Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per prelievi di cassa aziendale ritenuti non giustificati? In questi casi, l’Ufficio presume che le somme prelevate siano state destinate a utilizzi personali o a operazioni non contabilizzate, qualificandole come ricavi non dichiarati. La conseguenza è il recupero di imposte, sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa adeguata è possibile dimostrare la corretta destinazione delle somme e tutelare l’impresa.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i prelievi di cassa
– Se risultano frequenti e consistenti movimenti di cassa senza adeguata giustificazione
– Se i prelievi non trovano corrispondenza in documenti contabili o giustificativi interni
– Se l’azienda non è in grado di dimostrare l’effettivo utilizzo per esigenze operative
– Se vi è sproporzione tra i prelievi e i ricavi dichiarati
– Se emergono incongruenze nei bilanci o nelle scritture contabili
Conseguenze della contestazione
– Presunzione di ricavi in nero e recupero a tassazione delle somme prelevate
– Applicazione di imposte, sanzioni e interessi sulle somme considerate non giustificate
– Maggior rischio di accertamenti bancari e controlli incrociati
– Possibile apertura di verifiche fiscali anche su altre annualità
– Eventuale segnalazione per illeciti di natura penale in casi gravi
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la reale destinazione dei prelievi con documentazione idonea (note spese, giustificativi, contratti)
– Provare che i movimenti di cassa erano destinati ad acquisti aziendali, anticipi o pagamenti urgenti
– Contestare la presunzione automatica di ricavi occulti applicata dall’Agenzia
– Evidenziare errori di ricostruzione contabile o difetti di motivazione nell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento o la riduzione della pretesa fiscale
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la gestione contabile e i flussi di cassa aziendali
– Verificare la legittimità della contestazione e i termini di decadenza dell’accertamento
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi formali
– Difendere l’impresa davanti ai giudici tributari contro pretese fiscali indebite
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale degli amministratori da azioni esecutive
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione del debito fiscale con eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della corretta destinazione dei prelievi aziendali
– La sospensione di eventuali procedure esecutive già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce nei termini, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni sui prelievi di cassa aziendale e come proteggere i tuoi diritti.
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Introduzione
I prestiti infruttiferi tra privati o tra soci e società sono del tutto legali secondo il codice civile, ma possono attirare l’attenzione del Fisco se riguardano somme ingenti o se mancano adeguate prove documentali . Negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli su movimenti finanziari anomali, contestando in vari casi la natura reale di certi prestiti senza interessi qualificandoli come fittizi, ossia come meri schermi per occultare redditi non dichiarati o liberalità non formalizzate. Dal punto di vista del debitore (il contribuente che ha ricevuto il denaro e che subisce l’accertamento fiscale) è fondamentale conoscere il quadro normativo e gli strumenti di difesa disponibili. In questa guida avanzata – aggiornata ad agosto 2025 con le ultime norme e sentenze – esamineremo come il Fisco conduce gli accertamenti sui cosiddetti prestiti infruttiferi fittizi e quali sono le strategie difensive più efficaci in sede sia tributaria che penale. Il tutto sarà presentato con linguaggio tecnico-giuridico ma divulgativo, adatto tanto ai professionisti (avvocati tributaristi, dottori commercialisti) quanto a privati cittadini e imprenditori interessati a tutelarsi. Troverete inoltre tabelle riepilogative, una sezione di Domande & Risposte e alcune simulazioni pratiche per contestualizzare i concetti trattati. L’obiettivo è fornire al contribuente-debitore una panoramica completa su come affrontare un accertamento fiscale che metta in dubbio la genuinità di un prestito infruttifero, evitando errori e facendo valere i propri diritti.
Normativa di riferimento: presunzioni fiscali e onere della prova
Art. 32 del DPR 600/1973 – Indagini finanziarie e presunzioni legali. La norma cardine in materia di accertamenti bancari è l’art. 32, comma 1, n. 2 del DPR 600/1973 . Essa stabilisce che i movimenti bancari non giustificati (in particolare, i versamenti su conti correnti) si presumono redditi imponibili sottratti a tassazione. Si tratta di una presunzione legale relativa (iuris tantum): in altre parole, l’Amministrazione finanziaria non deve provare che quei movimenti costituiscano redditi; è il contribuente a dover dimostrare il contrario, fornendo adeguata prova contraria . Questa presunzione inverte radicalmente l’onere della prova a sfavore del contribuente e a favore dell’Erario. Come chiarito dalla Corte di Cassazione, una volta emersa l’anomalia bancaria, l’Ufficio non è tenuto a ulteriori riscontri (non deve cioè costruire un complesso di indizi gravi, precisi e concordanti); spetta invece al contribuente fornire una prova rigorosa e analitica dell’estraneità di ogni movimento contestato a fatti imponibili . È importante sottolineare che tale prova deve essere solida: non basta un semplice “inizio di prova” o mere dichiarazioni di terzi interessati. Ad esempio, non è sufficiente produrre una generica dichiarazione scritta dell’asserito prestatore se questa non è supportata da elementi oggettivi . Secondo la Suprema Corte, le dichiarazioni di terzi non valgono da sole a vincere la presunzione dell’art. 32 . Il contribuente dovrà quindi esibire documenti credibili e preferibilmente formati prima o contestualmente al movimento finanziario (contratti di mutuo con data certa, contabili bancarie con causali esplicite, ecc.), capaci di provare in modo puntuale che il versamento sul conto corrente non rappresenta un ricavo occulto, bensì – ad esempio – la provvista di un prestito infruttifero genuino ricevuto da tal dei tali.
Art. 37, comma 3, DPR 600/1973 – Interposizione fittizia di persone. Un’altra disposizione rilevante è l’art. 37, co. 3, DPR 600/1973, che consente al Fisco di “guardare attraverso” intestazioni formali di redditi a soggetti interposti (prestanome, fiduciari, entità controllate) al fine di attribuirli al reale beneficiario . La norma stabilisce infatti che «in caso di interposizione fittizia di persona, i redditi si considerano prodotti dal soggetto per conto del quale l’interposizione è stata attuata» . In base a questa regola – considerata una pietra angolare del diritto tributario antievasione – l’Amministrazione finanziaria può ignorare la forma giuridica dell’operazione e tassare i redditi in capo al titolare effettivo (colui che, di fatto, dispone delle somme), anziché al mero titolare apparente . La giurisprudenza ha chiarito che l’art. 37, co. 3 si applica anche nei casi di interposizione “reale” e non solo nelle ipotesi di simulazione assoluta . Ciò significa che anche quando un prestanome è giuridicamente legittimo (ad es. un trust valido, o un conto intestato a terzi ma con denaro di fatto controllato dal contribuente), il Fisco può comunque imputare i redditi al soggetto che ne ha la disponibilità sostanziale . In termini pratici: se un contribuente trasferisce formalmente del denaro a un trust o a un familiare per far risultare quei fondi come altrui, ma poi mantiene il controllo e ne beneficia, l’operazione potrà essere considerata un’intestazione meramente fittizia. La Cassazione ribadisce da tempo il principio di substance over form in ambito tributario: conta la sostanza economica e non la forma giuridica . Dunque ogni dissociazione artificiosa tra titolarità formale e possesso effettivo di redditi o disponibilità patrimoniali può essere contestata dal Fisco, che in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti considererà permanentemente riferibili quelle somme all’interponente reale . Questa norma è spesso invocata in casi di conti correnti familiari o società schermo: ad esempio, se Tizio accredita i propri compensi sul conto intestato alla moglie o li fa transitare su un trust estero di cui è beneficiario, l’art. 37 permette di tassare comunque Tizio come effettivo percettore. Dal punto di vista difensivo, ciò implica che il contribuente dovrà sgombrare il campo da ogni sospetto di interposizione fittizia, dimostrando – ove rilevante – che il soggetto terzo coinvolto era davvero l’effettivo proprietario del denaro (circostanza spesso difficile da provare, come vedremo). Si noti che l’art. 37, co. 3 non richiede necessariamente di provare una simulazione civilistica formale; basta che il Fisco dimostri (anche tramite presunzioni qualificate) la mancanza di reale separazione patrimoniale e l’ampio potere di gestione del contribuente sui beni formalmente altrui .
Art. 37-bis DPR 600/1973 e il nuovo art. 10-bis Statuto del Contribuente – Abuso del diritto. Fino al 2015, l’ordinamento tributario prevedeva all’art. 37-bis DPR 600/1973 una specifica procedura anti-elusiva per disconoscere i vantaggi fiscali di operazioni prive di sostanza economica e realizzate al solo scopo di ottenere risparmi d’imposta. Tale norma (ora abrogata e sostanzialmente sostituita dall’art. 10-bis della L. 212/2000, introdotto con D.Lgs. 128/2015) incide sul nostro tema nella misura in cui un prestito infruttifero simulato potrebbe essere visto come parte di un disegno elusivo o abusivo. Si pensi, ad esempio, al caso in cui un contribuente cerchi di evitare l’imposta di donazione mascherando da prestito ciò che in realtà è una donazione di denaro, oppure all’ipotesi di una società che distribuisce utili ai soci sotto forma di finanziamenti infruttiferi per eludere la tassazione dei dividendi. In situazioni del genere, oltre alle presunzioni di cui sopra, l’Amministrazione potrebbe invocare il generale divieto di abuso del diritto (oggi sancito dall’art. 10-bis Statuto) per riqualificare l’operazione secondo la sua effettiva causa. L’abuso del diritto tributario, fondato sul principio costituzionale di capacità contributiva (art. 53 Cost.), colpisce quelle costruzioni formalmente lecite ma prive di sostanza economica diversa dal risparmio fiscale . È bene chiarire che non ogni prestito infruttifero tra parenti o soci è sospetto di abuso: se esiste una ragione economica genuina (ad es. un aiuto familiare, o un finanziamento temporaneo all’azienda in difficoltà) e l’operazione è reale, non vi è abuso. Diventa invece problematico quando l’unica spiegazione del prestito è l’aggiramento di norme fiscali (ad esempio evitare formalità della donazione, evitare di dichiarare un reddito ecc.), e quando mancano del tutto i segnali tipici di un vero mutuo (accordo di restituzione, eventuali garanzie, rimborsi effettuati, ecc.). In tali casi, il Fisco potrà eccepire che l’operazione è esteriormente lecita ma intrinsecamente elusiva, appellandosi anche ai principi di cui all’art. 53 Cost. (che impone a tutti di concorrere alle spese pubbliche secondo la propria capacità contributiva) per sostenere la riqualificazione ai fini fiscali.
Norme civilistiche: contratto di mutuo e forma richiesta. Sul piano civile, il prestito infruttifero si configura come un mutuo gratuito ai sensi degli artt. 1813 e seguenti del Codice Civile. Per la legge civile, il contratto di mutuo non richiede necessariamente la forma scritta ad substantiam (cioè, può essere valido anche se verbale, purché vi sia stata la consegna del denaro); tuttavia, per importi elevati si applicano limiti alla prova testimoniale (art. 2721 c.c.) e soprattutto – come vedremo – vi sono importanti ragioni pratiche e fiscali per formalizzare per iscritto. Un mutuo tra privati può essere senza interessi (infruttifero) se le parti così convengono. L’art. 1815 c.c. dispone anzi che, salvo patto di corrispondere interessi, il mutuo si presume gratuito. Dunque è lecito non applicare interessi, specie in ambito familiare o fra società collegate. Attenzione però: se il contratto non menziona affatto gli interessi, in sede fiscale potrebbe scattare una presunzione di fruttuosità legale. Le istruzioni ministeriali ai modelli dichiarativi prevedono che, se non risulta per iscritto un tasso, si possano considerare dovuti gli interessi al tasso legale , con obbligo di dichiararli come redditi di capitale. In altri termini, il Fisco considera anomalo un prestito totalmente gratuito se non si specifica formalmente che è infruttifero . Perciò è buona norma precisare nel contratto che non sono dovuti interessi, onde evitare che l’Amministrazione pretenda di tassare interessi figurativi non percepiti (scenario che, come vedremo, è stato talvolta ipotizzato, sebbene tassare un reddito inesistente contrasti col principio di tassazione del reddito effettivo ). Da notare che, in passato, per i finanziamenti dei soci alle loro società vi era una norma specifica (art. 43 TUIR, ora confluita nell’art. 46 TUIR) che presumeva onerosi tali prestiti salvo diversa evidenza da bilancio . La Cassazione ha confermato un’interpretazione rigorosa: ad esempio, con sent. n. 1475/2020, ha ritenuto insufficiente a provare l’infruttuosità di un finanziamento infragruppo un contratto scritto con data certa tra socio e società, se la natura gratuita non era annotata nelle scritture contabili della società debitrice . In quel caso, mancando traccia in bilancio, l’Ufficio ha potuto imputare interessi attivi figurativi al socio e riprenderli a tassazione, e la Cassazione ha avallato questa linea restrittiva . Conclusione pratica: quando un socio presta soldi alla propria società, è opportuno indicare chiaramente in bilancio che si tratta di finanziamento infruttifero (ad esempio inserendolo nella nota integrativa o con un’apposita delibera), altrimenti il Fisco potrebbe presumere l’esistenza di interessi non dichiarati . Viceversa, se è una società a concedere un prestito senza interessi a un proprio socio o a un amministratore, l’operazione potrebbe essere vista come un vantaggio in natura per il beneficiario: storicamente l’Agenzia delle Entrate riteneva di dover tassare il socio sul beneficio (equiparandolo a un dividendo o a un compenso extra) , e fino al 2016 esisteva l’obbligo per le società di comunicare annualmente i beni concessi in godimento ai soci (inclusi finanziamenti a tassi inferiori al mercato) proprio per monitorare questi fenomeni . Tale comunicazione è stata abrogata dal 2017 , ma ciò non toglie che, in caso di verifica, il Fisco possa ancora riqualificare un prestito societario anomalo come utili occulti o fringe benefit. Pertanto, da entrambe le prospettive (socio→società e società→socio) è cruciale rispettare obblighi formali e di trasparenza per prevenire contestazioni.
Perché il Fisco contesta i prestiti infruttiferi?
Un prestito tra privati è, di per sé, lecito e non tassabile se privo di interessi (non genera reddito per il creditore) . Tuttavia, diversi fattori possono indurre l’Agenzia delle Entrate a sospettare che dietro un prestito dichiarato si celi in realtà un altro tipo di operazione, con conseguente evasione o elusione d’imposta. Ecco le principali circostanze di rischio:
- Movimenti di denaro anomali o non coerenti con i redditi dichiarati. Se un contribuente con reddito modesto movimenta sul proprio conto somme ingenti, magari in entrata, l’anomalia salta all’occhio. Dichiarare che tali somme sono frutto di un “prestito” è una giustificazione frequente ma che non viene accettata acriticamente dal Fisco, specie se manca una solida documentazione di supporto . Il caso classico descritto in dottrina: Caio riceve 30.000 euro tramite bonifico da un amico; alla richiesta di spiegazioni dell’Ufficio, Caio sostiene trattarsi di un prestito infruttifero; se Caio non può esibire uno straccio di prova scritta, questa affermazione resterà di scarso valore probatorio, e l’Ufficio presumibilmente contesterà IRPEF su quei 30.000 € come reddito non giustificato . Molte liti tributarie nascono esattamente in questo modo, con contribuenti che solo in sede di contenzioso producono tardivamente scritture private o dichiarazioni sostitutive dell’asserito prestatore – evidenze spesso ritenute inadeguate dai giudici, proprio perché formate ex post . In sintesi, grandi versamenti ricorrenti o incoerenti** con il profilo fiscale del contribuente sono visti dal Fisco come un potenziale campanello d’allarme.
- Assenza di documentazione formale e data certa. Laddove il contribuente non abbia formalizzato in alcun modo il prestito (niente contratto scritto, niente scrittura privata registrata, nessuna traccia della causale in banca), l’operazione apparirà facilmente come un pretesto posticcio. Prestare denaro “a voce” affidandosi solo alla fiducia può funzionare civilisticamente tra le parti, ma sul piano probatorio è esiziale: di fronte al Fisco, senza un documento recante data anteriore al movimento, la pretesa di aver ricevuto un prestito potrebbe non venire creduta. Per di più, se la scrittura privata esiste ma non ha “data certa” (cioè un timbro postale, una registrazione o altro elemento che ne attesti l’esistenza già al momento del versamento), l’Ufficio potrebbe sospettare che sia stata redatta successivamente ad hoc. Nell’esempio sopra, se Caio avesse potuto esibire una scrittura privata di mutuo infruttifero con data certa anteriore al bonifico, con ogni probabilità l’accertamento sarebbe stato annullato in sede amministrativa . Questa importanza della data certa emerge chiaramente: giustificare ex ante (prima, o contestualmente, al movimento di denaro) è decisamente più efficace che dover spiegare ex post*** .
- Prestiti infruttiferi sine die (senza scadenza né piano di rimborso). Un altro elemento che insospettisce il Fisco è il carattere “indeterminato” di certi prestiti tra familiari. Se un genitore trasferisce 100.000 € al figlio dichiarando trattarsi di prestito, ma senza fissare una data di restituzione, senza alcun piano di rientro e magari senza nemmeno interessi, l’operazione può apparire come un puro trasferimento patrimoniale piuttosto che un vero mutuo. In dottrina e giurisprudenza si è sottolineato che un prestito gratuito, privo di termini e di garanzie, può nascondere una volontà di non riavere indietro le somme, configurando così una donazione indiretta mascherata . I funzionari del Fisco conoscono bene questa possibilità: alcuni contribuenti, per evitare l’atto pubblico richiesto per le donazioni (art. 782 c.c.), preferiscono “camuffare” un aiuto economico come prestito infruttifero . Ma se il prestito è fittizio e in realtà non vi è intenzione di restituire, il rischio è duplice: (1) in ambito fiscale, l’operazione potrebbe essere riqualificata come donazione non dichiarata (con applicazione dell’eventuale imposta sulle donazioni e delle relative sanzioni), oppure come reddito non giustificato nel patrimonio del beneficiario; (2) in ambito civilistico, quella somma potrebbe essere trattata come liberalità nulla (per difetto di forma) o come anticipo ereditario, con possibili contenziosi tra eredi. Non a caso, la Cassazione ha affermato che un’ingente somma trasferita da un genitore residente all’estero ai figli in Italia, se formalizzata senza interessi e senza scadenza, può costituire una donazione dissimulata, soggetta a imposta e persino a invalidità per mancanza di forma pubblica . Quindi, prestiti infruttiferi anomali per durata e condizioni sono terreno fertile per contestazioni.
- Utilizzo di conti intestati a terzi (familiari o prestanome). Come accennato, l’Agenzia tende a diffidare di comode intestazioni a soggetti terzi quando il beneficiario effettivo è un altro. Un tipico scenario: Tizio accumula redditi in nero e li fa transitare sul conto di un parente (moglie, genitore, ecc.), quindi sostiene che quei movimenti sul conto altrui erano prestiti infruttiferi di quel parente a lui. A parte la complessità della costruzione, simili stratagemmi sono spesso smascherati incrociando i dati: la Guardia di Finanza e l’Agenzia dispongono di strumenti per individuare collegamenti finanziari fra conti (ad esempio verificano deleghe, co-intestazioni, frequenza di girofondi, ecc.) . Se emerge che il conto intestato al parente era in realtà nella disponibilità di Tizio (magari Tizio aveva delega a operare, o prelevava regolarmente i contanti da quel conto per usarli), allora l’art. 37, co. 3 scatterà: quei redditi formalmente del parente saranno imputati a Tizio. Oltre al danno (tasse evase da pagare), c’è la beffa: all’interponente possono essere contestate anche condotte penalmente rilevanti, come l’ostacolo all’accertamento o la frode fiscale, per aver deliberatamente interposto terzi per confondere il Fisco . In generale, l’Agenzia considera un aggravante comportamentale l’utilizzo di prestanome o conti di comodo: in caso di scoperta, oltre alle imposte si rischiano sanzioni maggiorate e segnalazioni penali. Dal punto di vista del contribuente, quindi, è altamente sconsigliabile “farla franca” spostando ricchezze su conti altrui. Anche tra familiari stretti questa pratica può ritorcersi contro: non solo per i motivi fiscali, ma anche perché se il denaro risulta formalmente dell’altro, in caso di dissidi potrebbe essere difficile rivendicarlo.
- Trust e schermi giuridici esteri. Un capitolo particolare riguarda l’uso di entità come trust, fondazioni o società offshore per mascherare il possesso di beni o flussi finanziari. Negli ultimi anni le autorità fiscali (anche su impulso OCSE e normativa antiriciclaggio) prestano grande attenzione a queste strutture. In relazione ai prestiti infruttiferi, è possibile che un trust eroghi somme a un beneficiario residente presentandole come “prestiti” restituibili. Se però il trust è di fatto controllato dallo stesso beneficiario (ad es. il disponente e beneficiario coincidono, e il trustee è solo nominale), è molto probabile che l’operazione sia considerata fittizia. La Cassazione con una recente ordinanza del 2025 (caso King Trust) ha confermato che un trust formalmente valido ma usato allo scopo di occultare redditi non dichiarati in Italia può essere disconosciuto: i redditi del trust vanno imputati al disponente-beneficiario, applicando il principio dell’effettiva titolarità . In quel caso concreto il contribuente aveva omesso di dichiarare oltre 600.000 € di redditi di capitale provenienti da un trust estero, sostenendo che non fossero suoi; le indagini hanno rivelato che egli manteneva ampi poteri di gestione del trust (poteva cambiare beneficiari, controllava gli investimenti, si era auto-nominato destinatario ultimo) . Di conseguenza, sia la Commissione Tributaria sia la Cassazione hanno concluso che il trust era un mero schermo in frode alla legge fiscale, e hanno attribuito tutti i redditi al contribuente disponente . Questo esempio mostra come operi la combinazione di art. 37, comma 3 e divieto di abuso: a nulla vale invocare la forma giuridica del trust estero se la sostanza è che i soldi rimangono nella sfera decisionale e di godimento del contribuente . Pertanto l’Agenzia potrebbe contestare come “prestito infruttifero fittizio” anche un trasferimento di fondi da un trust verso un contribuente, qualora si dimostri che non trattasi di vero prestito (destinato a restituzione) bensì di distribuzione occulta di capitali. In generale, ogni qual volta un prestito proviene da un soggetto collegato al contribuente (una società controllata, un fiduciario, un’entità estera di cui egli è beneficiario), la natura genuina di tale prestito sarà scrutinata con estremo rigore.
Riassumendo, i prestiti infruttiferi vengono contestati dal Fisco quando appaiono come espedienti per ottenere liquidità evitando imposte: il paradigma è che nessuno regala somme ingenti senza un motivo (o un interesse). Se quel motivo risulta essere un intento elusivo o simulatorio, l’Agenzia ha dalla sua parte una serie di norme (presunzioni, riqualificazioni) per tassare comunque il fenomeno sostanziale (sia esso un reddito evaso o una donazione non dichiarata) . D’altro canto, un prestito genuino non costituisce capacità contributiva (il debitore dovrà restituire la somma, il creditore non percepisce redditi): questo va affermato con forza in sede difensiva, ma occorre disporre delle pezze giustificative adeguate per convincere l’Ufficio della genuinità.
Accertamento fiscale e strategie difensive in sede tributaria
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta un prestito infruttifero ritenendolo simulato, il contribuente destinatario dell’atto (tipicamente un avviso di accertamento per maggior reddito imponibile) dovrà attivarsi tempestivamente per difendere la propria posizione. Vediamo i passaggi chiave del procedimento e le possibili linee difensive da adottare.
1. Fase pre-contenziosa: il contraddittorio con l’ufficio. Spesso l’accertamento sui movimenti finanziari è preceduto da una fase di istruttoria in cui il Fisco invia al contribuente un questionario o una richiesta di chiarimenti (c.d. invito al contraddittorio ex art. 5-ter D.Lgs. 218/1997, obbligatorio per gli accertamenti “a tavolino” sui redditi delle persone fisiche). In tale sede, all’interessato viene data la possibilità di spiegare l’origine di versamenti e prelevamenti anomali. È cruciale non ignorare queste richieste: non rispondere o rifiutarsi di fornire informazioni preclude poi di far valere quei documenti in giudizio e spesso induce l’Ufficio a tirare le conclusioni peggiori. Dal punto di vista difensivo, già in questa fase conviene: (a) fornire tutte le prove documentali disponibili a supporto della tesi del prestito (contratti, ricevute di bonifici, eventuali scritture private, dichiarazioni autenticate del creditore, ecc.); (b) se qualche documento non è immediatamente reperibile, rispondere comunque entro i termini indicando che verrà integrata la risposta (meglio chiedere una proroga che restare silenti) ; (c) mantenere un atteggiamento collaborativo ma fermo sulle proprie ragioni, evitando ammissioni involontarie. Ad esempio, se l’Ufficio chiede conto di un versamento di €50.000, limitarsi a dire “prestito ricevuto da X, allego contratto e contabili bancarie” è preferibile a dilungarsi in dettagli inutili. Evitare tassativamente le giustificazioni false o contraddittorie: mentire al Fisco (es. indicare come prestito da uno zio una somma che in realtà ha tutt’altra origine) è un errore grave, perché se l’Ufficio verifica presso il sedicente zio e questi nega, la credibilità del contribuente crolla . Molto meglio tacere su ciò che non si può provare e contestare eventualmente la pretesa sul piano giuridico, piuttosto che “inventare storie” che poi vengono smentite: le bugie scoperte durante la verifica aggravano la posizione e possono integrare estremi di reato (falsa attestazione, intralcio all’attività accertativa) .
Se le spiegazioni fornite non convincono l’Ufficio, si passerà all’emissione dell’avviso di accertamento, con il quale verranno ripresi a tassazione gli importi considerati redditi non dichiarati (o verrà applicata l’imposta sulla donazione non pagata, se il caso è trattato come liberalità). L’avviso deve essere motivato con i fatti, le norme e le ragioni della ripresa a tassazione, e viene notificato al contribuente (di regola dopo 60 giorni dal termine del contraddittorio, salvo casi di particolare urgenza).
2. Impugnazione dell’avviso – il ricorso in Commissione Tributaria. Ricevuto l’atto, il contribuente ha 60 giorni per proporre ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) competente. In sede di ricorso tributario, dal punto di vista del debitore-contribuente, sarà fondamentale impostare sia una difesa fattuale che giuridica:
- Difesa fattuale (onere della prova). Come già evidenziato, la legge pone l’onere della prova in capo al contribuente. Quindi il ricorrente dovrà allegare al ricorso (o comunque depositare entro i termini processuali) tutti i documenti e le evidenze utili a dimostrare che il versamento (o la somma contestata) derivava effettivamente da un prestito, e non da un reddito evas.o. In particolare, è opportuno produrre:
- Il contratto di mutuo o la scrittura privata che documenta il prestito. Se è stato registrato presso l’Agenzia delle Entrate (con imposta di registro) o se ha data certa, meglio ancora, perché conferisce ufficialità . In mancanza di registrazione, può essere utile indicare se la scrittura è stata autenticata da un notaio, o se esistono PEC o raccomandate intercorse tra le parti che provino la data. Nel ricorso si dovrà descrivere dettagliatamente il contenuto del contratto: somma, data di erogazione, identità del mutuante e mutuatario, assenza di interessi (o tasso applicato), tempi e modalità di rimborso previste. Più il contratto appare coerente e completo, più sarà credibile. Ad esempio, un contratto che prevede un piano di rimborso mensile o annuale, magari con quietanze già firmate per le rate restituite, dà l’idea di un prestito vero e proprio, a differenza di un foglio generico privo di scadenze.
- Le prove dei trasferimenti finanziari: copie dei bonifici bancari, degli assegni o degli estratti conto da cui risultano l’erogazione del prestito e – possibilmente – la sua restituzione. La causale del bonifico è cruciale: se c’è scritto “prestito infruttifero a favore di X” o “restituzione prestito”, è un elemento di riscontro immediato . Se invece i movimenti sono avvenuti in contanti, la difesa si complica: occorre quantomeno dimostrare il prelievo di contante da parte del presunto creditore in prossimità della data in cui il debitore dichiara di aver ricevuto il denaro. Ad esempio, se Tizio afferma di aver ricevuto 10.000 € in contanti dall’amico Caio il 5 marzo, sarebbe utile mostrare che Caio il 4 marzo ha effettivamente prelevato 10.000 € dal suo conto (o li aveva in casa provenienti da una fonte lecita). I pagamenti tracciabili sono dunque sempre preferibili anche nell’ottica probatoria .
- Documentazione aggiuntiva: eventuali e-mail, lettere, messaggi tra le parti da cui emerga la volontà di prestito; dichiarazioni rese dal creditore in altre sedi (ad esempio all’estero, se il prestito coinvolge non residenti, o in atti notarili collegati); delibere societarie (se il prestito è tra società e soci); copia dei bilanci societari che riportano il finanziamento; ogni altro elemento che corrobori la versione fornita. Si tenga presente che le dichiarazioni unilaterali di terzi (es. un semplice foglio firmato dal creditore) hanno valore limitato , ma se proprio non si dispone di altro (ad esempio perché all’epoca non fu fatto un contratto), può essere utile far sottoscrivere al creditore una dichiarazione sostitutiva di atto notorio in cui conferma di aver prestato la somma al contribuente a titolo di mutuo infruttifero, indicando data e contesto. Questa dichiarazione, sebbene non risolutiva da sola, almeno entra nel fascicolo processuale e può convincere il giudice se non contrastata da altri elementi. Ancora meglio se il creditore compare come teste in giudizio: nel processo tributario non è ammessa la prova testimoniale orale, ma è possibile produrre dichiarazioni rese davanti a un notaio o all’autorità giudiziaria. In alternativa, in alcuni casi il giudice può consentire l’esame testimoniale in forma scritta (è raro, ma non escluso del tutto nell’ambito delle Commissioni Tributarie).
- La prova della capacità finanziaria del prestatore: questo aspetto è spesso determinante. Se X afferma di aver ricevuto 100.000 € in prestito da Y, ma Y è un pensionato con reddito di 15.000 € annui e senza patrimonio, è poco credibile che disponesse di tale somma da prestare. Il Fisco e i giudici guardano anche a questo: il mutuante dove li ha presi i soldi? Dunque, fornire evidenza che il creditore aveva la disponibilità lecita della somma (ad es. perché aveva venduto un immobile, o aveva risparmi accumulati, o ha effettuato disinvestimenti di titoli) aumenta la credibilità dell’intera operazione. Talvolta l’Agenzia contesta i prestiti infruttiferi anche in capo al prestatore, soprattutto se questi è fiscalmente monitorato: c’è il rischio di un doppio fronte, con il creditore che subisce domande sulla provenienza del denaro (per escludere che fosse nero) e il debitore che deve provarne la natura di prestito. Se creditore e debitore collaborano nella difesa, è bene coordinare le rispettive posizioni, presentando un quadro coerente.
- Eventuale avvenuta restituzione: se il prestito (o parte di esso) è stato effettivamente restituito al creditore, ciò è un fortissimo indice della sua genuinità. Un reddito o una donazione non verrebbero certo “restituiti” dopo un anno o due. Quindi, se avete già rimborsato – ad esempio – metà della somma, esibite le contabili dei bonifici di rimborso o le quietanze firmate dal creditore. Nella causa sopra menzionata, la Commissione Tributaria Regionale aveva dato peso al fatto che i prestiti tra privati contestati fossero poi stati integralmente restituiti, ritenendo quindi infondata la tesi dell’Ufficio che li voleva redditi occultati . La Cassazione (ord. n. 21546/2021) ha poi cassato quella sentenza per ragioni procedurali e di riparto probatorio, ma non ha negato in sé la rilevanza dell’avvenuta restituzione; anzi, ha suggerito che in sede di rinvio il giudice dovrà valutare con rigore tutta la documentazione prodotta . Pertanto, poter mostrare al giudice che il prestito era vero anche perché di fatto il debitore lo ha restituito (o comunque sta rimborsando) è un punto a vostro favore. Da un punto di vista giuridico, si potrebbe argomentare che, essendo il capitale interamente restituito, nessun arricchimento permane in capo al debitore, quindi tassare l’importo equivarrebbe a tassare un flusso finanziario meramente temporaneo e non un reddito in senso proprio – il che contrasterebbe con l’art. 53 Cost. (principio di capacità contributiva). Questa argomentazione non ha un riconoscimento esplicito nella legge (che purtroppo consente la tassazione di redditi anche solo presunti ex art. 32), ma può avere una forza equitativa sul giudice, specie se la buona fede del contribuente è evidente.
- Difesa giuridica. Oltre (e in subordine) alla prova fattuale, nel ricorso è bene sviluppare anche motivi di diritto, quali:
- Violazione di legge se l’Ufficio ha applicato male le presunzioni. Ad esempio, si può eccepire violazione dell’art. 32 DPR 600/73 o dell’art. 2697 c.c. se l’atto impositivo ha invertito l’onere della prova oltre i limiti di legge. In concreto, va verificato se l’ufficio abbia indicato quali versamenti specifici considera non giustificati e su che base. Spesso gli avvisi “bancari” elencano le movimentazioni contestate; se così non fosse, si può eccepire nullità per difetto di motivazione (mancata indicazione dei presupposti di fatto). Inoltre, se il contribuente in fase pre-contenziosa ha fornito giustificazioni e l’Ufficio le ha rigettate senza motivare adeguatamente perché non le ritiene probanti, ciò può costituire un vizio di motivazione o un errore di diritto (ad esempio, se ha preteso prove impossibili o non ha considerato prove valide). Nel caso dell’ordinanza Cass. 21546/2021, la Corte ha censurato la CTR che aveva ritenuto sufficiente un “incipit di prova” da parte del contribuente e aveva preteso dall’Ufficio ulteriori indagini: i giudici supremi hanno ribadito che no, è il contribuente che deve dare prova piena e rigorosa . Ma ciò vale dopo che l’Ufficio ha indicato chiaramente gli elementi contestati. Se l’accertamento è stato emanato senza dare modo al contribuente di contraddire (ad es. in violazione del termine di 60 giorni dal PVC, se applicabile, o senza invito al contraddittorio quando prescritto), si può eccepire la violazione dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000). Insomma, vanno valutati tutti i possibili profili di legittimità formale e sostanziale dell’operato dell’Agenzia.
- Carenza di presupposti dell’abuso del diritto. Se nel provvedimento l’Agenzia ha fatto riferimento all’abuso del diritto o all’art. 10-bis L. 212/2000 (o al vecchio art. 37-bis) per riqualificare il prestito, il contribuente può difendersi dimostrando che l’operazione aveva sostanza economica e ragioni extrafiscali apprezzabili. Ad esempio: “Non c’era alcun intento di donare: ho richiesto e ottenuto effettivamente la restituzione delle somme, come da prove allegate. La finalità era di investimento temporaneo/aiuto di liquidità, non elusione”. Oppure, se contestano un prestito socio-società come elusivo: “Il finanziamento era giustificato da esigenze finanziarie dell’azienda; la scelta di non applicare interessi è dipesa dai rapporti interni tra soci e dall’interesse della società a contenere gli oneri, non da un intento evasivo (anche perché gli interessi sarebbero stati deducibili per la società e tassati per il socio, con effetto fiscale neutro nel complesso)”. In altri termini, evidenziare che non c’è stato alcun vantaggio fiscale indebito dall’operazione, o che esso era marginale e secondario rispetto ad altre ragioni.
- Inapplicabilità dell’imposta sulle donazioni. Se l’Agenzia, in alternativa all’IRPEF, avesse notificato un avviso per imposta di donazione (ipotesi rara ma possibile, qualora si convinca che fosse una liberalità), si può contestare che in realtà non vi è stata donazione ma mutuo (si veda anche la sezione Donazione o prestito? in seguito). Ad esempio, si potrebbe sostenere: “La donazione implica arricchimento senza obbligo di restituzione; qui invece l’obbligo di restituzione esiste ed è stato almeno in parte adempiuto, quindi l’operazione non è tassabile come donazione”. Inoltre, se si trattasse di donazione indiretta (mascherata), per legge queste scontano l’imposta solo se emergono da atti sottoposti a registrazione (art. 1, co. 4-bis D.lgs. 346/90); in caso contrario, alcuni orientamenti ritengono che non si possa recuperare a tassazione una donazione indiretta non formalizzata, specie se rientra nelle franchigie esenti (ad esempio fino a 1 milione di € tra genitore e figlio). In pratica, spesso l’Agenzia preferisce contestare come reddito evas.o (sanzioni più pesanti) piuttosto che come donazione (dove oltretutto potrebbe essere esente), però è utile essere preparati su entrambi i fronti argomentativi.
- Proporzionalità e capacità contributiva. Come argomento di chiusura, si può invocare il principio di proporzionalità della reazione fiscale: tassare un prestito reale equivarrebbe a colpire un patrimonio che poi deve essere restituito, andando contro il principio per cui si tassano solo gli incrementi di capacità economica effettivi (art. 53 Cost.). Ad esempio, se fosse pacifico che il contribuente ha restituito la somma al suo amico, insistere sul fatto che l’IRPEF dovrebbe colpire solo arricchimenti stabili e definitivi può fare breccia nella coscienza del giudice. Anche se non è un motivo tecnico per annullare l’atto, può orientare l’interpretazione delle prove (in dubio pro contribuente, data l’anomalia di tassare un capitale poi uscito dalla disponibilità del soggetto).
Nel giudizio davanti alla Commissione Tributaria, è importante strutturare bene il ricorso, esponendo in maniera chiara i fatti (cronologia del prestito, utilizzo delle somme, rapporti tra le parti) e inserendo richiami alle sentenze di legittimità che avvalorano la tesi del contribuente. Ad esempio, si potrebbe citare Cass. n. 10480/2018 la quale afferma che il giudice di merito deve verificare con rigore l’efficacia probatoria delle prove contrarie fornite dal contribuente per ogni movimento contestato , oppure Cass. n. 6405/2021 che ribadisce come non siano ammissibili prove meramente orali o dichiarazioni di comodo dei terzi per superare la presunzione – citazioni che, lette in controluce, evidenziano anche quali prove invece sono richieste (documenti attendibili, riscontri oggettivi).
3. Esonero o riduzione delle sanzioni in caso di buona fede. Va menzionato che se il contribuente riesce a dimostrare la buona fede e la non frode dell’operazione (era convinto della correttezza fiscale del prestito), potrebbe tentare di ottenere l’annullamento o la riduzione delle sanzioni amministrative per obiettiva incertezza o buona fede. In ambito tributario, le sanzioni per infedele dichiarazione possono essere escluse se l’errore è dovuto a condizioni eccezionali non imputabili al contribuente. Non è facile far riconoscere questa esimente in casi di movimenti bancari, ma se – poniamo – la somma era davvero un prestito e l’errore è stato formale (mancata data certa, ecc.), taluni giudici sono più indulgenti sulle sanzioni (magari applicando il minimo). Questo soprattutto se il contribuente, prima di qualsiasi controllo, ha spontaneamente registrato il contratto tardivamente versando l’imposta di registro e ravvedendosi: segnali che denotano volontà di regolarizzare.
4. L’importanza della consulenza tecnica. Dato l’alto tecnicismo della materia, il contribuente farebbe bene ad affidarsi a professionisti del settore (avvocati tributaristi, commercialisti esperti in contenzioso fiscale). Questi possono individuare eventuali vizi formali dell’atto, o conoscere precedenti giurisprudenziali favorevoli. Ad esempio, potrebbe emergere che la Direzione Provinciale che ha emesso l’accertamento ha già perso in passato casi simili per carenza di prove, o che in quella regione le Commissioni hanno un orientamento pro-contribuente su determinati aspetti: informazioni preziose che solo chi mastica queste controversie possiede . Viste le somme spesso in ballo (un accertamento bancario può riguardare più annualità e importi elevati), l’investimento in una buona difesa specialistica è giustificato.
In sintesi, in sede contenziosa tributaria la difesa ruota attorno a un asse portante: dimostrare la natura di vero prestito dell’operazione. Tutto ciò che conferma l’effettività del prestito va messo in luce (documenti preesistenti, tracce bancarie, rimborsi effettuati), e tutto ciò che contesta la ricostruzione fiscale va opposto (errori procedurali, interpretazioni forzate). Con un dossier probatorio ben congegnato, è possibile vincere la presunzione e far annullare l’accertamento . Se invece le prove sono scarse o contraddittorie, le chance di successo diminuiscono sensibilmente.
Profili penali: quando un prestito “fittizio” può portare a reato
Oltre alle conseguenze tributarie (pagamento di imposte, sanzioni e interessi), i prestiti infruttiferi fittizi possono talvolta sfociare in responsabilità penali tributarie a carico del contribuente (e/o di eventuali consulenti che abbiano agevolato la frode). Vediamo brevemente i possibili reati configurabili e come difendersi sul piano penale.
Evasione fiscale (dichiarazione infedele od omessa). Se le somme non dichiarate che il Fisco riqualifica a tassazione sono particolarmente rilevanti, potrebbero superare le soglie di punibilità previste dal D.Lgs. 74/2000. Ad esempio, il reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) scatta se l’imposta evasa supera €100.000 in un periodo d’imposta e l’ammontare degli elementi attivi sottratti a tassazione eccede il 10% di quanto dichiarato o comunque €2 milioni. Un prestito “finto” di importo elevato potrebbe quindi portare, oltre alla pretesa fiscale, a una denuncia penale se ha comportato un’evasione oltre soglia. In tale caso, la miglior difesa è dimostrare l’assenza del fatto: se si prova che il prestito era reale e dunque non vi era reddito, viene a mancare il presupposto dell’evasione. Diversamente, se il giudice penale ritiene che il prestito fosse simulato e servisse a occultare redditi, potrebbe configurarsi il reato. Va detto che, stante la natura delle presunzioni fiscali, spesso il processo penale richiede prove più solide di quelle sufficienti in sede tributaria. Una assoluzione penale per mancanza di prova certa del reato non implica automaticamente l’annullamento dell’accertamento tributario (bastano indizi gravi per quello); tuttavia, se nel penale emerge evidenza che effettivamente c’era un contratto vero e una restituzione, ciò può riverberarsi positivamente anche sul contenzioso fiscale.
Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D.Lgs. 74/2000). È l’ipotesi più grave, punita fino a 8 anni, che ricorre se il contribuente pone in essere artifici fraudolenti per evadere. L’utilizzo di documenti falsi o di simulazioni potrebbe rientrare qui. Ad esempio, se si falsifica retroattivamente una scrittura di prestito apponendo una data falsa, o se si mettono in atto “artifici” complessi (società schermo, conti esteri) per creare l’apparenza del prestito, si rischia l’accusa di dichiarazione fraudolenta. La difesa, in tal caso, può sostenere che non vi fu dolo intenzionale di ingannare il Fisco, magari evidenziando che la scrittura privata – pur non registrata – era autentica e non creata ad arte dopo, oppure che le operazioni sottostanti (es. trust estero) avevano anche scopi leciti. Spesso, però, se l’impianto accusatorio di frode regge (es. prestanome inconsapevoli, false causali) diventa arduo difendersi se non demolendo gli elementi di prova uno ad uno.
Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000). Questo reato scatta se, dopo che un’imposta è dovuta (ad esempio dopo un accertamento divenuto definitivo), il contribuente compie atti fraudolenti per evitare la riscossione, come simulare alienazioni o creare vincoli fittizi sui propri beni. Nel contesto dei prestiti infruttiferi, potrebbe configurarsi se, ad esempio, a seguito di un accertamento, il contribuente trasferisce il proprio denaro a un terzo simulando un debito (finto prestito da restituire) per non farsi pignorare i fondi dal fisco. Anche in questo caso, la chiave è la simulazione: se il prestito è genuino non è reato; se è creato ad hoc come schermo per sottrarre beni al fisco, allora ricade nell’art. 11. La difesa consisterebbe nel dimostrare la realtà dell’operazione o comunque l’assenza dell’intento di sottrazione (magari provando che quel trasferimento aveva ragioni antecedenti e indipendenti dall’accertamento fiscale).
Altri reati possibili: false comunicazioni sociali se l’operazione coinvolge bilanci di società (ma ormai depenalizzate se non rilevanti), auto-riciclaggio se i fondi provengono da reati e vengono ripuliti attraverso il meccanismo del prestito, o ancora reati comuni come la falsità ideologica (se viene esibito al Fisco un documento materialmente falso, come un contratto retrodatato con firme apocrife). Sono ipotesi limite che però vanno considerate qualora l’escamotage del prestito fasullo si accompagni ad altre condotte illecite.
Come difendersi penalmente? La miglior difesa, ovviamente, è evitare che il caso sfoci nel penale: ciò può avvenire, ad esempio, definendo l’accertamento tributario con pagamento (spesso il pagamento integrale delle imposte e sanzioni attenua o esclude l’interesse a procedere penalmente, specie per dichiarazione infedele) o comunque fornendo già in istruttoria elementi convincenti che facciano desistere la Procura dall’approfondire. Se però il procedimento penale parte, è fondamentale farsi assistere da un difensore esperto in diritto penale tributario. Dal lato pratico, si potrà valutare di produrre in sede penale tutte le prove raccolte (ad esempio chiedendo una perizia grafologica sulla data di redazione del contratto, se contestato, o facendo testimoniare il prestatore); in taluni casi, se la situazione è compromessa, conviene puntare a rientrare nei benefici del patteggiamento o della pena sospesa, magari pagando il debito tributario per ottenere le circostanze attenuanti. Va ricordato che il D.Lgs. 74/2000 prevede talora la causa di non punibilità se il debito tributario (imposta, interessi, sanzioni) viene estinto prima del giudizio: questo è il caso per i reati di omessa dichiarazione e infedele dichiarazione (artt. 5 e 4), mentre per la dichiarazione fraudolenta ciò evita solo l’aggravante ma non esime da pena. Dunque, se l’accertamento viene chiuso con pagamento integrale, il contribuente imputato di dichiarazione infedele potrebbe andare esente da pena (art. 13 D.Lgs. 74/2000). Questa è un’informazione strategica: a volte, pur di evitare la macchia penale, conviene “rassegnarsi” a pagare il Fisco, sfruttando poi l’effetto premiale penale.
In conclusione, un prestito infruttifero fittizio può rappresentare ben più di un problema fiscale: può configurare frodi tributarie punite severamente. Dal punto di vista del contribuente, la regola d’oro è evitare comportamenti che possano apparire come artifici ingannevoli. Se si è in buona fede, occorre dimostrarlo con trasparenza; se invece si è effettivamente usata la scusa del prestito per evadere, le conseguenze penali rischiano di sommarsi a quelle finanziarie. La via d’uscita, in quest’ultimo frangente, è spesso negoziale (patteggiamento, pagamento del dovuto) più che assolutoria.
Come prevenire le contestazioni: consigli pratici e adempimenti formali
La migliore difesa è senza dubbio la prevenzione. Evitare di incorrere in accertamenti o, qualora ciò non sia possibile, farsi trovare preparati con la documentazione in regola, può fare la differenza. Ecco un elenco di best practice e accorgimenti concreti per gestire correttamente i prestiti infruttiferi, tratto dall’esperienza pratica sul campo :
- Formalizzare sempre il prestito per iscritto. Anche se la legge non richiede la forma scritta, stipulate una scrittura privata firmata da entrambe le parti, indicante chiaramente: importo erogato, data di erogazione, modalità (bonifico, assegno, contanti), dichiarazione di infruttuosità (cioè che non sono dovuti interessi), tempi e modalità di restituzione (ad es. “il mutuo sarà restituito entro il 31/12/2026 in un’unica soluzione” oppure “in rate mensili da €X a partire da…”). Questa scrittura costituisce la vostra prima linea di difesa. Non è obbligatorio registrarla subito, ma farlo vi dà un vantaggio: la registrazione presso l’Agenzia delle Entrate, pagando l’imposta di registro (generalmente il 3% dell’importo mutuato, ma se effettuata in ritardo “in caso d’uso” si pagano sanzioni; vedasi tabella dopo) conferisce data certa e opponibilità ai terzi . In alternativa, si può ottenere data certa spedendo due copie originali a ciascuna delle parti via posta raccomandata: il timbro postale farà fede (conservate le buste!). Anche l’invio tramite PEC può attribuire data certa. Insomma, trovate un modo per poter dimostrare che quel contratto esisteva già al momento in cui il denaro ha cambiato mano.
- Utilizzare metodi di pagamento tracciabili e indicare la causale. Evitate assolutamente di dare/ricevere grosse somme in contanti. Oltre a violare le norme antiriciclaggio se sopra soglia (attualmente €5.000 dal 2023, ma potrebbe variare), il contante è opaco e costringe poi a onerose giustificazioni retroattive . Preferite sempre un bonifico bancario o assegno, indicando chiaramente nella causale la ragione: es. “prestito infruttifero da Tizio a Caio in data X”, oppure “finanziamento soci infruttifero”, o “restituzione prestito del… rif. contratto del…” . Queste diciture, che magari all’epoca possono sembrare inutili, diventano oro in caso di controlli futuri: permettono al funzionario di collegare immediatamente il movimento al contratto di mutuo esibito . Viceversa, un bonifico ricevuto con causale vuota o generica (tipo “giroconto” o “trasferimento fondi”) obbligherà a spiegazioni aggiuntive.
- Tenere separati i conti personali e aziendali. Se siete imprenditori o professionisti con conti dedicati all’attività, non mescolate indebitamente le transazioni personali. Non fate transitare sul conto aziendale prestiti personali o viceversa . Ad esempio, se i genitori vi prestano soldi per la casa, non fateli inviare sul conto della ditta individuale: sarebbe complicato poi giustificarlo. Ogni conto dovrebbe riflettere solo operazioni pertinenti: ciò rende più facile isolare i movimenti sospetti e spiegarli. Idem all’interno della famiglia: se avete conti cointestati con coniuge o figli, annotate sempre la provenienza dei versamenti (specie se uno solo dei cointestatari ha redditi). La chiarezza contabile è la prima prevenzione: come si suol dire, “ciò che non confonde non insospettisce”.
- Documentare subito ogni entrata straordinaria. Avete ricevuto una grossa somma una tantum? Che sia un finanziamento familiare, una liquidazione, un risarcimento, ecc., predisponete immediatamente un documento giustificativo . Ad esempio, se la nonna vi regala 20.000 € e decidete di intenderli come prestito da restituire in futuro, fate firmare alla nonna (o scrivete voi e fatele firmare) una breve dichiarazione: “Io sottoscritta nonna tale consegno a mio nipote tale in data X la somma di €…, a titolo di prestito infruttifero, che sarà restituita quando possibile”, allegando fotocopia del suo documento . Questo foglio, conservato, vi metterà al riparo anni dopo se qualcuno domanderà di quei soldi. Se invece era una donazione voluta, meglio ancora fare un atto di donazione (tanto tra nonna e nipote c’è franchigia di €100.000 e aliquota 4%). L’importante è non lasciare vuoti narrativi.
- In caso di accertamento, giocare d’anticipo. Non appena venite a sapere che il Fisco sta controllando i vostri conti (ad es. vi arriva comunicazione di verifica o richiesta estratti conto), iniziate a prepararvi. Ricostruite uno schema di tutti i movimenti per anno: fate una tabella con data – importo – segno (entrata/uscita) – causale effettiva – giustificazione/prova . In pratica, anticipate il lavoro del verificatore, in modo da poter consegnare (quando sarà il momento) un memorandum completo: “Vede, questo bonifico del 10/10 è prestito da mio padre, come da contratto allegato; quest’altro del 20/11 è rimborso assicurazione; questo prelievo è denaro che ho prestato a Tizio, ecco la prova della restituzione…”. Così guiderete l’ispettore nella lettura dei dati, e dimostrerete atteggiamento collaborativo. Se poi l’ufficio ignorasse le vostre spiegazioni senza confutarle, ciò giocherà a vostro favore in contenzioso (difetto di motivazione dell’atto).
- Non intestare fittiziamente conti o beni. È già stato detto ma vale ripeterlo: mettere case, auto o conti a nome altrui per sfuggire al Fisco è un gioco pericoloso. Si rischia di aggravare enormemente la propria posizione se scoperti . Non solo si paga l’imposta evasa, ma ci si espone a sanzioni penali e amministrative aggiuntive per aver tentato di ostacolare l’accertamento . L’Agenzia ormai dispone di banche dati incrociate sui titolari effettivi (v. obblighi antiriciclaggio e registro titolari effettivi). In caso di contestazioni, molto meglio puntare su trasparenza e collaborazione che farsi scoprire in manovre elusive. Come regola, tenete presente: se qualcosa è vostro, dichiaratelo; se non volete dichiararlo, non fatelo apparire con un semplice schermo intestato a terzi, perché gli strumenti per “guardare attraverso” (vedi art. 37, co.3) esistono e vengono usati.
- Coerenza e veridicità nelle spiegazioni. Se siete sotto verifica, ogni affermazione che fate deve essere accurata. Evitate di dare spiegazioni contraddittorie o improvvisate. Nell’esempio precedente: prima dite che il versamento è “prestito di mio zio”, poi magari salta fuori che i fondi provenivano da un conto di vostra moglie – avete peggiorato le cose. Meglio ammettere di non avere al momento tutti i dettagli e chiedere tempo, piuttosto che fornire risposte avventate. Ogni discrepanza verrà evidenziata a vostro sfavore. Se proprio non avete prove su un movimento, potete sollevare questioni di diritto (es. “la presunzione non può applicarsi a questo perché è trasferimento infraconto” ecc.), ma non inventate prove inesistenti. E se qualcosa non torna, è preferibile un silenzio strategico (per non mentire) associato alla contestazione giuridica della presunzione, piuttosto che una bugia che verrà scoperta .
- Rispetto dei termini e completezza. Nel corso del procedimento, rispettate tutti i termini per le memorie e osservazioni. Se ad esempio ricevete un processo verbale di constatazione (PVC) dalla Guardia di Finanza, avete 60 giorni per presentare memorie: fatelo e usate quello spazio per allegare documenti, spiegare, correggere eventuali errori dei verificatori . Giocarsi tutte le carte già in fase amministrativa non è un male: se convincono, l’accertamento potrebbe essere annullato in autotutela. Se non convincono, le riutilizzerete in giudizio. L’importante è dimostrare di aver fatto tutto il possibile per chiarire. Tenete presente che nuovi documenti in appello potrebbero non essere ammessi se l’Amministrazione ne aveva fatto richiesta prima e voi non li avevate forniti senza motivo . Quindi non “nascondete le carte” strategicamente nella speranza di tirarle fuori all’ultimo: rischiate di non poterle usare affatto.
Seguendo questi principi, ridurrete drasticamente la probabilità di un accertamento fiscale sfavorevole sui vostri prestiti. La chiave è documentare, tracciare e conservare. Un prestito tra privati, se ben formalizzato e tracciato, non offre appigli al Fisco: non c’è reddito da tassare né misteri da svelare, perché tutto risulta chiaro fin dall’inizio . Viceversa, un prestito gestito con leggerezza (magari solo verbale, in contanti, tra soggetti senza legami stretti) può apparire sospetto anche quando è genuino. Ricordiamo in particolare ai lettori che tra familiari i finanziamenti infruttiferi sono frequenti e assolutamente leciti, ma proprio per questo vanno trattati con cura per non trasformare un gesto di fiducia in una fonte di guai: mettere tutto per iscritto, anche con due righe, e magari registrare il contratto pagando l’imposta di registro (spesso poche centinaia di euro, comunque preferibile a un contenzioso) . Inoltre, considerare sempre l’alternativa: se l’intento reale è di regalare la somma al figlio o al parente, forse è meglio optare direttamente per la donazione formale (nel 90% dei casi tra familiari stretti non si paga imposta perché sotto franchigia, o comunque le aliquote sono contenute) . Simulare un prestito quando in realtà non si vuole la restituzione è una strategia miope: rischia la nullità civilistica e le sanzioni fiscali, quando la stessa operazione poteva essere inquadrata correttamente come donazione esente. In sintesi, onestà e trasparenza premiano sempre nel lungo periodo, specie con il Fisco.
Di seguito, presentiamo due tabelle riepilogative che sintetizzano i concetti chiave fin qui esposti: la prima elenca le principali norme coinvolte e il loro effetto in tema di prestiti infruttiferi; la seconda confronta diverse situazioni tipiche di prestiti e le relative implicazioni fiscali e difensive.
Tabelle riepilogative
Tabella 1 – Norme chiave su prestiti infruttiferi e accertamento fiscale
Riferimento normativo | Ambito | Contenuto essenziale | Implicazioni pratiche |
---|---|---|---|
Art. 1813 c.c. (Contratto di mutuo) | Codice Civile – Obbligazioni | Definisce il mutuo: il mutuante consegna una determinata quantità di denaro o beni fungibili al mutuatario, che si obbliga a restituire cose della stessa specie e quantità. Può essere fruttifero o infruttifero. | Il prestito tra privati è valido anche senza interesse. Il mutuo si perfeziona con la consegna del denaro. Contratto consigliato ma non obbligatorio per validità. |
Art. 1815 c.c. (Interessi) | Codice Civile – Obbligazioni | Se nel mutuo non sono stipulati interessi, il mutuo si presume gratuito. Se sono pattuiti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi (solo il capitale). | Conferma che l’assenza di interessi è lecita. Tuttavia, fiscalmente, se non si dichiara nulla sul tasso, l’Amministrazione potrebbe supporre interessi al tasso legale . Conviene espressamente indicare “prestito infruttifero”. |
Art. 782 c.c. (Forma delle donazioni) | Codice Civile – Contratti | La donazione richiede l’atto pubblico notarile (salvo donazioni di modico valore) a pena di nullità. | Un trasferimento di denaro senza obbligo di restituzione deve essere formalizzato con atto notarile. Se si simula un prestito per evitare l’atto pubblico, si rischia una donazione nulla e sanzioni . |
Art. 32, co.1 n.2, DPR 600/1973 (Indagini bancarie) | Accertamento fiscale – Redditi | I versamenti e i prelevamenti sui conti del contribuente, se non giustificati, si presumono ricavi/proventi tassabili sottratti a imposizione. Presunzione relativa: onere al contribuente di provare diversa provenienza . | Norma alla base degli accertamenti finanziari. Significa che ogni accredito sul conto corrente deve avere una spiegazione. Un prestito ricevuto deve essere provato con documenti (contratto, ecc.) per evitare che venga trattato come reddito evaso . |
Art. 37, co.3, DPR 600/1973 (Interposizione di persone) | Accertamento fiscale – Redditi | “In caso di interposizione fittizia di persona, i redditi si considerano prodotti dal soggetto per conto del quale l’interposizione è stata attuata.” Il Fisco guarda al titolare effettivo dei redditi, ignorando prestanome e schermi . | Consente di colpire prestiti fittizi con interposti: es. un trust prestanome, un familiare che presta solo formalmente. L’onere della prova qui è sul Fisco, che deve dimostrare l’interposizione (anche tramite indizi forti). Il contribuente dovrà controbattere provando l’effettiva autonomia del terzo. |
Art. 37-bis DPR 600/1973 (ora art. 10-bis L.212/2000 – Abuso del diritto) | Accertamento fiscale – Elusione | Permette di ignorare vantaggi fiscali indebiti derivanti da operazioni prive di sostanza economica e finalizzate all’elusione dell’imposta. L’abuso va contestato con specifico procedimento e motivazione. | Può essere invocato per riqualificare prestiti simulati in qualcos’altro (donazione, dividendo occulto, ecc.) se l’unico scopo era risparmiare tasse (es. evitare imposta di donazione). Il contribuente, per difendersi, deve evidenziare valide ragioni economiche dell’operazione. |
Art. 53 Costituzione (Capacità contributiva) | Principio costituzionale – Fisco | “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva.” Impone che il prelievo fiscale sia correlato ad indici reali di ricchezza. Vietata ogni forma di privilegio fiscale arbitrario. | È il fondamento dei poteri antielusivi e antievasivi (presunzioni, abuso del diritto). Consente al Fisco di tassare la sostanza oltre la forma . La difesa può richiamarlo per sostenere che tassare un prestito vero (che non arricchisce) violerebbe tale principio – argomento equitativo più che tecnico. |
D.Lgs. 74/2000 (reati tributari) – artt. 4, 5, 10, 11 ecc. | Diritto Penale Tributario | Varie fattispecie di reato legate a dichiarazioni fraudolente, infedeli, occultamento di scritture, sottrazione al pagamento. Rilevano se i prestiti fittizi sono usati per superare soglie di punibilità (es. > €100.000 imposta evasa) o per porre in essere frodi (es. documenti falsi). | Se un prestito fittizio comporta evasione significativa o artifici ingannevoli, si rischiano procedimenti penali. Es.: prestito come schermo per milioni di ricavi evasi → dichiarazione infedele punibile; uso di falsa documentazione → dichiarazione fraudolenta. Difesa: dimostrare la veridicità del prestito abbassa il profilo penale; altrimenti, collaborazione e pagamento del dovuto possono attenuare le pene. |
Obblighi antiriciclaggio (D.Lgs. 231/2007) – Limiti al contante, registri, ecc. | Normativa finanziaria | Prevede limiti all’uso del contante (es. divieto di trasferimenti ≥ €5.000 fra privati in unica soluzione), obbligo per banche di segnalare operazioni sospette, identificazione dei titolari effettivi. | Incide sui prestiti: se fatti in contanti sopra soglia, sono sanzionabili a prescindere. Inoltre i prestiti infruttiferi atipici (es. tra sconosciuti) potrebbero far scattare segnalazioni per riciclaggio. Tenersi nelle regole (no contanti elevati, causali chiare) evita attenzioni indesiderate . |
Imposta di registro su finanziamenti – Art. 9 Tariffa, Parte I, DPR 131/1986 | Imposta indiretta – Registro | I contratti di mutuo sono soggetti a imposta di registro proporzionale del 3% sull’importo mutuato, salvo esenzioni (es. mutui bancari soggetti a imposta sostitutiva). Se il contratto non viene registrato volontariamente, l’imposta è dovuta solo in caso d’uso (es. se portato in giudizio). | Un prestito tra privati non richiede obbligatoriamente la registrazione immediata. Se però lo registrate per dare data certa, dovrete pagare il 3%. Molti preferiscono evitare finché non serve (infatti se resta un accordo privato, l’Agenzia solitamente non ne viene a conoscenza ). Tuttavia, attenzione: se poi il documento viene esibito in giudizio o a un pubblico ufficiale, scatterà la registrazione d’ufficio con imposta + sanzioni . È possibile fare una registrazione tardiva spontanea con sanzioni ridotte. Valutate pro e contro: registrare da subito = costo 3% ma massima opponibilità; non registrare = risparmio immediato ma rischio, in caso di lite, di dover pagare 3% + sanz. minime . |
Imposte dirette sui prestiti (TUIR) – Art. 44, 45, 46 ecc. | Imposte sul reddito – IRPEF/IRES | Gli interessi attivi da prestito costituiscono redditi di capitale per il creditore (tassati al 26% se corrisposti da privati) . Il capitale rimborsato non è reddito (restituzione di somme proprie). Per le società, l’art. 46 TUIR qualifica i versamenti soci come finanziamenti salvo diversa indicazione. | Un prestito infruttifero non genera reddito tassabile per chi presta (né costo deducibile per chi riceve) . Importante però poter dimostrare che era davvero un finanziamento e non un ricavo. Se c’è un interesse convenuto, questo va dichiarato dal creditore. Società: indicare chiaramente in bilancio la natura del versamento (finanziamento vs capitale). |
Tabella 2 – Tipologie di prestito infruttifero: rischi fiscali e difese
Scenario del prestito infruttifero | Rischio fiscale potenziale | Contromisure e difese consigliate | Riferimenti utili |
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Prestito tra parenti stretti (es. genitore-figlio) senza interessi, con accordo informale verbale. Somma di medio-grande entità (es. decine di migliaia di euro) erogata in unica soluzione su c/c del figlio. | – Se il figlio acquista beni (es. casa, auto) con quei soldi, l’Ufficio potrebbe chiedere prova della provenienza. In assenza di documenti, rischio che venga considerata donazione nulla o reddito non spiegato in capo al figlio . <br> – Il genitore potrebbe non avere problemi immediati se ha prelevato legalmente i fondi, ma il figlio potrebbe subire un accertamento sintetico sul tenore di vita o sul maggior patrimonio (redditometro). | – Contratto scritto di mutuo tra genitore e figlio, datato prima dell’erogazione. <br> – Causale del bonifico: indicare “prestito infruttifero” . <br> – Se possibile, registrare la scrittura (in alternativa, scambio raccomandate per data certa). <br> – Dimostrare che il figlio ha effettivamente restituito (anche in parte) l’importo, o comunque prevedere un piano di rimborso realistico. <br> – In caso di accertamento: esibire subito il contratto e le contabili; sottolineare il rapporto familiare (è normale l’assenza di interesse tra parenti, animus di aiuto reciproco) . <br> – Se l’importo è molto alto e in realtà era una liberalità, valutare di sanare con una donazione formale (specie se entro franchigia) per il futuro. | – Prestito parentale documentato: evita riqualifica come donazione simulata . <br> – Casi di acquisto casa con soldi del padre: AdE richiede prova; scrittura privata con data certa consigliata . <br> – Cass. civ. sez. VI n. 2625/2016: tra parenti stretti è plausibile il prestito gratuito, ma servono riscontri oggettivi (data certa, movimentazione bancaria). <br> – Art. 782 c.c.: donazione nulla se non a mezzo notaio (salvo modico valore). |
Prestito tra amici/conoscenti (no legami di sangue). Importo significativo (es. €30.000) versato con bonifico ma senza contratto scritto, solo accordo verbale. | – Molto sospetto per l’Agenzia: “chi presta soldi a un amico senza chiedere interessi?”. Possibile contestazione come reddito occulto per il beneficiario, se non viene fornita prova. <br> – L’Ufficio potrebbe insinuare che la causale reale fosse diversa (pagamento per prestazione in nero, vincita gioco, ecc.). <br> – Rischio accertamento IRPEF su €30.000 come “redditi diversi” se l’amico beneficiario non prova il contrario . | – Anche qui, scrittura privata di mutuo è la salvezza. Tra amici è ancor più importante indicare un termine di restituzione o delle rate (per simulare la formalità di un prestito bancario e renderlo credibile). <br> – Prova di restituzioni: se l’amico debitore restituisce un po’ alla volta, conservare le ricevute (queste fungeranno da prova a posteriori). <br> – Evitare assolutamente contanti: usare bonifico con causale. Se già fatto senza contratto, si può rimediare firmando uno retroattivo con data certa tramite registrazione (si paga 3% ma si mette in regola la posizione prima di eventuale controllo). <br> – In sede di eventuale verifica: presentare il contratto e magari una dichiarazione giurata del prestatore che confermi il tutto (non risolutiva da sola, ma di appoggio). <br> – Evidenziare che il prestatore aveva i mezzi per quella somma (esibire documenti reddituali del prestatore se necessario). | – Caso classico Caio/Tizio €30k: se Caio non ha “uno straccio di prova scritta”, AdE può imputare reddito . <br> – Cass. n. 13112/2020: onere rigoroso in capo al contribuente, dichiarazioni di terzi non bastano . Serve dimostrazione analitica per ogni importo. <br> – Prestiti tra estranei: far emergere motivazioni (es. investimento comune, utilità per prestatore come futura collaborazione). <br> – In mancanza di legame familiare, abuso del diritto più facile da eccepire (perché l’“animus donandi” è meno naturale). |
Finanziamento infruttifero di un socio alla propria società (es. SRL o SNC). Somme versate dal socio in conto finanziamento, senza interessi né delibere formali. | – Possibile contestazione di interessi attivi occulti in capo al socio finanziatore, se la società non ha evidenziato l’infruttuosità in bilancio . <br> – In passato obbligo comunicazione annuale (abolito) ma l’AdE potrebbe chiedere in verifica i dettagli. <br> – Rischio di riqualifica a capitale proprio se l’apporto è ripetuto e senza restituzione (con possibili effetti su deducibilità eventuali perdite, ecc.). <br> – Se la società è di persone, versamenti soci considerati mutui onerosi salvo prova contraria da bilancio (Cass. 2735/2011) . | – Formalizzare il finanziamento con delibera assembleare o contratto tra socio e società, specificando che è infruttifero. Allegare il contratto al bilancio o quantomeno far risultare nella Nota Integrativa che “il socio X ha effettuato finanziamenti infruttiferi per €…”. Questo adempie al requisito richiesto dalla norma fiscale . <br> – In contabilità, registrare il versamento su apposito conto “finanziamenti soci” (patrimoniale). <br> – Se l’azienda produce poi utili, valutare di rimborsare il socio nei tempi ragionevoli, per evitare che il finanziamento infruttifero perpetuo insospettisca (in certe vicende, finanziamenti ultradecennali sono stati visti come capitale mascherato). <br> – Durante un accertamento, esibire il bilancio dove risulta il finanziamento e copia del contratto. Se l’Ufficio volesse comunque imputare interessi figurativi al socio, opporsi richiamando la normativa (art. 46 TUIR) e la circostanza che la società ha chiaramente indicato trattarsi di prestito senza interessi. <br> – Tenere presente che l’infruttuosità non genera alcun vantaggio fiscale al socio (anzi, rinuncia a eventuali interessi detassati come dividendi): sottolineare che non vi era motivo di simulare nulla, era scelta gestionale. | – Cass. n. 2735/2011: prestito socio-società si presume fruttifero a meno che dai bilanci emerga la natura diversa . <br> – Cass. n. 1475/2020: contratti con data certa che indicavano infruttuosità non bastano se mancava evidenza nei libri contabili (impostazione rigida) . La prova deve essere dal bilancio. <br> – Norme di comportamento AIDC 2016: ammettono mezzi alternativi (corrispondenza, causali bonifici, ecc.) , ma prudenza perché Cassazione predilige bilancio. <br> – Consiglio: sempre includere la dicitura “finanziamento infruttifero” nel verbale di assemblea o nella decisione del CDA che accetta il prestito. |
Prestito infruttifero da società a socio (o a amministratore) – es. SRL concede €50.000 al socio unico, senza garanzie, rimborsi incerti. | – Altissimo rischio di essere considerato utilizzo personale di utili: l’AdE potrebbe qualificarlo come dividendo anticipato o compenso in natura. <br> – In passato obbligo di comunicazione beni ai soci comprendeva anche denaro a tasso zero (ora abolito) . <br> – Potrebbero tassare il socio su un benefit pari agli interessi risparmiati (come fringe benefit). O addirittura, se il prestito non viene restituito, considerarlo distribuzione di utili non dichiarati, con sanzioni. | – Evitare questa pratica se possibile. Se la società deve trasferire soldi al socio, meglio farlo come dividendo ufficiale (se utili) o come compenso (se lavoro), o formalizzare un finanziamento fruttifero a tassi di mercato. <br> – Se comunque si opta per il prestito infruttifero al socio (magari per ragioni temporanee), predisporre un contratto con chiari termini di restituzione a breve termine. Eventualmente prevedere un tasso sia pur minimo (es. tasso legale) per rafforzare la natura di finanziamento. <br> – Tenere traccia rigorosa: delibera del CDA che approva il prestito al socio, evidenziando perché è nell’interesse della società (es. socio userà i fondi per investimento correlato alla società, ecc.). <br> – Attenzione alla normativa sulle distribuzioni occulte: se la società ha riserve e presta al socio, di fatto il socio sta godendo di liquidità societaria. In caso di verifica, provare che il socio ha restituito integralmente alle scadenze pattuite. In mancanza di restituzione, potrebbe essere convertito in dividendo con relative imposte. <br> – A livello difensivo, se contestano utile occulto, sostenere che trattasi di mutuo genuino: evidenziare eventuali rimborsi avvenuti, mancanza di volontà distributiva (es. nessuna riduzione di capitale, nessun impatto su diritti degli altri soci se ce ne sono). In estrema ratio, il socio potrebbe corrispondere gli interessi legali non pagati per sanare (anche se non previsto, come segno di buona volontà). | – Circolare AdE 24/E 2012 (beni ai soci): i finanziamenti concessi a tassi inferiori al mercato dovevano essere comunicati, perché generavano un potenziale reddito diverso in capo al socio (interessi risparmiati). Normativa poi abrogata nel 2017 . <br> – Cass. n. 11230/2019: se il socio utilizza somme sociali a titolo di mutuo senza interessi, il Fisco può riqualificare come utili occulti distribuire. <br> – È un caso di potenziale abuso del diritto: socio preleva utili mascherandoli da prestito per evitare la ritenuta su dividendi. L’art. 10-bis L.212/2000 permetterebbe di contestare. Solo una reale restituzione salva dalla riqualifica. |
Prestito infruttifero con interposto (trust, fiduciaria, prestanome) – es. denaro del contribuente fatto transitare come prestito da una fiduciaria estera al contribuente stesso. | – Rischio massimo di disconoscimento: l’AdE vedrà l’interposto come schermo e applicherà l’art. 37, co.3. <br> – Possibile contestazione di evasione internazionale: se coinvolti soggetti esteri, violazione monitoraggio fiscale (quadro RW) e imputazione dei redditi al beneficiario italiano . <br> – Penalmente, potrebbe configurare addirittura riciclaggio o autoriciclaggio se fondi illeciti. | – L’unica difesa è dimostrare che l’interposto è soggetto reale: compito arduo. Per un trust, ad es., far vedere che il trustee aveva discrezionalità, che i fondi provenivano realmente da attività del trust, che il beneficiario non aveva controllo. Ciò richiede documentazione estera, pareri legali, ecc. <br> – In caso di prestanome persona fisica: far dichiarare al prestanome (magari in sede testimoniale) che il denaro era effettivamente suo e lo ha prestato all’imputato. Ma se non è vero, è pericoloso e può configurare falsa testimonianza. <br> – Spesso, queste difese non reggono se le prove indiziarie del Fisco sono solide (e lo sono quasi sempre, perché svelare interposizioni è un loro focus). Una strategia è puntare sui vizi procedurali: es. contestare invalida la notifica di atti al trust estero, o la carenza di motivazione sulla natura fittizia. Sono battaglie tecniche dall’esito incerto. <br> – Molto efficace può essere la regolarizzazione volontaria: se parliamo di trust esteri, utilizzare scudi fiscali o collaborazioni volontarie (VD) – in passato c’erano – per dichiarare i redditi occultati, pagando e mettendosi in regola, così svuotando in parte l’accusa di frode. <br> – Nei rapporti con l’interposto, creare separazione: se proprio esiste un trust legittimo, far sì che i prestiti seguano quanto previsto dall’atto istitutivo, a condizioni di mercato, con delibere del trustee, ecc., così da presentare almeno una parvenza di sostanza economica. | – Cass. n. 9096/2025 (Trust estero “King Trust”): trust interposto, redditi imputati al disponente in Italia per mancanza di reale separazione . Confermato che interposizione reale rientra nell’art. 37 co.3 (substance over form) . <br> – Cass. n. 9749/2018: disponibilità delle somme sul conto estero fiduciario imputata al residente beneficiante, non rileva il passaggio formale. <br> – Art. 4 DL 167/90 (quadro RW): obbligo di monitoraggio anche per attività detenute per interposta persona . La mancata compilazione è violazione sanzionabile e indice di volontà evasiva. <br> – In sostanza, molto difficile difendersi se l’interposto è solo figura di carta. |
N.B.: le casistiche sopra non esauriscono tutte le situazioni possibili, ma coprono i casi più frequenti. In ogni scenario, la trasparenza e la documentazione tempestiva sono gli antidoti principali contro le contestazioni. La tabella evidenzia come all’aumentare dell’“anomalia” (prestiti senza logica economica, tra soggetti estranei, con schermi societari, ecc.) aumentino i rischi e servano cautele aggiuntive.
Domande frequenti (FAQ)
D: Un prestito infruttifero tra privati va indicato nella dichiarazione dei redditi?
R: No, di per sé non va indicato, a meno che non produca redditi. Se il prestito è senza interessi, il creditore non ha alcun reddito da dichiarare e il debitore non ha oneri deducibili (gli interessi passivi di un mutuo tra privati non sono deducibili, diversamente dai mutui bancari per casa ecc.) . In passato c’erano obblighi di comunicazione solo per le società (finanziamenti soci) e per i beni ai soci, ma sono stati abrogati nel 2017 . Dunque un prestito tra privati (es. padre-figlio) non va comunicato al Fisco preventivamente. Tuttavia, è vivamente consigliato custodire il contratto e le prove relative, in caso di futura richiesta. Se invece il prestito è fruttifero (con interessi), allora il creditore deve dichiarare gli interessi percepiti come redditi di capitale (rigo RL o quadro RM del modello Redditi, oppure nel 730) . Ad esempio, se prestate €10.000 all’1% annuo, ogni anno avrete €100 di interessi tassabili. Ma per un prestito infruttifero puro, nessun obbligo dichiarativo finché il Fisco non chiede chiarimenti.
D: Devo registrare presso l’Agenzia delle Entrate il contratto di prestito infruttifero?
R: Non è obbligatorio registrarlo, a meno che non vogliate far valere l’atto in una sede ufficiale (giudizio, ecc.) o che l’Agenzia stessa non ve lo chieda. La registrazione volontaria comporta il pagamento dell’imposta di registro – generalmente il 3% dell’importo – quindi molti preferiscono evitarla, specie per somme grosse . La legge dice che le scritture private non autenticate scontano l’imposta solo “in caso d’uso”, cioè se vengono depositate o registrate per volontà delle parti. Ciò significa che potete redigere il contratto in forma semplice, firmarlo e tenerlo nel cassetto senza registrazione: sarà comunque valido tra le parti. L’Agenzia delle Entrate di solito non viene a sapere dell’atto se non lo registrate (non c’è un archivio centrale dei contratti privati non registrati) . Tuttavia, valutate i benefici della registrazione: vi dà data certa opponibile erga omnes. Se temete futuri accertamenti, registrare subito pagando 3% potrebbe essere un’assicurazione. Un compromesso: se non registrate subito, almeno ottenete la data certa (come spiegato prima, via PEC o raccomandata). In caso poi di controversia, potrete sempre registrare tardivamente, pagando il 3% + una sanzione ridotta (di solito 12% se volontaria prima di contestazioni) . Ad esempio, su €20.000 di prestito, il 3% è €600; se tardivo magari pagherete intorno a €600 + €72 di sanzione = €672. Un piccolo costo rispetto a sanzioni fiscali ben maggiori che deriverebbero dall’accertamento. In conclusione: consigliato registrare se la somma è molto elevata o se il rapporto tra le parti potrebbe deteriorarsi (la registrazione tutela anche civilisticamente: un prestito non registrato se portato in giudizio poi richiederà registrazione con sanzioni). Se l’importo è modesto e tra familiari fidati, potete anche evitare la registrazione subito, ma in caso d’uso ricordatevi di farlo.
D: Ho fatto un prestito in contanti a un amico (senza contratto scritto). Se il Fisco lo scopre, posso avere problemi?
R: Sì, è possibile. Innanzitutto, trasferire grosse somme in contanti è di per sé rischioso e talvolta illecito (sopra la soglia legale configura violazione amministrativa). Se ad esempio avete prelevato €10.000 dal conto e li avete dati in mano all’amico, e poi l’amico li versa sul suo conto, il Fisco vedrà un versamento di €10.000 sul conto dell’amico senza una fonte apparente. L’amico dirà “è un prestito”, ma senza prove (né traccia bancaria né contratto) l’Ufficio potrebbe non credergli . Voi come prestatore potreste essere chiamato a confermare, ma la vostra parola è considerata “dichiarazione di terzo” e ha limitato valore probatorio . Quindi, non prestare mai in contanti somme significative. Se è già avvenuto, la miglior cosa è formalizzare subito per iscritto ciò che è successo: data, luogo, importo consegnato in contanti, firma di entrambi. Meglio ancora, effettuare a posteriori un bonifico “fittizio” di pari importo con causale “restituzione prestito contanti del…”. Così almeno rimane traccia del rapporto di credito (l’amico vi restituisce i soldi e poi voi glieli riprestare in modo tracciato – operazione un po’ macchinosa ma chiarificatrice). In mancanza di tutto ciò, se l’Agenzia contestasse, la vostra difesa dovrà puntare a convincere con testimonianze, ma come detto la Commissione Tributaria non è obbligata ad ammetterle. Quindi sì, c’è un concreto rischio che quel versamento in contanti venga trattato come reddito occulto dell’amico (sanzionato) e magari, paradossalmente, come spesa non giustificata per voi (se foste un imprenditore e quel prelievo appare anomalo). Regola: mai cash se l’importo è rilevante.
D: L’Agenzia delle Entrate può presumere che su un prestito infruttifero ci fossero interessi non dichiarati?
R: Può tentare, ma con margini limitati. Per i finanziamenti tra privati, la regola generale è che se non c’è patto di interessi, non ve ne sono da tassare (principio di cassa nel reddito di capitale) . Tuttavia, come ricordato, nelle istruzioni del modello 730/Redditi viene detto che se un privato presta denaro senza pattuizione scritta di interessi, si dovrebbero calcolare al tasso legale e dichiararli . Questo deriva dall’art. 45, comma 2 TUIR. In pratica, il Fisco si riserva di affermare: “non ci hai scritto nulla sugli interessi? Allora presumiamo che tu abbia applicato il tasso legale e non li hai dichiarati.” Ci sono stati casi in passato in cui, su prestiti tra società e soci, l’Agenzia ha preteso interessi figurativi (ad esempio, un socio presta soldi alla sua società: per l’Agenzia era inconcepibile gratis e voleva tassare un interesse minimo) . O ancora, come citato, per i beni ai soci (uso di denaro della società da parte del socio), l’Agenzia calcolava un beneficio in capo al socio pari al tasso ufficiale sul capitale utilizzato . Tuttavia, su prestiti tra familiari, già la prassi amministrativa riconosce che è normale non applicare interessi e che non si può tassare un reddito mai percepito . La stessa Cassazione ha sostenuto che il nostro sistema tassa il reddito effettivo, non quello potenziale, salvo specifiche eccezioni di legge . Dunque, se avete ben specificato nel contratto “prestito gratuito/infruttifero”, sarebbe arbitrario per l’AdE inventarsi degli interessi. In Commissione vincereste facilmente su questo punto, anche invocando il principio di capacità contributiva. Discorso diverso: se non avete scritto nulla e magari il prestito è tra soggetti indipendenti, potreste ricevere una contestazione di interessi legali non dichiarati (con sanzioni per omessa indicazione di redditi di capitale). È raro ma è capitato. In quel caso, la difesa è: “Abbiamo concordato verbalmente che fosse senza interessi, e ciò è lecito (art. 1815 c.c.). Non c’è volontà di occultare interessi”. Si può portare testimoni o elementi che confermino l’intento gratuito (es. contesto familiare, o mancanza di solleciti interessi in anni di rapporto). In sintesi: tra parenti stretti, poco probabile che l’Agenzia insista su interessi figurativi (non sarebbe “in linea coi principi” come ammettono loro stessi) . Tra estranei, eviterei di lasciare vuoto l’argomento: meglio scrivere “senza interessi” per tacitare sul nascere pretese. Se proprio voleste essere iper-scrupolosi e prudenti, potreste pattuirne uno simbolico (tipo 0,1%): paghereste pochi euro di tasse e nessuno potrebbe dire nulla.
D: Un prestito non restituito potrebbe essere considerato una donazione (e tassato come tale)?
R: Sì, questa è una possibilità concreta. Se un prestito viene formalizzato ma poi di fatto non viene mai restituito, l’Amministrazione finanziaria (o anche eventuali eredi scontenti) potrebbe sostenere che, sostanzialmente, quel prestito era una liberalità e che la mancata pretesa di rimborso equivalga a una donazione indiretta. Dal punto di vista fiscale, l’imposta sulle donazioni si applicherebbe in tal caso (tenendo conto di franchigie e gradi di parentela). La Cassazione e la dottrina hanno più volte affrontato casi di prestiti infruttiferi “sine die” tra genitori e figli usati per aggirare l’atto pubblico della donazione: se emergono gli elementi di una donazione (arricchimento definitivo di una parte e correlativo impoverimento dell’altra, assenza di obbligo vero di restituzione), l’operazione può essere riqualificata come donazione nulla (per difetto di forma) con conseguente obbligo di restituire le somme agli eredi o pagamento dell’imposta . Quindi, se il Fisco scopre un “prestito” mai rimborsato tra parenti, potrebbe chiedere l’imposta di donazione (aliquote: 4% tra parenti stretti oltre franchigia €1.000.000; 6% fratelli oltre €100.000; 6% altri parenti fino 4° oltre €100.000; 8% estranei senza franchigia). Cosa fare: in questi casi, di solito conviene regolarizzare spontaneamente. Se ad esempio un padre aveva “prestato” €200.000 a un figlio 10 anni fa e non c’è intenzione né possibilità di restituzione, tanto vale formalizzare ora una donazione con atto notarile (in quel caso recuperando all’oggi la volontà liberale e magari sfruttando la franchigia se non superata) e chiudere il contenzioso. L’imposta di donazione, specie tra genitori e figli, spesso è zero o bassa se rientra nelle soglie, quindi non ha senso rischiare sanzioni per evasione su quella. Da notare: l’Agenzia, per riscuotere l’imposta di donazione, deve comunque individuare l’evento donativo. Se la cosa emerge in occasione di un accertamento reddituale, forse punteranno più sull’IRPEF (che ha sanzioni più gravi). Ma potrebbero anche fare doppio binario: tassazione IRPEF al figlio per reddito non dichiarato e tassazione di donazione per trasferimento a titolo gratuito – ipotesi non ortodossa ma talvolta minacciata. Il contribuente può opporsi dicendo “o è reddito o è donazione, tertium non datur”. L’importante è capire che un prestito non restituito è vulnerabile: ai fini fiscali diventa una donazione (indiretta). E ricordo: donazioni indirette (tipo pagamento di un bene altrui) sono esenti se stipulate in atti soggetti a registrazione proporzionale (es. acquisto casa per il figlio enunciato nell’atto) , ma un prestito non restituito non rientra in quell’esimente, quindi sarebbe tassabile. Quindi sì, se non pensate di farvi restituire il denaro, meglio fare una donazione subito. Se invece inizialmente c’era volontà di rimborso ma poi le cose cambiano, potete trasformare il prestito in donazione attraverso un atto di rinuncia al credito per spirito di liberalità, da farsi sempre con notaio (altra strada per sanare, ma comunque atto pubblicamente registrato).
D: Esiste una soglia di importo entro cui posso prestare soldi senza allarmare il Fisco?
R: Non c’è una soglia fissa per legge oltre la quale scatti automaticamente l’accertamento. Il prestito tra privati è lecito per qualunque importo (anche milioni di euro) purché i fondi siano leciti. Tuttavia, in pratica, importi molto elevati attirano più attenzione. Se prestate €500 ad un amico, nessuno verosimilmente indagherà; se un padre trasferisce €300.000 al figlio, è probabile che, se il figlio viene controllato (magari per redditometro), quel movimento venga analizzato. Le soglie da considerare sono: (a) antiriciclaggio: sopra €5.000 contanti si viola la legge; inoltre, banche e professionisti segnalano operazioni fra privati di entità inconsueta; (b) franchigie donazioni: €1.000.000 tra genitore-figlio, etc., oltre cui la donazione sarebbe tassata; un prestito di poco superiore a questa soglia potrebbe far pensare che si voglia evitare l’imposta; (c) soglie redditometro: se il finanziamento serve per acquisti (es. casa, auto, investimenti) e porta il tenore di vita oltre reddito dichiarato, scatta accertamento sintetico. In generale, posso dire: prestiti fino a qualche migliaio di euro raramente causano problemi, soprattutto se occasionali. Prestiti di decine o centinaia di migliaia di euro dovrebbero essere certificati (scrittura + tracciabilità) perché sicuramente in caso di controllo verranno scrutati . Quindi più che soglia prefissata, ragioniamo in termini di coerenza: €20.000 prestati dal padre ricco al figlio per l’auto: ok se documentato. €100.000 prestati tra due amici studenti nullatenenti: scenario inverosimile, altissimo rischio di contestazione. Insomma, chiedersi sempre: “se io fossi il funzionario che vede questo movimento, lo troverei plausibile?”.
D: Se durante un controllo fornisco un contratto di prestito non registrato, possono multarmi per la mancata registrazione?
R: In teoria sì, possono richiedere la registrazione tardiva con sanzione, ma è una questione separata dall’accertamento reddituale. Mi spiego: la legge sull’imposta di registro prevede che, se un contratto non registrato viene esibito all’Agenzia delle Entrate (ad esempio allegandolo a un ricorso o a una risposta a questionario), scatta l’obbligo di registrazione d’ufficio (art. 22 DPR 131/86). L’ufficio registro potrà quindi liquidare l’imposta (3%) e applicare una sanzione per tardiva registrazione (in misura fissa se presentato spontaneamente prima dell’uso, oppure del 120% ridotto a 1/3 se post uso, ecc.). Nella pratica, se voi producete il contratto non registrato magari in sede di contraddittorio o ricorso, l’Agenzia spesso invita contestualmente a regolarizzarlo. Non farlo non conviene, perché tanto quell’atto ormai “risulta”. Però questa è una sanzione minore (amministrativa, generalmente definibile con ravvedimento) e non incide sull’esito del vostro accertamento reddituale. Anzi, registrando tardivamente ottenete intanto il vantaggio della data certa ufficiale. Quindi, non abbiate timore di esibire il contratto per paura della registrazione: al massimo pagherete il dovuto più una piccola penale. Questa è sempre la scelta migliore rispetto a non mostrarlo affatto (nel qual caso rischiereste di perdere la causa fiscale e pagare imposte ben più salate). Ricordiamo che se avete un contratto con firma digitale con marca temporale, esso ha già data certa e non serve registrazione immediata; ma se lo stampate e lo presentate, credo valga lo stesso discorso di cui sopra (è “in uso”). In definitiva: sì, se il contratto non è registrato dovrete pagare il 3% (salvo rarissime esenzioni) prima o poi se lo utilizzate come prova, ma questo è un piccolo prezzo per garantirvi una difesa vincente.
D: Quanto tempo ha l’Agenzia delle Entrate per contestarmi un prestito non dichiarato? (Termini di accertamento)
R: I termini ordinari per l’accertamento dei redditi oggi sono di norma il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (art. 43 DPR 600/73). Se parliamo di movimenti 2020, ad esempio, il termine è il 31/12/2025. Se la dichiarazione non è stata presentata, i termini diventano 7 anni. Se c’è reato penale e relativa denuncia, c’è raddoppio dei termini (fino a 10 anni). Nel caso specifico di prestiti infruttiferi, la contestazione solitamente è relativa a un presunto “reddito non dichiarato” nell’anno in cui il denaro è affluito al contribuente. Dunque, se Tizio ha ricevuto €50.000 nel 2018 e l’Agenzia lo considera un reddito, ha tempo fino al 31/12/2024 (essendo la dich. 2019 su redditi 2018) per notificare l’accertamento. Passati quei termini, scatta la decadenza e non può più accertare. Quindi, se sono passati 8 anni come nell’esempio della domanda (prestito del 2011, siamo nel 2019 quando la domanda fu posta) , è probabile che i termini siano scaduti (salvo omissione di dichiarazione per quell’anno o denuncia penale). Attenzione: per l’imposta di donazione, i termini sono diversi perché è imposta d’atto (teoricamente senza decadenza se l’atto non è registrato, ma l’AdE difficilmente recupera oltre 5 anni se non c’è stato occultamento). Nel dubbio, fate riferimento ai termini ordinari quinquennali. Una volta decorso il termine, potete tirare un sospiro di sollievo: l’operazione non sarà più accertabile (e infatti nell’esempio della Repubblica si tranquillizzava il padre che dopo 8 anni non doveva più preoccuparsi) . Da notare che per il monitoraggio (RW) e relative sanzioni il termine è anch’esso di 5 anni. Comunque, se oggi nel 2025 vi chiedessero di un prestito 2015, potreste eccepire la decadenza dell’azione impositiva.
D: Ho letto che se presto soldi senza interessi ad un estraneo, il Fisco potrebbe vedere una “rinuncia agli interessi” come regalo. Devo preoccuparmi?
R: Questo è un cavillo teorico che talvolta viene citato ma che nella prassi non ha quasi applicazioni. L’idea è: se Caio presta €100.000 a Sempronio e rinuncia a un interesse annuo, Caio sta regalando a Sempronio l’utilità economica derivante dall’avere denaro gratis (che se avesse chiesto un prestito in banca avrebbe pagato). Quindi, c’è chi ha suggerito che l’Amministrazione potrebbe considerare tale mancato interesse come una donazione indiretta di Caio verso Sempronio. In realtà però, tassare una “mancata percezione” è concettualmente contrario alla logica del nostro sistema (tanto che gli stessi testi dell’Agenzia dicono che tassare redditi non percepiti non è in linea coi principi) . E inoltre, quantificare tale dono sarebbe arbitrario (dovremmo ipotizzare un tasso di mercato, durata, ecc.). Quindi direi di non preoccuparvene: se il Fisco vi contesta qualcosa, lo farà sulla presunzione di interessi occulti (reddito di Caio) o sulla natura simulata del prestito (reddito di Sempronio), ma non vi farà pagare l’imposta donazione su “interessi regalati”. Al limite, in casi estremi tra estranei, un funzionario male informato potrebbe insinuare che il fatto stesso di dare soldi gratis a uno sconosciuto implichi che c’è sotto una donazione o altro (perché perché mai uno dovrebbe farlo?). Ma lì torniamo alla necessità di provare la ragione economica del prestito. Concludendo: non si tassano formalmente le rinunce agli interessi come donazioni, se il capitale viene restituito.
D: La presenza di un contratto scritto basta a evitare l’accertamento?
R: Aiuta moltissimo, ma da sola non è una garanzia assoluta. Un contratto di mutuo infruttifero con data certa anteriore all’operazione è probabilmente il documento più efficace per convincere il Fisco . Spesso, come riconoscono gli esperti, “un documento presentato all’Agenzia Entrate per dimostrare che un accredito sul conto è da prestito e non reddito è spesso risolutivo” . Quindi direi che nella maggioranza dei casi esibire il contratto (specie se corredato da registrazione o data certa) chiude la questione. Tuttavia, esistono circostanze in cui l’Ufficio potrebbe dubitare lo stesso: ad esempio, se il contratto è redatto in forma molto generica (due righe) e magari datato il giorno prima di un accertamento (sospetto di retrodatazione), oppure se ci sono incongruenze (tipo: contratto dice rimborso a fine 2022 ma al 2025 ancora nulla è stato restituito e nessuno agisce). In quei casi il funzionario fiscale potrebbe dire: “per me è simulato” e tirare dritto con l’accertamento, costringendovi a far valere in Commissione il documento. La giurisprudenza in generale dà peso alle scritture private con data certa, purché coerenti. Ci sono state anche sentenze di merito dove, nonostante il contratto esibito, il giudice ha ritenuto la prova insufficiente se mancavano evidenze del passaggio di denaro reale. Quindi, oltre al contratto, servono almeno i movimenti finanziari tracciabili che lo corroborano. In sintesi, il contratto è condizione necessaria ma non sempre sufficiente: se è un’operazione fisiologica e avete contratto, di solito l’istruttore archivia lì. Se è un’operazione patologica (es. parenti litigiosi dove uno dice prestito e l’altro in altra sede dice donazione), allora il contratto sarà vagliato più criticamente. Ad ogni modo, averlo è infinitamente meglio che non averlo – in quest’ultimo caso siete quasi sicuramente destinati a soccombere. Perciò sì, fate sempre il contratto: nella peggiore delle ipotesi dovrete comunque difenderlo come prova in giudizio, ma almeno avrete qualcosa da difendere!
D: Quali sono le sanzioni amministrative in caso di accertamento su prestito fittizio?
R: Dipende dalla qualificazione: se l’importo viene trattato come reddito evaso, si applica la sanzione per dichiarazione infedele, generalmente dal 90% al 180% dell’imposta dovuta (riducibile a 1/3 se definito per adesione ecc.). Esempio: €50.000 tassati al 25% = €12.500 imposta; sanzione base 90% = €11.250 (ridotta eventualmente). Più interessi di mora. Se invece viene contestata l’imposta sulle donazioni non versata, la sanzione è del 30% dell’imposta + interessi, oltre ovviamente all’imposta stessa. Fortunatamente, spesso una definizione bonaria è possibile (adesione, conciliazione) con riduzioni sanzioni. Se poi si palesa malafede documentale (documenti falsi), l’Agenzia può anche applicare la sanzione per atteggiamento anti-doveroso (fino al 200%). Ma sono situazioni limite. Inoltre, come detto, l’omessa registrazione del contratto comporta a parte la sanzione del 15% (ridotta se ravvedimento) sull’imposta di registro. Quindi, traducendo: la vera botta è se vi tassano come reddito non dichiarato, perché pagate tasse + sanzioni 100% circa. Mentre l’imposta donazione in molti casi è zero (se sotto franchigia) oppure modesta.
D: Prestito vs donazione: come scegliere?
R: Questa è più una domanda di pianificazione patrimoniale che fiscale. Diciamo che conviene formalizzare come donazione quando siete certi che non rivolete indietro i soldi e volete evitare problemi futuri di successione. La donazione richiede atto notarile e comporta costi notarili e possibili imposte, ma mette al riparo da contestazioni di nullità e da liti ereditarie (o le riduce, perché è tutto trasparente). Se invece preferite mantenere un vincolo di restituzione – magari perché non volete arricchire definitivamente l’altro, o per mantenere un controllo – allora si opta per il prestito. Molti genitori usano il prestito infruttifero per aiutare i figli nell’immediato senza intaccare definitivamente la propria sfera (possono chiedere la restituzione, anche se spesso non lo faranno). Dal punto di vista fiscale: fino a certi importi conviene la donazione, perché è esente (es. €200.000 da padre a figlio = donazione esente, niente imposta; prestito = nessuna imposta subito, ma se poi perdonate il debito e non registrato corre rischio nullità). Oltre certe soglie, se la donazione diverrebbe imponibile al 4% mentre il prestito no, alcuni preferiscono il prestito per vedere come va (magari sperando in condono futuri, etc.). Il mio suggerimento: se siete nell’ambito familiare e l’importo entro franchigia, fate pure donazione diretta così siete tranquilli. Se siete oltre franchigia ma convinti che la somma debba restare al figlio, potreste considerare strumenti alternativi (trust, patti di famiglia, o pagar voi direttamente il bene per il figlio – donazione indiretta lecita per spese riconosciute come familiari). Se invece volete solo prestare temporaneamente, allora strutturate un contratto di mutuo ben fatto. In entrambi i casi, chiarite la natura: molti problemi sorgono perché non si è definito cosa fosse (capita poi che il figlio dica “erano soldi miei, regalo” e il padre “no, volevo indietro”: ecco la lite). Chiarezza scritta evita contenziosi futuri, sia fiscali che familiari.
Di seguito inseriamo alcuni esempi pratici ispirati a casi reali per illustrare come tutti questi principi trovano applicazione concreta.
Esempi pratici e simulazioni
Esempio 1: Prestito familiare documentato vs non documentato.
Scenario: Marco, 30 anni, nel 2023 riceve €40.000 da suo padre per avviare un’attività. Nel Caso A, Marco e suo padre firmano a gennaio 2023 un contratto di mutuo infruttifero dove il padre presta €40.000 rimborsabili in 5 anni; il bonifico avviene con causale “finanziamento infruttifero – contratto 10/01/2023”. Marco dichiara nei suoi redditi solo i proventi dell’attività, ovviamente senza considerare i €40.000 che sono un prestito. Nel Caso B, invece, Marco ottiene i 40.000 € in contanti da suo padre senza alcuna scrittura (contano sulla fiducia); Marco versa quei contanti sul suo conto personale a rate di €5.000 al mese per 8 mesi.
Controllo fiscale: Nel 2025 l’Agenzia esamina i conti di Marco (accertamento sintetico perché l’attività va male ma Marco ha comprato un’auto nuova). Vede i versamenti anomali del 2023. – Caso A: all’invito, Marco esibisce immediatamente copia del contratto firmato nel 2023 e le copie del bonifico. L’Agenzia verifica che il padre di Marco aveva disponibilità sul conto e che Marco ha iniziato a restituire (nel 2024 ha fatto un bonifico di €8.000 al padre). Tutto combacia. Esito: l’ufficio archivia la voce, ritenendola giustificata come prestito . Non c’è accertamento su quei €40.000. – Caso B: l’Agenzia vede 8 versamenti da €5.000 con causali inesistenti o generiche. Chiede spiegazioni. Marco afferma verbalmente “me li ha dati papà in prestito”. L’ufficio però nota che il papà è pensionato minimo (da controlli incrociati) e che Marco non produce alcun documento, dicendo solo “ci fidavamo”. L’Agenzia a quel punto contesta l’intero importo come ricavo non dichiarato, presumendo che Marco abbia in realtà “finanziato” la sua attività con introiti non dichiarati. Marco fa ricorso e al padre fa firmare una dichiarazione in cui conferma di aver dato lui i soldi. In giudizio però la Commissione ritiene che una dichiarazione postuma del padre non sia prova sufficiente (potrebbe essere di comodo) . Il ricorso viene respinto: i €40.000 diventano reddito accertato in capo a Marco, con IRPEF e sanzioni. Questo esempio dimostra l’enorme differenza tra un prestito formalizzato e tracciato (Caso A) e uno informale (Caso B). Nel primo, la presunzione è stata vinta subito ; nel secondo, la mancanza di prove ha fatto prevalere la tesi del Fisco.
Esempio 2: Prestito tra amici e onere della prova rigoroso.
Scenario: Due amici, Luca e Davide. Luca nel 2020 ha bisogno di liquidità per aprire un negozio; Davide gli “presta” €25.000. Nessun legame di parentela. Fanno una scrittura ma senza data certa (redatta al PC e firmata privatamente il 15/06/2020). I soldi si muovono però in modo confuso: Davide versa €15.000 con un bonifico a Luca (senza causale chiara) e €10.000 glieli dà in contanti. Luca non restituisce nulla nei due anni seguenti, ma nel 2022 Davide acconsente di rinunciare al rimborso perché l’attività di Luca è in difficoltà. Quindi di fatto il prestito si trasforma in un regalo.
Controllo fiscale: Nel 2023 l’Agenzia controlla Davide (il prestatore) per un redditometro: vede che nel 2020 dal conto di Davide sono usciti €15.000 verso Luca; chiede a Davide spiegazioni su quell’uscita. Davide consegna copia della scrittura di prestito firmata, sostenendo che erano €25.000 in totale (i restanti 10k cash). L’Agenzia a questo punto può fare due cose: (1) verificare Luca. Infatti contatta l’ufficio di Luca e segnala il prestito. (2) valutare se per Davide c’è una donazione. – Versante Luca: Luca viene invitato a chiarire la provenienza dei 25k (15k bonifico + 10k contanti). Luca ammette tutto e produce la stessa scrittura. Però l’Ufficio nota che non c’è traccia di restituzioni, e sospetta che in realtà Luca non restituirà mai nulla (cosa vera, si sono accordati così). Potrebbe quindi ritenere che quel prestito fosse in realtà a fondo perduto e quindi trattarlo come reddito o far partire accertamento per donazione. Essendo amici, propendono per la tesi reddito (magari nero che Luca ha mascherato). Luca dovrà convincere che no, era un prestito genuino solo che per difficoltà non ha ancora restituito. Non avendo date certe e garanzie, la sua posizione è debole. Se venisse emesso accertamento, Luca rischia di perdere, perché la scrittura privata priva di data certa e senza ottemperanza (nessun rimborso) sarà considerata insufficiente. – Versante Davide: per lui, l’ufficio potrebbe contestare la donazione indiretta di €25.000 a Luca, soggetta a imposta donazione 8% (estranei) = €2.000 + sanzioni 30%. Ma questo è raro; più probabile si limiti a usarlo come indizio contro Luca. Davide in sé non ha evasione (anzi ha meno soldi). Eventualmente potrebbero sanzionare il trasferimento contanti di 10k (violazione antiriciclaggio, 10% di 5k ecc.).
Esito ipotetico: Luca riceve un avviso di accertamento per redditi 2020 + sanzioni. Ricorre in CTP portando Davide come testimone (in forma di dichiarazione giurata). Se il giudice ammette valore, potrebbe credergli, ma se segue Cassazione, dirà che la prova doveva essere più rigorosa (per esempio mostrando prelievo contanti Davide, quietanze firmate, ecc.) e potrebbe confermare l’accertamento . Morale: i prestiti tra amici sono casi in cui bisogna essere ancor più accorti che in famiglia, perché mancano attenuanti “affettive”. Servono pezze d’appoggio solide o il Fisco sospetterà il peggio.
Esempio 3: Finanziamento socio-società mal gestito.
Scenario: La Alfa Srl è una piccola azienda di cui Mario detiene il 90%. Nel 2019 Alfa Srl ha avuto perdite e poca liquidità, così Mario fa un versamento di €100.000 sul conto della società definendolo a voce “prestito soci”. La società nel bilancio 2019 inserisce semplicemente la somma tra le disponibilità liquide; non c’è un contratto scritto, né viene menzionato formalmente il debito verso Mario (il commercialista lo rileva nel c/capitale sociale come “apporto soci” generico). Mario non chiede interessi. Nel 2020 e 2021 Alfa Srl torna in utile ma non restituisce nulla a Mario. Nel 2022 arriva un controllo fiscale.
Contestazione: L’Agenzia rileva che quei €100.000 non risultano in alcuna voce di finanziamento in bilancio (avrebbe dovuto essere evidenziato nel passivo). Quindi ipotizza due cose alternative: (a) o che non era un prestito ma un apporto a capitale (che in sé non crea problemi di imposte dirette, ma doveva essere deliberato come aumento capitale); oppure, più insidioso, (b) che fosse sì un prestito ma fruttifero per legge, e che la società avrebbe dovuto imputare interessi attivi al socio Mario. In base all’art. 46 TUIR e Cassazione, l’onere di provare l’infruttuosità è a carico del contribuente ma dev’essere da bilancio . Qui non c’è traccia. Dunque l’ufficio calcola interessi legali su €100.000 per il 2019, 2020, 2021 (diciamo 0,8%, 0,05%, 1,25% – cifre reali di quei tempi): viene circa €2.100 di interessi totali. Li considera reddito di capitale non dichiarato da Mario. Inoltre, nega alla società la deducibilità eventuale (ma Alfa non li aveva neppure iscritti a costo, quindi ok). Mario si ritrova un avviso IRPEF su €2.100 con imposta 26% (€546) + sanzione 90% (€491). Non è una grande cifra, ma è scocciante e crea precedenti. Mario e Alfa provano a difendersi dicendo che era infruttifero come da accordo verbale; allegano magari uno scambio e-mail del 2019 in cui Mario dice all’amministratore “ti faccio questo prestito senza interessi”. La Cassazione però, come visto, dice che se non è in bilancio, la prova non vale . Con ogni probabilità la Commissione Tributaria darà ragione al Fisco e Mario dovrà pagare su quegli interessi figurativi. Non solo: la Guardia di Finanza segnala che quell’operazione sembra in realtà una ricapitalizzazione non formalizzata, quindi la società doveva pagare imposta di registro su quell’apporto perché enunciato in verifica (3% di 100k = €3.000) e Mario avrebbe dovuto eventualmente fare una perizia di stima ecc. Questo per dire che malformalizzare le cose tra socio e società porta conseguenze.
Rimedi che avrebbe dovuto adottare: Far deliberare dall’assemblea un finanziamento soci infruttifero ex art. 2467 c.c., registrando a libro soci il debito. Oppure, se lo scopo era patrimoniale, aumentare capitale formalmente. Così nessuno avrebbe tassato niente (in aumento capitale non c’è imposta diretta, solo fissa registro). Questo esempio insegna che società e soci devono registrare contabilmente i finanziamenti infruttiferi, sennò per il Fisco “non scritto = oneroso di default” .
Esempio 4: Conto corrente intestato al prestanome e interposizione fittizia.
Scenario: Antonio, imprenditore individuale, nel 2021 incassa vari pagamenti in nero per €50.000. Non volendo versarli sul suo conto (teme controlli), li fa depositare sul conto corrente del cugino Franco, persona di fiducia con basso profilo fiscale. Franco poi nel 2022 preleva gradualmente quei soldi e li riconsegna ad Antonio in contanti. Per giustificare i movimenti (versamenti iniziali sul conto di Franco e i successivi prelievi), i due architettano una scrittura secondo cui Franco avrebbe prestato €50.000 ad Antonio infruttiferi, e Antonio glieli ha restituiti in contanti l’anno dopo.
Contestazione: L’Agenzia nota dal database che Antonio era delegato ad operare sul conto di Franco (errore loro: Antonio aveva delega per sicurezza). Inoltre, i prelievi di Franco coincidono con depositi cash di Antonio su conti aziendali. Scatta dunque la contestazione: l’operazione è considerata interposizione fittizia ex art. 37, comma 3 . I €50.000 originari vengono trattati come ricavi sottratti a tassazione di Antonio. La storiella del prestito tra cugini non regge minimamente: il Fisco la smonta mostrando che i soldi erano di Antonio sin dall’inizio (Franco non aveva redditi per generarli) e che la delega e i flussi provano che Antonio ne aveva disponibilità . Antonio tenta di difendersi dicendo che lui aveva delega solo per comodità e che davvero Franco glieli aveva prestati (provenienti magari da risparmi di Franco, ma non c’è traccia). Nessuna chance: i “gravi indizi” convergono verso l’interposizione . L’accertamento è confermato e Antonio paga le imposte evase più sanzioni e forse viene denunciato per dichiarazione fraudolenta. Il contratto di prestito esibito appare al giudice come un mezzo fraudolento per nascondere la realtà, aggravando la posizione penale. Franco potrebbe essere coinvolto come concorrente. Insomma, un disastro. Questo esempio (ispirato a casi reali di evasione con conti di comodo) mostra che un prestito fittizio usato come copertura può peggiorare la situazione. Se avete una posizione simile (conti terzi usati), l’unica via è forse ravvedersi e sanare prima che scoprano, perché una volta colti, la difesa è quasi impossibile.
Conclusioni
I prestiti infruttiferi tra privati, soci o familiari sono strumenti utili e leciti, ma vanno maneggiati con attenzione per non incorrere nelle maglie del Fisco. Dal punto di vista del contribuente (debitore), difendersi con successo in un accertamento su un prestito presunto fittizio è possibile solo a patto di dimostrare con rigore la veridicità dell’operazione . Ciò significa aver cura, sin dal principio, di creare e conservare le prove: un contratto ben fatto, tracce bancarie, comportamenti coerenti (restituzioni, comunicazioni chiare). In sede di verifica, la collaborazione trasparente paga, mentre l’opacità o – peggio – le bugie scavano la fossa al contribuente . Abbiamo visto come la normativa (art. 32 DPR 600/73) dia al Fisco armi potenti, invertendo l’onere della prova e concedendo ampio spazio alle presunzioni legali ; ma queste presunzioni possono essere vinte se il contribuente presenta una controprova solida e credibile, come riconosciuto anche da varie pronunce (es. l’accertamento viene annullato se il prestito è supportato da scrittura a data certa e causali di bonifico coerenti) .
Abbiamo altresì evidenziato i limiti dell’azione fiscale: l’Amministrazione deve rispettare termini e procedure, e non può inventare redditi inesistenti (ad es. non può tassare interessi mai percepiti senza base normativa solida) . Il contribuente può far valere i propri diritti sanciti dallo Statuto (diritto al contraddittorio, motivazione, ecc.) e appellarsi, in ultima analisi, al giudice terzo che valuterà i fatti in base a logica e documenti. Spesso la diatriba in questi casi si riduce a una domanda: “Questo movimento di denaro rappresenta un reddito (o un’attribuzione patrimoniale) imponibile, oppure no?”. E la risposta dipende in larga misura da come il contribuente ha impostato e narrato l’operazione.
Pertanto, per avvocati e consulenti che assistono clienti in tali vicende, il consiglio è di raccogliere minuziosamente ogni pezzo di prova a sostegno della genuinità del prestito, eventualmente procurarsi perizie (es. sulla data di formazione di un documento, sulla capacità finanziaria del prestatore), e all’occorrenza transigere intelligentemente: se emerge che qualcosa non torna (ad esempio se effettivamente era una donazione camuffata), considerare opzioni di definizione agevolata o regolarizzazione per limitare i danni, anziché andare incontro a probabile soccombenza piena.
Per privati e imprenditori che utilizzano i prestiti infruttiferi come strumento finanziario, il messaggio è: usate questo strumento con criterio. Non abusatene per coprire operazioni opache, perché l’Amministrazione se ne accorge e a quel punto lo trasformerà da vostro scudo a vostra condanna. Invece, se il prestito è autentico, blindatelo burocraticamente: fate in modo che qualsiasi terzo, leggendo le carte, arrivi alla conclusione “sì, è proprio un prestito vero”. Solo così potrete dormire sonni tranquilli, anche in caso di verifica fiscale.
In definitiva, ricordiamo che il nostro sistema tributario – per quanto a volte intrusivo – non vuole colpire i finanziamenti genuini, poiché questi non rappresentano ricchezza nuova, ma solo spostamento di risorse. L’Agenzia delle Entrate mira piuttosto a stanare chi usa i finti prestiti per occultare redditi o regali: queste pratiche, oltre a ledere il principio di uguaglianza fiscale, rischiano di minare la fiducia nell’istituto del prestito stesso. Facciamo dunque in modo di mantenere separata la linea fra vero e falso: un prestito infruttifero sia realmente tale nella volontà e nei fatti. Se così è, con la giusta documentazione e un’adeguata difesa, riuscirete a far valere le vostre ragioni e a difendervi efficacemente dalle pretese indebite del Fisco.
Fonti normative e giurisprudenziali citate: Art. 1813, 1815, 782 c.c.; DPR 600/1973, art. 32, 37 co.3, 37-bis (abrogato); L. 212/2000 art. 10-bis; Costituzione art. 53; DPR 131/1986 Tariffa Parte I art. 9; D.Lgs. 74/2000 art. 4, 5, 10, 11, 13; Cass. civ. n. 2735/2011 ; Cass. civ. n. 21800/2017; Cass. civ. n. 1475/2020 ; Cass. civ. n. 21546/2021 ; Cass. civ. n. 28583/2021; Cass. civ. n. 35959/2021; Cass. civ. n. 9096/2025 ; Cass. civ. n. 9445/2025; Circ. Ag. Entrate 61/E/2007; Circ. 24/E/2012; Norma AIDC 194/2016 ;
- CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 luglio 2021, n. 21546 – Le presunzioni legali in favore dell’erario derivanti dagli accertamenti bancari determinano l’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente, il quale è onerato della prova contraria, la quale deve essere rigorosa – non potendo, ad esempio, essere assolta mediante ricorso a dichiarazioni di terzi
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Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?
Il Fisco, quando rileva prelievi in contanti non motivati o privi di pezze giustificative, può presumere che siano utilizzati per spese personali o addirittura come compensi occulti ai soci e agli amministratori. Questo porta spesso a riqualificare le somme come redditi imponibili, con il recupero di imposte, sanzioni e interessi.
👉 Prima regola: ogni movimento di cassa deve essere documentato con giustificativi chiari e coerenti con l’attività aziendale.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Prelievi frequenti in contanti non collegati a spese documentate;
- Assenza di giustificativi (fatture, ricevute, note spese) a supporto dei movimenti;
- Prelievi sistematici da parte di soci/amministratori non registrati in bilancio;
- Incongruenze tra flussi di cassa e contabilità ufficiale;
- Sospetto di utilizzo personale delle somme aziendali.
📌 Conseguenze della contestazione
- Recupero delle imposte su somme considerate redditi occulti;
- Applicazione di sanzioni fiscali per infedele dichiarazione;
- Interessi di mora sulle somme accertate;
- Contestazioni contributive se i prelievi vengono riqualificati come compensi;
- Rischio di accertamenti ulteriori su costi dedotti e rapporti bancari.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia deve indicare chiaramente perché ritiene i prelievi non giustificati;
- Documentazione di supporto: esistono note spese, fatture o giustificativi legati a quei prelievi?
- Destinazione delle somme: sono servite per spese aziendali o investimenti?
- Congruità con i flussi di cassa: i prelievi erano coerenti con le esigenze operative dell’impresa?
- Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.
🧾 Documenti utili alla difesa
- Registri di cassa e prima nota;
- Fatture e ricevute collegate ai prelievi;
- Note spese e ordini di pagamento;
- Estratti conto bancari aziendali;
- Delibere societarie che giustificano l’utilizzo delle somme;
- Dichiarazioni dei dipendenti o collaboratori che hanno effettuato i pagamenti.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la reale destinazione aziendale dei prelievi con documentazione contabile;
- Contestare le presunzioni dell’Agenzia quando prive di riscontri oggettivi;
- Eccepire vizi formali: carenza di motivazione, notifica irregolare, decadenza dei termini;
- Richiedere autotutela se i prelievi erano già documentati ma non considerati;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per bloccare il recupero;
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🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali e contabilità aziendale;
✔️ Specializzato in difesa di società e soci contro presunzioni su prelievi e movimenti di cassa;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sui prelievi di cassa aziendale non giustificati non sempre sono legittime: spesso si basano su semplici presunzioni.
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