Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per presunti rimborsi spese gonfiati riconosciuti ai tuoi dipendenti o collaboratori? In questi casi, l’Ufficio ritiene che le somme non siano veri rimborsi, ma retribuzioni mascherate soggette a tassazione e contribuzione. La conseguenza è il recupero delle imposte e dei contributi, con sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: con una difesa mirata è possibile dimostrare la correttezza delle spese e tutelare l’azienda.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i rimborsi spese
– Se le spese rimborsate non sono documentate da ricevute o giustificativi validi
– Se gli importi rimborsati superano i limiti di legge o le soglie previste dai contratti collettivi
– Se le voci di rimborso appaiono ricorrenti e fisse, assimilabili a retribuzione
– Se vi sono incongruenze tra quanto dichiarato e i dati di viaggio o di missione effettivi
– Se i rimborsi riguardano spese non inerenti all’attività lavorativa
Conseguenze della contestazione
– Tassazione dei rimborsi come redditi da lavoro dipendente
– Recupero delle imposte e dei contributi previdenziali non versati
– Applicazione di sanzioni per infedele dichiarazione o indebite deduzioni
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Possibili ulteriori verifiche fiscali e ispettive in azienda
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la natura effettiva delle spese con ricevute, fatture, biglietti di viaggio e note spese dettagliate
– Provare che i rimborsi rispettano i limiti normativi e contrattuali
– Contestare la qualificazione dei rimborsi come retribuzione fissa
– Evidenziare errori o presunzioni non fondate nell’accertamento dell’Agenzia
– Far valere vizi formali o decadenza dei termini nell’atto notificato
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per l’annullamento della contestazione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione aziendale relativa ai rimborsi spese
– Verificare la legittimità delle contestazioni e la corretta applicazione delle norme fiscali
– Redigere un ricorso mirato su vizi formali e sostanziali dell’accertamento
– Difendere l’impresa e i dipendenti davanti ai giudici tributari
– Tutelare il patrimonio aziendale da richieste indebite e procedure esecutive
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della natura esente dei rimborsi correttamente documentati
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto effettivamente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce in tempo, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e diritto del lavoro – spiega come difendersi in caso di contestazioni sui rimborsi spese gonfiati e come proteggere i tuoi diritti.
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Introduzione
I rimborsi spese gonfiati (ossia richieste di rimborso eccedenti le spese effettivamente sostenute) rappresentano un tema delicato nel rapporto di lavoro. Dal punto di vista del dipendente, trovarsi accusato di aver falsificato o esagerato note spese può tradursi in accuse di illecito disciplinare, richieste di restituzione di somme e perfino profili di responsabilità penale e contabile. Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – fornisce un’analisi avanzata e completa della normativa italiana applicabile (lavoristica, civile, fiscale), con riferimenti alle sentenze più recenti e autorevoli, dedicate a professionisti (avvocati, consulenti) ma anche a privati e imprenditori. Il taglio è giuridico ma divulgativo: verranno chiariti i concetti tecnici con un linguaggio comprensibile, pur mantenendo il rigore normativo.
Affronteremo dapprima i profili giuslavoristici: obblighi di lealtà del dipendente, procedure disciplinari e limiti al potere sanzionatorio del datore di lavoro, incluse le condizioni per il licenziamento per giusta causa e le difese opponibili dal lavoratore. Successivamente analizzeremo i profili civili (in particolare la restituzione delle somme indebitamente percepite e relative modalità, termini di prescrizione e limiti) e gli aspetti fiscali e contributivi (deducibilità aziendale, imponibilità per il dipendente, sanzioni tributarie e possibili reati fiscali in caso di “note spese false”). Verranno poi esaminate le peculiarità del settore pubblico, dove oltre alla disciplina lavoristica intervengono la Corte dei Conti e normative speciali.
Per aiutare la comprensione, la guida include tabelle riepilogative (ad esempio sulle tipologie di rimborso e il loro trattamento fiscale, oppure sulle differenze tra regime privato e pubblico) e una sezione di Domande & Risposte frequenti che chiariscono i dubbi più comuni. In chiusura, si forniranno modelli di atti utili nella pratica: un fac-simile di lettera di risposta a una contestazione disciplinare per note spese e un esempio di memoria difensiva che il lavoratore (o il suo legale) può utilizzare in sede di impugnazione. L’obiettivo è offrire uno strumento completo per difendersi efficacemente da contestazioni di rimborsi spese gonfiati, tutelando i propri diritti e minimizzando le conseguenze.
Normativa di riferimento e principi generali
In questa sezione iniziale inquadriamo il fenomeno delle note spese gonfiate nel contesto normativo generale. Vedremo cosa sono i rimborsi spese nel rapporto di lavoro e come sono regolati, i doveri di correttezza e buona fede cui è tenuto il dipendente, nonché i fondamenti del potere disciplinare del datore di lavoro (art. 2106 c.c. e art. 7 Statuto dei Lavoratori). Comprendere questi principi generali è fondamentale prima di esaminare le fattispecie specifiche di contestazione.
Il rimborso spese nel rapporto di lavoro
Il rimborso spese è l’importo corrisposto dal datore al dipendente per indennizzarlo dei costi sostenuti nell’interesse dell’azienda, ad esempio per missioni fuori sede, viaggi di lavoro, pasti, alloggio, ecc. . Tali somme non costituiscono retribuzione ma restituiscono al lavoratore quanto anticipato o speso per svolgere le mansioni assegnate fuori dalla normale sede . Proprio perché non sono un compenso vero e proprio, i rimborsi spese hanno un trattamento fiscale e contributivo agevolato (come vedremo dettagliatamente più avanti).
La normativa fiscale (art. 51, comma 5 del TUIR – Testo Unico Imposte sui Redditi) individua tre sistemi di rimborso per le trasferte fuori dal comune in cui il lavoratore ha la sede di lavoro abituale :
- Rimborso analitico (a piè di lista): il datore rimborsa tutte le spese effettive documentate (es. biglietti, ricevute di hotel e ristoranti). In questo caso non concorrono a formare reddito del dipendente i rimborsi documentati di vitto, alloggio, viaggio e trasporto, né eventuali ulteriori spese non documentate entro un massimale giornaliero (15,49 € per trasferte in Italia, 25,82 € all’estero) . Tali importi rimborsati sono anche deducibili per l’azienda, purché adeguatamente giustificati da idonea documentazione .
- Rimborso forfettario: il datore corrisponde un’indennità fissa per la trasferta, senza richiedere pezze giustificative (ad eccezione dei biglietti per mezzi pubblici se previsti). L’indennità forfettaria è esente da imposte fino a 46,48 € al giorno per trasferte in Italia (77,47 € all’estero); eventuali importi eccedenti tali soglie diventano imponibili . Con questo metodo l’azienda in genere non deduce singole spese (stante l’assenza di documenti analitici), ma deduce l’indennità stessa come costo del personale nei limiti previsti.
- Rimborso misto: una combinazione dei due sistemi, tipicamente prevedendo il rimborso integrale di alcune spese (ad es. viaggio e alloggio) e un’indennità forfettaria ridotta per altre (pasti e piccole spese). In tal caso la normativa prevede che se sono rimborsate separatamente le spese di vitto o alloggio, l’indennità forfettaria giornaliera esente si riduce a €30,99 (Italia) o €51,65 (estero); se invece sono rimborsati sia vitto che alloggio, l’indennità forfettaria esente scende ai €15,49 (Italia) e €25,82 (estero) già citati . In pratica, il legislatore consente un mix ma calibrando le soglie esenti per evitare doppi benefici.
È importante notare che le trasferte nel comune della sede di lavoro non godono delle esenzioni sopra descritte: qualsiasi rimborso o indennità per missioni intra-comunali è considerato reddito imponibile per il dipendente (salvo il rimborso di spese di trasporto documentate con biglietto nominativo) . Questo spesso significa che le aziende limitano i rimborsi per trasferte brevi o all’interno della città, o li considerano fringe benefit.
Per ottenere il rimborso, il lavoratore deve normalmente presentare una nota spese dettagliata, indicando le trasferte effettuate, le date e allegando tutta la documentazione giustificativa richiesta (ricevute, scontrini, biglietti, fatture) . La nota spese è un documento fiscalmente rilevante per l’azienda: deve essere nominativa, contenere l’elenco dettagliato delle spese sostenute e avere in allegato le pezze giustificative idonee, oltre ad essere sottoscritta dal dipendente . Proprio perché su di essa l’azienda basa la deducibilità dei costi e la non imponibilità per il dipendente, la precisione nella compilazione è fondamentale .
Alla luce di ciò, “gonfiare” una nota spese significa presentare intenzionalmente (o talvolta anche colposamente, per negligenza) importi superiori al reale. Gli esempi più comuni di condotte contestate sono:
- Alterazione di scontrini/fatture: es. modificare gli importi sui giustificativi (come nel caso di taxi con ricevute contraffatte) , oppure presentare due volte lo stesso scontrino, ecc.
- Inserimento di spese non inerenti o non ammesse: es. chiedere rimborsi per spese personali spacciandole per spese aziendali; includere costi non autorizzati dalla policy interna (come pranzi con familiari presentati come pranzi di lavoro con clienti).
- Dichiarazioni false in nota spese: es. dichiarare trasferte mai avvenute, gonfiare i chilometri percorsi col proprio veicolo rispetto alla realtà, oppure indicare una permanenza più lunga in trasferta per percepire indennità maggiori.
- Mancata osservanza delle regole interne: ad es., presentare richiesta di rimborso senza scontrini allegati o con documenti non conformi, confidando magari che il sistema di controllo non li respinga. In alcuni casi questo può derivare da superficialità più che da volontà fraudolenta.
Come vedremo, non tutte queste condotte hanno la stessa gravità giuridica: si va dal semplice errore o irregolarità formale sino alla frode conclamata. Le conseguenze per il lavoratore variano di conseguenza, dal richiamo scritto sino al licenziamento in tronco o addirittura denunce penali nei casi estremi.
Doveri di lealtà e buona fede del dipendente
Il lavoratore subordinato è tenuto per legge a comportarsi con lealtà, correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro (obblighi ricavabili dagli artt. 1175 e 1375 c.c. in tema di correttezza nell’esecuzione del contratto, nonché dall’art. 2104 c.c. sul dovere di diligenza e dall’art. 2105 c.c. sul divieto di concorrenza e obbligo di fedeltà). In particolare, l’alterazione di note spese può costituire violazione del dovere di fedeltà, in quanto atto potenzialmente lesivo del vincolo fiduciario che sta alla base del rapporto di lavoro.
La Corte di Cassazione ha spesso ribadito che i comportamenti fraudolenti da parte del dipendente – specialmente se questi ricopre posizioni di fiducia o responsabilità – ledono in modo irrimediabile il rapporto fiduciario con il datore di lavoro . Ad esempio, presentare 54 ricevute taxi alterate per ottenere rimborsi maggiorati è stato ritenuto un comportamento talmente grave da integrare la giusta causa di licenziamento, essendo evidente l’intento fraudolento e la violazione degli obblighi di lealtà . Anche casi meno eclatanti – come far risultare la presenza di terzi ad un pranzo di lavoro per farsi rimborsare più del dovuto – costituiscono una falsità rilevante: è onere del datore di lavoro provare tali abusi, ma una volta accertati, la fiducia risulta compromessa .
In sostanza, il dipendente ha il dovere di utilizzare con correttezza gli strumenti di rimborso spese messi a disposizione dall’azienda, attenendosi alle policy interne e presentando richieste veritiere. Anche un errore colposo (ad esempio una distrazione nella compilazione della nota spese) può violare questi doveri, seppur mancando l’intenzionalità fraudolenta le conseguenze disciplinari dovranno essere proporzionate alla minore gravità (come vedremo, la giurisprudenza recente distingue tra irregolarità senza dolo e condotte dolose in termini di sanzioni applicabili).
Va ricordato che i datori di lavoro più strutturati spesso prevedono, nei regolamenti interni o nelle lettere di incarico per trasferta, specifiche clausole di responsabilità: il dipendente viene formalmente informato che presentare note spese false o gonfiate costituisce grave infrazione disciplinare e può obbligarlo alla restituzione delle somme indebitamente percepite, fatte salve ulteriori azioni legali . Tali clausole non fanno che ribadire obblighi già esistenti per legge (lealtà e buona fede contrattuale), ma servono come deterrente e per facilitare eventuali azioni di recupero crediti da parte dell’azienda.
Potere disciplinare del datore di lavoro e Statuto dei Lavoratori
In caso di sospetta nota spese gonfiata, il datore di lavoro può attivare il potere disciplinare nei confronti del dipendente. La cornice generale è delineata dall’art. 2106 c.c., secondo cui l’inosservanza dei doveri da parte del lavoratore può essere sanzionata secondo la gravità dell’infrazione e in conformità con i contratti collettivi. La procedura da seguire è quella prescritta dall’art. 7 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), che prevede garanzie fondamentali per il lavoratore incolpato, tra cui:
- Codice disciplinare visibile: le regole e sanzioni disciplinari applicabili devono essere portate a conoscenza dei dipendenti (di solito mediante affissione in luogo accessibile a tutti). Non si possono applicare sanzioni per comportamenti non chiaramente previsti come illeciti disciplinari, a meno che siano violazioni di obblighi fondamentali di legge o contratto conosciuti (come la fedeltà). Inserire la frode nei rimborsi spese tra le condotte sanzionabili nel codice aziendale rafforza la posizione del datore in caso di contestazione.
- Contestazione scritta dell’addebito: il datore di lavoro che intenda sanzionare un dipendente deve contestargli per iscritto, in modo dettagliato e tempestivo, i fatti addebitati. La contestazione deve indicare con sufficiente precisione cosa viene contestato (es: “in data X presentava una nota spese per missione a …, includendo importi non dovuti o ricevute alterate…”), in modo che il lavoratore possa individuare i fatti e difendersi. Contestazioni vaghe o tardive possono risultare invalide.
- Termine a difesa di almeno 5 giorni: dalla ricezione della contestazione, il dipendente ha diritto ad un tempo minimo (lo Statuto prevede 5 giorni lavorativi) per presentare le proprie giustificazioni. Può farlo per iscritto con una lettera di risposta (vedi il modello in calce) e/o chiedere di essere sentito a voce. Durante questo periodo il datore non può applicare la sanzione: ogni provvedimento disciplinare irrogato prima che siano decorsi i 5 giorni (e senza aver sentito eventuali giustificazioni) è nullo.
- Facoltà di assistenza: in sede di audizione orale o nella stesura delle giustificazioni, il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante sindacale o da un legale di fiducia. Ciò è consigliabile specialmente nei casi più gravi (come contestazioni per presunte frodi), al fine di articolare al meglio la difesa.
- Proporzionalità e tipo di sanzione: il datore, valutate le giustificazioni (se presentate) e i fatti, può decidere se archiviare il procedimento oppure applicare una sanzione disciplinare. Le sanzioni tipiche (crescenti in severità) sono: il rimprovero verbale, la contestazione scritta con ammonizione (c.d. richiamo scritto), la multa (che però è vietata se non prevista dal CCNL e comunque con limiti; in molti settori non è ammessa), la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione (di norma per un massimo di giorni stabilito dal CCNL) e infine il licenziamento disciplinare (con preavviso o in tronco per giusta causa a seconda della gravità). Una nota spese gonfiata potrà giustificare un semplice richiamo se si tratta di un’irregolarità lieve e non intenzionale, oppure portare al licenziamento nei casi di maggior gravità – come vedremo nel dettaglio nella prossima sezione.
- Tempestività (principio di immediatezza): la contestazione deve arrivare tempestivamente da quando il datore ha avuto conoscenza dei fatti. Non esiste un termine fisso in giorni per legge (nel settore privato), ma la giurisprudenza esige un’azione immediata o comunque senza ingiustificato ritardo. Contestare un’infrazione scoperta da molto tempo può rendere la sanzione illegittima, in quanto il dipendente poteva legittimamente confidare che il datore l’avesse tollerata (c.d. affidamento incolpevole sulla mancanza di rilievo disciplinare). Tuttavia, immediatezza non significa necessità di agire in poche ore: è ammesso un ragionevole lasso di tempo per completare accertamenti interni, specialmente per condotte come le frodi sui rimborsi che possono richiedere indagini (verifica dei giustificativi, riscontri contabili, audizioni di testimoni, ecc.) . Ad esempio, se l’azienda scopre anomalie nelle note spese relative all’ultimo anno e impiega un mese per analizzare tutte le ricevute e consultare gli esercizi commerciali coinvolti, la contestazione partita dopo tali verifiche è stata ritenuta comunque tempestiva . In quel caso la Cassazione ha confermato la legittimità di una contestazione disciplinare inviata nell’aprile 2015 per irregolarità commesse nel periodo precedente, poiché l’ultimo elemento di prova (una fattura d’albergo discordante) era pervenuto il 3 marzo 2015; dunque la lettera di addebito partita un mese dopo è risultata tempestiva e lecita . Viceversa, se il datore aspetta senza motivo mesi o anni pur essendo a conoscenza del fatto, tale ritardo potrebbe essere fatale alla validità della sanzione disciplinare.
In sintesi, il sistema garantisce al dipendente un procedimento disciplinare equo, in cui egli possa conoscere gli addebiti e difendersi prima dell’eventuale sanzione. Nel caso delle note spese, spesso la contestazione arriva come lettera formale (raccomandata A/R o PEC) in cui si descrivono le presunte irregolarità (importi non dovuti, discrepanze documenti, violazione policy aziendale ecc.) e si invita il lavoratore a fornire spiegazioni entro il termine di legge (o quello eventualmente più ampio previsto dal CCNL applicabile, se migliorativo). Più avanti vedremo come impostare la risposta a tale contestazione. Prima però analizziamo nel concreto quali possono essere le conseguenze – disciplinari, civili, fiscali – di una nota spese gonfiata e soprattutto come difendersi efficacemente caso per caso.
Conseguenze giuslavoristiche e civili di una nota spese gonfiata
In questa sezione ci focalizziamo sugli effetti dal punto di vista del rapporto di lavoro privato: quali sanzioni disciplinari può subire il dipendente, quando si può arrivare al licenziamento e con quali presupposti, nonché la questione della restituzione delle somme ottenute indebitamente e le eventuali cause civili connesse. Il tutto, naturalmente, tenendo conto delle ultime evoluzioni giurisprudenziali che – come vedremo – hanno introdotto criteri più sfumati (in particolare distinguendo tra irregolarità senza dolo e vera e propria frode).
Sanzioni disciplinari: dalla censura al licenziamento
Non tutte le contestazioni per rimborsi spese gonfiati conducono al licenziamento: molto dipende dalla gravità del fatto e dalla intenzionalità riscontrata. I possibili esiti sul piano disciplinare, in ordine crescente, sono:
- Archiviazione o ammonimento verbale: se il dipendente fornisce spiegazioni convincenti (es. dimostra che l’errore è dipeso da un misunderstanding delle regole, oppure che non vi è stata alcuna spesa indebita ma solo un’apparente anomalia), il datore può chiudere il procedimento senza sanzioni, magari con un semplice richiamo verbale informale a prestare più attenzione in futuro. Questo avverrà tipicamente per irregolarità lievi o dubbi non confermati.
- Richiamo scritto (censura): è la sanzione minima formale. Viene inflitta per violazioni non gravissime, come una nota spese erroneamente compilata senza volontà fraudolenta o per un importo trascurabile. Nella lettera di richiamo il datore contesta il comportamento e ammonisce il dipendente a non ripeterlo, mettendo agli atti la censura. Ad esempio, un caso di rimborso chilometrico calcolato male o qualche scontrino mancante potrebbe condurre a un richiamo formale. Spesso le aziende ricorrono al richiamo scritto quando ritengono che il fatto sia dovuto a negligenza e non a malafede, dando così al lavoratore una seconda chance.
- Multa disciplinare: consiste in una detrazione di denaro dalla retribuzione, generalmente limitata (in molti CCNL max 3 ore di paga). Non tutti i contratti collettivi la prevedono e in alcuni settori è esclusa. Può essere applicata, ad esempio, se l’azienda subisce un danno economico minimo a causa dell’errore del dipendente (ad es. un piccolo rimborso indebito già pagato e non più recuperabile). Tuttavia, va ricordato che lo Statuto dei Lavoratori vieta espressamente le sanzioni che comportino un prelievo economico salvo quanto eventualmente stabilito dai CCNL (art. 7, comma 3, L. 300/70). Quindi la “multa” è di fatto poco comune nella prassi odierna, e certamente non può essere arbitrariamente quantificata dal datore oltre i limiti contrattuali.
- Sospensione dal servizio e dalla retribuzione: sanzione afflittiva più grave, di solito prevista per mancanze significative ma non tali da rompere definitivamente la fiducia. Potrebbe essere comminata in casi di note spese irregolari reiterate o di importo non trascurabile, ma dove si ritiene non provato un intento doloso pieno. Ad esempio, se un dipendente ha presentato più volte ricevute non inerenti (magari perché interpretava erroneamente la policy) causando all’azienda la necessità di stornare somme già pagate, il datore potrebbe decidere per qualche giorno di sospensione, segnalando la serietà della violazione senza arrivare al recesso. La durata massima della sospensione è di solito indicata dai CCNL (spesso da 3 giorni fino a 10 giorni nei casi più gravi).
- Licenziamento disciplinare: è la sanzione estrema, applicabile solo quando l’infrazione è talmente grave da minare definitivamente la fiducia e da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c., giusta causa, che comporta l’immediata risoluzione senza preavviso; oppure, in subordine, un giustificato motivo soggettivo ex art. 3 L. 604/1966, che comunque porta al recesso ma con preavviso o indennità sostitutiva). Nel caso di rimborsi spese gonfiati, il licenziamento per giusta causa è stato spesso giudicato legittimo dalla Cassazione laddove era dimostrata una condotta fraudolenta vera e propria: ad esempio, alterazione di decine di ricevute per intascare rimborsi non dovuti , oppure falsificazione di giustificativi e comportamento reiterato. In tali ipotesi il vincolo fiduciario viene considerato irrimediabilmente compromesso, giustificando l’espulsione immediata. Nel seguito approfondiremo i criteri di legittimità del licenziamento in queste fattispecie, alla luce delle sentenze più recenti che distinguono i casi di dolo conclamato da quelli di semplice irregolarità.
Da notare che i contratti collettivi spesso contengono un elenco esemplificativo delle infrazioni disciplinari e relative sanzioni. Ad esempio, un CCNL potrebbe prevedere espressamente che la “frode nelle note spese o l’alterazione dolosa di documenti giustificativi” costituisca infrazione punibile con licenziamento per giusta causa. Tali clausole hanno valore indicativo: aiutano a qualificare la gravità del fatto, ma non vincolano in assoluto il giudice. La Cassazione ha chiarito che le fattispecie previste nei CCNL come giusta causa sono esemplificative e non tassative . Il giudice deve sempre valutare in concreto la proporzionalità tra addebito e sanzione, potendo anche discostarsi da quanto previsto dal contratto collettivo se le circostanze specifiche lo giustificano . Dunque, anche se il CCNL indica il licenziamento per note spese false, il tribunale potrebbe ritenere eccessivo il recesso in una situazione particolare (ad es. piccolo importo, nessun dolo, restituzione immediata) e optare per una sanzione conservativa in sede di causa.
Licenziamento per giusta causa: presupposti e giurisprudenza recente
Quando un rimborso spese gonfiato giustifica il licenziamento? La risposta è stata affinata dalla giurisprudenza nel corso degli anni. In passato si tendeva ad adottare un approccio molto rigoroso: ogni condotta del dipendente idonea a integrare una frode ai danni dell’azienda veniva considerata giusta causa di licenziamento, data la violazione del rapporto fiduciario. Sentenze classiche della Cassazione (come la n. 10566/2019) confermavano il licenziamento in tronco per un quadro direttivo che aveva alterato ben 54 ricevute taxi, ribadendo che comportamenti fraudolenti così sistematici ledono irrimediabilmente la fiducia e costituiscono giusta causa . Analogamente, la sentenza n. 10069/2016 aveva affermato che presentare note spese volutamente gonfiate rompe il legame fiduciario e legittima il recesso .
Tuttavia, negli ultimi anni la Cassazione (sulla scia di orientamenti garantisti e di una valorizzazione del principio di proporzionalità) ha introdotto alcuni distinguo importanti. In particolare, con una serie di ordinanze tra il 2024 e il 2025 ha chiarito che non ogni anomalia nella nota spese equivale a una frode deliberata e che, in assenza di dolo comprovato, il licenziamento può risultare una sanzione sproporzionata . Si tratta di pronunce che costituiscono un vero filone giurisprudenziale: ad esempio, l’ordinanza Cass. n. 23053/2024 (23 agosto 2024) ha giudicato eccessivo il licenziamento di un dipendente per un rimborso spese errato di soli €365,20 in assenza di prova di dolo, ritenendo applicabile semmai la sola tutela indennitaria (licenziamento ingiustificato) . La Cassazione ha richiamato il principio di proporzionalità e la necessità di valutare concretamente la condotta: la massima sanzione espulsiva è riservata ai casi di notevole inadempimento o di condotta che renda impossibile la prosecuzione anche provvisoria del rapporto .
Il punto chiave emerso è la verifica dell’elemento soggettivo (dolo). Secondo queste pronunce, per configurare una giusta causa di licenziamento non basta riscontrare un’irregolarità nella nota spese: occorre provare la volontarietà e la malafede del lavoratore, cioè l’intento di ottenere un vantaggio indebito consapevolmente . La Cass. ord. 23189/2025 (depositata il 12 agosto 2025) – caso molto recente – è esemplare: riguardava una lavoratrice che aveva richiesto un rimborso di €927,86 per una trasferta (inizialmente liquidato interamente dall’azienda), ma che successivamente, tramite controlli automatici interni, era risultato eccedente di €265,96 non dovuti, somma poi stornata dall’azienda . La dipendente era stata licenziata per giusta causa, con le corti di merito che avevano paragonato la condotta a un “furto” perché “doveva sapere” che alcune spese non erano rimborsabili da policy . Ebbene, la Cassazione 2025 ha ribaltato l’interpretazione, affermando che in presenza di una procedura aziendale automatizzata di gestione note spese, la mancanza di alcuni scontrini o l’inclusione di voci non inerenti va ricondotta a semplice irregolarità procedurale e non a frode . Ciò perché il sistema stesso prevedeva controlli e la restituzione dell’importo indebito, quindi mancava l’inganno doloso: la lavoratrice aveva presentato ciò che aveva, confidando eventualmente nella verifica successiva, e ha poi restituito quanto non spettante. In mancanza di manipolazioni documentali, di occultamenti o di recidiva, e con immediata restituzione, la Suprema Corte ha escluso il carattere fraudolento del comportamento . In altre parole, non ogni errore equivale a mala fede: serve un chiaro intento di truffa perché scatti la giusta causa .
Questa sentenza 23189/2025 si inserisce in un orientamento che difende la presunzione di buona fede del lavoratore, soprattutto quando l’azienda dispone di strumenti di controllo ex post efficaci . I giudici sottolineano come il dolo non possa essere inferito solo dalla violazione di una procedura interna: vanno cercati indizi concreti di intenzionalità fraudolenta (es. documenti falsificati, condotta occulta, vantaggio economico significativo ottenuto, recidiva) . E l’onere della prova al riguardo grava interamente sul datore ex art. 2697 c.c. . Se tali indizi mancano, il licenziamento è sproporzionato e può essere dichiarato illegittimo .
Va precisato: ciò non significa che condotte di lieve entità siano lecite – rimangono infrazioni disciplinari – ma la sanzione appropriata in assenza di dolo sarà conservativa (richiamo o al più sospensione) e non espulsiva . Ad esempio, la Cassazione ha affermato che senza dolo e in mancanza di specifiche previsioni collettive che impongano comunque il licenziamento, un fatto come un rimborso gonfiato per errore integra un licenziamento ingiustificato, con diritto del lavoratore alla tutela risarcitoria (indennità) e non alla reintegrazione, qualora il CCNL non prevedesse una sanzione conservativa specifica per quella infrazione . In pratica, in molti casi di “gonfiamento” senza malizia il licenziamento viene ricondotto al giustificato motivo soggettivo non sufficientemente grave, dunque illegittimo ma con sola tutela indennitaria (tutela obbligatoria forte ex art. 18 co. 5 St. Lav., se applicabile).
Di contro, restano pienamente validi i precedenti secondo cui, quando il dolo c’è ed è provato, il licenziamento per giusta causa è sicuramente legittimo. La stessa ordinanza 23189/2025 lo ribadisce in principio: se la condotta fosse stata caratterizzata da un “inganno consapevole” (ad esempio, presentazione di ricevute falsificate, manomissioni intenzionali, condotta ostinata), si avrebbe “notevole inadempimento” meritevole della massima sanzione .
Riassumendo i criteri emersi dalla giurisprudenza recente (Cass. 2019–2025):
- Importo e frequenza: un singolo episodio di modesta entità economica, specie se il lavoratore ha un lungo servizio senza macchie, tende a essere valutato meno severamente rispetto a importi elevati o ripetuti nel tempo. Naturalmente, anche una piccola frode può distruggere la fiducia (si pensi al furto di pochi euro in cassa: simbolicamente gravissimo). Ma in tema di note spese, errori su cifre minori e una tantum sono più facilmente qualificati come non dolosi. Al contrario, alterazioni sistematiche di voci di rimborso (es. tutte le note spese mensili gonfiate di 100€) depongono per la volontarietà e giusta causa.
- Ruolo del dipendente: la Cassazione riconosce che per chi occupa posizioni di vertice o di alta fiducia, anche un singolo episodio di frode può essere più grave (ex multis Cass. 10566/2019 sul quadro direttivo) . Ciò perché da un dirigente ci si attende integrità assoluta. Questo non attenua gli obblighi per gli altri lavoratori, ma può incidere sulla valutazione della lesione fiduciaria.
- Comportamento successivo: se il dipendente, una volta contestato, collabora, ammette l’errore e magari restituisce subito le somme indebitamente percepite, ciò può essere interpretato come segno di buona fede residua o pentimento. In alcuni dei casi sopra citati, la Corte ha valorizzato il fatto che la somma contestata fosse stata spontaneamente restituita dal lavoratore , a riprova dell’assenza di intenzione fraudolenta e della volontà di riparare. Viceversa, atteggiamenti reticenti o menzogneri durante la fase disciplinare possono aggravare la posizione.
- Esistenza di controlli aziendali: paradossalmente, se l’azienda ha procedure di controllo efficaci (come il portale informatico che verifica ex post le spese, nel caso 2025) e il dipendente lo sa, diventa meno credibile l’ipotesi del dolo grave. Cioè: se so che l’ufficio amministrazione comunque controllerà e non pagherà spese non conformi, è meno probabile che io tenti scientemente di truffare (salvo magari “tentare la sorte” confidando in una svista). Questo argomento è stato utilizzato per ridimensionare la colpa in alcuni casi. Diverso se invece il sistema di controllo è inesistente o facilmente eludibile: qui la responsabilità individuale torna in primo piano.
In definitiva, il lavoratore accusato di nota spese gonfiata deve incentrare la propria difesa (sia in sede disciplinare sia giudiziale) su questi punti: negare il dolo se non c’è stato (es. “è stato un errore, non avevo intenzione di ingannare”), portare elementi a favore della propria buona fede (es. “ho presentato tutti i documenti in mio possesso, confidando nei controlli interni” , “appena mi è stato segnalato ho restituito l’importo contestato”), evidenziare la propria condotta leale prima e dopo (nessuna falsificazione materiale, nessuna recidiva, collaborazione nelle verifiche). Inoltre, può giovarsi dei precedenti giurisprudenziali citati: ormai esiste un orientamento che esige la prova rigorosa dell’intento fraudolento . Citare nelle proprie memorie difensive una frase chiave come: “L’irregolarità nella richiesta – anche se riguarda ricevute mancanti o spese non inerenti – non equivale automaticamente a frode o furto… manca l’elemento soggettivo dell’inganno doloso” tratto da Cass. 23189/2025 può aiutare a persuadere il giudice che il licenziamento è stato eccessivo in assenza di dolo.
Va infine ricordato che, se il lavoratore ritiene illegittimo il licenziamento, deve impugnarlo entro 60 giorni dalla comunicazione (termine per l’impugnazione stragiudiziale scritto, ad esempio via raccomandata o PEC) e poi, in mancanza di conciliazione, depositare il ricorso al Tribunale del Lavoro entro 180 giorni dall’impugnazione (termini previsti dalla L. 604/1966 art. 6, come modificata). In giudizio, a seconda della dimensione dell’azienda e del regime applicabile (art. 18 St. Lav. per aziende sopra i 15 dipendenti, o tutele crescenti D. Lgs. 23/2015 per assunti post-2015, etc.), il dipendente potrà ottenere la reintegrazione (nei casi di insussistenza del fatto materiale o fatto ritenuto “minimo” nel vecchio regime) oppure un indennizzo economico. Nei casi di cui sopra (errori senza dolo), spesso il fatto materiale comunque sussiste (l’errore c’è stato) ma viene valutato non così grave: questo in genere porta a una declaratoria di licenziamento illegittimo con solo indennizzo risarcitorio (non reintegra) se si applica l’art. 18 co.5 (ovvero fatto sussistente ma punibile con sanzione minore secondo il giudice) . Nel regime “Jobs Act” invece la reintegra è ancora più limitata e casi del genere quasi sempre ricadono nell’indennizzo. L’entità di tali indennità varia (nel vecchio regime, da 12 a 24 mensilità se tutela obbligatoria; nel nuovo regime, da 6 a 36 mensilità in base all’anzianità e parametri vari, salvo diversa quantificazione se c’è discriminazione, ecc.). Non entriamo qui nei dettagli, ma è importante sapere che anche difendersi ex post in giudizio è possibile e la giurisprudenza recente offre appigli favorevoli in assenza di frode conclamata.
Restituzione delle somme: azioni di recupero del datore di lavoro e difese del dipendente
Oltre all’aspetto disciplinare, una contestazione di rimborsi gonfiati ha inevitabilmente un risvolto economico: il datore di lavoro vorrà riprendersi le somme indebitamente versate al dipendente. Ad esempio, se un dipendente ha ottenuto un rimborso di 1.000 € presentando note spese non dovute per 300 €, una volta scoperto il fatto l’azienda chiederà indietro quei 300 €. Questo può avvenire in via stragiudiziale (richiesta bonaria) o, in caso di rifiuto, per via giudiziale (azione civile di recupero crediti).
La base giuridica della richiesta è la ripetizione di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c.: chi ha ricevuto un pagamento non dovuto è tenuto a restituirlo. Nel rapporto di lavoro, la giurisprudenza specifica che il datore di lavoro – ferma restando la regolarizzazione dei rapporti col Fisco – ha diritto a ripetere dal dipendente solo quanto quest’ultimo ha effettivamente ricevuto in più . Ciò significa, ad esempio, che se una somma indebita era stata erogata in busta paga al lordo di ritenute fiscali, il datore può chiedere indietro solo il netto. Un principio affermato dalla Cassazione (ord. n. 1963/2023) è infatti che il datore non può pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente . Nel nostro contesto, i rimborsi spese di solito vengono corrisposti senza ritenute, perché considerati non imponibili: dunque l’importo indebito coinciderà con quanto ricevuto e dovrà essere restituito interamente. Se però per assurdo il datore, ritenendo il rimborso imponibile, avesse già operato ritenute, dovrebbe allora restituire al lavoratore le imposte trattenute o comunque limitare la richiesta al netto.
Un altro aspetto rilevante è la prescrizione: il diritto del datore di lavoro di richiedere indietro somme indebitamente corrisposte si prescrive generalmente in 10 anni (termine ordinario ex art. 2946 c.c. per l’azione di indebito) . Questo è stato affermato chiaramente anche per il settore pubblico (Cons. Stato sez. VII n. 7712/2024): la P.A. ha 10 anni di tempo per agire in ripetizione, escludendosi in radice l’idea di un’indebito retributivo “imprescrittibile” . Nel lavoro privato vale lo stesso principio: non essendoci un termine speciale, il datore può teoricamente chiedere la restituzione entro dieci anni dal giorno in cui ha effettuato il pagamento non dovuto. Attenzione: tale termine decorre da ciascun pagamento indebito, non dalla scoperta dell’errore (salvo ipotesi di dolo occultato, dove può operare la prescrizione dall’accertamento). Se ad esempio nel 2015 mi hanno pagato rimborsi non dovuti, l’azienda fino al 2025 potrebbe esigerli.
È bene sapere che, in casi particolari, la giurisprudenza (specie sul pubblico impiego) ha talvolta considerato limiti al recupero per importi indebitamente percepiti in buona fede dal lavoratore e per lungo tempo, invocando principi di affidamento: se l’errore è solo del datore e il lavoratore poteva ritenere legittime quelle somme, recuperarle dopo tanti anni potrebbe essere contrario a buona fede. Ad esempio, la Corte Costituzionale (sent. n. 94/2018) in materia di pensioni ha escluso la ripetizione di somme indebitamente erogate dall’INPS se il pensionato era in buona fede e l’errore totalmente imputabile all’ente. Tuttavia, nel rapporto di lavoro tali principi sono difficili da applicare quando c’è un comportamento imputabile al dipendente (nel nostro caso, gonfiare note spese non è mai del tutto incolpevole, a meno di errori del tutto scusabili). Quindi è sicuro che se viene accertato un indebito causato dal dipendente, questi dovrà restituirlo.
Come può il datore procedere al recupero concretamente? Spesso la prima mossa è trattenere l’importo dalle competenze finali o correnti del lavoratore. Ad esempio, se il rapporto prosegue, l’azienda potrebbe tentare di addebitare la somma su una busta paga futura (stornandola dal netto da pagare); se il dipendente viene licenziato o si dimette, il datore potrebbe decurtare dal TFR o dall’ultima retribuzione quanto dovuto. Ebbene, occorre distinguere:
- In generale, qualsiasi compensazione di crediti tra datore e lavoratore ha limiti stringenti. L’art. 1252 c.c. consente la compensazione nei rapporti di lavoro solo per la parte di credito del dipendente che eccede i minimi indispensabili per il sostentamento, il che si raccorda con le norme che vietano di intaccare eccessivamente la retribuzione. In pratica, il datore non può unilateralmente decurtare somme dalla retribuzione corrente se non entro limiti e per cause ammesse (es. cessioni del quinto, pignoramenti fino a 1/5, trattenute contributive/fiscali, ecc.). Quindi, se un datore volesse trattenere €300 dallo stipendio di un mese, potrebbe farlo solo con il consenso del lavoratore o rispettando i limiti del pignoramento (di regola max 1/5 dello stipendio netto per volta).
- Molti CCNL vietano espressamente trattenute non concordate, salvo casi di errore materiale palese in busta paga. Ad esempio, se per un errore contabile l’azienda versa €100 in più in un mese, spesso il mese successivo corregge trattenendo €100 dicendo “recupero errata corresponsione”. Questo è tollerato per errori immediatamente rilevati e non contestati. Ma se il dipendente contesta, il datore dovrebbe astenersi e agire legalmente.
- Se il rapporto cessa, il TFR e le ultime paghe potrebbero essere oggetto di compensazione. Il TFR è parzialmente impignorabile (solo per crediti qualificati, ma qui è un credito derivante dal rapporto stesso, quindi potrebbe rientrare). Il datore a volte, nel predisporre il saldo finale, detrae l’indebito e corrisponde la differenza. Anche ciò è rischioso se il lavoratore non è d’accordo, perché quest’ultimo potrebbe agire per il pagamento integrale del TFR affermando che la trattenuta è illegittima. D’altra parte, se c’è un titolo concordato (es. un accordo scritto in cui il lavoratore riconosce il debito e autorizza a prelevarlo dal TFR), allora la compensazione diventa lecita.
In molti casi quindi il datore preferisce ottenere un riconoscimento di debito dal lavoratore. Ad esempio, dopo la contestazione potrebbe proporre al dipendente: “firma qui che ammetti di doverci €300 e autorizzi a trattenerli dalla prossima busta paga o dal TFR”. Oppure concordano un piano di rientro (tipo: “mi restituisci in 3 rate da €100”). Se c’è intesa, si può formalizzare in un accordo transattivo o quietanza. Tale opzione può convenire al dipendente per evitare strascichi legali più onerosi, purché sia effettivamente convinto dell’errore e non abbia valide difese da opporre.
Cosa può fare il lavoratore se non è d’accordo nel restituire? Deve valutare se l’importo è davvero indebito. Le possibili linee difensive in sede civilistica sono:
- Negare l’indebito: sostenere che le somme percepite erano in realtà dovute secondo contratto o usi aziendali. Nel caso di note spese, questa difesa è percorribile se, ad esempio, esisteva un accordo col superiore per rimborsare anche certe spese non documentate, oppure se la policy interna era ambigua. È però una strada in salita: se c’è un regolamento scritto violato, difficile sostenere che fosse dovuto. A volte i lavoratori adducono che “così fan tutti” in azienda (prassi di accettare note spese lasche) – ma anche se vero, non rende lecito l’indebito, può semmai avere rilievo sul piano disciplinare (disparità di trattamento). Unica ipotesi veramente esimente sarebbe provare che il datore era a conoscenza e aveva tollerato quelle prassi di gonfiamento, creando un affidamento: ciò però equivarrebbe a dire che il datore è complice e dunque rinuncia a ripetere. È difficile che un datore ammetta di aver avallato frodi, quindi poco spendibile.
- Eccepire la prescrizione: se il datore reclama somme molto datate (oltre 10 anni, come detto, improbabile vinca; ma anche oltre 5 anni potrebbe esserci discussione se considerare la prescrizione breve dei crediti di lavoro periodici – tuttavia gli importi in questione non sono “retribuzioni” periodiche, bensì esborsi occasionali, quindi prevale il termine decennale). Nel caso tipico la scoperta è ravvicinata, dunque la prescrizione di solito non è maturata.
- Contestare il calcolo: verificare cioè che l’importo richiesto sia corretto. Il dipendente potrebbe dire: “mi contestate €300 ma in realtà gli scontrini non ammessi erano per €200, ecco le prove”. Ciò può ridurre il dovuto.
- Far valere la buona fede soggettiva per evitare interessi o sanzioni: se l’azienda pretende anche interessi, può darsi che il giudice li escluda riconoscendo che il lavoratore era in buona fede fino alla contestazione (l’indebito produce interessi dal giorno della domanda giudiziale o della messa in mora, tipicamente).
- Compensazione con crediti del lavoratore: ipotizziamo che il lavoratore abbia a sua volta crediti verso il datore (ferie non pagate, straordinari arretrati). Potrebbe opporre in compensazione tali crediti riducendo l’importo da restituire. Anche qui però dipende dalla liquidità ed esigibilità di tali crediti.
In ultima analisi, se la contestazione disciplinare è fondata (cioè effettivamente c’è stato un rimborso non dovuto), dal punto di vista civilistico il datore ha ampio diritto alla restituzione. Le uniche attenuanti sono la possibilità di rateizzare il pagamento (spesso meglio accordarsi) e l’attenzione a non restituire più del dovuto (come detto, mai il lordo se c’erano ritenute – e il datore dovrà poi sistemare col Fisco) . Su quest’ultimo punto, una pronuncia ha stabilito che qualora un dipendente restituisca importi percepiti e su cui erano state pagate tasse, il datore deve attivarsi per recuperare dal Fisco le ritenute e restituirle al lavoratore, oppure fornire documenti perché il lavoratore stesso possa ottenere il rimborso fiscale. Ma nel caso dei rimborsi spese, di solito il problema non si pone perché non tassati all’origine.
Nota: la restituzione di somme indebitamente percepite non costituisce una sanzione disciplinare. Ciò significa che, a differenza della multa, qui non c’è il limite del divieto di cui all’art. 7 Statuto Lav. La ripetizione dell’indebito è un effetto civilistico automatico: se hai soldi non tuoi, devi ridarli, punto. Non serve che fosse previsto dal codice disciplinare. Anche se il comportamento non fosse sanzionato disciplinarmente (poniamo che il datore decida di graziarti sul lavoro), comunque i soldi dovuti vanno restituiti. Su questo la giurisprudenza è chiara: la buona fede del percettore non lo salva dall’obbligo di restituire l’indebito (in ambito pubblico l’han detto spesso, perché alcuni dipendenti pubblici contestavano di aver percepito in buona fede assegni poi risultati indebiti, ma la risposta dei giudici è: dispiace, ma li devi restituire lo stesso).
Profili penali eventuali e altre responsabilità
Sebbene il nostro focus sia la tutela del lavoratore (“punto di vista del debitore”), è doveroso accennare ad eventuali conseguenze penali in casi gravi, perché anche di queste occorre difendersi.
Nel settore privato, se l’azienda ritiene di aver subito una vera e propria truffa da parte del dipendente, potrebbe sporgere denuncia querela per truffa aggravata (art. 640 c.p., aggravata dall’abuso di prestazione d’opera se si configura) oppure per falsità in scrittura privata (art. 485 c.p.) qualora vi siano giustificativi palesemente falsificati. In genere, la via penale è percorsa solo per casi di rilievo significativo: ad esempio, un dipendente che abbia orchestrato un sistema di false note spese coinvolgendo terzi compiacenti o producendo documenti contraffatti per migliaia di euro. Si tratta però di ipotesi non frequentissime; più comune è il profilo fiscale penale a carico dei responsabili aziendali, di cui diremo nel prossimo capitolo (dichiarazione fraudolenta mediante fatture false).
Tuttavia, il lavoratore dovrebbe sapere che presentare documenti falsi (ricevute alterate, scontrini non veritieri) potrebbe fargli rischiare una incriminazione per uso di documenti falsi e concorso in eventuali reati fiscali del datore. Ad esempio, se l’azienda ha dedotto quei costi falsi e l’evasione supera certe soglie, l’amministratore può essere accusato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di documenti per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. 74/2000). Ebbene, la norma punisce chiunque, al fine di evadere le imposte, si avvale di fatture o documenti falsi indicando elementi passivi fittizi in dichiarazione . Se il dipendente (specie se con ruolo amministrativo) è colui che ha predisposto la nota spese falsa, e questa viene utilizzata nella contabilità aziendale, potrebbe trovarsi coinvolto come contributore del reato tributario. Lo Studio Rotunno evidenzia che note spese gonfiate presentate da amministratori o dipendenti possono integrare la nozione di documenti per operazioni inesistenti ai fini penali tributari . Le sanzioni sono pesanti: dopo il DL 124/2019, se l’imponibile fittizio supera 100.000 € in un periodo d’imposta, la reclusione va da 4 a 8 anni; se inferiore, da 18 mesi a 6 anni . Parliamo di cifre molto alte (difficile che un singolo dipendente gonfi note spese per oltre 100k salvo in collusione con il datore); ma il semplice fatto di creare documenti falsi può innescare controlli fiscali.
Nel settore pubblico, poi, le implicazioni penali possono comprendere il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, co. 2 n.1 c.p.) se un dipendente pubblico ottiene rimborsi non dovuti con artifici o raggiri. Inoltre, se il dipendente pubblico forma o altera atti amministrativi relativi alle missioni, potrebbe incorrere in falsità ideologica commessa dal pubblico impiegato in atto pubblico (art. 479 c.p.) o in peculato (art. 314 c.p.) se si appropria di denaro pubblico di cui ha disponibilità. Ad esempio, un funzionario che autonomamente si liquida rimborsi inesistenti commette peculato. Sono fattispecie da tenere presente: difendersi penalmente richiede poi altri strumenti (non oggetto primario di questa guida), ma va sottolineato che la migliore difesa è prevenire: evitare di incorrere in simili condotte o, se è il caso, regolarizzare subito appena contestato (la restituzione spontanea può in certi casi attenuare il dolo e portare a non doversi spingere in sedi penali).
Aspetti fiscali e contributivi dei rimborsi spese e relative contestazioni
Passiamo ora a esaminare le implicazioni fiscali e previdenziali dei rimborsi spese gonfiati. Questo interessa sia il datore (deducibilità dei costi, rischi di sanzioni tributarie) sia il lavoratore (eventuale tassazione di quanto percepito indebitamente, contributi, etc.). Inoltre, occorre segnalare le novità normative recentissime (Legge di Bilancio 2025) in tema di tracciabilità delle spese di trasferta, che condizionano il regime fiscale dei rimborsi.
Trattamento fiscale ordinario dei rimborsi spese ai dipendenti
Come accennato, i rimborsi spese genuini (cioè inerenti al lavoro e documentati secondo le regole) godono di un regime di franchigia fiscale: non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente nei limiti e alle condizioni stabilite dall’art. 51 TUIR . In breve riepilogo:
- Trasferte fuori dal comune:
- Rimborso analitico: esenti per il dipendente i rimborsi documentati di vitto, alloggio, viaggio e trasporto; esenti anche eventuali forfettini giornalieri (15,49 € italia, 25,82 € estero) per altre spese minori non documentate . Integralmente deducibili per il datore tali costi (anche l’IVA su vitto/alloggio è detraibile se la fattura è intestata all’azienda).
- Rimborso forfettario: esente fino 46,48 € (Italia) o 77,47 € (estero) al giorno . La parte eccedente diventa imponibile come reddito. Il datore deduce quanto eroga nei limiti di esenzione (l’eccedenza deducibile comunque come costo del personale, ma genera imponibile per il dipendente).
- Rimborso misto: esente la combinazione di rimborsi documentati (vitto/alloggio o altri) e indennità parziale come da soglie ridotte (30,99 € o 15,49 € etc. a seconda dei casi, v. sopra).
- N.B. Per mezzi propri in trasferta, il rimborso chilometrico calcolato secondo tabelle ACI è considerato rimborso spese viaggio, quindi esente se la trasferta è fuori comune (entro comune invece imponibile).
- Trasferte entro il comune: qualunque indennità o rimborso è imponibile al dipendente (salvo trasporto pubblico come bus/metro: se presenti i biglietti nominativi, quei costi possono non essere reddito) . Quindi, se un dipendente fa una commissione in città e prende un taxi, tecnicamente il rimborso taxi sarebbe reddito (non escluso dal comma 5 art. 51 che parla solo di fuori comune; l’unica eccezione: se il taxi è equiparato a trasporto di linea? La norma parla di trasporto pubblico non di linea per fuori comune, ma per dentro comune no, quindi taxi dentro comune è reddito). Questo regime penalizzante fa sì che di solito i datori limitino i rimborsi per spostamenti in città o li forfettizzino come fringe benefit.
- Spese di rappresentanza (non proprio rimborsi di trasferte, ma pranzi/offerte a clienti, etc.): se anticipate dal dipendente e rimborsate, seguono le stesse regole (se fuori comune come vitto, se entro comune reddito). Dal 2025 però, per la deducibilità di queste spese per il datore, si applica la nuova regola della tracciabilità di cui diremo fra poco .
Per quanto riguarda le contribuzioni previdenziali: ciò che non è reddito imponibile ai fini IRPEF non lo è neanche ai fini contributivi (art. 51 TUIR è richiamato anche per definire la base imponibile contributiva). Quindi i rimborsi spese esenti non subiscono trattenute INPS, mentre le eventuali quote imponibili (e.g. indennità forfettarie oltre soglia, rimborsi intra-comunali) sono soggette a contributi come fossero salario.
Novità 2025: obbligo di tracciabilità dei pagamenti delle spese rimborsate
Un’importante novità normativa è entrata in vigore dal 1º gennaio 2025: la Legge di Bilancio 2025 ha modificato l’art. 51 TUIR introducendo l’obbligo di pagamenti tracciabili per poter mantenere la non imponibilità dei rimborsi spese di vitto, alloggio, viaggio e trasporto . In particolare, il nuovo testo della norma stabilisce che i rimborsi di spese per vitto, alloggio, viaggio e trasporti non concorrono a formare reddito solo se i relativi pagamenti sono stati effettuati con strumenti tracciabili (bonifico, carte di credito/debito, assegni, ecc.) e non in contanti .
Tradotto: se un dipendente in trasferta paga il ristorante in contanti e poi chiede il rimborso, dal 2025 quell’importo – seppur documentato da ricevuta – concorrerà a formare reddito imponibile (e il datore non potrà dedurlo come costo) . Invece, se il pagamento è avvenuto con carta o altro mezzo tracciabile, il rimborso resta esente come prima. Eccezione: le spese di trasporto pubblico (treni, aerei, bus, metro) sono escluse dall’obbligo di tracciabilità purché ci sia il titolo di viaggio nominativo; ad esempio, il biglietto del treno intestato al dipendente va bene anche se acquistato in contanti, perché il biglietto stesso prova la spesa e non era ragionevole imporre ai tornelli di non accettare contanti .
Questa novità mira a contrastare abusi: spesso si usavano fatture false o scontrini facili pagando in contanti (difficili da tracciare). Ora datore e dipendente sono incentivati a usare carte aziendali o rimborsare solo spese tracciate, pena la tassazione. Attenzione: se un rimborso diviene imponibile perché non tracciato, ciò implica che l’azienda deve anche assoggettarlo a contributi e trattenute come fosse un premio o extra. Quindi il dipendente potrebbe ritrovarsi con meno netto (se glielo sistemano in busta paga con ritenute).
Per difendersi da eventuali contestazioni fiscali, il dipendente deve quindi conservare non solo lo scontrino ma anche, dal 2025, la ricevuta del pagamento elettronico (es. lo scontrino POS o un estratto conto) da esibire all’azienda . Se l’azienda rimborsa senza avere prova del pagamento tracciato e poi subisce un controllo fiscale, potrebbe rivalersi sul dipendente per l’irregolarità. È quindi interesse del lavoratore conformarsi a questa regola, per non generare ex post controversie sul fatto che “quel rimborso è divenuto tassabile perché hai pagato in contanti”.
Dal punto di vista del datore di lavoro, la nuova norma significa che qualora rimborsi spese non tracciate e le consideri esenti/deducibili, rischia poi sanzioni e recuperi d’imposta. Quindi molte aziende hanno già aggiornato le loro policy: “non saranno rimborsate spese pagate cash, salvo impossibilità oggettive” oppure “in mancanza di ricevuta Pos, il rimborso ti sarà erogato ma come fringe benefit tassato”. Il lavoratore farebbe bene a informarsi su eventuali circolari interne su questo argomento, per evitare brutte sorprese.
Deduzione per il datore di lavoro e conseguenze fiscali dei rimborsi non dovuti
Un rimborso spese indebito, dal lato aziendale, rappresenta un costo indebitamente dedotto. Se l’azienda lo scopre internamente e se lo fa restituire al dipendente, normalmente provvederà anche a sistemare la contabilità: stornare quel costo (riducendo il monte deduzioni) e contabilizzare l’importo restituito come credito verso il dipendente ecc. Questo perché, in caso di verifica fiscale, il Fisco disconoscerà la deducibilità di costi per operazioni inesistenti o non inerenti.
Le aziende che volutamente usano rimborsi gonfiati per abbattere utili commettono un illecito tributario grave. Anche se la frode è iniziata dal dipendente, se il datore ne ha beneficiato (deducendo maggiori costi), ne risponde in sede fiscale. Il rischio tributario per l’azienda consiste in: recupero delle imposte non versate (perché ha dedotto troppo), sanzioni amministrative per dichiarazione infedele, e come visto persino imputazioni penali se superate certe soglie. Ad esempio, indicare costi fittizi usando note spese false integra la dichiarazione fraudolenta art. 2 D.Lgs.74/2000: basta che i documenti esibiti (le note spese e relative pezze) si riferiscano a operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte . Non occorre necessariamente che siano fatture: anche altri documenti possono far scattare il reato . Quindi se l’azienda deduce €10.000 di rimborsi fittizi, sta registrando elementi passivi fittizi. Se la scoperta avviene, dovrà non solo pagare le imposte evase ma rischia appunto il penale. Il rappresentante legale potrà difendersi dicendo di non sapere della falsità (se era ingannato dal dipendente, come talvolta accade) , ma in ogni caso la situazione è spiacevole.
Dal lato del dipendente, le conseguenze fiscali individuali sono più indirette. Normalmente, un rimborso esente non veniva dichiarato nel 730 (perché non appare nel CU). Se poi risulta che era indebito e trattavasi di spesa non inerente, quel rimborso avrebbe dovuto essere tassato come reddito. In pratica, il Fisco potrebbe ricalcolare il reddito del lavoratore aggiungendolo. Tuttavia, di solito l’Agenzia delle Entrate agisce sul datore di lavoro, che era sostituto d’imposta: contesta a lui il mancato assoggettamento a ritenuta. L’azienda potrebbe allora richiedere al dipendente di farsi carico delle imposte dovute su quella somma. Ma giuridicamente, il sostituto d’imposta è responsabile verso l’Erario per le ritenute non operate, quindi l’Agenzia chiede i soldi al datore; quest’ultimo poi semmai ha un regresso verso il dipendente (per la quota di Irpef che questi avrebbe dovuto pagare). Anche qui, molto dipende se il dipendente era consapevole: se lui ha ingannato l’azienda, è equo che paghi pure le tasse e sanzioni causate. Il datore potrebbe quindi addebitargli non solo il netto indebito ma anche i contributi o le imposte connesse che ha dovuto versare in più a seguito dell’accertamento. Ciò come danno subito per il comportamento del dipendente. Si entrerebbe in un ambito di risarcimento danni contrattuale: oltre alla repetitio indebiti, il datore può chiedere i danni ulteriori (sanzioni fiscali, spese legali, ecc.), ma dovrà provarne la colpa del dipendente. Se quest’ultimo agito con dolo, la colpa è evidente; se fu errore, il risarcimento di danni ulteriori è più discutibile, potrebbe alleggerire.
In ogni caso, in una contestazione su note spese gonfiate che comporti questioni fiscali, la difesa del lavoratore consisterà nel cooperare per sanare la posizione: probabilmente conviene restituire l’importo indebito prima che il Fisco lo accerti, in modo che il datore possa correggere il bilancio o presentare una dichiarazione integrativa. Il datore può infatti utilizzare strumenti di ravvedimento operoso per ridurre le sanzioni se si accorge autonomamente dell’errore fiscale e lo corregge prima di controlli. In quell’ottica, il lavoratore, se vuole mantenere un buon rapporto o limitare il contenzioso, potrebbe accettare di coprire parte delle spese di ravvedimento (ad esempio, pagare almeno il suo contributo fiscale). Ma legalmente, senza un accordo, non è obbligato a pagare le sanzioni fiscali (che sono in capo al soggetto obbligato all’imposta, cioè il datore in primis). Obbligato resta però a restituire il lordo percepito (netto + ritenute, se del caso – con le cautele spiegate prima sul recupero delle ritenute) .
Il caso particolare dei contributi previdenziali
Merita un cenno la questione contributiva: se un rimborso spese in realtà celava retribuzione (ipotesi: datore e dipendente consapevolmente concordano di gonfiare note spese per dare più netto al lavoratore eludendo tasse e contributi), allora l’INPS potrebbe reclamare i contributi evasi. Ciò però esula dal “come difendersi da contestazioni del datore”, perché qui parliamo di un accordo collusivo (non di un dipendente che deve difendersi dall’azienda, ma eventualmente di entrambi chiamati dall’INPS/Agenzia Entrate a rispondere). Se invece il dipendente da solo gonfiava e l’azienda era ignara, quest’ultima una volta scoperto segnalerà all’INPS per regolarizzare. I contributi obbligatori non versati vanno comunque poi versati dal datore, con rivalsa sul dipendente per la quota a suo carico (circa 1/3 del totale). Quindi il dipendente potrebbe trovarsi a dover rimborsare anche i contributi pensionistici su quell’importo (oltre al netto). Ad esempio, su 300 € indebitamente percepiti trattati inizialmente esenti, se diventano retribuzione, l’azienda verserà magari 100 € di contributi totali, di cui 30 € a carico dipendente: quei 30 € potrebbero essergli scalati dalla prossima busta o richiesti. Anche qui, la legge consente al datore di rivalersi per i contributi a carico lavoratore non trattenuti a suo tempo (art. 23 D.Lgs. 252/1991), ma entro l’anno dall’avvenuto pagamento dei contributi. Quindi l’INPS se arriva molti anni dopo può obbligare il datore a pagare, ma questi non può più rivalersi sul dipendente oltre 1 anno dopo. Sono tecnicismi, ma per il lavoratore è utile sapere che se l’azienda lo costringe a versare contributi arretrati a suo carico, c’è un limite temporale.
Sanzioni tributarie e reati fiscali connessi
Abbiamo in parte già affrontato: l’uso di note spese false può implicare:
- Sanzioni amministrative tributarie: l’Agenzia Entrate in sede di verifica disconosce il costo e applica sanzione per dichiarazione infedele (di norma pari al 90% dell’imposta dovuta), oltre interessi. Se la maggiore imposta evasa supera €50.000 e l’incidenza degli elementi passivi fittizi supera il 10% di quanto dichiarato, scatta anche la comunicazione alla procura per reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) – ma quello richiede la prova del dolo di evasione. Il dipendente in sé non è destinatario di sanzione tributaria (che colpisce il contribuente dichiarante, cioè l’azienda), però come detto il datore potrebbe rifarsi su di lui per il danno.
- Reato di dichiarazione fraudolenta mediante documenti falsi (art. 2 D.Lgs. 74/2000): punisce l’amministratore o chi ha firmato la dichiarazione. Il dipendente può essere correo se ha concorso con dolo (ad esempio predisponendo lui i documenti falsi). La difesa penale consisterà nel dimostrare l’estraneità del lavoratore all’intento evasivo: se era ignaro che quell’operazione contabile configurava reato fiscale o se non aveva ruolo nelle decisioni fiscali, difficilmente verrà imputato (salvo fosse anch’egli beneficiario in qualche modo dell’evasione). Il testo della norma considera fraudolenta l’operazione di chi indica elementi passivi fittizi avvalendosi di documenti falsi, e cita espressamente i casi in cui i documenti indicano corrispettivi superiori al reale – proprio la definizione di “nota spese gonfiata”.
- Altri reati: se la gonfiatura avviene con uso di fatture false (magari il dipendente si procura fatture di alberghi mai usati), entra in gioco anche l’art. 8 D.Lgs. 74/2000 (emissione di fatture false) per chi le emette, ma non riguarda il lavoratore di solito, bensì il terzo fornitore colluso.
In conclusione, dal punto di vista del lavoratore, conviene evitare di mettere in difficoltà fiscale l’azienda. Se succede, mostrarsi collaborativo nella regolarizzazione può mitigare l’atteggiamento aziendale e scongiurare denunce. In generale, le contestazioni su note spese gonfiate rimangono principalmente un affare interno (datore-dipendente) e civilistico, ma non bisogna trascurare gli effetti collaterali fiscali e previdenziali che ne conseguono.
Peculiarità nelle aziende e negli enti pubblici
Finora abbiamo trattato il caso standard del rapporto di lavoro privato. Nel settore pubblico (Pubblica Amministrazione e società pubbliche in controllo pubblico), le contestazioni relative a indebiti rimborsi spese assumono connotazioni ulteriori:
- interviene la giurisdizione della Corte dei Conti per il danno erariale arrecato alle casse pubbliche;
- la disciplina del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato prevede alcune differenze procedurali (in parte allineate al privato, specie dopo il D.Lgs. 75/2017, ma con organi disciplinari dedicati per le infrazioni più gravi);
- possono sussistere normative speciali che vietano certi rimborsi e rendono quindi automaticamente illegittima la loro corresponsione, a prescindere da dolo del dipendente.
Divieto di rimborsi chilometrici e altri limiti normativi nel pubblico
Un aspetto peculiare: dal 2010, in ottica di contenimento spesa, il legislatore ha eliminato alcuni benefici. Ad esempio, l’art. 6 comma 12 del D.L. 78/2010 (convertito in L. 122/2010) ha disposto che per il personale pubblico non trovano più applicazione le norme (di legge o contratto) che prevedevano il rimborso delle spese sostenute dal dipendente autorizzato a servirsi del mezzo proprio per ragioni di servizio . In pratica, niente più rimborso chilometrico per trasferte con auto personale, salvo eccezioni di necessità. Questo significa che se dopo il 2010 un ente continua a pagare indennità chilometriche al dipendente, quelle somme sono contra legem e costituiscono danno erariale. Non rileva neppure la buona fede: la Corte dei Conti le considera semplicemente illegittime e ne chiede la restituzione. Ad esempio, la Corte dei Conti – Sez. Centr. Appello – nella sentenza n. 94/2020 ha confermato la condanna per danno erariale relativa proprio al rimborso di indennità chilometrica non più ammesso dalla legge . In quel caso, l’80% del danno è stato posto a carico del dipendente percettore e il 20% a carico di chi ha autorizzato/pagato (dirigente), secondo una valutazione congiunta delle responsabilità .
Questo esempio mostra come nel pubblico non si discuta neanche di “dolo del dipendente” in situazioni simili: se la norma vieta quel rimborso, è irrilevante che il dipendente magari ritenesse in buona fede di aver diritto (es. il dirigente gliel’ha autorizzato). La Corte dei Conti ragiona in termini di responsabilità amministrativa: c’è stato un esborso pubblico non dovuto -> danno all’erario -> i responsabili (chi l’ha preso e chi l’ha consentito) ne rispondono con rifusione + eventuale sanzione accessoria (di solito si limita al risarcimento, talvolta con una “multa” contabile pari ad una frazione del danno a titolo di punizione).
Il lavoratore pubblico coinvolto potrà difendersi davanti alla Corte dei Conti sostenendo di aver agito senza dolo o di essersi affidato alle determinazioni dirigenziali (questo può servire a modulare la percentuale di addebito), ma difficilmente eviterà la condanna se ha comunque beneficiato di denaro non spettante. La giurisprudenza contabile è rigida sulla ripetizione di indebiti retributivi nel pubblico impiego: anche la buona fede del dipendente non esclude l’obbligo di restituzione, salvo rarissimi casi di interventi legislativi di sanatoria.
Oltre ai rimborsi chilometrici, ci sono altre ipotesi tipiche nel pubblico:
- Missioni non autorizzate: se un dipendente si reca in missione senza la formale autorizzazione ma poi chiede rimborso spese, l’ente non potrebbe liquidarlo. Se lo fa per errore, quelle somme sono indebite e recuperabili. Il dipendente non può pretendere rimborsi per missioni non disposte regolarmente. In caso di contestazione, poco da difendersi: l’atto amministrativo di autorizzazione è condizione per legittimare la spesa.
- Spese di viaggio anomale: es. un sindaco che fa due viaggi di rientro in un giorno per rimborsarsi il doppio (abusando quindi del diritto al rimborso chilometrico, quando era in vigore, o oggi di altri rimborsi). La Corte dei Conti ha considerato danno erariale l’abuso del diritto in materia di rimborsi viaggi del sindaco (es. il sindaco che torna a casa e poi rivà al luogo della missione per prendere due volte l’indennità chilometrica) .
Insomma, nel pubblico ci sono norme stringenti: il dipendente farebbe bene a conoscere bene il Testo Unico sulle spese di missione applicabile (per Stato: D.P.R. 395/1988; per altri comparti, disposizioni analoghe) e le circolari ministeriali. In più, oggi le amministrazioni spesso prediligono fornire mezzi propri (auto di servizio, carte di credito aziendali per spese) riducendo l’uso di anticipi del dipendente.
Procedimento disciplinare e sanzioni nel pubblico impiego
Dal punto di vista disciplinare, i pubblici dipendenti contrattualizzati (cioè non i dirigenti apicali ma la generalità, soggetti a CCNL) seguono un iter molto simile al privato, specialmente dopo le riforme Brunetta/Madia. L’art. 55 del D.Lgs. 165/2001 rinvia infatti in parte alle norme dei CCNL e in parte stabilisce principi generali. Di fatto:
- Anche nel pubblico occorre una contestazione scritta immediata e specifica (art. 55-bis del D.Lgs. 165/2001).
- Il dipendente ha diritto a 10 giorni per difendersi (termine un po’ più lungo di quello dello Statuto in alcuni casi) e può farsi assistere da un sindacalista.
- Le sanzioni vanno dal rimprovero verbale al licenziamento disciplinare. I CCNL pubblici elencano le infrazioni: ad esempio, la falsificazione di documenti di servizio o l’indebita percezione di erogazioni rientrano tra gli illeciti gravi da licenziamento (spesso equiparati a peculato, truffa, ecc., anche se disciplinarmente).
- Per le infrazioni più gravi (quelle che possono portare al licenziamento), la legge prevede che il procedimento sia curato dall’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UPD) dell’ente, distinto dai dirigenti che segnalano il fatto. L’UPD conduce l’istruttoria e infligge la sanzione.
- I termini nel pubblico sono in parte perentori: ad es., il procedimento va concluso di norma entro 120 giorni dalla contestazione (salvo sospensioni in caso di procedimento penale parallelo). Se l’amministrazione sfora, la sanzione non può più essere applicata (decadenza).
Ciò detto, un dipendente pubblico accusato di aver gonfiato note spese rischia sia il licenziamento disciplinare (soprattutto se la P.A. equipara la condotta a falsificazione documentale o truffa) sia la segnalazione in Corte dei Conti per il danno. Un caso esemplificativo: un dipendente di un ente locale che presenti note spese di missioni inesistenti sta violando i doveri d’ufficio (onestà, correttezza) in modo grave; l’ente può sospenderlo in via cautelare e poi licenziarlo (il D.Lgs 165/2001 consente la sospensione cautelare in caso di infrazioni di particolare gravità, soprattutto se c’è parallelo penale). Contemporaneamente, la Procura regionale della Corte dei Conti, se informata, promuoverà il giudizio contabile per recuperare i soldi.
Dal punto di vista difensivo, il lavoratore pubblico può agire su due fronti:
- In sede di difesa disciplinare interna: analogamente al privato, negare il dolo se non c’è, dimostrare di aver agito magari per errore o secondo indicazioni ricevute. Tuttavia, se c’è falsificazione, la P.A. tenderà ad andare fino in fondo. Si può puntare, in casi borderline, a una sanzione minore (ad es. la sospensione) se si convince l’UPD che non vi è stata un’intenzionalità così grave o che il danno è modesto e riparato. Qui conta molto anche la restituzione immediata: se il dipendente rimborsa subito l’indebito (magari ancora prima che glielo chiedano, appena si accorge di aver sbagliato) e chiede scusa, qualche amministrazione potrebbe valutare la cosa come tenue (forse un sogno, ma dipende).
- In Corte dei Conti: qui serve spesso un avvocato abilitato alla giurisdizione contabile. Le difese tipiche sono: contestare la quantificazione del danno (es. se il dipendente aveva comunque diritto a qualcosina, tipo un’indennità minima, allora non tutto è danno), invocare la compartecipazione del dirigente (per ridurre la propria quota di addebito), e chiedere la clemenza se c’è buona fede. Talvolta, se l’importo è piccolo, la Procura potrebbe archiviare per antieconomicità, ma non è garantito.
Una situazione particolare: i rimborsi spese legali ai dipendenti pubblici assolti in giudizio. Non c’entra con le missioni, ma merita menzione perché ha generato contenziosi. In teoria, se un dipendente pubblico viene trascinato in tribunale per fatti d’ufficio e viene prosciolto, l’ente può rimborsargli le spese legali (se previsto). Ma se l’ente lo fa in assenza dei presupposti di legge (ad esempio il dipendente in realtà aveva conflitto di interessi), la Corte dei Conti considera quei rimborsi illegittimi e li fa restituire (danno erariale). Questo per dire: nel pubblico ogni spesa che esce deve avere base normativa; se tu dipendente ottieni un pagamento extra non in linea con le norme, sei esposto.
Sintesi delle differenze pubblico-privato in questi casi
Riassumendo le differenze principali:
- Recupero somme: Privato = azione civile ex art. 2033 c.c. (10 anni), spesso definibile stragiudizialmente; Pubblico = atto di ingiunzione amministrativa (a volte l’amministrazione emette un provvedimento di recupero, che il dipendente può impugnare al giudice del lavoro o TAR a seconda dei casi) e parallelamente giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti (entro 5 anni dalla scoperta del fatto, la Procura deve citare). Il dipendente pubblico potrebbe dover restituire al netto delle ritenute anche qui (la Corte dei Conti prescrive che il recupero avvenga sul netto percepito , concetto analogo al privato).
- Sanzioni disciplinari: sostanzialmente analoghe, ma nel pubblico l’esito può essere influenzato da considerazioni di interesse pubblico (ad es., dirigenti pubblici sono obbligati per legge a licenziare in alcuni casi di falsa attestazione). E c’è il “doppio binario”: potresti essere licenziato disciplinarmente e in più condannato dalla Corte dei Conti a pagare.
- Sanzioni penali: per il pubblico spesso le condotte configgono con reati di ** falso in atto pubblico o truffa aggravata ai danni dello Stato**, che hanno pene severe e conseguenze (ad es., interdizione dai pubblici uffici). Nel privato è più probabile la querela per truffa semplice (che può estinguersi a querela rimessa se c’è accordo, etc.). Insomma, il dipendente pubblico rischia di più penalmente se manipola documenti ufficiali di missione.
- Tutela del dipendente: nel pubblico c’è la tutela della legge 241/90 (procedimento amministrativo) per cui ogni provvedimento (ad esempio la richiesta di restituzione) dev’essere motivato e può essere impugnato; c’è l’assistenza legale garantita se vieni chiamato in giudizio contabile? (Alcuni enti rimborsano spese legali al dipendente convenuto in Corte dei Conti, ma solo se viene assolto). Nel privato, tutto si gioca sul diritto del lavoro e sul codice civile.
In definitiva, per un dipendente di ente pubblico accusato di note spese indebite, la strategia migliore è attivarsi subito: restituire quanto prima le somme (evitando l’aggravarsi del danno), eventualmente dimettersi prima di essere licenziato (ciò non evita la Corte dei Conti, ma può facilitare un accordo con l’ente sul disciplinare), e prepararsi a dimostrare che il fatto non ha avuto conseguenze (specie se piccola entità, a volte le Procure lasciano correre con un rimprovero erariale). L’ideale è non arrivare mai a questo punto mantenendo sempre la massima trasparenza nelle note spese.
Giurisprudenza recente e casi pratici
Dopo aver analizzato principi e norme, è utile riepilogare alcune sentenze recenti che hanno fatto scuola sul tema, per comprendere come vengono valutati concretamente i casi:
- Cass. civ., sez. lav., ord. n. 10566/2019: Caso del dirigente che aveva alterato importi di 54 ricevute taxi per farsi rimborsare di più. Esito: licenziamento per giusta causa legittimo. La Cassazione evidenzia che comportamenti fraudolenti così plurimi ledono irreparabilmente la fiducia, specialmente in un quadro con ruolo di responsabilità, e assorbono ogni altra valutazione . Si sottolinea che una volta provato l’addebito (alterazione ricevute), non serve altro: la frode in sé integra la giusta causa.
- Cass. civ., sez. lav., sent. n. 7703/2020: Lavoratore licenziato un anno dopo i fatti, emersi da controlli su note spese di 13 mesi (fattura hotel rivelò incongruenze: il dipendente aveva dichiarato certe spese e presenze poi smentite). Esito: licenziamento legittimo, contestazione ritenuta tempestiva in rapporto ai tempi di indagine. La Cassazione ha respinto la difesa del lavoratore sulla tardività della contestazione: ha ritenuto che, avendo il dipendente già avuto precedenti richiami per simili condotte, non poteva nutrire affidamento che quella successiva non sarebbe stata sanzionata . Inoltre la scoperta tardiva fu dovuta alla fattura dell’hotel arrivata dopo tempo, quindi datore diligente. Principio: il principio di immediatezza è relativo e modulato dalla complessità degli accertamenti e dalla condotta pregressa del lavoratore (se recidivo, l’attesa di un’indagine più ampia è giustificata) .
- Cass. civ., sez. lav., ord. n. 8820/2017: Dipendenti licenziati per aver presentato note spese di pranzi gonfiate (aggiungendo commensali inesistenti). Esito: la Cassazione annulla il licenziamento per mancanza di prova sufficiente. Ha stabilito che è onere del datore provare la falsità della partecipazione di terzi ai pranzi rimborsati . In assenza di tale prova (es. nessuna testimonianza né riscontro certo che fossero soli), il licenziamento era privo di giusta causa. Chiave: onere probatorio stringente a carico del datore per fatti contestati di natura fraudolenta.
- Cass. civ., sez. lav., ord. n. 23053/2024: Lavoratore licenziato per un rimborso trasferta indebito di circa €365 (senza prove di dolo, forse errore). Esito: licenziamento sproporzionato, convertito in tutela indennitaria. La Corte afferma il principio che in assenza di dolo la sanzione espulsiva è eccessiva . Non c’era nemmeno una previsione contrattuale tassativa di licenziamento; anche se ci fosse stata, il giudice può disattenderla se non proporzionata .
- Cass. civ., sez. lav., ord. n. 9081/2025: Principio confermato – il giudice può discostarsi dalle previsioni del CCNL sulle sanzioni disciplinari tipiche se la condotta concreta è meno grave . Non specifica un caso di note spese ma è in linea con le altre su proporzionalità.
- Cass. civ., sez. lav., ord. n. 23189/2025: (già discussa) – Lavoratrice licenziata per rimborso richiesto poi stornato in parte dai controlli automatici. Esito: licenziamento illegittimo, niente dolo, solo irregolarità. La Cassazione rimarca che procedure automatiche di controllo escludono la fraudolenza intrinseca e che il comportamento va valutato con cautela; se l’importo non dovuto viene restituito, manca l’elemento di profitto illecito deliberato . Ribadito che senza inganno doloso non c’è giusta causa .
- Corte dei Conti, Sez. I Appello, sent. n. 94/2020: Rimborso chilometrico illegittimo in ente pubblico. Esito: condanna per danno erariale, 80% al dipendente, 20% al dirigente . Principio: la legge 78/2010 ha abrogato quei rimborsi, quindi ogni pagamento in tal senso è indebito oggettivo. Ignoranza della norma non scusa; va restituito tutto.
- Consiglio di Stato, sez. VII, sent. n. 7712/2024: (ambito pubblico) Principio di ripetibilità decennale dell’indebito retributivo, buona fede irrilevante. Esito: l’ente può sempre recuperare entro 10 anni, la buona fede del dipendente nel percepire non impedisce il recupero .
- Cass. civ., sez. lav., ord. n. 1963/2023: (già citata come Lavorosi 2023) – Restituzione somme nette, non lorde . Importante quando si regola il dare/avere dopo un indebito.
Queste pronunce aiutano a orientare la difesa: ad esempio, se il tuo caso assomiglia a quello del 2025 (nessun dolo evidente, importo modesto, restituito), potrai citare quell’ordinanza per sostenere che il licenziamento è eccessivo. Viceversa, se purtroppo la tua situazione è simile a quella del 2019 (alterazioni multiple e volontarie), sappi che la legge è severa e c’è poco spazio: meglio puntare a un accordo transattivo se possibile, perché in giudizio sarebbe dura vincere.
Domande frequenti (FAQ)
Di seguito una serie di domande comuni sul tema dei rimborsi spese gonfiati e relative contestazioni, con risposte sintetiche e basate su quanto esposto finora:
- Cosa si intende esattamente per “rimborso spese gonfiato”?
Si intende una richiesta di rimborso al datore di lavoro in cui il dipendente ha dichiarato spese superiori a quelle effettivamente sostenute o comunque non dovute secondo le regole aziendali. Esempi: aver modificato l’importo su uno scontrino, aver inserito in nota spese un pasto mai avvenuto, aver dichiarato più chilometri di quelli percorsi, oppure aver chiesto rimborsi per spese personali presentandole come aziendali. In sostanza, è un indebito arricchimento del dipendente a danno dell’azienda, ottenuto tramite false dichiarazioni o documenti alterati. - Il datore di lavoro può licenziare in tronco per una nota spese gonfiata?
Sì, può farlo ma solo se la condotta è di gravità tale da integrare una giusta causa (che giustifica il licenziamento senza preavviso). In pratica, occorre che vi sia stata una condotta dolosa del lavoratore, tale da far venir meno la fiducia in modo irreparabile. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento in casi di frode conclamata – come l’alterazione volontaria di decine di ricevute . Viceversa, se la nota spese irregolare deriva da un errore o da leggerezza senza volontà di inganno, il licenziamento potrebbe essere giudicato sproporzionato e quindi illegittimo. In generale: frodi provate = licenziamento likely; irregolarità minori senza dolo = sanzioni conservative (richiamo/sospensione) preferibili. Naturalmente ogni caso è a sé e l’azienda inizialmente può decidere di licenziare; starà poi al giudice confermare o meno la validità in base ai criteri suddetti. - Come deve procedere correttamente l’azienda per contestare delle note spese anomale?
Deve seguire il procedimento disciplinare di cui all’art. 7 Statuto Lavoratori: - inviare una lettera di contestazione scritta, dettagliando i fatti (quali rimborsi, di quali date, in che cosa consisterebbe il gonfiamento: es. “ricevuta taxi alterata da 30€ a 50€” oppure “richiesto rimborso di due pranzi quando risulta uno solo” ecc.);
- garantire al dipendente almeno 5 giorni di tempo per fornire le sue giustificazioni, scritte e/o orali;
- eventualmente ascoltare il dipendente in un incontro se egli ne fa richiesta;
- solo dopo valutare le difese ed emettere la sanzione (avvertimento, sospensione o licenziamento a seconda della gravità). Il tutto deve avvenire con una certa tempestività rispetto a quando l’azienda ha scoperto le note spese irregolari. Non c’è un termine fisso di legge (nel privato), ma non deve esserci un ritardo ingiustificato che lasci presumere tolleranza. In pratica, appena accertate le anomalie, di norma entro qualche settimana al massimo parte la contestazione.
- Cosa posso fare se ricevo una lettera di contestazione disciplinare per questo motivo?
Non ignorarla! È fondamentale reagire entro il termine dato (5 giorni, salvo diversa indicazione contrattuale). Le opzioni: - Preparare una risposta scritta (una “lettera di giustificazioni”) in cui si affrontano punto per punto gli addebiti. Nella risposta conviene mantenere un tono professionale, evitare bugie facilmente smontabili e fornire spiegazioni e documenti a proprio favore. Se vi è stato un malinteso o errore, bisogna dirlo chiaramente e magari scusarsi se opportuno. Se si contesta l’accusa (perché si ritiene di aver agito regolarmente), fornire le prove: es. “allego l’email del responsabile che mi autorizzava a includere quella spesa”. Nella sezione finale di questa guida c’è un fac-simile di risposta.
- Richiedere di essere ascoltato: si può chiedere un colloquio (presente eventualmente un sindacalista o collega di fiducia) per spiegare a voce. Ciò non toglie il diritto di inviare anche memoria scritta riepilogativa.
- Farsi assistere: è consigliabile, soprattutto se la situazione è complessa o rischiosa (possibile licenziamento), consultare subito un avvocato giuslavorista o un sindacato. Possono aiutare a redigere la risposta in modo efficace. Anche perché ciò che si scrive verrà poi “usato” se si finisce in tribunale: meglio calibrare bene ammissioni o negazioni. In sintesi, bisogna fornire la propria versione dei fatti e magari prospettare soluzioni (es. “sono disposto a restituire l’importo di cui sopra che ritengo di aver calcolato male”). Non rispondere affatto significa lasciare campo libero alla sanzione, e in eventuale causa il giudice potrebbe valutare negativamente la mancata difesa nel procedimento disciplinare.
- Posso offrire di restituire subito i soldi per evitare il licenziamento?
Può essere una mossa utile, ma non garantisce automaticamente di evitare la sanzione. Restituire spontaneamente le somme indebitamente percepite è comunque consigliabile per dimostrare pentimento e buona fede . In alcuni casi, aziende hanno considerato positivamente il fatto che il dipendente abbia reso il maltolto immediatamente: potrebbe essere un argomento per optare per una sanzione conservativa (ad es. ultima chance con sospensione) invece del licenziamento. Tuttavia, se il datore considera la violazione molto grave lo stesso, potrebbe licenziare comunque anche dopo la restituzione. Dal punto di vista giudiziale però, restituire subito è un elemento a tuo favore: la Cassazione lo ha valorizzato come indice di mancanza di dolo . Quindi, in ottica difensiva, restituire è quasi sempre una buona idea. Assicurati solo di documentare la restituzione (bonifico con causale, o farti rilasciare quietanza) e magari accompagnarla da una lettera in cui chiarisci che lo fai per correttezza senza riconoscere necessariamente la frode (se tu ritieni di non aver agito dolosamente, puoi dire ad es. che rimborsi in via prudenziale quanto contestato). - Il datore di lavoro può trattenermi l’importo contestato direttamente dallo stipendio?
Non dovrebbe farlo senza il tuo consenso o una decisione giudiziale. La retribuzione è tutelata e trattenute unilaterali non sono ammesse oltre a quelle di legge. Quindi, se ad esempio ti contestano 300 € e tu non autorizzi la trattenuta, il datore non può semplicemente non pagarti 300 € di stipendio. Se lo facesse, potresti rivolgerti al giudice del lavoro per ottenere quei 300 € (fermo restando che poi c’è il debito dall’altra parte, ma non si compensano arbitrariamente). Molte aziende, però, chiedono al dipendente di firmare una liberatoria in cui autorizza il conguaglio. Attenzione: se la firmi, poi non potrai lamentarti. Se sei incerto sulla fondatezza dell’addebito, puoi non firmare e lasciare che il datore eventualmente agisca per vie legali per riprendersi i soldi. Ricorda inoltre che, se resti in servizio, l’azienda può recuperare al massimo entro i limiti di pignorabilità (cioè un quinto dello stipendio per mese). Diverso è se c’è già un titolo (es. un decreto ingiuntivo non opposto, o una sentenza) a favore del datore: in tal caso può agire come un creditore qualsiasi anche pignorando stipendi/TFR secondo le regole. - C’è un termine di prescrizione oltre il quale il datore non può più chiedermi indietro gli importi?
Sì, è la prescrizione ordinaria di 10 anni per l’azione di ripetizione dell’indebito . In pratica, dal momento in cui ti hanno pagato un rimborso non dovuto, il datore ha 10 anni per esigere la restituzione. In verità, se tu sei ancora dipendente, alcuni sostengono che i crediti/débiti da rapporto di lavoro (retributivi) si prescrivano in 5 anni; ma qui non parliamo di tuo credito di retribuzione, bensì di un debito tuo verso il datore, quindi vale il termine ordinario decennale. Nel pubblico, come detto, il Consiglio di Stato ha confermato il termine decennale per la P.A. .
Tieni presente però: se lasci l’azienda e questa non ti chiede nulla per molto tempo, dopo 10 anni sei al sicuro. Se invece stai ancora lavorando lì, è difficile che attendano così tanto – di solito agiscono subito sottraendo dal TFR finale se non prima. Inoltre, la prescrizione potrebbe essere interrotta da atti scritti di messa in mora. Quindi, realisticamente, non contare sulla prescrizione breve: 10 anni sono molti, è raro che un indebito rimanga “dormiente” così a lungo. - Nel settore pubblico si applicano regole diverse?
Sì, come discusso: - Il dipendente pubblico oltre al procedimento disciplinare interno (simile al privato) può essere chiamato a rispondere avanti alla Corte dei Conti per il danno erariale. Significa che, anche se magari non vieni licenziato (ipotesi remota in caso di frode, ma poniamo), la Corte dei Conti può comunque obbligarti a restituire le somme percepite indebitamente con sentenza propria. Il tutto con addizionale possibilità di sanzioni come l’interdizione dai pubblici uffici se condannato per certi reati o decadenza dal servizio se la condotta è grave.
- Normativamente, esistono divieti specifici: ad esempio non ti spetta più il rimborso chilometrico col mezzo proprio (salvo rarissime deroghe), quindi se l’ente te lo paga per errore, dovrai restituirlo e verrai anche segnalato . Quindi a volte la contestazione nel pubblico è “ti abbiamo dato un’indennità non più prevista per legge, ora ridaccela”, indipendentemente da tua colpa.
- Proceduralmente, la contestazione disciplinare nel pubblico deve concludersi di norma entro 120 giorni e segue i D.Lgs. 165/2001 e 75/2017. Inoltre, se c’è un procedimento penale per gli stessi fatti (es. truffa ai danni PA), l’azione disciplinare può essere sospesa in attesa dell’esito penale, ma in alcuni casi di particolare gravità deve procedere comunque entro 30 giorni (le riforme hanno introdotto l’obbligo di iniziare subito per falsi in presenza, ecc. Non è esattamente il caso dei rimborsi, salvo falsificazione di documenti che potrebbe rientrare). In sintesi, nel pubblico il consiglio è: massima attenzione e trasparenza sulle note spese; se capita un’indebita percezione, mettersi subito a disposizione per sanare. L’ente ha meno margine “politico” di perdonare, perché i funzionari rischiano a loro volta richiami se non recuperano il dovuto. Quindi aspettati linea dura e preparati a restituire. Sul piano disciplinare potrai difenderti come nel privato cercando di dimostrare l’assenza di malafede per evitare il licenziamento, ma sul piano contabile dovrai quasi certamente rifondere il danno.
- Quali prove può usare l’azienda contro di me per dimostrare che ho gonfiato i rimborsi?
Dipende dal caso. In genere: - Documentale: scontrini originali alterati (se l’azienda ne reperisce copia dall’esercente, ad esempio, e confronta col tuo), ricevute doppie, discrepanze tra la tua nota spese e i documenti allegati. Se hai presentato documenti cartacei, loro potrebbero averli notati falsificati. Se hai fatto autodichiarazioni (tipo numero di km), useranno mappe e logiche (es. distanza reale vs dichiarata).
- Evidenze informatiche: log del sistema di note spese (es. nel caso del portale Concur citato nella Cass. 2025, i controlli automatici hanno segnalato spese non ammissibili ). Oppure email in cui tu chiedi “posso farmi rimborsare anche questo?” e ti viene risposto di no – se poi l’hai fatto ugualmente, quell’email è prova che sapevi di sbagliare.
- Testimonianze: colleghi o terzi che possano smentire le tue voci. Ad esempio, nel caso dei pranzi gonfiati, l’azienda potrebbe raccogliere dichiarazioni di clienti o colleghi che attestano che a quel pranzo non c’era il numero di persone indicato. Oppure il tuo superiore che dice che non ti aveva autorizzato a usare l’auto ma tu hai chiesto rimborso benzina lo stesso.
- Fatture e riscontri esterni: come nella sentenza 2020 in cui l’hotel ha mandato la fattura con nominativi e voci reali, sbugiardando la tua distinta (magari avevi detto “stanza singola” mentre la fattura mostra “doppia con accompagnatore”). Il datore può contattare fornitori: i vettori, gli hotel, i ristoranti, per chiedere conferma di spese (lo fanno specie se sospettano grossa frode). Va detto che tutte queste prove vanno acquisite legalmente e rispettando la privacy. In sede giudiziale, se sei licenziato e fai causa, l’azienda dovrà portare questi elementi. La difesa tua consisterà nel contestarne l’attendibilità (es: “quella fotocopia non prova che io ho alterato nulla, potrebbe essere errore del sistema”; oppure “il collega mente, ha rancore verso di me”). Chiaramente, se la prova è schiacciante (un video di te che compili due note spese identiche cambiando date, ad esempio), la difesa è ardua. Tieni presente però il concetto ribadito dalla Cassazione: spetta al datore l’onere di provare il fatto addebitato in tutta la sua portata , e ogni dubbio interpretativo va a tuo vantaggio. Non possono licenziarti per un sospetto non verificato.
- Come posso prevenire problemi con le note spese?
Dal lato pratico, alcune buone prassi:- Conosci la policy: leggi bene il regolamento aziendale sulle trasferte/rimborsi. Saprai così cosa puoi chiedere e cosa no (inerenza delle spese, massimali, necessità di ricevute nominative ecc.).
- Accuratezza: compila le note spese con cura, allegando tutti i documenti richiesti in originale, senza manipolarli. Se fai un errore, correggilo subito (ad esempio, se noti di aver allegato due volte uno scontrino, segnalalo volontariamente).
- Trasparenza: se hai dubbi se una spesa è rimborsabile, chiedi prima al tuo responsabile e conserva la risposta. Meglio chiarire prima che rischiare dopo.
- Tracciabilità: paga con metodi tracciabili tutte le spese di lavoro (dal 2025 è obbligo per non tassarle, ma in generale è utile: lascia traccia su estratto conto).
- Non approfittare: evita di inserire spese personali sperando passino. Non usare la carta aziendale per spese extra non autorizzate. Ogni piccola furberia, se scoperta, rovina la fiducia. Meglio semmai chiedere se puoi includere un extra (a volte i datori concedono forfait se c’è un piccolo sconfinamento).
- Conserva copie: tieni una copia/scansione delle tue note spese e ricevute consegnate. In caso di contestazione mesi dopo, avrai il tuo archivio per verificare.
- In sostanza, agisci in buona fede e anche se per caso sbagli, sarà più facile dimostrarlo e rimediare senza gravi conseguenze. La maggior parte delle aziende apprezza un comportamento onesto e punisce severamente chi abusa. Meglio un rimborso chiesto in meno che uno di troppo.
Tabelle riepilogative
Per condensare i punti chiave esaminati, presentiamo alcune tabelle riassuntive di riferimento.
Tabella 1 – Sistemi di rimborso spese e trattamento fiscale (trasferte fuori dal comune):
Sistema di rimborso | Descrizione | Esenzione fiscale per il dipendente | Deducibilità per il datore |
---|---|---|---|
Analitico (piè di lista) | Rimborso delle spese documentate (vitto, alloggio, viaggio, trasporti) + eventuale piccola somma per spese non documentabili | – Vitto, alloggio, viaggio, trasporto: esenti al 100% se supportati da ricevute/fatture<br>- Ulteriore somma giornaliera esente fino €15,49 (Italia) / €25,82 (estero) per altre spese minori (oltre tali limiti, la quota eccedente è imponibile) . | – Dedotti integralmente i costi rimborsati (se inerenti e documentati).<br>- IVA su vitto/alloggio detraibile se fattura intestata azienda.<br>- La somma forfettaria giornaliera (15,49/25,82) è un costo deducibile per il datore (non imponibile per il dipendente). |
Forfettario | Indennità giornaliera onnicomprensiva, senza presentare scontrini (tranne biglietti viaggio se previsti) | – Esente fino a €46,48 al giorno in Italia (€77,47 all’estero) .<br>- L’eventuale parte di indennità oltre tali soglie diventa imponibile (come reddito da lavoro). | – L’indennità pagata è deducibile come costo del personale.<br>- Tuttavia la quota eccedente i limiti, essendo imponibile per il dipendente, è costo deducibile ma soggetto a contribuzione e ritenute. La quota entro i limiti è deducibile ed esente contributi. |
Misto | Rimborso di alcune spese documentate (es. viaggio e/o alloggio) + indennità forfettaria ridotta per il resto | – Se si rimborsa vitto o alloggio a piè di lista, l’indennità forfettaria esente scende a €30,99 (Italia) / €51,65 (estero) al giorno .<br>- Se si rimborsano sia vitto che alloggio, l’indennità esente scende a €15,49 (Italia) / €25,82 (estero) al giorno (come nel puro analitico) .<br>- Le spese documentate rimborsate restano esenti.<br>- Oltre le soglie indicate, eventuali extra sono imponibili. | – Le spese rimborsate analiticamente sono deducibili (come nel sistema analitico).<br>- L’indennità forfettaria parziale è deducibile nei limiti (30,99/51,65 o 15,49/25,82 a seconda dei casi).<br>- Anche qui, somme eccedenti i limiti sarebbero deducibili ma con imposizione come reddito. |
Nota: Trasferte all’interno del comune di lavoro: qualunque indennità o rimborso spese (ad eccezione di trasporto pubblico con biglietto nominativo) è imponibile per il dipendente e di conseguenza soggetto a contribuzione; il datore la deduce come normale costo del personale. In pratica, non c’è il beneficio fiscale delle trasferte extra-comunali .
Tabella 2 – Contestazione di note spese gonfiate: possibili conseguenze e difese (settore privato):
Scenario (esempi) | Conseguenze per il dipendente | Possibili difese/opposizioni |
---|---|---|
Errore lieve e senza dolo (es: compilazione errata, pochi euro di differenza non intenzionale) | – Richiamo verbale o scritto.<br>- Eventuale richiesta di restituzione dell’importo indebito (se pagato). | – Spiegare l’errore, dimostrando la buona fede.<br>- Offrire immediata restituzione.<br>- Sottolineare l’assenza di danno significativo e la condotta leale generale. |
Irregolarità moderata, dubbia intenzionalità (es: importo non dovuto qualche decina/centinaio di €; caso isolato) | – Sanzione disciplinare conservativa (richiamo scritto formale o sospensione breve).<br>- Richiesta di restituzione somma indebitamente percepita.<br>- Non dovrebbe scattare licenziamento, pena sproporzione (se avvenisse, impugnabile come illegittimo). | – Evidenziare eventuali ambiguità nelle regole che hanno portato all’errore.<br>- Ribadire di non aver agito con intenzione fraudolenta.<br>- Citare precedenti giurisprudenziali sulla non automaticità del dolo in simili casi (es. Cass. 2025) .<br>- Se licenziato: impugnare sottolineando la sproporzione e mancanza di prova di malafede. |
Frode limitata nel tempo/importo (es: gonfiato 2-3 note spese, per qualche centinaio/pochi mila € in totale, con artifici) | – Licenziamento disciplinare possibile, soprattutto se prove di dolo (documenti alterati). Il datore può ritenere compromessa la fiducia.<br>- Restituzione delle somme indebitamente ottenute.<br>- Possibile denuncia per truffa o segnalazione per illecito fiscale se il datore subìto danno fiscale. | – In sede disciplinare: tentare di ridimensionare la gravità (es. “iniziativa isolata dovuta a momentanea difficoltà economica”, se credibile).<br>- Collaborare: restituire tutto subito, scusarsi, sperare in qualificazione come giustificato motivo e non giusta causa (magari ottenere licenziamento con preavviso anziché in tronco).<br>- In causa: contestare eventuali vizi procedurali (contestazione tardiva, etc.) e richiedere valutazione proporzionalità (soprattutto se importo non elevato e condotta non recidiva). Il successo dipenderà molto dalle prove di intenzionalità: se chiare (es. ricevute contraffatte), le chance sono scarse perché Cassazione considera queste condotte giusta causa . |
Frode grave e sistematica (es: manipolazione seriale di rimborsi, importi ingenti, recidiva) | – Licenziamento per giusta causa assicurato (nessun preavviso).<br>- Azione legale per recupero di tutte le somme indebitamente percepite (anche eventualmente su più anni, con interessi).<br>- Denuncia penale altamente probabile (truffa, falso).<br>- Segnalazione al Fisco se non già coinvolto (possibili accertamenti tributari, con sanzioni e reati per il datore e concorso del dipendente se era figura apicale). | – Poche difese nel merito: qui l’obiettivo della difesa legale sarà limitare i danni post factum (negoziare magari una transazione per evitare il penale, o puntare su vizi formali per ridurre l’indennizzo dovuto se licenziamento impugnato – ma improbabile reintegra in simili casi data la gravità).<br>- Collaborazione con le autorità per eventuale patteggiamento in sede penale, se applicabile, e con l’azienda per risarcire (forse evitando causa civile lunga).<br>- In generale: scenario da evitare assolutamente; se accade, la difesa è reattiva, di contenimento (anche dell’impatto reputazionale). |
Tabella 3 – Confronto Settore Privato vs Settore Pubblico (gestione di note spese gonfiate):
Aspetto/Conseguenza | Nelle aziende private | Negli enti/aziende pubbliche |
---|---|---|
Procedimento disciplinare | Interno, ex art. 7 St. Lav.: contestazione scritta, difesa 5 gg, decisione datore.<br>Possibile licenziamento disciplinare (giusta causa o g.m.s.). | Interno, ex D.Lgs. 165/2001 e CCNL pubblico:<br>contestazione da parte del dirigente o U.P.D., difesa (10 gg di norma), decisione dell’Ufficio Disciplinare.<br>Licenziamento disciplinare se infrazione grave (es. falsa attestazione, rilevante violazione doveri d’ufficio). |
Restituzione somme indebite | Azione civile di ripetizione indebito (10 anni prescr.).<br>Il datore può compensare solo con consenso/tramite busta paga entro limiti.<br>Se il lavoratore rifiuta, si va in giudizio (Tribunale Lavoro).<br>Netto da restituire (no importi lordi) . | Provvedimento amministrativo di recupero (spesso atto dirigenziale ingiuntivo) + eventuale giudizio contabile.<br>La Corte dei Conti può condannare il dipendente al risarcimento del danno erariale pari alle somme indebitamente percepite.<br>Recupero sul netto anche qui (non si chiede al dipendente la parte fiscale non goduta) .<br>Prescrizione 10 anni (contabile), 5 anni per l’azione di responsabilità dalla scoperta. |
Coinvolgimento autorità esterne | Fisco: se costi indebiti dedotti, accertamento Agenzia Entrate (verso datore) e possibili sanzioni/reati tributari (dichiarazione fraudolenta) se importi rilevanti .<br>Penale: possibile querela per truffa o denuncia per falso (procedibile d’ufficio se documenti commerciali contraffatti). | Fisco: idem per deducibilità iva/irap ecc. per l’ente (ma di solito importi modesti, impatto fiscale minore negli enti no profit).<br>Penale: spesso Procura della Repubblica procede d’ufficio se emergono falsi/truffe ai danni PA (es. Art. 640 cp agg.; Art. 479 cp falsità in atto pubblico se modulistica ufficiale alterata).<br>Corte dei Conti: Procura contabile avvia azione per recupero danno e possibili sanzioni accessorie (es. decurtazione pensione in casi eclatanti). |
Giurisprudenza favorevole al dipendente | Orientata a tutela del lavoratore in assenza di dolo: principi di buona fede, proporzionalità (v. Cass. 2024-25: no licenziamento senza prova inganno) . Questo aiuta il lavoratore “colpevole lieve” a salvarsi dal recesso o ottenere indennizzo. | Tendenzialmente più severa: buona fede non esime da restituzione ; condotte disoneste considerate lesive per PA (licenziamento più facile da reggere in giudizio: es. anche per 100€ di indebito, se c’è false dichiarazioni, i giudici pubblici tendono a confermare il licenziamento per violazione dei doveri pubblici di lealtà). Però si applicano gli stessi principi generali di proporzionalità (un giudice potrebbe annullare un licenziamento di pubblico dip. per fatto tenue, ma nelle sentenze è raro vedere indulgenza se c’è un illecito documentale). |
Difese aggiuntive | Vizi procedurali (es. contestazione tardiva o generica) possono portare ad annullamento della sanzione in giudizio, anche se il fatto c’è, per violazione art.7 St.Lav. (nullità licenziamento) .<br>In caso di accordo, possibilità di conciliazione tombale in sede sindacale o arbitrale (chiudendo sia restituzione che impugnazione). | Il dipendente pubblico ha facoltà di ricorrere al Giudice del Lavoro contro sanzioni disciplinari e al TAR/Pres.ConsMin per atti amministrativi di recupero (a seconda della natura dell’ente).<br>Ha poi diritto di difesa nel giudizio contabile (anche di appello).<br>Può invocare eventualmente disposizioni di clemenza (es. alcune leggi di bilancio hanno talvolta annullato debiti da indebito < X euro percepiti in buona fede – ipotesi rare ma successe per stipendi).<br>Comunque i vizi procedurali nel pubblico (es. ritardo oltre 120 gg nella chiusura procedimento disciplinare) possono portare ad annullamento della sanzione per decadenza, ma non eliminano l’azione di recupero somme. |
Modelli di atti difensivi
Di seguito si forniscono due modelli esemplificativi utili al dipendente coinvolto in tali vicende: (A) una lettera di risposta alla contestazione disciplinare da parte del dipendente, e (B) uno schema di memoria difensiva da utilizzare eventualmente in sede di impugnazione giudiziale del licenziamento o nelle difese scritte verso la Corte dei Conti. Naturalmente andranno adattati alle circostanze specifiche (inserendo i dati reali, eliminando o aggiustando le parti non pertinenti).
A) Fac-simile di risposta a contestazione disciplinare (lettera del dipendente al datore)
Oggetto: Risposta alla Vostra contestazione disciplinare del [data lettera datore]
Raccomandata A/R (o PEC)
Alla Spett.le XYZ S.p.A.
Ufficio del Personale – Procedimenti Disciplinari
Indirizzo…
E p.c. Responsabile di Divisione … (se pertinente)
[Luogo], [Data]
Oggetto: Giustificazioni in merito alla contestazione disciplinare del
riguardante note spese
Egregi,
in riferimento alla Vs. lettera di contestazione disciplinare prot. n. 123/2025 del 10/09/2025 (ricevuta in data 11/09/2025), intendo con la presente fornire le mie giustificazioni e chiarimenti riguardo ai fatti addebitati.
1. Sintesi della contestazione:
Mi viene contestato di aver presentato una nota spese in data 01/09/2025 relativa alla trasferta del 20-25 agosto 2025 a Roma, contenente, secondo la Vs. contestazione, alcune voci “non dovute” o “gonfiate”, in particolare:
– un rimborso chilometrico per 300 km eccedenti il percorso effettivo;
– il rimborso di un pranzo del 22/08/2025 per 2 persone, mentre avrei pranzato da solo;
– la mancanza dello scontrino del pedaggio autostradale di ritorno, sostituito da una mia autodichiarazione dell’importo.
Si afferma che tali condotte violerebbero il Regolamento aziendale (art. 4 “Note Spese”) e i miei doveri contrattuali di correttezza, configurando potenzialmente anche giusta causa di licenziamento.
2. Spiegazioni dettagliate:
– Rimborso chilometrico: Preciso innanzitutto che l’indicazione di 1.200 km totali percorsi con auto propria non era da me intesa come un’esagerazione fraudolenta, bensì il risultato di un errore di calcolo. In buona fede ho sommato i tragitti giornalieri stimati (includendo gli spostamenti in loco a Roma per commissioni inerenti al servizio). Riconosco ora, rivedendo il dettaglio, che ho conteggiato impropriamente anche i km percorsi per recarmi a cena da un mio parente la sera del 23/08, che non dovevano essere inclusi in quanto trattasi di deviazione personale. Tale svista ha portato a indicare circa 100 km in più del dovuto (e non 300; infatti il percorso Andata/Ritorno Firenze-Roma e movimenti interni sommavano circa 1100 km, come da tabella allegata Google Maps, vs i 1200 da me indicati). Non vi era alcuna volontà da parte mia di gonfiare il rimborso, tanto che il mio storico delle note spese evidenzia sempre la massima correttezza nelle percorrenze. Sono disponibile fin d’ora a decurtare dai miei crediti la quota eccedente (vedi punto 3).
– Rimborso pranzo per 2 persone (22/08): su questo punto contesto l’addebito di condotta fraudolenta. Il pranzo del 22/08 presso “Trattoria da Mario” vedeva effettivamente la presenza di un cliente dell’azienda, Dr. Bianchi, come da agenda di lavoro (meeting ore 13:00 con cliente Beta S.r.l.). Allego copia dell’email di convocazione di tale meeting. Purtroppo il cliente, per motivi suoi, non consumò il pasto intero ed essendo in rapporti informali, la ricevuta fiscale n. 4567 allegata (già prodotta) venne emessa per 2 coperti dal ristoratore. Io ho semplicemente riportato in nota spese l’importo totale (€45) che ho pagato io per entrambi, ritenendo – a mio avviso legittimamente – che fosse spesa di rappresentanza verso il cliente. Non c’è stata dunque alcuna falsità: realmente erano previste 2 persone, e ho sostenuto io il costo di entrambe. Se l’azienda ritiene non rimborsabile la quota del cliente (€22,50), ne prendo atto, ma respingo qualsiasi accusa di malafede. Sottolineo che in passato analoghe spese per pasti con clienti sono sempre state rimborsate senza obiezioni, confidavo quindi nella loro rimborsabilità (posso citare nota spese di maggio 2025, voce pranzo con cliente Gamma, rimborsata integralmente). Chiedo dunque che su questo punto la contestazione venga rivalutata con benevolenza, trattandosi al più di un equivoco sull’interpretazione della policy (forse avrei dovuto chiedere autorizzazione preventiva al rimborso del pasto del cliente, cosa che ignoravo).
– Mancanza scontrino pedaggio: confermo di non aver allegato la ricevuta Telepass del pedaggio autostradale di rientro (€18,00) poiché non mi era stata ancora recapitata via email al momento di compilare la nota (il sistema Telepass invia fattura mensile). Ho quindi inserito in nota l’importo presunto di €18,00 con la dicitura “in attesa fattura Telepass”. Non era mia intenzione ottenere rimborso senza giustificativo: infatti, come il Vs. Ufficio ben sa, tutte le fatture Telepass aziendali arrivano direttamente anche a voi. Allego ora copia della fattura Telepass di agosto dove risulta €17,80 per il tragitto Roma-Firenze del 25/08. C’è una minima differenza di €0,20 rispetto a quanto indicato (avevo stimato a cifra tonda). Dunque, sebbene formalmente nella nota spese mancasse il documento, questo è ora prodotto. Rilevo inoltre che in casi analoghi in passato (colleghi sprovvisti di scontrino per parcheggio) l’azienda ha accettato autocertificazioni seguite poi da consegna documento. Quindi ritenevo corretto comportarmi allo stesso modo.
3. Riparazione e buona fede:
In virtù di quanto sopra, evidenzio di aver agito senza volontà di arrecare danno o ingiusto profitto. Gli importi contestati sono relativamente modesti e non vi è stata alcuna “falsificazione” materiale da parte mia. Riconosco l’errore sul chilometraggio e la formalità mancante sul pedaggio, e per ciò intendo porre rimedio: sono disposto a restituire l’eventuale eccedenza percepita. Dal calcolo aggiornato: mi avete liquidato €0,25/km × 1200 km = €300; a fronte di 1100 km dovuti sarebbero €275, quindi €25 indebitamente percepiti. A ciò si aggiunge la quota pranzo cliente (se non ritenuta rimborsabile) €22,50 e la differenza pedaggio €0,20. Totale €47,70. Provvedo fin da subito a restituire €50,00 (arrotondando per eccesso) tramite bonifico all’azienda, come segno concreto di buona fede (in allegato copia disposizione bonifico).
Questa mia condotta di immediata riparazione spero confermi che non intendevo affatto “gonfiare” le spese per arricchirmi, ma che si è trattato di una combinazione di ingenuità e circostanze. In oltre 5 anni di servizio presso di Voi, il mio comportamento è sempre stato corretto e mai ho ricevuto contestazioni disciplinari. Vi prego di tener conto del mio precedente disciplinare immacolato e del fatto che il modesto importo in contestazione è già stato rimborsato spontaneamente.
4. Conclusioni e istanza:
Alla luce di tutti gli elementi forniti, Vi chiedo di voler archiviare il procedimento disciplinare in corso o, qualora riteniate di dover comunque sanzionare la mia condotta, di applicare una sanzione conservativa minima (ad esempio un richiamo scritto), evitando provvedimenti espulsivi che ritengo non proporzionati nel mio caso.
Ribadisco la mia lealtà verso l’azienda e l’impegno a rispettare scrupolosamente le procedure di trasferta in futuro, avendo appreso da questa esperienza.
Resto a disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento e, se ritenuto utile, anche per un colloquio di persona.
Distinti saluti,
[Firma autografa]
Allegati:
– Email del 18/08/2025 al Dr. Bianchi (cliente) per appuntamento pranzo 22/08 (conferma partecipazione).
– Tabella percorso stradale Firenze-Roma e movimenti in Roma (Google Maps) con km totali 1098.
– Fattura Telepass n. 99999 del 31/08/2025 (pedaggi agosto).
– Distinta bonifico €50 a favore di XYZ SpA (IBAN …) effettuato in data odierna.
(NB: Questo fac-simile andrebbe adattato alla situazione concreta; in alcuni casi potrebbe essere opportuno ammettere l’errore in modo più conciso, in altri contestare fermamente se l’addebito è infondato. È importante non mentire, perché qualsiasi affermazione può essere verificata dal datore. Meglio ammettere piccole mancanze mostrando pentimento, piuttosto che negare l’evidenza.)
B) Schema di memoria difensiva (per impugnazione licenziamento o giudizio contabile)
Di seguito un possibile schema di argomentazione, immaginando il caso di un lavoratore licenziato che deve presentare ricorso al Giudice del Lavoro contro il licenziamento disciplinare. Può essere adattato anche per la difesa scritta nel giudizio in Corte dei Conti (mutatis mutandis, enfatizzando la mancanza di dolo per ridurre la condanna):
Ricorso ex art. 414 c.p.c. – Stralcio memoria difensiva del lavoratore
Tribunale Ordinario di
– Sezione Lavoro
Ricorso di
c/
– RG n.
Memoria difensiva del ricorrente
Fatti di causa: Il ricorrente è stato dipendente della convenuta con qualifica di
. In data
veniva licenziato in tronco per asserita giusta causa, consistita – secondo la lettera di licenziamento – nell’aver presentato note spese “gonfiate” relative a trasferte di
. In particolare gli si addebita di aver richiesto rimborsi per spese non effettivamente sostenute per un importo di circa € 500. Il ricorrente, che aveva fornito le proprie giustificazioni in sede disciplinare (rimaste tuttavia ignorate dal datore di lavoro), contesta la legittimità di detto recesso, come da ricorso introduttivo, ed intende con la presente memoria evidenziare gli elementi di fatto e di diritto a sostegno delle proprie domande.
1. Insussistenza di una giusta causa di licenziamento:
Ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. e dell’art. 3 L. 604/1966, il licenziamento disciplinare è legittimo solo in presenza di un inadempimento del lavoratore di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. La Suprema Corte ha chiarito che la valutazione della gravità va compiuta in concreto, tenendo conto di tutte le circostanze e del principio di proporzionalità della sanzione . Nel caso in esame, la condotta contestata al ricorrente – seppur frutto di leggerezza – non presentava quel grado di gravità. Invero:
– l’importo indebitamente rimborsato (circa €500) è oggettivamente esiguo, tale da non poter integrare un danno apprezzabile per l’azienda né un arricchimento rilevante per il dipendente;
– trattasi di episodio isolato nei 10 anni di servizio del ricorrente, mai colpito prima da censure disciplinari;
– il ricorrente ha agito senza dolo, come dimostrato dal fatto che (i) non vi è stata alcuna falsificazione materiale di ricevute, ma solo presentazione di voci poi risultate non ammissibili (ad es. rimborso pasti oltre il limite, ma documentati); (ii) appena l’azienda ha contestato le voci, il ricorrente ha offerto immediata restituzione delle somme contestate (poi non accettata dal datore per scelta punitiva);
– l’azienda disponeva di procedure di controllo delle note spese (infatti l’ammontare indebito venne scoperto tramite verifica amministrativa): ciò esclude che vi sia stato un “occultamento fraudolento” da parte del dipendente, il quale confidava – sbagliando – che eventuali inesattezze sarebbero state corrette in sede di controllo senza conseguenze estreme.
In base a tali elementi, la sanzione espulsiva appare sproporzionata. La Cassazione ha di recente ribadito che non ogni irregolarità nella nota spese equivale a frode o furto, mancando l’elemento soggettivo dell’inganno doloso . Nel caso di specie difetta la prova di un intento fraudolento del ricorrente: la convenuta non ha dimostrato che il ricorrente avesse scientemente architettato un raggiro; al contrario, la presenza di sistemi interni di controllo e la condotta collaborativa post contestazione indicano che si è trattato al più di un comportamento negligente. E la negligenza, quand’anche grave, non raggiunge nel caso in esame la soglia della giusta causa espulsiva, potendo al più giustificare una sanzione conservativa (richiamo o breve sospensione).
Si richiama al riguardo Cass. ord. n. 23053/2024, che in fattispecie analoga (rimborso spese errato di modesta entità, senza prova di dolo) ha escluso la ricorrenza della giusta causa, convertendo il licenziamento in un provvedimento privo di giustificato motivo soggettivo e quindi sanzionato con la tutela indennitaria . Similmente, Cass. ord. n. 23189/2025 ha statuito che la mancanza di scontrini e la non inerenza di alcune voci di rimborso costituiscono una semplice irregolarità procedurale, non una frode, ove il sistema aziendale preveda controlli e il lavoratore restituisca l’importo indebito .
Pertanto, nel caso in esame, difettando gli estremi della giusta causa, il licenziamento dev’essere dichiarato illegittimo.
2. Violazione del principio di immediatezza della contestazione:
A ulteriore invalidazione del recesso impugnato, si evidenzia che la contestazione disciplinare è stata mossa con significativo ritardo. I fatti contestati risalgono alle note spese di marzo e aprile 2025; eppure la contestazione è stata notificata solo il 20/07/2025, oltre 3 mesi dopo l’ultimo episodio. La giurisprudenza costante reputa la tempestività della contestazione parte integrante del diritto di difesa del lavoratore e del corretto esercizio del potere disciplinare . Nel caso di specie non emergono ragioni giustificatrici per un lasso di tempo così ampio: la convenuta non ha svolto complesse indagini né ha acquisito elementi nuovi successivi (le irregolarità erano evincibili subito dalla documentazione prodotta, trattandosi perlopiù di voci prive di giustificativo). Il ritardo ha ingenerato nel ricorrente un affidamento circa la non gravità della questione. La tardività della contestazione ha dunque pregiudicato il ricorrente ed è indice di strumentalità dell’azione disciplinare (avviata quando, ad esempio, il datore ha cambiato direttore amministrativo, segnalando ex post fatti tollerati dal precedente).
Secondo consolidata giurisprudenza, una contestazione tardiva senza motivo viola l’art. 7 St. Lav. e comporta l’illegittimità del licenziamento (Cass. n. 1095/2015, Cass. n. 12913/2018, tra le tante). Chiediamo che anche sotto tale profilo il recesso sia dichiarato illegittimo.
3. Sul regime sanzionatorio applicabile:
Ad abundantiam, ove (in via gradata) il Giudice non ravvisasse la dedotta violazione procedurale e ritenesse sussistente un inadempimento del ricorrente, si fa presente che – avuto riguardo a quanto sopra – esso inadempimento andrebbe semmai qualificato come giustificato motivo soggettivo non meritevole di licenziamento in tronco, bensì – al più – di licenziamento con preavviso. Nel vigore dell’art. 18 L. 300/1970 applicabile al caso (azienda con >15 dipendenti, rapporto iniziato ante 2015), ciò comporterebbe comunque la tutela reintegratoria attenuata ex comma 4 o 5, sussistendo evidente disproporzione.
In subordine estremo, qualora venisse esclusa la ricostituzione del rapporto, si chiede sin d’ora la massima tutela risarcitoria prevista (art. 18 co. 5: indennità 12-24 mensilità, da determinarsi in considerazione dell’anzianità decennale, dell’assenza di precedenti e delle dimensioni rilevanti del datore di lavoro, con richiesta orientata al massimo edittale).
4. Conclusioni:
Si insiste perché il Tribunale voglia accogliere il ricorso e, accertata l’illegittimità del licenziamento per insussistenza di giusta causa (e/o per violazione della procedura disciplinare), ordinare la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e condannare la convenuta al risarcimento del danno nella misura di legge (art. 18 L. 300/70), oltre accessori, spese e contributo di regolarizzazione delle somme indebitamente restituite dal ricorrente nelle more (poiché, giova sottolineare, il ricorrente ha già provveduto a restituire all’azienda la somma di €500 – con riserva di ripeterla in caso di vittoria della causa).
In via subordinata, ove non fosse disposta la reintegrazione, si chiede la condanna della convenuta al pagamento dell’indennità onnicomprensiva determinata in misura equitativa massima.
Si confida nella Giustizia del Giudicante.
Luogo, Data
Firma Avv. …
(Nota: la memoria sopra è solo uno schema generico. Nel caso concreto andranno inserite le specificità, e calibrati i riferimenti normativi: ad esempio, se il Jobs Act si applica, la richiesta di reintegra sarà solo per insussistenza del fatto materiale, ecc. Inoltre, se la controversia è davanti alla Corte dei Conti, l’impostazione sarà diversa: si punterà a dimostrare l’assenza di dolo grave per chiedere l’archiviazione o quantomeno la riduzione della condanna e l’assenza di “danno di immagine” ulteriore. In ogni caso, citare le sentenze favorevoli – come quelle menzionate – può essere determinante.)
Bibliografia e fonti normative:
– Codice Civile, art. 2104, 2105, 2106, 2119
– L. 20 maggio 1970 n. 300 (Statuto dei Lavoratori), art. 7
– D.Lgs. 165/2001, art. 55 e ss. (discipline pubblico impiego)
– DPR 917/1986 (TUIR), art. 51 comma 5 – come modificato da L. 197/2023 (Legge di Bilancio 2024)
– D.L. 78/2010 conv. L. 122/2010, art. 6 co. 12 (divieto rimborsi mezzo proprio PA)
– Cassazione Civile:
– Ordinanza 10566/2019
– Sentenza 7703/2020
– Ordinanza 8820/2017
– Ordinanza 10069/2016
– Ordinanza 23053/2024
– Ordinanza 23189/2025
– Ordinanza 9081/2025
– Ordinanza 1963/2023
– Consiglio di Stato Sez. VII n. 7712/2024 (in tema di indebito PA, buona fede irrilevante)
– Corte dei Conti, Sez. I App., sent. 94/2020
– Corte di Cassazione Penale, sent. 40109/2018 (truffa e falso note spese – cit. come riferimento, non riportata sopra).
– Agenzia delle Entrate, Circolare 23/E/2020 (tracciabilità spese dipendenti, antefatto normativo Legge bilancio 2020, poi ripreso nel 2025).
- Sentenza n. 481/2019 – Corte dei conti
Conclusione: Affrontare un’accusa di rimborso spese gonfiato richiede calma, trasparenza e cognizione dei propri diritti. Come abbiamo visto, l’ordinamento offre tutele al lavoratore contro provvedimenti ingiusti o eccessivi, ma ogni caso dipende dalle sue specificità. Il miglior consiglio è di agire sempre con onestà durante il rapporto di lavoro, e in caso di errore, collaborare per rimediare. Se però ci si trova vittima di un fraintendimento o di un eccesso di rigore da parte datoriale, conoscere le regole del gioco è fondamentale per difendersi e far valere le proprie ragioni.
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata la corresponsione di rimborsi spese gonfiati ai dipendenti? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata la corresponsione di rimborsi spese gonfiati ai dipendenti?
Vuoi sapere quali rischi corri e come puoi difenderti da queste contestazioni?
I rimborsi spese ai dipendenti, se giustificati e documentati, non concorrono alla formazione del reddito imponibile. Tuttavia, se il Fisco ritiene che siano gonfiati, simulati o privi di giustificazione, può riqualificarli come compensi in nero, con pesanti conseguenze fiscali e contributive.
👉 Prima regola: conserva sempre ricevute, scontrini, fatture e ogni documento che provi l’effettiva natura del rimborso.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Note spese prive di giustificativi o compilate in modo generico;
- Importi eccessivi rispetto alla trasferta o alle spese sostenute;
- Spese non inerenti all’attività lavorativa (cene di lusso, acquisti personali, ecc.);
- Assenza di coerenza tra le spese rimborsate e l’attività svolta dal dipendente;
- Uso sistematico dei rimborsi per ridurre l’imponibile fiscale e contributivo.
📌 Conseguenze della contestazione
- Recupero delle imposte su somme riqualificate come reddito da lavoro;
- Recupero dei contributi previdenziali non versati;
- Applicazione di sanzioni fiscali e contributive;
- Interessi di mora;
- Possibili accertamenti aggiuntivi su costi dedotti dall’impresa.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Completezza delle note spese: sono corredate da fatture, scontrini, ricevute?
- Tracciabilità dei rimborsi: i pagamenti sono documentati e registrati correttamente?
- Congruità delle spese: sono proporzionate e coerenti con la trasferta o l’attività svolta?
- Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia deve indicare chiaramente perché ritiene i rimborsi gonfiati;
- Regolarità della notifica e rispetto dei termini di legge.
🧾 Documenti utili alla difesa
- Note spese con ricevute, fatture e scontrini allegati;
- Estratti conto bancari con i rimborsi effettuati;
- Ordini di missione e documenti di trasferta;
- Contratti e regolamenti aziendali sulle spese rimborsabili;
- Relazioni interne che giustifichino l’attività svolta.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare l’effettività delle spese con prove documentali;
- Contestare errori dell’Agenzia nel valutare la natura o l’inerenza delle spese;
- Eccepire vizi formali: carenza di motivazione, decadenza dei termini, notifica irregolare;
- Richiedere autotutela se la contestazione è manifestamente infondata;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni, con possibilità di sospensione cautelare;
- Mediazione tributaria (nei casi previsti) per ridurre sanzioni e interessi.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza le contestazioni relative ai rimborsi spese;
📌 Verifica la correttezza delle note spese e la loro inerenza all’attività aziendale;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per annullare o ridurre la pretesa fiscale;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce strategie preventive per gestire in modo sicuro i rimborsi ai dipendenti.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali e lavoro dipendente;
✔️ Specializzato in difesa di imprese e dipendenti contro contestazioni su rimborsi spese;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni del Fisco sui rimborsi spese gonfiati ai dipendenti non sempre sono fondate: spesso derivano da documentazione incompleta o da interpretazioni arbitrarie.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la reale natura delle spese, evitare la riqualificazione come reddito imponibile e proteggere la tua azienda da richieste indebite.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro le contestazioni sui rimborsi spese inizia qui.