi transitare il denaro provento di reato altrui, ostacolandone l’identificazione . In quel caso si trattava di denaro da frode informatica, ma il principio è generale: anche un coniuge o un parente che fa da prestanome all’evasore può essere incriminato per riciclaggio (o concorso in autoriciclaggio se agisce insieme). Questa è una forte deterrenza: il familiare che “presta” il conto rischia grosso anch’egli. Spesso chi aiuta pensa di essere al sicuro perché non ha tratto vantaggio o non ha commesso l’evasione in sé; invece la legge punisce l’aiuto successivo nel celare i proventi.

4. Altri reati eventualmente configurabili – In casi estremi, potrebbero ipotizzarsi ulteriori fattispecie: ad esempio, se per sviare le tracce si falsificano documenti contabili o bancari, si potrebbe avere la falsità ideologica o materiale, oppure se si usano società schermo potrebbero entrare in gioco reati di bancarotta fraudolenta (se c’è un fallimento di mezzo) o responsabilità ex D.Lgs. 231/2001 per l’ente. Ma qui entriamo in situazioni molto complesse e oltre lo scopo di questa guida.

Per concludere il profilo penale, ricordiamo che esistono istituti premiali: ad esempio, il pagamento integrale del debito tributario (imposte, sanzioni, interessi) prima del dibattimento può estinguere o attenuare alcune pene (art. 13 D.Lgs. 74/2000, come modificato). Inoltre la recente riforma penale tributaria (2023) ha esteso in certi casi l’applicazione della particolare tenuità del fatto e altre cause di non punibilità . In ogni caso, la migliore strategia è evitare di incorrere nel penale a monte: se ci si accorge di aver omesso redditi, si valuti il ravvedimento operoso prima che partano accertamenti; se si è già in verifica, si consideri l’adesione o il pagamento spontaneo per evitare soglie penalmente rilevanti. Le conseguenze penali, infatti, hanno un impatto ben più gravoso della sola sanzione amministrativa.

Pignorabilità dei conti cointestati in sede esecutiva

Parliamo ora dell’ultima fase possibile: la riscossione coattiva delle somme dovute. Se dopo l’accertamento (e gli eventuali gradi di giudizio) il contribuente risulta debitore verso l’Erario e non paga spontaneamente, si passa all’esecuzione forzata. Un caso frequente è quello del pignoramento del conto corrente, misura con cui il creditore (Agenzia Entrate Riscossione nel caso di debiti fiscali) blocca e si fa assegnare le somme giacenti sul conto del debitore. Ma cosa accade se il conto è cointestato con un soggetto estraneo al debito? Il legislatore e la giurisprudenza hanno approntato regole specifiche per bilanciare due esigenze: soddisfare il creditore da un lato, e proteggere il co-intestatario non debitore dall’altro .

Vediamo come funziona, passo per passo, il pignoramento di un conto cointestato:

  • Titolo esecutivo e atto di pignoramento: Innanzitutto, il creditore deve avere un titolo esecutivo (es: una cartella di pagamento non pagata, che per legge è già titolo esecutivo decorsi 60 giorni) e notificare un precetto al debitore intimando il pagamento in un termine (tipicamente 10 giorni) . Trascorso inutilmente, può notificare l’atto di pignoramento presso terzi, cioè alla banca e per conoscenza al debitore . Quest’atto ingiunge alla banca di non permettere prelievi dal conto fino a copertura del credito indicato . Dal momento della notifica, la banca deve congelare le somme fino all’importo pignorato: il conto non è chiuso, ma quelle disponibilità restano bloccate . Se il conto è cointestato, la banca in pratica blocca l’intero conto fino a concorrenza del dovuto, in attesa di capire quale quota spetti al debitore.
  • Solidarietà verso la banca e limiti per il creditore: Per i conti a firme disgiunte, come detto, sul piano dei rapporti con la banca i cointestatari sono considerati debitori solidali del saldo . Ciò significa che la banca consente a ciascuno di disporre dell’intero importo; ma questo non implica che un creditore particolare di uno di essi possa automaticamente prendere tutto . In dottrina e giurisprudenza si sono confrontate due tesi: una riteneva che il creditore potesse aggredire l’intero saldo (forte della solidarietà esterna), l’altra invece che dovesse limitarsi alla quota di spettanza del debitore. Oggi prevale nettamente questa seconda tesi . Il ragionamento è: la solidarietà vale nei confronti della banca per l’operatività del conto, ma non pregiudica i diritti dei co-intestatari estranei al debito . Pertanto, il creditore può pignorare solo la presunta quota di titolarità del debitore. La legge (art. 599 c.p.c. sugli usufrutti indivisi applicabile in analogia) e la giurisprudenza di merito confermano che nei beni in comunione il pignoramento colpisce solo la quota del debitore .
  • Quanto può pignorare in concreto? La regola pratica è: se il conto ha due intestatari, si presume 50% di spettanza del debitore . Dunque il creditore dovrebbe pignorare al massimo metà del saldo . Se il conto ha tre cointestatari e uno solo è debitore, presumibilmente potrebbe aggredire un terzo, e così via. Questa è una presunzione iuris tantum mutuata dall’art. 1298 c.c. (uguaglianza quote interne) che anche la Cassazione conferma costantemente in sede esecutiva . Naturalmente, se il creditore dimostra che l’intero saldo appartiene in realtà al debitore (ad esempio perché il co-intestatario è un mero prestanome senza redditi, e tutte le entrate sul conto sono del debitore), allora potrebbe pignorare oltre il 50% . Ma sarà un onere a carico del creditore da far valere davanti al giudice.
  • Comportamento delle banche: In pratica, le banche quando ricevono un pignoramento su un conto cointestato spesso bloccano prudenzialmente tutto il saldo fino a concorrenza del dovuto . Questo per evitare contestazioni: se per esempio il debito è €20.000 e il conto ha €40.000, la banca potrebbe congelare €20.000 (anche se 10.000 sarebbero del co-intestatario non debitore). Alcuni istituti tuttavia congelano solo la metà automaticamente. Non c’è un comportamento uniforme. In ogni caso, finché il Giudice dell’Esecuzione (G.E.) non interviene, il conto rimane parzialmente inagibile: bonifici in uscita, RID, addebiti vengono sospesi fino all’importo pignorato . È quindi frequente che entrambi i cointestatari non possano movimentare liberamente il conto per un certo periodo, sebbene la metà “non debitoria” sarebbe di spettanza libera: è un effetto collaterale del blocco tecnico. Per questo, spesso, il co-intestatario non debitore preferisce agire attivamente per sbloccare la propria parte.
  • Intervento del giudice dell’esecuzione: Nella normale procedura presso terzi, la banca deve rendere una dichiarazione ex art. 547 c.p.c. sulle somme detenute per conto del debitore . Nell’udienza fissata per l’esecuzione, il G.E. verifica la situazione: se risulta che ci sono somme pignorate, può emettere ordinanza di assegnazione in favore del creditore fino alla concorrenza del credito . Nel caso del conto cointestato, se nessuno obietta, il giudice potrebbe presumere che la metà del saldo è del debitore e assegnare quella. Ad esempio, conto con €10.000, debito €8.000: il giudice probabilmente assegnerà €5.000 (50%) al creditore – sufficiente a soddisfare 5 su 8 mila, lasciando il resto insoddisfatto – a meno che il creditore fornisca prova che l’intero importo era del debitore (scenario raro subito in udienza). Il co-intestatario non debitore deve essere avvisato del pignoramento (art. 180 disp. att. c.p.c. prevede la notifica dell’avviso di pignoramento ai comproprietari) e ha la facoltà di intervenire.
  • Opposizione del co-intestatario estraneo (art. 619 c.p.c.): Il co-titolare non debitore ha uno strumento specifico per tutelarsi: l’opposizione di terzo all’esecuzione . Può promuoverla dinanzi al giudice dell’esecuzione sostenendo che le somme pignorate (o parte di esse) gli appartengono e non dovrebbero essere destinate al creditore . Nell’atto di opposizione, e poi nel giudizio incidentale, dovrà fornire la prova contraria: ad esempio producendo estratti conto e documentazione che mostrino che le somme sul conto provengono da redditi propri (stipendi, pensioni, vendite di suoi beni) e non dal debitore . La Cassazione ha chiarito che in sede di opposizione ex art. 619 il giudice applicherà la presunzione di contitolarità 50/50 e sta al terzo opponente fornire prova contraria per ottenere lo sblocco ulteriore . Quindi, il co-intestatario dovrà dimostrare se rivendica più del 50%. Se l’opposizione viene accolta, il pignoramento viene ridotto o eliminato relativamente alla quota del terzo.

Ad esempio, Tizio e Caio hanno conto cointestato con €20.000. Tizio debitore ha un debito di €15.000. Banca blocca €15.000. Presunzione: 50% di Tizio (€10k), 50% di Caio (€10k). Il G.E. senza altre info potrebbe assegnare €10k al creditore (saldo presunto di Tizio). Caio, il co-intestatario, se vuole salvare anche i suoi €5k ulteriori bloccati, deve opporsi e provare che in realtà magari €15k di quei €20k erano frutto del suo stipendio (dunque sua proprietà esclusiva). Se ci riesce, il giudice potrebbe riconoscere che la quota di Tizio era solo €5k e liberare il resto a Caio. In mancanza di opposizione, invece, Caio rischia di vedersi prelevare anche parte dei suoi soldi per soddisfare il creditore di Tizio, limitatamente però a quanto congelato.

  • Procedura speciale esattoriale: Quando il creditore è l’Erario (Agenzia delle Entrate-Riscossione), vige una procedura in parte diversa dal pignoramento ordinario. Dopo 60 giorni dalla notifica della cartella senza pagamento, l’Agente della Riscossione può notificare direttamente alla banca un ordine di pagamento (cosiddetto pignoramento esattoriale) senza passare subito dal giudice . La banca blocca le somme e trascorsi ulteriori 60 giorni le trasferisce al Fisco, salvo che nel frattempo il contribuente abbia fatto opposizione o sia intervenuto un accordo . In questo procedimento “amministrativo”, il giudice dell’esecuzione interviene solo se il debitore propone opposizione (entro 60 giorni dall’atto, o per eccepire vizi formali entro 20 giorni dall’avvenuto pagamento forzato, a seconda dei casi). E il co-intestatario non debitore? Anche lui può fare opposizione di terzo (art. 619) davanti al tribunale competente, chiedendo la sospensione e liberazione della sua quota. La giurisprudenza applica gli stessi principi: l’Agente della Riscossione può aspirare solo alla quota del debitore, non a quella del terzo . Perciò anche in ambito esattoriale il co-intestatario è protetto, ma deve attivarsi.

Da segnalare che la Cassazione ha richiesto una certa trasparenza negli atti di pignoramento esattoriale: ad esempio, ha annullato atti di pignoramento del Fisco che non indicavano chiaramente le somme dovute e la base di calcolo, ritenendoli nulli per lesione del diritto di difesa . Quindi, il contribuente-debitore, oltre a far valere i propri diritti sostanziali, può anche verificare questi profili formali.

In sintesi, dal punto di vista del debitore con conto cointestato: i soldi sul conto comune non sono automaticamente al sicuro dall’esecuzione, ma il creditore non può nemmeno prendersi tutto ignorando i diritti dell’altro intestatario. Il risultato dipende molto dall’iniziativa del co-intestatario non debitore e dalle prove che porterà della sua titolarità delle somme. La presunzione legale è a favore di una divisione 50/50 , dunque di base metà del saldo è “aggredibile”. Per proteggere l’altra metà (o più, se spettante al terzo) bisogna dimostrarlo. È consigliabile, se si prevedono potenziali problemi, evitare di tenere ingenti somme su conti cointestati con una persona esposta a rischio di debiti (es. un imprenditore in difficoltà che condivide conto con il coniuge). Meglio separare i conti, così che il coniuge non debitore non debba subire blocchi o fare causa per riavere i propri soldi. Se però il pignoramento è avvenuto, occorre reagire prontamente con l’assistenza di un legale, presentando opposizione di terzo e fornendo al giudice tutta la documentazione sui flussi in conto (stipendi, pensioni o altre entrate del co-intestatario estraneo).

Va anche sfatato un mito: alcuni credono che cointestare i conti con un parente sia un modo per schermare i soldi dai creditori. Come abbiamo visto, non è così: i creditori possono aggredire la quota e, se provano l’interposizione fittizia, anche oltre la quota. Inoltre espone il parente al disagio di dover difendere i propri averi. Dunque la cointestazione a fini “difensivi” del patrimonio è un’arma spuntata e potenzialmente pericolosa (oltre a poter configurare, se fatta apposta per frodare i creditori, il reato di sottrazione fraudolenta a pagamento imposte di cui sopra).

Domande frequenti (FAQ)

D: L’Agenzia delle Entrate può controllare i conti correnti intestati a miei familiari (moglie, figli, genitori)?
R: Sì, può farlo ma solo a certe condizioni. La legge consente indagini bancarie anche su conti formalmente di terzi se questi sono “riferibili” al contribuente controllato . Ciò avviene, ad esempio, se i familiari hanno rapporti economici stretti col contribuente o se vi sono indizi che quei conti siano usati per accreditare redditi di quest’ultimo. La Cassazione ha chiarito che non basta il semplice legame di parentela: serve una presunzione qualificata. Ad esempio, è lecito controllare i conti della moglie se questa collabora nell’attività del marito e sul suo conto transitano somme incompatibili col suo reddito . Invece, non è lecito basarsi solo sul fatto che è la moglie: in una sentenza del 2025 è stato annullato un accertamento sui conti di una convivente perché l’unico elemento era il vincolo affettivo, senza ulteriori riscontri . In breve, il Fisco può guardare i conti dei familiari, ma deve motivarne bene il motivo. Se lo fa, poi spetterà al contribuente provare che quelle somme non sono redditi suoi.

D: Ho versato parte dei miei compensi non fatturati sul conto di mia moglie per non farli scoprire. Cosa rischio se l’Agenzia se ne accorge?
R: Rischi in primis un accertamento fiscale in cui quei compensi, anche se versati sul conto di tua moglie, verranno imputati a te come redditi occultati, con pagamento delle relative imposte e sanzioni (dal 90% in su) . Inoltre, se l’ammontare è rilevante, potresti incorrere in sanzioni penali: ad esempio, se l’imposta evasa supera 100.000 €, c’è il reato di dichiarazione infedele (pena fino a 3 anni); se supera 150.000 € IVA o 50.000 € imposte dirette, altri reati scattano. Non solo: utilizzare conti altrui per nascondere denaro configura possibili profili di autoriciclaggio, ossia il reimpiego di proventi illeciti per ostacolarne l’identificazione . La Cassazione ha stabilito che anche il semplice deposito in banca di denaro frutto di evasione può costituire autoriciclaggio . Pertanto rischieresti anche una condanna penale su questo fronte (fino a 8 anni). Tua moglie, dal canto suo, potrebbe essere coinvolta come prestanome e accusata di riciclaggio se consapevole (pena fino a 12 anni) . In sintesi: è una pratica altamente pericolosa sia finanziariamente che penalmente.

D: Se un conto è cointestato con mio marito, il Fisco in caso di accertamento tassa automaticamente solo il 50% a me?
R: Non necessariamente. La regola di partenza è attribuire il 50% ciascuno in base alla presunzione di contitolarità . Ma attenzione: se tu sei l’unica sotto accertamento, l’Agenzia potrebbe contestare a te anche più del 50% dei movimenti, specie se tuo marito non ha redditi o non risulta la fonte delle somme . Per la Cassazione, se il contribuente non prova che i versamenti erano redditi dell’altro contitolare, tutta la movimentazione può essere considerata reddito suo . Quindi, il 50% non è garantito. Devi dimostrare con documenti quale parte effettivamente era di tuo marito (es. stipendio di tuo marito accreditato) . Se lo dimostri, quella parte non verrà tassata a te. In assenza di prove, rischi che imputino a te anche l’intero importo contestato. Dunque, non fare affidamento sul “divide et impera”: organizza le prove della suddivisione!

D: Come posso difendermi se l’Agenzia Entrate mi contesta versamenti bancari che ritengo legittimi?
R: La chiave è fornire prova analitica per ciascun versamento contestato . Devi spiegare per ogni somma qual è la provenienza non tassabile (o già tassata). Prepara un dossier con estratti conto, ricevute, documenti giustificativi: ad esempio, contratti di mutuo per somme ricevute in prestito, atti di vendita per somme derivanti da realizzi patrimoniali, documenti che provino che un dato importo era già compreso nei ricavi dichiarati (magari come corrispettivi registrati). La difesa va presentata già in fase di contraddittorio, se possibile, e poi ribadita in ricorso . Inoltre, se l’Agenzia ha fatto errori (doppioni, versamenti che non sono redditi, ecc.), evidenzialo chiaramente con le prove. Ricorda che la prova dev’essere concreta: dichiarazioni generiche non bastano . Se ad esempio sostieni che “quel versamento da 10.000€ sono i tuoi risparmi che depositi”, devi mostrare come quei risparmi si sono formati e che già erano tassati o non imponibili. In mancanza di spiegazioni puntuali, la legge presume siano redditi e il giudice non potrà aiutarti . In sintesi: difendersi significa documentare, documentare, documentare ogni cosa.

D: È possibile chiudere la questione senza andare in causa con il Fisco?
R: Sì, ci sono strumenti deflattivi del contenzioso da valutare. Uno è l’accertamento con adesione, che ti permette di negoziare con l’Agenzia un accordo sull’importo dovuto . Se alcune contestazioni sono innegabili, l’adesione consente di ottenere uno sconto sulle sanzioni (ridotte a 1/3) e magari sull’imponibile, evitando la causa . Devi fare istanza entro 30 giorni dall’avviso . L’altro è il reclamo/mediazione se il valore in gioco non supera €50.000 (o €100.000 per atti recenti) : in pratica presenti un reclamo all’ufficio che, entro 90 giorni, può accogliere o proporre una mediazione con sanzioni ridotte al 35% . Se trovi un accordo, paghi quanto concordato e finisce lì. Se no, il reclamo diventa ricorso e si va avanti. C’è poi sempre l’autotutela: chiedere all’ente di annullare o correggere l’atto se riconosce un errore (è raro ma tentare non nuoce, specie per errori evidenti) . Molto dipende dalla solidità delle tue ragioni: se hai cartucce da sparare (documenti forti, errori formali dell’ufficio), a volte mostrando queste carte al funzionario si riesce a transare. In caso contrario, si può comunque ridurre il danno sulle sanzioni con adesione o mediazione. L’importante è agire nei termini: se lasci scadere 60 giorni senza far nulla, perdi anche queste chance e l’accertamento diventa definitivo.

D: Ho un debito con il fisco e temo che possano pignorare il conto cointestato con mia moglie, che non c’entra nulla. Possono farlo?
R: Possono notificare il pignoramento al tuo istituto di credito, e la banca bloccherà i fondi sul conto anche se cointestati . Però, per legge, il creditore (Agenzia Riscossione) può prendere solo la quota parte del saldo che presumibilmente è tua . In generale, si presume che sul conto a due intestatari la metà dei soldi sia tua . Quindi, pignoreranno al massimo quel 50%. Ad esempio, se il conto ha €10.000 e tu devi €8.000, congeleranno €8.000 ma poi ne potrà essere assegnata al Fisco solo la metà del saldo (€5.000), salvo dimostrazione che più della metà erano soldi tuoi. Tua moglie, essendo estranea al debito, ha diritto alla sua quota. Per ottenerla, però, dovrà muoversi presentando un’opposizione di terzo al giudice dell’esecuzione , per far liberare la parte a lei spettante. Dovrà provare con documenti che quei soldi derivano magari dal suo stipendio, ecc., dimostrando la proprietà dei fondi . Se lo fa, il giudice tipicamente le restituirà la metà (o comunque la porzione che risulta sua). Se invece non agisce, c’è il rischio che il Fisco prenda fino a metà del conto. Quindi sì, possono pignorare il conto cointestato, ma non rubare i soldi di tua moglie: lei però deve intervenire per far valere i propri diritti. Nel frattempo, occhio che il conto verrà congelato per l’importo pignorato, creando problemi di operatività quotidiana (pagamenti bloccati) . In una parola: legalmente tua moglie è tutelata, ma serve una mossa attiva (opposizione) per sbloccare.

D: La banca mi ha bloccato l’intero conto cointestato a seguito di pignoramento, anche oltre l’importo dovuto. È normale? Cosa posso fare?
R: Capita spesso. Le banche, ricevuto un atto di pignoramento, congelano cautelativamente l’importo indicato (o l’intero saldo se inferiore) . Se il conto è cointestato, talvolta bloccano tutto in attesa di indicazioni del giudice, perché non sono tenute loro stesse a “spartire” le quote. Questo però crea il disagio che descrivi. La cosa da fare è presentare subito, tramite un avvocato, un’istanza al giudice dell’esecuzione per ottenere i provvedimenti del caso, oppure – se tu non sei il debitore ma il co-intestatario – l’opposizione di terzo come detto prima . In sede di udienza potrai chiedere al giudice di limitare il pignoramento alla tua quota. Spesso, se è chiaro che metà è di un estraneo, il giudice ordina di liberare quella parte. Tieni presente che fino all’ordinanza del giudice, la banca non può sbloccare nulla di sua iniziativa . Quindi è “normale” nel senso che rientra nella prassi. Ma hai diritto a non subire oltre misura: fai valere che l’importo pignorato eccede la quota debitore e chiedine lo svincolo parziale. Ricorda anche che dopo il pignoramento esattoriale (se è il fisco) c’è una finestra di 60 giorni prima del trasferimento forzoso: in quel periodo puoi ottenere una sospensione dal giudice se fai opposizione motivata.

D: Quali documenti servono per provare che un versamento sul conto non è un ricavo in nero?
R: Dipende dal tipo di operazione, ma in generale qualunque documento che attesti la natura e provenienza della somma. Qualche esempio frequente: – Se è un prestito ricevuto: produce una scrittura privata di mutuo/finanziamento, o una lettera firmata dal soggetto che ha dato i soldi, meglio se con data certa; se il prestito è da un parente, può essere utile anche la sua dichiarazione di conferma (magari con documenti che mostrino che ne aveva la disponibilità). – Se è la restituzione di un prestito fatto da te: esibisci il contratto originale di prestito e prova che avevi erogato quella somma a suo tempo (assegno, bonifico ecc.), così ora la ricevi indietro. – Se è la vendita di un bene: allega il contratto di vendita o la fattura se è un bene aziendale, o l’atto notarile se era un immobile. E la prova dell’incasso (assegno, bonifico). – Se è un trasferimento da altro tuo conto: mostra che era un tuo conto, in modo che non sia un ricavo ma solo spostamento di liquidità (le indagini dovrebbero già evidenziarlo, ma meglio ribadire). – Se è un reddito esente o escluso da imposizione: ad es. una donazione manuale, un risarcimento assicurativo, una vincita al gioco tassata alla fonte. Fornisci la documentazione specifica (es: quietanza assicurazione; attestato vincita). – Se è un ricavo già dichiarato: indica in quale dichiarazione e a quale voce era stato incluso, allegando copia della dichiarazione e magari prospetti contabili. – Se è il reddito del tuo co-intestatario: es. stipendio di tua moglie sul conto comune – allega busta paga e movimentazione bancaria correlata, per far vedere che è suo reddito legittimo.

In generale, ogni versamento dev’essere tracciato a ritroso: chi ha fatto quel versamento? Da quale conto o strumento proviene? Perché te li ha dati? Rispondendo con documenti a queste domande, fornisci la prova che serve. A volte serviranno anche testimonianze scritte (es. un parente che dichiara di averti donato tot euro in contanti il tal giorno). La qualità della prova può variare: l’ideale è un documento con data certa coevo ai fatti. Se non l’hai, anche ricostruzioni logiche supportate da più indizi possono convincere (la legge ammette presunzioni semplici, se gravi, precise e concordanti, come controprova). L’importante è non lasciare somme senza alcuna giustificazione concreta.

D: Usare il conto del coniuge per depositare incassi non dichiarati può essere considerato reato di riciclaggio o autoriciclaggio?
R: Sì. Dal punto di vista penale, se gli incassi non dichiarati configurano un reato tributario (ad esempio omessa dichiarazione per grandi importi), allora già l’atto di occultarli sul conto altrui può costituire autoriciclaggio. La Cassazione ha più volte ribadito che trasferire proventi illeciti su conti bancari, anche senza schermarli con intestazioni false, è una forma di ostacolo all’identificazione . Quindi il coniuge-evasore che, per “ripulire” il denaro, lo sposta sul conto della moglie, sta reimpiegando denaro di provenienza delittuosa (il delitto presupposto è l’evasione) e ne rende più difficile la tracciabilità – ciò integra il reato di autoriciclaggio (punito con reclusione 2-8 anni, se il delitto presupposto è punito oltre 5 anni). Quanto al coniuge “ospitante”, se è consapevole di aiutarlo a occultare soldi non dichiarati, risponde quantomeno di riciclaggio in concorso (reclusione 4-12 anni) . Questi reati penali si aggiungono alle sanzioni tributarie. Tuttavia, c’è una zona grigia: la legge esclude l’autoriciclaggio per chi si limita a godere personalmente del denaro illecito. Se, ad esempio, l’evasore versa i contanti sul conto cointestato solo per spenderli per esigenze familiari, potrebbe provare a difendersi sostenendo che era mero utilizzo personale. Ma non è garantito che collimi: le autorità tendono a vedere in ogni transfer una condotta di ostacolo. Quindi è altamente rischioso. In definitiva: sì, usare conti del coniuge per coprire evasione è una pessima idea che può sfociare in guai penali seri per entrambi.

D: In caso di accertamento fiscale su conti bancari, è possibile evitare sanzioni penali pagando il dovuto?
R: Pagare tempestivamente può aiutare molto. Il D.Lgs. 74/2000 prevede che per alcuni reati tributari (omesso versamento di ritenute o IVA, indebite compensazioni) il pagamento integrale dei debiti tributari prima dell’apertura del dibattimento penale estingue il reato (art. 13). Per i reati di dichiarazione infedele o frode fiscale, il pagamento è un’importante circostanza attenuante che può ridurre la pena fino alla metà e talvolta evitare la confisca. Inoltre, riforme recenti hanno esteso cause di non punibilità per particolare tenuità in caso di importi evasi modesti . Quindi, se dopo un accertamento ti viene contestato penalmente qualcosa, attivarsi per saldare imposte, interessi e sanzioni può mettere in buona luce, ridurre il danno o addirittura chiudere il caso penale (oltre ad evitare l’eventuale processo tributario se paghi in adesione). C’è anche la possibilità, prima che inizi qualsiasi indagine, di fare un ravvedimento operoso: se ti autodenunci correggendo la dichiarazione e pagando il dovuto con sanzioni ridotte prima che il fisco ti scopra, non c’è reato perché manca l’intento fraudolento (hai spontaneamente sanato). In sintesi: sì, pagare il dovuto appena possibile è sempre consigliabile, sia per evitare la prosecuzione dell’azione penale sia per dimezzare rischi (ricorda però che se il reato era già perfezionato, il pagamento tardivo non lo cancella al 100% salvo i casi specifici detti).

Conclusioni

Affrontare un accertamento dell’Agenzia delle Entrate basato su conti cointestati o intestati a terzi è una sfida complessa, che richiede conoscenza delle norme tributarie, capacità di raccogliere prove finanziarie e, non di rado, l’assistenza di professionisti esperti. Dal punto di vista del contribuente-debitore, i punti chiave da tenere a mente sono:

  • Prevenzione: separare le finanze personali da quelle di familiari o soci, mantenere documentazione di supporto per ogni trasferimento di denaro, evitare scorciatoie (come usare conti altrui) che possono ritorcersi contro. La trasparenza paga sempre nel lungo termine.
  • Presunzioni fiscali potenti ma superabili: il Fisco parte avvantaggiato con presunzioni di legge sui movimenti bancari . Ciò non significa che il contribuente sia inerme: una prova contraria solida e analitica può ribaltare l’esito . Bisogna però essere rigorosi e precisi, altrimenti le presunzioni prevarranno.
  • Giurisprudenza recente favorevole all’equità: la Cassazione ha tracciato una linea equilibrata su conti di terzi e cointestati. Non permette cacce alle streghe basate solo su parentele , ma neppure consente che la cointestazione diventi uno schermo per l’evasione . Conoscere queste pronunce (es. Cass. 7583/2025, Cass. 20816/2024, Cass. 18125/2015, Cass. 22273/2025) aiuta a impostare la difesa e a prevedere l’orientamento dei giudici .
  • Soluzioni stragiudiziali da tentare: prima di arrivare al processo, esplorare sempre adesione o mediazione. Spesso un accordo ragionevole è preferibile all’incertezza di un giudizio, specie quando qualche omissione c’è stata e si punta a limitare i danni (pagando il giusto, non il massimo, e con sanzioni ridotte) .
  • Attenzione ai risvolti penali: non considerare mai la strategia fiscale isolatamente. Se le somme occultate sono ingenti, consulta un esperto penalista per valutare il rischio di reato. In alcuni casi conviene autodenunciarsi e sanare il dovuto prima che partano procedimenti penali. Ricorda che condotte come trasferire fondi su conti terzi possono costituire autoriciclaggio/riciclaggio .
  • Tutela del patrimonio in fase esecutiva: se si arriva alla riscossione forzata, sappi che i conti cointestati non sono intoccabili, ma solo la quota del debitore può essere pretesa . Collabora con il co-intestatario non debitore per preparare un’opposizione e le prove della sua quota . Spesso una pronta reazione permette di liberare buona parte dei fondi bloccati.

In conclusione, “come difendersi” efficacemente significa combinare conoscenza tecnica e tempestività: analizzare l’accertamento in ogni dettaglio, predisporre un impianto probatorio robusto, far valere tutti i propri diritti (anche formali) e non esitare a trovare un accordo quando conviene. Con oltre 10.000 parole, questa guida ha cercato di fornire un quadro completo e avanzato. Affrontare il Fisco è impegnativo, ma un contribuente ben informato – supportato magari da un buon consulente – ha buone chance di far valere le proprie ragioni e di ridurre al minimo l’impatto di un accertamento sui propri redditi (e sulla propria vita). Come recita un vecchio adagio, prevenire è meglio che curare: l’auspicio è che queste informazioni aiutino non solo a curare (difendersi) ma anche a prevenire situazioni a rischio, in modo da gestire le proprie finanze in modo lecito e sicuro, senza dover temere l’occhio attento dell’Agenzia delle Entrate.

Fonti: Normativa: DPR 600/1973, art. 32; DPR 633/1972, art. 51; L. 212/2000 (Statuto contribuenti); D.Lgs. 218/1997 (adesione e conciliazione); D.Lgs. 74/2000 (reati tributari); Codice Civile art. 1854, 1298; Codice Proc. Civile art. 599, 543 ss.; Codice Penale art. 648-bis, 648-ter.1. Giurisprudenza: Cass., Sez. Trib., ord. n. 18125/2015 ; Cass. Sez. VI-5 ord. n. 16062/2010 ; Cass. Sez. V ord. n. 20816/2024 ; Cass. Sez. V ord. n. 7583/2025 ; Cass. Sez. V ord. n. 22273/2025 ; Cass. Sez. I civ. ord. n. 1643/2025 ; Cass. Sez. III pen. n. 25348/2025 ; Cass. Sez. II pen. n. 29346/2023 , oltre a numerose Commissioni Tributarie che le hanno recepite . Questo materiale è stato integrato con commenti di dottrina e guide operative aggiornate per offrire un panorama il più possibile esaustivo.

  • Ordinanza 1643/2025: La Cassazione e la Presunzione di Contitolarità nei Conti Correnti Cointestati – CF News

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati conti correnti cointestati, ritenuti usati per occultare redditi non dichiarati? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati conti correnti cointestati, ritenuti usati per occultare redditi non dichiarati?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

Il Fisco, attraverso gli accertamenti bancari, può presumere che i movimenti su un conto cointestato appartengano in tutto o in parte a ciascun intestatario e, se non giustificati, li considera redditi imponibili non dichiarati. Tuttavia, non sempre questa presunzione è corretta: spesso i conti cointestati servono a gestire risparmi familiari, pensioni, donazioni o patrimoni comuni.

👉 Prima regola: dimostra l’origine delle somme e la reale titolarità dei movimenti contestati.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Versamenti ingenti o frequenti sul conto senza adeguata giustificazione;
  • Movimenti non coerenti con i redditi dichiarati dai cointestatari;
  • Prelievi in contanti ritenuti utilizzo personale di redditi occultati;
  • Trasferimenti tra conti collegati a soci, familiari o società;
  • Presunzione automatica di ripartizione dei movimenti tra i cointestatari.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Recupero delle imposte sui movimenti ritenuti reddito imponibile;
  • Sanzioni per evasione o infedele dichiarazione;
  • Interessi di mora;
  • Rischio di ulteriori accertamenti patrimoniali e fiscali su tutti i cointestatari;
  • Possibile conflitto interno tra soci o familiari coinvolti.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Provenienza delle somme: risparmi, pensioni, stipendi, donazioni o prestiti?
  • Titolarità effettiva dei movimenti: chi ha realmente disposto i versamenti e i prelievi?
  • Documentazione bancaria: bonifici, contratti, ricevute;
  • Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia deve dimostrare con precisione perché presume redditi occultati;
  • Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Estratti conto completi del periodo contestato;
  • Contratti di lavoro, pensioni o fonti reddituali già tassate;
  • Contratti di donazione o prestito con data certa;
  • Documentazione fiscale dei cointestatari (CU, dichiarazioni dei redditi);
  • Scritture private o dichiarazioni che dimostrino la reale titolarità delle somme.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare che i movimenti non sono redditi imponibili, ma somme già tassate o non soggette a imposta;
  • Chiarire la reale titolarità dei versamenti e dei prelievi, anche con dichiarazioni e prove testimoniali;
  • Contestare le presunzioni automatiche dell’Agenzia, prive di riscontri concreti;
  • Eccepire vizi formali: motivazione carente, decadenza dei termini, notifica irregolare;
  • Richiedere autotutela se la contestazione è palesemente infondata;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni con possibilità di sospendere la riscossione;
  • Mediazione tributaria per ridurre sanzioni e chiudere la lite.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza i movimenti bancari contestati e la posizione dei cointestatari;
📌 Verifica la legittimità delle presunzioni dell’Agenzia delle Entrate;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi per dimostrare la reale natura delle somme;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con il Fisco e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce strategie preventive per gestire in sicurezza conti e rapporti finanziari condivisi.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in accertamenti bancari e contestazioni fiscali;
✔️ Specializzato in difesa di privati, famiglie e soci su conti cointestati e patrimoni comuni;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni del Fisco sui conti cointestati come strumenti per occultare redditi non sempre sono fondate: spesso derivano da presunzioni generiche e non da prove concrete.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la vera origine delle somme, evitare la riqualificazione come redditi imponibili e proteggere te e gli altri cointestatari da richieste indebite.

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La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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