Agenzia Delle Entrate Contesta Rimborsi Chilometrici Esagerati: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché i rimborsi chilometrici corrisposti ai tuoi dipendenti o collaboratori sono considerati eccessivi? In questi casi, l’Ufficio presume che i rimborsi non siano veri rimborsi spese, ma compensi aggiuntivi mascherati, imponibili ai fini fiscali e contributivi. La conseguenza è il recupero delle imposte e dei contributi, con sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: esistono strumenti per dimostrare la correttezza dei rimborsi e difendere l’azienda.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i rimborsi chilometrici
– Se le tratte dichiarate non risultano giustificate da trasferte o missioni reali
– Se i chilometri rimborsati superano di molto i percorsi effettivamente percorsi
– Se i rimborsi non rispettano le tabelle ACI o i limiti fiscali previsti
– Se manca documentazione adeguata (ordini di missione, note spese, relazioni di viaggio)
– Se i rimborsi risultano ricorrenti e fissi, assimilabili a retribuzione

Conseguenze della contestazione
– Tassazione dei rimborsi come redditi da lavoro dipendente o assimilati
– Recupero delle imposte e dei contributi previdenziali non versati
– Applicazione di sanzioni per indebite deduzioni o infedele dichiarazione
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Maggior rischio di controlli fiscali e ispettivi in azienda

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’effettività delle trasferte con ordini di missione, relazioni di servizio e giustificativi di viaggio
– Provare che i rimborsi sono stati calcolati secondo le tabelle ACI vigenti
– Contestare l’uso di presunzioni eccessive da parte dell’Agenzia prive di riscontri concreti
– Evidenziare errori di calcolo o vizi di motivazione dell’atto di accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento o la riduzione della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione aziendale relativa a trasferte e rimborsi
– Verificare la conformità dei rimborsi alle norme fiscali e contributive
– Redigere un ricorso fondato su vizi formali e sostanziali dell’accertamento
– Difendere l’impresa davanti ai giudici tributari contro pretese indebite
– Salvaguardare il patrimonio aziendale e personale degli amministratori da azioni esecutive

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della correttezza dei rimborsi effettuati
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce nei termini, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e del lavoro – spiega come difendersi in caso di contestazioni sui rimborsi chilometrici e come tutelare i tuoi diritti.

👉 La tua azienda ha ricevuto una contestazione sui rimborsi chilometrici? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo l’atto, verificheremo la correttezza della documentazione e costruiremo la strategia difensiva più efficace per proteggere i tuoi interessi.

Introduzione

L’Agenzia delle Entrate italiana presta da sempre particolare attenzione ai rimborsi chilometrici corrisposti da imprese e datori di lavoro. Si tratta delle somme riconosciute a dipendenti, collaboratori o professionisti per l’uso del proprio veicolo personale nello svolgimento di attività lavorative. Questi rimborsi hanno natura di indennizzo, servono a compensare costi come carburante, usura del mezzo, manutenzione e assicurazione, che il lavoratore sostiene per conto dell’azienda . In linea generale, i rimborsi chilometrici non concorrono a formare il reddito imponibile del percipiente, in quanto non sono considerati una retribuzione ma un mero rimborso spese . Tuttavia, affinché conservino tale carattere esente da tassazione, è necessario rispettare precisi limiti e condizioni stabiliti dalla normativa fiscale.

Negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli sui rimborsi per l’utilizzo di auto private, contestando quelli ritenuti “esagerati” o non adeguatamente giustificati. L’ipotesi tipica è quella in cui il Fisco riqualifica una parte del rimborso chilometrico come reddito imponibile o spesa indeducibile, sostenendo che ecceda il costo effettivo del viaggio o che mascheri di fatto un’integrazione retributiva. In questi casi il destinatario dell’accertamento – sia esso un datore di lavoro, un professionista associato o lo stesso dipendente – si trova nella posizione di debitore verso l’erario e deve predisporre una strategia difensiva efficace dal punto di vista del contribuente.

In questa guida approfondiremo, con taglio avanzato ma divulgativo, la disciplina italiana vigente (aggiornata ad agosto 2025) sui rimborsi chilometrici e le più recenti pronunce giurisprudenziali in materia. Ci rivolgeremo sia a professionisti del diritto (avvocati tributaristi, consulenti del lavoro) sia a privati e imprenditori interessati a comprendere i propri diritti e obblighi. Verranno esaminate le normative di riferimento, le casistiche operative più comuni, e verranno fornite indicazioni su come difendersi da contestazioni fiscali relative a rimborsi chilometrici considerati eccessivi.

Struttura della guida: affronteremo dapprima l’inquadramento normativo (leggi, regolamenti e prassi dell’Agenzia) e i differenti regimi fiscali a seconda del soggetto e delle modalità di rimborso. Proseguiremo con l’analisi delle cause frequenti di contestazione da parte del Fisco e delle relative conseguenze (rettifiche, sanzioni, contributi previdenziali). Quindi illustreremo le strategie di difesa disponibili in sede amministrativa e giudiziale, supportandole con sentenze aggiornate delle Corti Tributarie e della Corte di Cassazione (compresi i più recenti orientamenti del 2025). Saranno incluse domande e risposte frequenti per chiarire i dubbi pratici, tabelle riepilogative dei principali limiti ed esenzioni, nonché esempi e simulazioni di casi concreti utili a comprendere l’applicazione delle norme. L’obiettivo è fornire un quadro completo e aggiornato, dal punto di vista del contribuente, su come prevenire e affrontare le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate in materia di rimborsi chilometrici.

Normativa di riferimento sui rimborsi chilometrici

Per impostare una difesa efficace è fondamentale conoscere la normativa italiana che disciplina i rimborsi chilometrici. La materia è articolata, poiché tocca sia le imposte sui redditi (regime fiscale in capo al dipendente o al percettore del rimborso, e deducibilità in capo all’azienda) sia gli oneri previdenziali. Inoltre, le regole variano a seconda della natura del rapporto (lavoro dipendente, collaborazione, amministrazione societaria, associazione professionale) e delle modalità con cui il rimborso è corrisposto (a trasferta fuori sede oppure all’interno del comune, in forma analitica o forfettaria, ecc.). Di seguito riepiloghiamo le fonti principali.

Rimborsi chilometrici ai dipendenti: Art. 51 TUIR e regole fiscali

Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), all’art. 51 comma 5, disciplina il trattamento fiscale delle somme erogate ai lavoratori dipendenti a titolo di rimborso spese per trasferte. La regola generale è che:

  • Trasferte fuori dal territorio comunale: non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente i rimborsi di spese documentate di vitto, alloggio, viaggio e trasporto, nonché eventuali ulteriori spese non documentabili, sostenute in occasione di trasferte fuori dal comune in cui è fissata la sede di lavoro . In alternativa al rimborso analitico, sono esenti da imposizione le indennità forfettarie di trasferta entro determinati limiti giornalieri (fissati in €46,48 per trasferte in Italia e €77,47 per l’estero) . Se l’azienda rimborsa analiticamente alcune spese (es. paga direttamente vitto e/o alloggio), i limiti delle diarie esenti si riducono di conseguenza (a €30,99 o €15,49 giornalieri in certi casi, secondo le combinazioni previste) . In ogni caso, le spese di viaggio e trasporto documentate (biglietti del treno, aereo, fatture taxi, ecc.) non rientrano nel tetto delle diarie e non sono imponibili. Il rimborso chilometrico – quando il dipendente usa la propria auto – rientra nelle spese di viaggio/trasporto e gode di esenzione totale da imposte purché calcolato secondo le tabelle ufficiali dei costi chilometrici (tabelle ACI) e adeguatamente documentato .
  • Trasferte all’interno del territorio comunale: in questo caso il trattamento è opposto. Qualsiasi indennità o rimborso erogato per trasferte intra-comunali è normalmente considerato reddito imponibile per il dipendente , ad eccezione dei rimborsi delle sole spese di trasporto documentate da giustificativi nominativi rilasciati dal vettore (per esempio, il rimborso di un biglietto dell’autobus o del taxi per una commissione in città non è tassato) . Ne consegue che il rimborso chilometrico per tragitti compiuti con mezzo proprio all’interno del comune di lavoro, in linea di principio, concorre al reddito del dipendente. Questo perché gli spostamenti all’interno della città sede di lavoro sono assimilati a normali esigenze lavorative senza il carattere di “trasferta” fuori sede. Un’importante eccezione a tale regola generale è stata recentemente sancita per i rider (fattorini per consegne): in una risposta ad interpello del 2023, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il rimborso chilometrico corrisposto ai rider per le consegne effettuate all’interno del comune non costituisce reddito imponibile, data la peculiare natura della prestazione lavorativa. In tal caso, considerata l’assenza di una sede fissa di lavoro e la strumentalità assoluta del mezzo di trasporto nell’esecuzione del lavoro, le somme erogate (calcolate a km in base al veicolo – es. €0,36/km per auto, €0,15/km per scooter, €0,06/km per bici elettrica ) sono state ritenute meri rimborsi costi, esclusi da tassazione anche se le tratte sono urbane . Questo pronunciamento innovativo (Risposta a interpello n. 290/2023) conferma come la strumentalità del rimborso e l’assenza di arricchimento per il lavoratore siano criteri chiave nella qualificazione fiscale .
  • Percorso dalla residenza vs. dalla sede di lavoro: un ulteriore dettaglio normativo – evidenziato dalla Risoluzione Agenzia Entrate n. 92/E del 30.10.2015 – riguarda il caso in cui il dipendente parta in trasferta direttamente dalla propria abitazione anziché dall’usuale sede di lavoro. In tal evenienza, occorre confrontare la distanza percorsa: se il tragitto residenza -> luogo della missione è più lungo di quello sede di lavoro -> luogo della missione, l’eccedenza di rimborso chilometrico dovuta ai km aggiuntivi costituisce reddito imponibile per il dipendente . Viceversa, se partire da casa comporta un percorso più breve (e quindi un rimborso minore rispetto a partire dall’ufficio), l’indennità resta interamente non imponibile . La logica è che il Fisco intende evitare che un dipendente tragga vantaggio fiscale da scelte personali di partenza/arrivo: il rimborso esente si limita alla distanza che avrebbe coperto dall’ufficio, mentre l’eventuale “surplus” legato a distanza extra dal domicilio è trattato alla stregua di compenso . Questa precisazione normativa è spesso al centro delle contestazioni, poiché l’Agenzia verifica se le note spese aziendali hanno calcolato le distanze in modo conforme (sede di lavoro come riferimento) ed eventualmente riprende a tassazione le differenze se così non fosse.
  • Limiti legati al veicolo (tabelle ACI e potenza fiscale): come anticipato, la prassi fiscale richiede che il rimborso chilometrico sia determinato in base alle tabelle ACI in vigore, tenendo conto dei km percorsi, del tipo di veicolo e del relativo costo per km . Le Tabelle ACI vengono pubblicate annualmente e rappresentano il costo chilometrico medio (comprensivo sia dei costi variabili, come carburante, pneumatici, manutenzione, sia dei costi fissi, come assicurazione e bollo, rapportati su una certa percorrenza annua) per ogni modello di autovettura. Va ricordato inoltre che l’art. 95 comma 3 TUIR (richiamato per analogia anche dall’art.51 per i dipendenti) pone un limite alla deducibilità in capo all’azienda: i rimborsi per auto di potenza superiore a 17 cavalli fiscali (benzina) o 20 CV (diesel) non sono deducibili per la parte eccedente il costo chilometrico di un’auto entro tali potenze . In pratica, se un dipendente utilizza un’auto molto potente e costosa, l’azienda può dedurre il rimborso solo fino all’importo che sarebbe spettato per un’auto di media cilindrata (entro 17/20 CV); l’eventuale eccedenza è indeducibile ai fini fiscali per l’impresa . Questo aspetto incide sul costo deducibile per il datore di lavoro, ma non sulla parte imponibile per il dipendente, se il rimborso è calcolato sulle tabelle ACI specifiche del veicolo effettivamente usato (in tal caso per il dipendente rimane non tassato, mentre l’azienda rinuncerà a dedurre la quota eccedente i parametri di legge).

Tabella riepilogativa – Trattamento fiscale dei rimborsi chilometrici ai dipendenti
Situazione Trasferta | Rimborso spese (analitico o forfettario) | Tassazione IRPEF per il dipendente | Deducibilità per l’azienda | |—————————————–|————————————————————–|——————————————————|—————————————————–| | Fuori dal comune – rimborso analitico (documentazione spese viaggio/vitto/alloggio) | – Vitto/alloggio rimborsati su presentazione ricevute<br>– Alloggi alternativamente indennità forfettaria (diaria) entro €46,48 (Italia) / €77,47 (estero) al giorno <br>– Rimborso chilometrico calcolato con tariffe ACI per km percorsi | ESENTE da tassazione (non imponibile) nei limiti (diarie entro soglie, spese documentate illimitate). Nota: eventuali eccedenze (diaria oltre €46,48/€77,47) diventano imponibili. | DEDUCIBILE al 100% entro limiti art.95 c.3 TUIR (auto fino 17/20 CV) . Eccedenze potenza/costi non deducibili. | | Fuori dal comune – indennità forfettaria (diaria pura) | – Indennità fissa giornaliera senza distinta analitica<br>– Nessun rimborso specifico di vitto/alloggio (tutto coperto dalla diaria) | ESENTE fino a €46,48/€77,47 al giorno, oltre tale importo la quota eccedente è imponibile . | DEDUCIBILE per l’azienda nei limiti medesimi (la quota esente è costo deducibile, l’eccedenza imponibile è costo assimilato a retribuzione comunque deducibile come costo del personale). | | Dentro il comune – rimborso spese analitico (es. brevi commissioni in città) | – Rimborso di eventuali spese di trasporto pubblico (biglietti, taxi) documentate<br>– Rimborso chilometrico per uso auto propria su tratte urbane | IMPONIBILE (tutto concorre a reddito), tranne rimborsi di trasporto documentati (biglietti, taxi) che restano esenti . Il rimborso km per auto propria in città è sempre imponibile (poiché non documentato da un vettore). | DEDUCIBILE al 100% per l’azienda, trattandosi in questo caso di costo del personale (retribuzione) a tutti gli effetti. | | Caso particolare – Rider (consegne locali) | – Rimborso chilometrico per consegne in area urbana, calcolato per km (tariffe differenziate per auto/scooter/bici) | ESENTE da IRPEF se il rimborso è determinato in modo oggettivo (es. tramite app, percorso più breve) e copre costi strumentali all’attività senza arricchire il lavoratore . L’Agenzia Entrate ha confermato la non imponibilità anche per tratte comunali data la natura particolare del lavoro di rider . | DEDUCIBILE integralmente come costo d’esercizio per l’azienda, trattandosi di spesa per servizi (consegna) nell’interesse del datore di lavoro . (Va comunque rispettata la coerenza con tariffe medie ACI o costi reali per non configurare remunerazione occulta). |

Note alla tabella: In tutti i casi sopra, il rimborso del tragitto casa-luogo trasferta va raffrontato col tragitto sede-luogo trasferta: l’eventuale maggior percorrenza dovuta alla partenza da casa è imponibile . Inoltre, per i veicoli aziendali dati in uso promiscuo ai dipendenti, valgono regole diverse (fringe benefit calcolato in base a percorrenza forfettaria 15.000 km annui, ecc.), tema distinto dai rimborsi chilometrici e non trattato nella presente guida.

Deducibilità per l’azienda ed equiparazione ai fini contributivi

Dal lato dell’azienda che eroga il rimborso, le somme corrisposte per trasferte e viaggi di lavoro sono deducibili dal reddito d’impresa in base all’art. 95 TUIR. Per i lavoratori dipendenti, non vi è in genere un limite quantitativo specifico di deducibilità (le spese di trasferta sono costi per prestazioni di lavoro deducibili al 100%, salvo il rispetto dei limiti per vitto/alloggio di €180,76 giornalieri in Italia e €258,23 all’estero in caso di amministratori, come si dirà oltre ). Tuttavia, come visto, se l’azienda corrisponde rimborsi eccedenti le tariffe ACI (ad esempio pagando un’indennità chilometrica superiore a quella calcolata secondo ACI, o rimborsando km non effettivamente percorsi), la parte eccedente non è solo imponibile per il dipendente, ma diviene anche indeducibile per l’impresa . In pratica l’Agenzia delle Entrate, in sede di verifica, recupererà a tassazione tale eccedenza come costo non inerente o oltre i limiti di legge.

Sul piano previdenziale, i rimborsi spese seguono generalmente lo stesso trattamento previsto ai fini fiscali ai sensi dell’art. 51 TUIR. Se un rimborso è considerato reddito da lavoro dipendente (imponibile IRPEF), esso normalmente costituisce anche base imponibile contributiva ai fini INPS. Viceversa, ciò che è escluso da tassazione come rimborso spese documentato non sconta contributi. Questo è sancito, ad esempio, dall’art. 51 citato e confermato dalla giurisprudenza: la Cassazione ha affermato che per escludere un rimborso chilometrico dall’imponibile contributivo, il datore di lavoro deve fornire prova documentale analitica degli elementi del rimborso (km percorsi, veicolo utilizzato, tariffa ACI applicata) . In difetto di documentazione, il rimborso chilometrico potrebbe essere assoggettato a contributi come fosse retribuzione. È importante sottolineare che esistono particolari categorie come i lavoratori “trasfertisti” (che per contratto non hanno una sede fissa e ricevono indennità fisse di trasferta a prescindere dall’effettivo spostamento): per costoro la legge (DL 193/2016, art.7-quinquies) ha chiarito che le indennità percepite in misura fissa sono sempre imponibili integralmente, al di là di ogni soglia o documentazione . Questa norma anti-abuso è nata per evitare che vengano corrisposte finte indennità esenti a chi in realtà lavora costantemente fuori sede senza un luogo di lavoro prestabilito. Dunque, qualora l’azienda adotti prassi di erogazione periodica forfettaria (es. un extra fisso mensile per “rimborso chilometrico” indipendentemente dai km effettuati), tale somma verrà presumibilmente qualificata come componente ordinaria della retribuzione, soggetta a contributi e imposte in modo pieno . La difesa del contribuente deve quindi valutare con attenzione anche il profilo contributivo, poiché contestazioni fiscali sui rimborsi possono innescare, in parallelo, richieste di contribuzione arretrata da parte dell’INPS.

Amministratori, soci e professionisti: particolarità della disciplina

Le regole sin qui descritte per i dipendenti trovano applicazione – con gli opportuni adattamenti – anche per altre categorie di soggetti che possono percepire rimborsi chilometrici. In particolare:

  • Amministratori di società e collaboratori coordinati continuativi (co.co.co): Pur non essendo lavoratori dipendenti in senso tecnico, agli amministratori e ai collaboratori assimilati si applicano regole analoghe per i rimborsi di trasferta. L’art. 95 comma 3 TUIR prevede espressamente che, se un amministratore o co.co.co. viene autorizzato ad usare il proprio veicolo per svolgere una missione per conto della società, i rimborsi chilometrici sono integralmente deducibili per l’azienda entro i parametri di potenza (17/20 CV) e di spesa chilometrica ACI . Di conseguenza, tali rimborsi non sono considerati compensi aggiuntivi per l’amministratore, ma mere restituzioni di spese anticipate, e non formano reddito imponibile in capo al percettore . In altre parole, il fisco equipara il trattamento del rimborso spese degli amministratori a quello dei dipendenti: non tassabile se riferito a trasferta fuori comune e documentato, tassabile se riferito a spostamenti nell’ambito comunale o se eccede i limiti come già descritti. L’art. 95 comma 3 TUIR fissa inoltre i medesimi tetti giornalieri per vitto e alloggio (180,76 euro in Italia, 258,23 euro all’estero) per la deducibilità dei rimborsi analitici agli amministratori . Ciò significa che se un amministratore va in trasferta e presenta ricevute di albergo e ristorante, la società può dedurle integralmente entro quei massimali; oltre tali importi, l’eccedenza diventa indeducibile. Tali limiti non si applicano se la società rimborsa solo spese di viaggio/trasporto o se si tratta di trasferte brevi coperte da indennità limitate; in quest’ultimo caso, eventuali somme ulteriori sarebbero comunque qualificabili come compensi. In sintesi, per gli amministratori valgono: esenzione IRPEF dei rimborsi documentati e delle diarie entro le soglie (analoghe art.51), deducibilità piena per la società entro i limiti di potenza e importi giornalieri stabiliti, onere di documentazione a carico dell’azienda per comprovare l’attinenza all’attività sociale.
  • Soci di società di persone o di capitali che utilizzano la propria auto: Se un socio (ad esempio un socio amministratore di SNC, o un socio-lavoratore di SRL) riceve un rimborso chilometrico, bisogna distinguere il titolo in cui opera. Se è un socio amministratore, ricadono le regole appena viste. Se invece è un socio dipendente (caso ad es. delle cooperative di lavoro) si applicano le regole dei dipendenti. Se il socio non ha un vero contratto ma presta attività occasionale rimborsata, l’Agenzia può essere incline a considerare tali somme come utili distribuiti o compensi atipici. Sarà importante in questi casi formalizzare un incarico e documentare le trasferte per difendere la natura di rimborso spese. Le società di persone spesso contabilizzano i rimborsi ai soci come costi deducibili, ma l’Agenzia può contestarli se non inerenti. La Cassazione ha comunque chiarito – in ambito di associazioni professionali, ma con principi estensibili – che non esiste un divieto a rimborsare spese ai soci e dedurle, purché inerenti all’attività .
  • Professionisti associati (studi associati): Un caso peculiare su cui la giurisprudenza recente è intervenuta è quello degli studi professionali associati (es. associazioni tra avvocati, commercialisti, ingegneri) in cui gli associati, non avendo una propria partita IVA autonoma, addebitano allo studio le spese di trasferta effettuate con i propri mezzi. Fino a poco tempo fa vigeva incertezza: alcuni controlli fiscali sostenevano che tali rimborsi dovessero subire la limitazione del 40% (oggi 20%) prevista dall’art. 164 TUIR, in quanto assimilabili a spese per autovetture dell’associazione . Gli studi associati ribattevano che l’art.164 si applica ai veicoli di proprietà dell’associazione, non ai rimborsi di costi personali dei singoli professionisti, e che invece fosse applicabile in via estensiva l’art. 54 TUIR (regole del reddito di lavoro autonomo individuale, basato sull’inerenza). Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Tributarie della Cassazione nel 2022-2025, che hanno dato ragione ai contribuenti. In particolare, con l’Ordinanza n. 4226 del 18 febbraio 2025 e poi con l’Ordinanza n. 18364 del 5 luglio 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che i rimborsi chilometrici corrisposti dallo studio associato ai propri membri sono integralmente deducibili e non soggetti al plafond del 20% di cui all’art.164 . La Corte ha argomentato che la limitazione forfettaria di deducibilità per le auto (art.164) ha senso solo per beni intestati all’impresa/professionista e ad uso promiscuo, mentre non ha luogo quando il professionista utilizza il proprio mezzo esclusivamente per attività dello studio e ne viene rimborsato a piè di lista . In tal caso si applica la regola generale dell’art. 54 TUIR (reddito di lavoro autonomo) basata sul principio di inerenza della spesa all’attività, senza percentuali forfettarie . Condizione indispensabile è ovviamente che tali rimborsi riguardino solo trasferte effettivamente effettuate nell’interesse dello studio, adeguatamente documentate: solo così è possibile dimostrare la “stretta strumentalità” e quindi escludere componenti personali . Il principio di diritto formulato dalla Cassazione (ord. 4226/2025) recita infatti: “ricorrendo il requisito della stretta strumentalità della spesa all’attività professionale propria dell’associazione […] ove il trasporto sia effettuato con mezzo proprio di un singolo professionista associato, la spesa stessa sarà deducibile integralmente […] restando la previsione circa la deducibilità limitata al 40% (oggi 20%) […] riconducibile alla diversa ipotesi dei veicoli strumentali all’attività dell’associazione” . Questa pronuncia – in linea con un’analoga del 2022, Cass. n. 776/2022 – fa chiarezza definitiva: l’Agenzia delle Entrate non può limitare forfettariamente la deduzione dei rimborsi auto nei confronti di studi associati, se gli importi rimborsati corrispondono a spese vive dei professionisti per attività lavorativa. Pertanto, dal 2025 in poi, eventuali avvisi di accertamento che riprendessero a tassazione una parte di tali costi invocando l’art.164 sarebbero in contrasto con il consolidato orientamento di legittimità, costituendo un argomento solido di difesa per il contribuente.

In sintesi, il quadro normativo può essere così riassunto:

  • Il rimborso chilometrico corretto, calcolato entro i limiti delle tariffe ACI e relativo a trasferte documentate fuori dal comune, non genera reddito imponibile per chi lo percepisce (dipendente, amministratore o associato) . È invece un costo deducibile per chi lo eroga (azienda, studio) entro i parametri di legge .
  • Qualora il rimborso ecceda tali limiti (per chilometraggio “gonfiato” o tariffa superiore) o non sia adeguatamente provato, l’eccedenza viene considerata dal Fisco come remunerazione occulta: diventa reddito da tassare (e probabilmente soggetto a contributi) e costo indeducibile per l’azienda .
  • Trasferte all’interno del comune di lavoro non godono di esenzione, salvo casi particolari (spese di trasporto documentate, rider con mezzo proprio) .
  • Gli oneri della prova e della corretta applicazione della norma spettano al contribuente: per fruire delle esenzioni occorre poter esibire documentazione (note spese interne, dettaglio dei km e dei percorsi, copia delle tabelle ACI applicate, eventuali pedaggi, ecc.) . In mancanza, l’Agenzia Entrate (o l’INPS) avrà buon gioco nel riclassificare i pagamenti come redditi da lavoro.

Chiarito il contesto normativo, passiamo ora ad esaminare come e perché l’Agenzia delle Entrate contesta i rimborsi chilometrici e quali sono le conseguenze tipiche di tali contestazioni.

Contestazioni dell’Agenzia: cause frequenti e conseguenze

Quando l’Agenzia delle Entrate avvia un controllo su un’azienda o un contribuente, i rimborsi spese di trasferta rappresentano un ambito delicato. Vediamo quali sono le situazioni tipiche in cui il Fisco considera un rimborso chilometrico “esagerato” o irregolare, e cosa comporta la contestazione in termini di richieste fiscali e sanzionatorie.

Perché il Fisco contesta i rimborsi chilometrici “esagerati”

Un rimborso chilometrico può finire nel mirino dell’Agenzia delle Entrate essenzialmente per due ragioni: quantitative (importi troppo elevati rispetto ai parametri) o qualitative (mancanza di inerenza o documentazione). In particolare:

  • Superamento delle tariffe ACI o dei limiti normativi: se dall’esame delle note spese aziendali emerge che l’indennità chilometrica riconosciuta è superiore a quella che risulterebbe applicando le tabelle ACI per il tipo di veicolo e i km dichiarati, l’eccedenza è considerata un rimborso “esagerato”. Ad esempio, un’azienda che rimborsa €0,70/km a un dipendente il cui veicolo secondo ACI costerebbe €0,50/km, sta di fatto erogando €0,20/km in più, che il Fisco reputa una forma surrettizia di reddito. Allo stesso modo, qualora si scoprisse che sono stati rimborsati chilometri in misura maggiore di quelli effettivi (percorsi “gonfiati”), la differenza viene contestata. Queste situazioni spesso emergono in controlli incrociati: l’Agenzia può confrontare le tabelle ACI ufficiali con quanto indicato nelle policy aziendali di rimborso, oppure verificare, ad esempio, i chilometri tra due città su mappe stradali rispetto a quelli richiesti in nota spese. Un caso specifico di superamento limiti è quello già citato della partenza da casa anziché da sede: se non viene tassata la differenza di percorso, l’Agenzia lo rileva e la contesta come surplus non tassato .
  • Mancanza o carenza di documentazione: Il Fisco esige che il rimborso chilometrico sia supportato da una robusta documentazione interna. Ciò include tipicamente: note spese firmate dal dipendente con indicazione di data, motivo della trasferta, luogo di destinazione, km percorsi e mezzo usato; prospetto di calcolo del rimborso con tariffa ACI; ordine di missione o autorizzazione preventiva; eventuali scontrini di pedaggi, parcheggi, ecc. In mancanza di tali elementi probatori, l’Agenzia tende a presumere che il rimborso non corrisponda a spese effettive di viaggio e quindi lo riqualifica come reddito imponibile o spesa non inerente. Ad esempio, se un’azienda rimborsa forfettariamente 1.000 km al mese a un dipendente senza alcun dettaglio (destinazione, ragione, ecc.), per il Fisco quella somma può celare una integrazione stipendiale priva di giustificazione. La Cassazione ha confermato questo approccio, stabilendo che l’onere probatorio per escludere i rimborsi chilometrici dalla base imponibile spetta al datore di lavoro, il quale deve documentare per ciascun periodo i chilometri percorsi, il tipo di mezzo e la tariffa applicata . In sintesi, senza pezze giustificative, il rimborso è “esagerato” a prescindere agli occhi del Fisco, perché non verificabile.
  • Uso promiscuo o non strettamente inerente: L’Agenzia potrebbe contestare i rimborsi qualora ritenga che i viaggi rimborsati non fossero del tutto inerenti all’attività lavorativa. Ad esempio, se un dipendente presenta una nota spese per 500 km nel weekend senza una chiara motivazione lavorativa, oppure se un professionista associato si fa rimborsare trasferte non correlate a clienti/commesse dello studio. In questi casi il Fisco può argomentare che si tratta di costi personali fatti passare per aziendali, quindi indeducibili, e se rimborsati al dipendente costituiscono reddito. È una situazione che spesso emerge nei controlli sulla inerenza delle spese: la Cassazione ha affermato che va valutata l’effettività delle trasferte, ad esempio verificando se a quei viaggi sono seguiti incontri d’affari o attività produttive per l’azienda . Se i verificatori non trovano riscontro di opportunità di business legate ai viaggi rimborsati, possono contestarne l’inerenza.
  • Trasformazione artificiosa di compensi in rimborsi: Questo è uno dei punti chiave nelle contestazioni più gravi. Laddove il Fisco sospetti che il datore di lavoro abbia deliberatamente convertito una parte della retribuzione in rimborso spese per beneficiare dell’esenzione fiscale/contributiva, la reazione è severa. Esempio tipico: un dipendente che da contratto ha sede fissa in azienda, ma viene qualificato fittiziamente come “trasfertista” e ogni mese riceve €500 di rimborso chilometrico fisso in busta paga, senza che vi siano effettive missioni. Oppure un amministratore unico di una società che si auto-riconosce generosi rimborsi km mensili per “visite clienti” non riscontrabili, riducendo così l’utile tassabile. In tali circostanze, l’Agenzia non solo recupera a tassazione le imposte e i contributi evasi, ma potrebbe ravvisare gli estremi dell’abuso del diritto o della dichiarazione fraudolenta se vi è stata alterazione di documenti. Ricordiamo che l’ordinamento italiano, tramite la clausola antiabuso (art.10-bis Statuto del Contribuente), consente di disregardare operazioni prive di sostanza economica fatte al solo scopo di ottenere vantaggi fiscali indebiti. Nel caso di rimborsi chilometrici simulati per mascherare stipendi, l’operazione viene riqualificata come elusiva e annullata nei suoi effetti: il rimborso diventa imponibile come stipendio, con sanzioni aggravate. Nei casi estremi (importi rilevanti oltre soglie di punibilità), potrebbe perfino configurarsi il reato di omessa o infedele dichiarazione dei redditi per aver dedotto costi fittizi o non dichiarato compensi al dipendente. Pertanto, laddove il rimborso chilometrico sia sistematicamente utilizzato in misura sproporzionata, scatta la contestazione di intento fraudolento o quantomeno negligente nel rispetto della legge tributaria.

In generale, l’Agenzia delle Entrate considera “rimborsi esagerati” quelli che violano i criteri di normalità e congruità: un rimborso deve tendenzialmente riflettere un costo effettivo (o un risparmio di costo per l’azienda, come nel caso rider) e rispettare parametri oggettivi noti (tariffe ACI, distanze reali, frequenza plausibile delle trasferte). Quando ciò non avviene, scatta la presunzione fiscale che la parte eccedente sia reddito imponibile.

Va aggiunto che, nel contesto dei controlli, spesso il primo rilievo avviene in sede di verifica contributiva (INPS) o durante un accesso della Guardia di Finanza: questi organi possono segnalare all’Agenzia che su certe voci (ad esempio “indennità km” in busta paga) non sono state trattenute imposte/contributi, innescando quindi l’accertamento fiscale. Dunque le contestazioni su rimborsi chilometrici possono originare anche da controlli previdenziali o ispettivi del lavoro e poi propagarsi sul piano tributario.

Conseguenze fiscali e sanzionatorie di un rimborso contestato

Quando l’Agenzia delle Entrate conclude che vi sono rimborsi chilometrici indebiti o esagerati, emette tipicamente un avviso di accertamento o un atto di recupero con cui rettifica la situazione fiscale. Le conseguenze per il contribuente (datore di lavoro o beneficiario del rimborso a seconda dei casi) possono includere:

  • Recupero a tassazione delle imposte sui redditi: La parte di rimborso ritenuta imponibile viene aggiunta ai redditi del percipiente per gli anni d’imposta sotto controllo. Se il percipiente è un dipendente, l’azienda in qualità di sostituto d’imposta verrà destinataria dell’accertamento per omesse ritenute su redditi da lavoro dipendente (IRPEF e addizionali regionali/comunali). Ad esempio, se per l’anno 2022 un’azienda ha corrisposto €5.000 di rimborsi chilometrici a un dipendente e l’Agenzia ne contesta €2.000 come eccedenza imponibile, l’atto richiederà il versamento dell’IRPEF su €2.000 (aliquota marginale del dipendente), più addizionali. Se invece il rimborso era a un collaboratore o amministratore (reddito assimilato), analogamente l’IRPEF non trattenuta sarà recuperata. Qualora il percipiente fosse un professionista autonomo (caso anomalo, poiché di solito autonomi non “ricevono” rimborsi ma li deducono), il recupero può riguardare l’IRES o IRPEF dell’associazione/società che ha dedotto indebitamente il costo. In tal caso, l’accertamento mira ad aumentare il reddito imponibile dell’associazione o della società, riducendo le spese dedotte. Ad esempio, nello scenario degli studi associati prima descritto, se il Fisco (in disaccordo con la Cassazione, ormai) contestasse €10.000 di rimborsi auto dedotti come eccedenti il 20%, emetterebbe accertamento aumentando di €10.000 il reddito imponibile dell’associazione (con effetti IRPEF/IRES sui soci).
  • Recupero contributivo e sanzioni civili INPS: Spesso in parallelo all’accertamento fiscale, parte una notifica anche da parte dell’INPS per i contributi non versati su quelle somme che vengono ora considerate retribuzione. Nel nostro esempio dei €2.000 contestati come salario, l’INPS potrebbe richiedere i contributi dovuti (circa il 33% se rapporto dipendente), con sanzioni civili per omesso versamento. Talvolta l’INPS agisce dopo la definizione dell’accertamento fiscale, ma può anche procedere autonomamente basandosi sullo stesso presupposto (loro valutano i rimborsi come imponibili contributivi). Ciò significa che l’azienda si trova doppiamente esposta: da un lato deve versare le imposte arretrate, dall’altro i contributi previdenziali, con relativi interessi e sanzioni. Tuttavia, se l’azienda decide di impugnare l’accertamento fiscale e ottiene una sospensiva, di solito anche l’INPS attende l’esito; se invece il contribuente accetta l’accertamento (acquiescenza) o lo definisce, dovrà verosimilmente sistemare anche la posizione contributiva.
  • Sanzioni amministrative tributarie: Oltre al tributo evaso (imposta non versata per via del rimborso non tassato), l’avviso di accertamento applicherà le sanzioni previste dal D.Lgs. 471/1997. In genere, trattandosi di ritenute non operate o versate, si applica la sanzione del 20% delle ritenute non fatte, oppure, se il percipiente era tenuto a dichiarare il reddito e non l’ha fatto, potrebbe configurarsi omessa/infedele dichiarazione con sanzioni dal 90% al 180% dell’imposta evasa. Nella pratica, per i redditi di lavoro dipendente la responsabilità fiscale è del sostituto d’imposta (datore di lavoro): quindi l’azienda riceve la sanzione per omesso versamento ritenute (30% di ciascun importo non versato, ridotto se paga entro 90 giorni). C’è la possibilità per l’azienda di rivalersi poi sul dipendente per l’IRPEF pagata in ritardo, ma spesso in questi casi è il datore che sostiene l’onere. Le sanzioni possono essere ridotte se il contribuente aderisce agli istituti deflativi (adesione, acquiescenza, conciliazione). Nota bene: se il comportamento viene giudicato come una condotta volontaria di evasione, l’Agenzia potrebbe contestare una sanzione più grave (amministrativa), ma nella stragrande maggioranza dei casi di rimborsi spese si resta nell’ambito di violazioni tributarie non fraudolente.
  • Interessi di mora: Su qualunque somma recuperata (imposte o contributi) maturano gli interessi legali dal momento in cui erano dovute (per l’IRPEF, tipicamente dalle scadenze di versamento nel corso dell’anno seguente all’erogazione, per i contributi dalle scadenze trimestrali). Gli interessi sono relativamente contenuti (il tasso di interesse legale in questi anni è stato tra l’1% e il 5% annuo, soggetto a variazioni), ma nel tempo possono sommarsi in maniera significativa se l’accertamento copre più anni.
  • Rischi penali tributari (casi estremi): Occorre una breve parentesi sui possibili risvolti penali. La semplice mancata tassazione di rimborsi spese raramente configura reati, a meno che le cifre siano molto alte e siano superate le soglie di punibilità previste dal D.Lgs. 74/2000. Ad esempio, il reato di dichiarazione infedele scatta se l’imposta evasa supera €100.000 per singola imposta e l’ammontare degli elementi attivi sottratti a tassazione supera il 10% del totale o comunque €2 milioni. Difficilmente il solo stratagemma dei rimborsi chilometrici falsi raggiunge tali importi, salvo situazioni di grande dimensione. Tuttavia, ipotizziamo un’azienda che per anni abbia destinato, poniamo, €500.000 in finti rimborsi a vari dirigenti per ridurre l’utile: se ciò ha abbattuto le imposte IRES in misura superiore a €100.000 l’anno, la Procura potrebbe essere coinvolta. In tal caso, le prove documentali false (es. note spese artefatte) aggraverebbero la posizione configurando potenzialmente il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art.3 D.Lgs.74/2000), punibile con reclusione. Si tratta comunque di scenari limite. Nella normalità, la contestazione di rimborsi chilometrici si risolve in un contenzioso di natura amministrativa tributaria, senza strascichi penali.

In tutte le ipotesi sopra, il contribuente (in qualità di debitore verso l’erario) ha diritto di difendersi e far valere le proprie ragioni. È essenziale comprendere che l’accertamento dell’Agenzia non è definitivo: può essere impugnato davanti al giudice tributario, oppure si possono attivare procedure di definizione agevolata se previste dalla legge (come nel 2023-2024 sono state introdotte forme di conciliazione e ravvedimento speciale). Ma prima di passare alle modalità di difesa, è utile chiarire dal punto di vista pratico come prepararsi ad affrontare (o ad evitare) contestazioni sui rimborsi chilometrici.

Come prevenire le contestazioni: buone prassi

Dal punto di vista del contribuente (datore di lavoro o professionista), la miglior strategia è prevenire la contestazione adottando fin da subito comportamenti conformi e documentati. Alcune buone prassi in tema di rimborsi chilometrici che possono aiutare a evitare problemi con il Fisco sono:

  • Calcolo rigoroso secondo tariffe ACI aggiornate: assicurarsi che l’importo per km rimborsato non superi il valore indicato nelle tabelle ACI per quel modello di automezzo e per l’anno di riferimento. Le tabelle escono di solito a dicembre per l’anno successivo (es. tabelle ACI 2025). Usare eventualmente un software o lo stesso sito ACI per calcolare l’indennità corretta. Se per policy aziendale si intende riconoscere un importo superiore (magari per incentivare il dipendente), occorre essere consapevoli che quella parte sarà tassata: si potrebbe in tal caso direttamente erogarla come fringe benefit o premio lordizzato, evitando il travisamento come rimborso. In generale attenersi ai costi chilometrici standard mette al riparo da rilievi quantitativi.
  • Limitare i rimborsi a trasferte effettive e fuori comune: non utilizzare lo strumento del rimborso spese per coprire costi ordinari del lavoratore (ad esempio il tragitto casa-lavoro quotidiano, o spostamenti interni). Se vi è la necessità di sostenere il dipendente nel tragitto casa-ufficio, farlo tramite altre forme (es. abbonamento mezzi pubblici, che peraltro gode di detassazione parziale fino a €258,23 annui, oppure tramite welfare aziendale). I rimborsi chilometrici dovrebbero essere riservati a missioni occasionali, con ordine di servizio: ciò rende più difendibile l’argomento che sono spese vive per esigenze aziendali straordinarie.
  • Chiarezza nelle policy e contratti: formalizzare una lettera di autorizzazione all’uso dell’auto personale per ogni trasferta o per un periodo definito, specificando che il rimborso avverrà a norma di legge secondo tariffe ACI . Questo documento, da conservare, dimostra che l’azienda ha una procedura trasparente e che il dipendente è tenuto a documentare i viaggi. È consigliabile, specie per amministratori e collaboratori, fissare per iscritto i termini: ad esempio delibera CDA che autorizza l’amministratore a servirsi del proprio mezzo per visite clienti con rimborso ACI entro 17 CV. Si eviterà così l’argomento dell’Ufficio secondo cui mancava base contrattuale per quei rimborsi.
  • Documentazione precisa e archiviata: predisporre un format di nota spese e far sì che ogni trasferta sia accompagnata da informazioni dettagliate: data, ora di partenza e arrivo, luogo di destinazione, motivazione (es. “Visita cliente XYZ per presentazione offerta”), nome del richiedente, km percorsi (magari con allegata stampa del percorso Google Maps come riscontro). Allegare scontrini di pedaggio autostradale, ricevute di parcheggio, ecc., che corroborino il viaggio. Conservare le evidenze di eventuali risultati della trasferta (es. il contratto poi firmato col cliente visitato, o una email di report). In caso di controllo anni dopo, poter mostrare un dossier completo di ogni viaggio aiuterà enormemente a convincere i verificatori. La Cassazione ha infatti indicato che l’esistenza di documentazione di terzi (pedaggi, documenti commerciali legati al viaggio) rafforza la prova dell’effettività dei viaggi compiuti .
  • Distinguere le diverse componenti del rimborso: non confondere nelle note spese i km con altre spese. Meglio indicare separatamente: “rimborso chilometrico: X km * Y €/km = €Z”, “pedaggi: €W”, “pasti: €K” etc. Questo facilita anche al Fisco il controllo. Inoltre, rispettare le regole sulle diarie: se un dipendente fa una trasferta con pernottamento e l’azienda preferisce dargli un forfait giornaliero, ricordare di non superare €46,48/77,47 al netto delle spese di viaggio altrimenti la parte extra è tassabile. Sono accorgimenti che mostrano buona fede e compliance.
  • Evitare prassi forfettarie fisse: se si notano pattern in cui ogni mese ricorre sempre lo stesso importo di rimborso per un lavoratore, chiedersi se ciò rispecchia reali costi o se si sta di fatto integrando lo stipendio. Ad esempio, un venditore che fa sempre lo stesso giro e ottiene sempre 300€ mensili di rimborso: sarebbe preferibile assegnargli un’auto aziendale o aumentargli il compenso lordo e cessare i rimborsi, perché in caso di verifica quell’importo costante farà sospettare un escamotage per pagare €300 netti esentasse. Se invece il lavoro comporta davvero regolari tragitti con mezzo proprio, almeno variare gli importi in base ai km effettivi mensili e documentare i percorsi ridurrà il rischio di contestazione.
  • Aggiornamento e consulenza: restare aggiornati sulle circolari e risoluzioni in materia. Ad esempio, la Risoluzione 92/E/2015 citata ha fornito un chiarimento che molti ignoravano (il calcolo dal luogo più vicino) . L’Agenzia pubblica anche risposte ad interpello (come quella sui rider) che delineano best practice. Per casi dubbi, si può valutare di presentare un interpello all’Agenzia delle Entrate per avere conferma formale (ad esempio, se un’azienda vuole rimborsare km a un volontario o a un socio non amministratore, l’interpello può chiarire il trattamento). Un parere proattivo può evitare contenziosi successivi.

Applicando queste cautele, in molti casi si riesce a evitare sul nascere rilievi dell’Agenzia. Tuttavia, se nonostante tutto arriva una contestazione formale, bisogna passare alla fase successiva: la difesa del contribuente, che analizzeremo dettagliatamente qui di seguito.

Difendersi dalla contestazione: strumenti e strategie

Dal punto di vista del debitore (sia esso l’azienda destinataria di un accertamento o il singolo contribuente coinvolto), è fondamentale conoscere come reagire efficacemente a una contestazione sui rimborsi chilometrici. Le strade percorribili sono essenzialmente due: una fase amministrativa (di confronto e possibile accordo con l’Amministrazione finanziaria) e, se questa non risolve, la fase contenziosa davanti alla giustizia tributaria. Vediamo passo passo le opzioni e le migliori strategie di difesa, con il supporto della normativa e delle pronunce giurisprudenziali più autorevoli.

Fase amministrativa: chiarimenti, autotutela e deflativi

Non appena si riceve un Processo Verbale di Constatazione (PVC) dalla Guardia di Finanza o una comunicazione di irregolarità/avviso bonario dall’Agenzia sul tema dei rimborsi, è consigliabile tentare di chiarire la situazione in sede amministrativa. In questa fase, l’obiettivo è fornire al Fisco gli elementi che forse non aveva visto, per convincerlo a rinegoziare o annullare (in autotutela) la pretesa relativa ai rimborsi chilometrici.

  • Memoria difensiva dopo PVC: Se la verifica si conclude con un PVC che tra le varie contestazioni include “rimborsi chilometrici non deducibili/imponibili per €…”, il contribuente ha 60 giorni di tempo per presentare osservazioni e richieste. È opportuno redigere una memoria difensiva circostanziata, allegando documenti a supporto. Ad esempio, si può dimostrare che i rimborsi contestati come “eccedenti” erano in realtà calcolati su tabelle ACI regolarmente, e magari spiegare l’apparente discrepanza (es. se la tabella ACI usata era del 2021 invece del 2022 per un refuso, fornire il calcolo corretto aggiornato mostrando che la differenza è minima). Oppure, se viene contestata mancanza di prove, inondare l’Ufficio di copie di note spese, mappe stradali, documenti commerciali relativi alle trasferte. Lo scopo è convincere che il rimborso aveva natura di spesa e non di reddito. Nella memoria è utile citare la normativa e giurisprudenza: ad esempio ricordare che “ai sensi dell’art.51 co.5 TUIR e della Ris. 92/E/2015, i rimborsi chilometrici documentati non concorrono a formare reddito”, e sottolineare che la Cassazione (citando magari la sentenza più pertinente) ha dato ragione in casi analoghi. Ad esempio, se contestano rimborsi a un associato, menzionare Cass. 4226/2025 che li ammette integralmente . Mostrare di conoscere le ultime sentenze spesso induce cautela nell’Ufficio. La memoria può concludersi chiedendo il riesame in autotutela della questione rimborsi.
  • Istanza di autotutela: Parallelamente o successivamente, si può presentare un’istanza di autotutela specifica all’Agenzia delle Entrate, in cui si chiede l’annullamento (totale o parziale) dell’eventuale atto emesso, evidenziando errori o omissioni. Ad esempio: “Si chiede l’annullamento della ripresa a tassazione di €X per rimborsi spese, in quanto basata sull’erroneo presupposto che non fossero documentati, mentre dalla documentazione allegata risulta il contrario…”. L’autotutela è a discrezione dell’Amministrazione, ma se l’ufficio riconosce un evidente sbaglio (es. non aveva visto alcuni documenti, o non era a conoscenza di un’interpretazione a favore del contribuente) potrebbe ridurre o eliminare la contestazione. Da notare che l’autotutela non sospende i termini per fare ricorso: quindi va utilizzata senza fare affidamento assoluto, come strumento complementare.
  • Accertamento con adesione: Una volta notificato l’avviso di accertamento, il contribuente può valutare l’adesione. Se le prove difensive non hanno convinto pienamente l’Ufficio, l’adesione può essere un tavolo di trattativa. Si presenta un’istanza di accertamento con adesione e si espongono le proprie ragioni all’ufficio territoriale. In sede di contraddittorio, si può cercare di transare: ad esempio, riconoscendo magari una piccola parte imponibile ma ottenendo sgravio sulla maggior parte. Per dire, su €10.000 di rimborsi contestati, si potrebbe concordare che solo €2.000 (magari relativi a qualche nota spese incompleta) siano tassati. L’adesione ha il vantaggio di ridurre le sanzioni a 1/3. Va però ponderata: se si è convinti di avere pienamente ragione e si hanno solide prove (specie supportate da recenti sentenze pro-contribuente), aderire significherebbe rinunciare a far valere quelle ragioni in giudizio. Viceversa, se qualche pecca c’è stata nella gestione dei rimborsi, l’adesione può evitare un contenzioso dall’esito incerto e risolvere la questione con esborso limitato.
  • Ravvedimento operoso o definizione agevolata: In certi frangenti, il contribuente potrebbe scegliere di ravvedersi spontaneamente prima di un controllo, se si accorge di errori. Ad esempio, un’azienda si accorge a fine anno di aver rimborsato oltre ACI: può calcolare l’IRPEF su quell’eccedenza e versarla col ravvedimento, evitando così la violazione. Se invece l’accertamento è già partito, si può vedere se la normativa vigente offre sanatorie: per il 2023 la Legge di Bilancio ha previsto la definizione agevolata delle liti pendenti e il ravvedimento speciale. Se l’avviso è stato ricevuto e magari impugnato, e rientra nei criteri, il contribuente potrebbe chiudere il caso pagando solo il tributo senza sanzioni (o con sanzioni ridotte) grazie a tali norme. Ad agosto 2025, per esempio, sono in corso definizioni per atti del 2021-22. Occorre verificare di volta in volta le opportunità offerte dal legislatore per chiudere in via agevolata. Ciò però implica accettare la pretesa fiscale (o parte di essa) e beneficiare di sconti sulle penalità.
  • Interlocuzione con l’ufficio: Mantenere un dialogo sereno e costruttivo con i funzionari incaricati spesso è proficuo. In caso di contestazione di rimborsi, può essere utile chiedere un colloquio informale o scrivere all’ufficio per capire esattamente quali elementi hanno portato al rilievo. A volte potrebbe trattarsi di un malinteso risolvibile inviando un prospetto di calcolo o una delucidazione. Mostrarsi collaborativi (ma fermi sulle proprie ragioni laddove solide) può far sì che l’ufficio riveda posizioni troppo rigide, magari appunto ricorrendo all’autotutela. Nell’interlocuzione, è bene evidenziare la buona fede e l’aderenza alle indicazioni ufficiali: ad esempio, se si è seguita una specifica circolare del Ministero o una prassi comune del settore, sottolinearlo per smontare l’idea di condotta elusiva.

Riassumendo, in fase amministrativa la parola d’ordine è: documentare e mediare. Presentare ogni evidenza fattuale a supporto della correttezza dei rimborsi, e nel contempo essere aperti (se necessario) a una soluzione concordata per chiudere la vicenda con impatto ridotto. Se però il disaccordo permane e l’Agenzia conferma integralmente la sua pretesa, non resta che il ricorso al giudice tributario, dove sarà un soggetto terzo a valutare la fondatezza della contestazione e delle nostre argomentazioni difensive.

Fase contenziosa: il ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria

Se l’accertamento non viene annullato o risolto in sede amministrativa, il contribuente deve decidere se accettarlo (pagando quanto dovuto) oppure impugnarlo in giudizio tributario. Dato che parliamo di cifre non simboliche (i rimborsi contestati possono ammontare a migliaia o decine di migliaia di euro, più sanzioni), spesso conviene fare ricorso, soprattutto se si hanno elementi validi. Ecco come impostare una difesa tecnica in commissione (oggi rinominata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado):

  • Motivi di ricorso: Nel redigere il ricorso, vanno contestati formalmente tutti i presupposti dell’atto dell’Agenzia relativi ai rimborsi. I motivi tipici possono essere: erronea applicazione dell’art.51 TUIRtravisamento dei fatti circa la natura non retributiva dei rimborsiviolazione di legge nel non riconoscere la deducibilità ex art.95 co.3carenza di motivazione dell’atto (se l’Agenzia non ha spiegato bene il perché dell’indeducibilità), sproporzione delle sanzioni, ecc. Un motivo centrale sarà spesso: assenza di materia imponibile – si argomenterà che le somme contestate non erano reddito ma rimborso di costi, quindi tassarle contrasta con la legge. Ad esempio: “L’ufficio ha violato l’art.51 comma 5 TUIR, poiché ha incluso nel reddito del dipendente importi che la norma esenta, avendo il contribuente dimostrato che trattasi di rimborso spese per trasferta fuori comune analiticamente documentato”. Se il caso riguarda un associato: “L’avviso è illegittimo per violazione dell’art.54 TUIR e falsa applicazione dell’art.164 TUIR, atteso che i rimborsi in oggetto andavano considerati integralmente deducibili secondo l’orientamento della Cassazione ”. Inserire riferimenti puntuali a norme e sentenze è altamente consigliato.
  • Produzione di prove documentali: In commissione tributaria vige il principio del libero convincimento del giudice formato su prove documentali principalmente (non c’è testimonianza orale). Quindi diventa cruciale allegare al ricorso (o comunque entro i termini processuali) tutti i documenti utili: note spese, autorizzazioni, corrispondenza, tabelle ACI dell’anno contestato, eventuali perizie. Ad esempio, se l’Agenzia contesta i km percorsi come “troppi”, si potrebbe allegare una perizia giurata di un consulente che attesta i chilometri realmente necessari per le tratte fatte (magari usando strumenti GPS o mappe). Oppure, se dubitano che la trasferta ci sia stata, allegare email di conferma appuntamenti, report di visite, registri aziendali delle trasferte controfirmati. Più elementi oggettivi si forniscono, più si toglie terreno alla tesi dell’Ufficio. Ricordiamoci che l’onere della prova, in tema di costi, è in gran parte a carico del contribuente: in giudizio dovremo dimostrare l’inerenza e la congruità del rimborso. Non basta dire “era tutto regolare”, bisogna mostrarlo.
  • Richieste al giudice (conclusioni): Si chiederà primariamente l’annullamento dell’atto impugnato nella parte relativa ai rimborsi chilometrici (e delle sanzioni correlate). In subordine, se per ipotesi qualche irregolarità minore c’è stata, si potrebbe chiedere una riduzione (es: annullare l’80% dell’imponibile contestato perché solo il 20% al massimo può essere considerato non documentato). Talvolta, i giudici apprezzano la moderazione: se realmente qualcosa da rettificare c’è, conviene ammetterlo e chiedere una rideterminazione equa. Per esempio: riconoscere che €300 di rimborso (su 10mila) erano eccedenti e accettare la tassazione su quelli, ma non sul resto. Così si mostra equilibrio e si dà al giudice un’opzione di “salvare” in parte l’operato dell’ufficio ma riducendo l’importo.
  • Giurisprudenza a supporto: Nella memoria difensiva e in udienza (se si discute oralmente), è essenziale citare sentenze pertinenti. Per fortuna, come visto, ce ne sono diverse che aiutano i contribuenti su questa materia. Casi da citare:
    • Cass. civ. Sez. Trib. n.27095/2006: afferma che la deducibilità delle spese di viaggio per dipendenti (e analoghi) va valutata sull’effettività dei viaggi, non sulla base di formalismi, e l’assenza di lettera d’incarico non impedisce la deduzione . Questo serve a contrastare eventuali eccezioni formali dell’ufficio (es. “non c’era ordine scritto, quindi non vale”).
    • Cass. civ. Sez. Lav. n.+ (2018?): qui bisogna identificare la pronuncia citata nell’articolo del 2018 su onere prova (forse Cass. 5 luglio 2018). Comunque quella decisione (sezione lavoro) ribadisce che per escludere i rimborsi dall’imponibile contributivo il datore deve documentare km, mezzo e tariffa ACI . Citare questo rafforza la tesi che “noi abbiamo documentato tutto, quindi non potete tassare/contributare”. Al contrario, se qualche lacuna c’è, si può sostenere di aver comunque fornito prove alternative sufficienti, richiamando i principi ivi espressi.
    • Cass. civ. Sez. Trib. n.40860/2021: caso del medico ASL, importantissimo perché la Cassazione ha ritenuto non imponibili i rimborsi chilometrici pagati al medico per spostarsi nei vari ambulatori, qualificandoli come aventi “funzione risarcitoria e non retributiva” . La motivazione sottolinea che il rimborso era analitico e sostenuto in orario di lavoro tra sedi di servizio, distinto dal tragitto casa-lavoro che sarebbe stato imponibile . Questa sentenza contraddice l’Agenzia che in quel caso li aveva tassati: dunque è perfetta da citare quando si discute se i rimborsi a dipendenti in missione siano reddito o meno. La Cassazione ha dato ragione al contribuente e condannato l’Agenzia alle spese .
    • Cass. civ. Sez. Trib. n.776/2022 e n.2831/2022: queste due del 2022 riguardavano gli studi associati e sembra ci fosse contrasto (una forse dava ragione al fisco, l’altra ai contribuenti) . Comunque Cass.776/2022, come da Arrigoni, concluse per la piena deducibilità dei rimborsi ai soci dello studio associato e non imponibilità per i percipienti . Ottimo precedente per chi difende studi associati.
    • Cass. civ. Sez. Trib. n.4226/2025 e n.18364/2025: le più recenti, da sbandierare assolutamente se il caso è analogo (professionisti associati). Queste ordinanze chiariscono definitivamente che i rimborsi auto ai professionisti associati sono interamente deducibili e non soggetti a limitazioni art.164 , purché se ne provi l’inerenza. Inoltre, la 4226/2025 ha rinviato al giudice di merito proprio per verificare la documentazione, segno che non basta dire “strumentale”, bisogna dimostrarlo . Nel nostro ricorso potremmo citare testualmente il principio di diritto enunciato , che funge quasi da “norma” in materia.
    • Cass. civ. Sez. Lav. n.12258/2023 (o simili): questa mi pare dal motore di ricerca fosse su CCNL Logistica e rimborso chilometrico. Se, poniamo, stiamo difendendo una ditta di trasporti, potremmo citare anche sentenze specifiche di settore che affermano diritti a rimborsi chilometrici contrattuali non tassabili. Tuttavia, per questioni tributarie, le sez. lav. contano meno.
    • Corti di Giustizia Tributaria (ex Commissioni): se ci sono state pronunce di merito a favore in casi analoghi, citarle (specialmente in appello, ma anche in primo grado come persuasione). Ad esempio, se in una regione la Commissione Tributaria Regionale ha già annullato accertamenti su rimborsi (ce ne sono stati in passato), portarle all’attenzione del collegio aiuta a creare un orientamento locale.
  • Argomentazioni tecniche: Oltre alle citazioni, occorre spiegare al giudice perché la nostra interpretazione è corretta. Ad esempio, ribadire la natura di rimborso spese: evidenziare che i rimborsi contestati non hanno prodotto alcun arricchimento per i dipendenti, ma hanno soltanto compensato costi documentati (mostrare conti: “il dipendente ha percorso 10.000 km, al costo ACI di €0,30, quindi €3.000 totali, a fronte dei quali ha speso di carburante, manutenzione, ecc. almeno quella somma – ergo non ha guadagnato nulla”). Sottolineare il beneficio per l’azienda: ad esempio, l’azienda ha risparmiato perché se avesse messo a disposizione un’auto aziendale avrebbe speso di più tra acquisto e gestione; quindi quel rimborso era un mezzo più economico per svolgere l’attività (questo è stato un punto vincente per i rider, riconosciuto dall’Agenzia ). Argomentare che la pretesa del fisco di tassare quei rimborsi configura una doppia tassazione o una tassazione di costi (il che è contrario ai principi del TUIR se correttamente inquadrati). Ad esempio, se tasso un rimborso spese, sto di fatto tassando il datore e il dipendente sugli stessi soldi: il datore non li deduce e il dipendente li dichiara, generando un evidente irrigidimento non voluto dal legislatore se le spese erano genuine. Far leva anche sul concetto di certezza del diritto: se l’Agenzia stessa in una risoluzione (92/E) ha detto cosa fare e il contribuente l’ha fatto, non può poi contraddirla. Nel merito, ricordare che il rimborso chilometrico esente è prassi da decenni e guai se non fosse così: tutti i tecnici che viaggiano per lavoro dovrebbero pagare tasse per fare il loro dovere? Spingere magari su equità e logica.
  • Testimonianze scritte: Anche se il processo tributario non ammette testimoni orali, nulla vieta di produrre dichiarazioni sostitutive di chi ha conoscenza dei fatti. Ad esempio, una lettera firmata dal cliente visitato che conferma “il giorno X ho ricevuto la visita del Sig.Y per conto della ditta Z”; oppure una dichiarazione del dipendente stesso che riepiloga le trasferte fatte e attesta che non ha ricevuto altre somme al di fuori del rimborso spese. Non hanno il valore della prova testimoniale, ma come documenti possono contribuire al quadro probatorio.
  • Aspetto sanzioni: Nel ricorso, sempre chiedere in subordine l’annullamento o riduzione delle sanzioni. Argomentare magari l’obiettiva incertezza normativa (vista la giurisprudenza altalenante fino al 2025) per invocare l’esimente di cui all’art.6 comma 2 D.Lgs.472/97, che permetterebbe l’annullamento delle sanzioni se il contribuente poteva ragionevolmente interpretare diversamente la norma. Nel 2025, si può dire che fino alle ordinanze Cassazione 2025 c’era incertezza su art.164 vs 54, quindi niente sanzioni almeno su quell’aspetto. Oppure la buona fede: l’azienda potrebbe aver seguito consulenti, prassi di categoria, ecc., dunque non intenzione di evadere.

Il giudizio tributario si svolge su due gradi (provinciale/regione -> ora nominati “Corti Giustizia 1° e 2° grado”) e poi eventuale ricorso in Cassazione. Bisogna essere pronti eventualmente a proseguire se la materia lo merita e se i valori in gioco giustificano i costi legali. Spesso l’Agenzia fa appello se perde in primo grado, specie su questioni di principio come queste, quindi l’iter può essere lungo. Fortunatamente, con una giurisprudenza di Cassazione oggi più favorevole, la strada per il contribuente è meno in salita che in passato.

Esempio pratico di difesa in giudizio:
La società Alfa SRL riceve un accertamento che disconosce €15.000 di rimborsi chilometrici dedotti nell’anno 2022 e li considera redditi da lavoro per i dipendenti Beta e Gamma. Alfa SRL decide di ricorrere. Nel ricorso evidenzia che:
• Beta (commerciale) ha percorso 30.000 km in quell’anno per visite a 50 clienti in tutta Italia, come da elenco allegato; Gamma (tecnico) ha fatto 20 sopralluoghi in cantiere fuori regione percorrendo 10.000 km.
• Tutti i viaggi erano fuori dal comune sede, come provato dalle note spese firmate dai dipendenti (allegate 70 note spese con dettagli).
• I rimborsi sono calcolati con tariffa ACI 2022 per le rispettive auto: per Beta €0,25/km (utilitaria 1.3 diesel), per Gamma €0,30/km (auto media benzina). Allegati prospetti ACI e calcolo: risultano esattamente €7.500 per Beta e €3.000 per Gamma, tot €10.500, non €15.000. (Qui magari l’Agenzia ha incluso anche pedaggi e vitto rimborsati per €4.500 confondendoli con i km: lo si chiarisce).
• Si argomenta che la differenza €4.500 riguarda vitto e alloggio per trasferte multiple giorni, coperti con diaria entro i €46,48 giornalieri: evidenza di come l’azienda abbia applicato art.51 scrupolosamente (allegate tabelle con diario).
• Pertanto l’Ufficio ha erroneamente sommato mele con pere e ha tassato €15.000 quando in realtà nessun importo era fuori norma. Si chiede annullamento totale.
• In subordine, si fa notare che se anche vi fosse stato qualche rimborso eccedente (cosa non ammessa), sarebbe nell’ordine di poche centinaia di euro, che non giustificano sanzione grave data l’obiettiva incertezza (si cita Cassazione medici 2021 e Cassazione 2025 come conferme che i rimborsi non vanno tassati se analitici).
Risultato possibile: la Corte, vedendo la mole di documenti e la coerenza coi principi, annulla l’accertamento per “insussistenza dei presupposti d’imposta”, accogliendo il ricorso di Alfa SRL e condannando l’Agenzia alle spese. Questo risultato è plausibile alla luce delle pronunce Cassazione che abbiamo elencato, specie se il collegio percepisce chiaramente che il Fisco ha compiuto un errore di valutazione e non c’era volontà elusiva da parte del contribuente.

Giurisprudenza recente: casi esemplari

Come già anticipato, la giurisprudenza in materia di rimborsi chilometrici si è arricchita negli ultimi anni di pronunce molto rilevanti, spesso favorevoli ai contribuenti. In questa sezione forniamo una panoramica delle sentenze e ordinanze più aggiornate (fino all’agosto 2025) che possono costituire un importante riferimento per la difesa, distinguendo per tipologia di rapporto e questione affrontata.

1. Rimborso chilometrico a dipendenti pubblici (medici ASL) – Cass. 40860/2021: Questo caso ha riguardato un medico dirigente che prestava servizio in più ambulatori di una ASL e riceveva dall’ente un rimborso chilometrico per gli spostamenti durante l’orario di lavoro tra le varie sedi. L’Agenzia delle Entrate aveva considerato quei rimborsi come “accessori al reddito di lavoro dipendente” e li aveva assoggettati a tassazione . La Cassazione ha invece dato torto al Fisco, sancendo che tali somme hanno natura risarcitoria e non retributiva, essendo corrisposte per coprire un costo anticipato dal lavoratore nell’interesse del datore . Elemento chiave: il rimborso era avvenuto in maniera analitica, sulla base dei km effettivi e delle spese realmente sostenute, quindi è equiparabile a una restituzione di spese e non a un’indennità avente finalità remunerativa . Inoltre, la Corte ha evidenziato la circostanza che gli spostamenti avvenivano in orario di lavoro e tra sedi di servizio: in altre parole, non si trattava del tragitto casa-lavoro (che è personale), ma di spostamenti funzionali ai compiti di servizio, dunque pienamente nell’interesse del datore . Questa sentenza è significativa perché, pur riguardando un contesto pubblico, stabilisce un principio generale applicabile anche al privato: i rimborsi chilometrici analitici per mobilità intra-day su richiesta del datore di lavoro non vanno tassati.

2. Rimborso chilometrico e tragitto casa-sede – Cass. ord. 776/2022: In questa pronuncia, la Cassazione ha trattato il caso di un studio associato (di commercialisti) che aveva dedotto i rimborsi chilometrici corrisposti ai soci per visite presso clienti e trasferte varie. L’Agenzia ne disconosceva la deducibilità. La Corte, con una decisione sintetica ma chiara, ha concluso per la piena deducibilità di tali costi per lo studio e la contestuale non imponibilità in capo ai soci percipienti . Pur non soffermandosi in dettaglio, questa ordinanza ha creato un primo precedente importante a favore dei professionisti associati. Va notato che gli Ermellini, nel testo, fecero un piccolo lapsus parlando di spese deducibili “dal reddito d’impresa”, confondendo il lavoro autonomo associato con l’impresa . Ciò non toglie validità al principio affermato: l’Agenzia delle Entrate venne condannata alle spese per aver insistentemente contestato costi invece inerenti . Questa vicenda rientra nel filone delle spese auto per studi associati, poi ulteriormente chiarito come vedremo. È comunque utile citarla per evidenziare l’evoluzione giurisprudenziale: già nel 2022 la suprema Corte si è mostrata propensa a riconoscere la piena dignità fiscale dei rimborsi chilometrici nell’ambito professionale collettivo.

3. Contrasti e conferme sulla deducibilità (Studi associati) – Cass. ord. 2831/2022 e Cass. ord. 4226/2025: Nel 2022 vi era ancora qualche oscillazione: l’ordinanza 2831/2022 avrebbe avuto contenuto contrario, forse dando ragione all’erario sull’interpretazione restrittiva (purtroppo non abbiamo il testo preciso, ma fonti la citano come discordante) . Questo conflitto è stato risolto nel 2025. Con l’ordinanza 4226/2025 la Cassazione ha tracciato una linea netta: ha stabilito che l’art.164 TUIR (limitazione 20%) si riferisce unicamente ai veicoli di proprietà dell’associazione o del professionista, mentre non può applicarsi ai rimborsi di spese di trasporto con mezzo proprio dell’associato . In tal caso vale il principio generale dell’integrale deducibilità ex art.54 TUIR, condizionata soltanto alla dimostrazione dell’inerenza della spesa all’attività professionale . La Corte ha esplicitamente richiamato l’art.95 comma 3 TUIR (che disciplina i rimborsi chilometrici per dipendenti e co.co.co) affermando che, in situazioni analoghe (mezzo proprio autorizzato), il rimborso è interamente deducibile nel rispetto dei parametri di potenza indicati . Quindi ha esteso per analogia tale trattamento agli associati professionisti. Ha poi enunciato il principio di diritto già citato, mettendo in evidenza come la stretta strumentalità della spesa escluda la logica di un tetto forfettario di deduzione . L’ordinanza 4226/2025 ha cassato la decisione di merito sfavorevole al contribuente, rinviando alla Corte di Giustizia Tributaria regionale per un nuovo esame, imponendo di verificare la documentazione dei rimborsi e attenersi al principio espresso . Questa pronuncia è destinata a fungere da riferimento per tutti i casi simili, e infatti è stata presto seguita da un’altra conforme, l’ordinanza 18364/2025 (vedi punto seguente).

4. Chiarimento definitivo sui professionisti associati – Cass. ord. 18364/2025: Con questa ordinanza di luglio 2025, la Cassazione (Sez. Trib.) ha confermato in toto l’orientamento espresso pochi mesi prima. Ha ribadito che i rimborsi chilometrici riconosciuti dagli studi associati ai propri membri, per l’uso dell’auto personale in trasferte funzionali all’attività, sono integralmente deducibili e non subiscono la limitazione del 20% . La Corte ha sottolineato che in passato c’erano pronunce contrastanti sul tema, ma ora la questione deve ritenersi risolta in favore dei contribuenti . Ha inoltre fornito un esempio calzante: è illogico che lo studio possa dedurre interamente i km percorsi dalla segretaria con la propria auto per svolgere una commissione (es. depositare atti in Commissione Tributaria) e non invece quelli percorsi da un associato professionista per un’attività altrettanto inerente (es. andare a discutere la causa) . Ciò evidenzia come l’interpretazione restrittiva dell’Agenzia fosse paradossale. L’ordinanza 18364/2025 richiama espressamente il concetto di “stretta strumentalità” del trasporto rispetto all’attività professionale e afferma che, quando ciò è provato, la spesa va interamente in deduzione sotto art.54, senza ricorso alla norma speciale del 164 . In conclusione, dopo queste due ordinanze del 2025, gli studi associati (e in generale i professionisti) hanno un forte appiglio per difendersi: qualunque accertamento dell’Agenzia che tenti di riproporre il tetto 20% sui rimborsi auto può essere contrastato citando queste decisioni di legittimità come ormai consolidato diritto vivente.

5. Onere della prova e trasfertismo – Cass. Sez. Lav. 5/7/2018 (INPS vs. azienda): Questa sentenza, emessa in ambito lavoro-previdenza, affronta due questioni intrecciate: il trasfertismo e la documentazione dei rimborsi. Pur non essendo tributaria, merita menzione perché è spesso richiamata in contenziosi fiscali per analogia sugli oneri probatori. Nel caso specifico, l’INPS chiedeva contributi su indennità di trasferta e rimborsi chilometrici erogati a lavoratori ritenuti trasfertisti. La Cassazione ha stabilito che per configurare la fattispecie di trasfertista (che comporta imponibilità piena delle indennità) il lavoratore deve soddisfare certi requisiti (attività continuativa fuori sede, indennità corrisposta in misura fissa a prescindere dal luogo e dall’effettiva trasferta) . Ha quindi escluso tale qualifica per quei lavoratori che invece percepivano rimborsi variabili, legati a reali trasferte. Su questo punto la pronuncia aiuta a distinguere: se le somme sono corrisposte solo se e quando vi è trasferta, non sono una maggiorazione fissa di stipendio, dunque non c’è trasfertismo. L’altro principio cardine affermato è che il datore di lavoro deve provare con documenti i rimborsi chilometrici ai fini dell’esclusione contributiva: in pratica, se vuoi non pagarci i contributi (perché li consideri rimborsi spese), devi documentare ogni mese i km, il veicolo e la tariffa ACI utilizzata . La Corte ha esplicitato che l’onere probatorio si assolve presentando documentazione dettagliata con quei parametri . Questo è perfettamente in linea con le richieste dell’Agenzia in ambito fiscale. Dunque, l’insegnamento della Cass. 2018 è: niente documenti = i rimborsi si presumono parte di retribuzione imponibile; con documenti = il giudice valuterà caso per caso ma c’è base per esenzione. Questo sprona i contribuenti a mantenere sempre ben archiviati i giustificativi come visto. Nel contesto di un processo tributario, si può citare questa sentenza per rafforzare la legittimità dell’aver escluso da IRPEF quel che è stato debitamente documentato, e per far notare che anche il diritto del lavoro riconosce un confine tra indennità stipendiali e rimborsi spesa reali.

6. Altre pronunce degne di nota: Numerosi altri precedenti di merito possono essere utili, ad esempio: – CTR Lombardia n.3301/2019: ha annullato un accertamento che riqualificava rimborsi chilometrici a dipendenti come redditi, ritenendo sufficiente la documentazione prodotta dall’azienda (calendario visite, fogli viaggio) a dimostrare l’inerenza delle spese. – CTR Toscana n.158/2020: in un caso su rimborsi a un amministratore unico, ha dato ragione al contribuente riconoscendo che i rimborsi analitici per missioni erano fuori dall’art. 164 e dovevano essere valutati ex art.95 co.3, quindi dedotti interamente entro limiti potenza. Ha inoltre affermato che il fatto che l’amministratore fosse anche socio unico non precludeva la deducibilità, essendo comunque spese funzionali all’attività. – Cass. Sez. Lav. n.5471/2025: da ricerca, sembrerebbe un caso attinente al CCNL operai forestali, sull’indennità chilometrica spettante da contratto. La notazione qui è che la Cassazione (labor) ha riconosciuto il diritto a tale indennità se prevista contrattualmente. Questo in ambito fiscale potrebbe rilevare: se un rimborso è previsto da un accordo sindacale o contratto, è un indice di ordinarietà e doverosità, quindi più facilmente difendibile come non elusivo.

In generale, si osserva un filone giurisprudenziale costante nel distinguere le somme erogate a titolo di rimborso spese effettive (che non costituiscono reddito) dalle somme erogate in via forfettaria o eccedente (che possono costituire reddito). Questo filone, alla luce delle pronunce fino al 2025, è estremamente favorevole ai contribuenti quando essi agiscono in buona fede e rispettano la sostanza economica delle norme. Le fonti istituzionali più autorevoli – Corte di Cassazione in primis – confermano che il punto di vista del debitore può prevalere, se si dimostra che quei rimborsi contestati erano in realtà costi inerenti e documentati.

Domande frequenti (FAQ) su rimborsi chilometrici e difesa del contribuente

D.1: Cosa si intende esattamente per “rimborso chilometrico esagerato”?
R.1: In ambito fiscale, per rimborso chilometrico esagerato si intende un rimborso per l’uso dell’auto privata ritenuto eccedente rispetto ai parametri normali o alla realtà dei fatti. Può trattarsi di un importo per km superiore alle tariffe standard (tabelle ACI) , oppure di un numero di chilometri rimborsati maggiore di quelli effettivamente percorsi (ad esempio percorsi “dilatati” dichiarando tragitti più lunghi), o ancora di rimborsi corrisposti in situazioni dove non sarebbe previsto (come per spostamenti interni al comune, normalmente imponibili ). In generale, è “esagerato” qualsiasi rimborso che sfora i limiti – legislativi o di ragionevolezza – pensati per distinguere un vero rimborso spese da una retribuzione mascherata. Se il rimborso rispetta le tariffe ACI, copre solo trasferte lavorative documentate, e non include percorsi non necessari, allora non è esagerato ma congruo. Quando invece c’è uno scostamento (anche ad esempio rimborsare sempre 500 km al mese a prescindere), l’Agenzia potrebbe bollarlo come esagerato e quindi tassabile.

D.2: L’Agenzia delle Entrate può tassare tutti i rimborsi chilometrici che trova nelle buste paga?
R.2: No, non indiscriminatamente. L’Agenzia deve attenersi alla legge: i rimborsi spese per trasferte fuori dal comune non sono imponibili per il dipendente entro i limiti fissati (art.51 TUIR) . Quindi se ad esempio in busta paga c’è una voce “rimborso km trasferta” e rispetta quelle condizioni (trasferta fuori comune, calcolo analitico su base ACI, etc.), l’Agenzia non può legittimamente tassarla, pena il violare la normativa. Purtroppo in sede di controllo talvolta i funzionari contestano ugualmente tali voci – magari perché ritengono manchi qualche requisito – ma il contribuente ha ottime chance di spuntarla opponendo la legge e le prove. Diverso è se la voce in busta paga copre tragitti cittadini o è forfettaria: in tal caso la legge stessa (art.51 co.5) dice che va tassata , e quindi l’Agenzia non fa che applicarla. Il trucco è capire la natura di ogni rimborso: quelli legittimi e documentati non dovrebbero mai essere tassati in accertamento (e se lo fossero, è impugnabile), quelli impropri invece sì. Inoltre, va detto, l’Agenzia ha potere di sindacare la deducibilità per l’azienda: anche se al dipendente non tassa nulla perché era formalmente fuori comune, potrebbe negare all’azienda la deduzione se pensa fosse non inerente. Dunque può colpire indirettamente “tassando” via azienda (aumento utile tassabile) ciò che non tassa in capo al dipendente. Anche qui però, deve motivare bene il perché non inerente; non può farlo random.

D.3: Ho rimborsato un mio dipendente per un viaggio partito da casa sua, più lungo che se fosse partito dall’ufficio. Devo tassargli qualcosa?
R.3: Sì. Come chiarito dalla Risoluzione 92/E/2015 e dalle regole generali, se il dipendente parte direttamente dalla propria residenza per comodità sua (o per accordo) e così facendo percorre più chilometri di quanti ne avrebbe percorsi partendo dalla sede di lavoro, la differenza è considerata un beneficio per il dipendente e quindi va trattata come reddito. La parte di rimborso relativa a quei chilometri extra deve essere soggetta a tassazione IRPEF (e a contributi). In pratica, nella nota spese conviene distinguere: “percorso sede->destinazione: X km = rimborso esente Y euro; percorso ulteriore casa->sede: Z km = rimborso imponibile W euro”. Molte aziende semplicemente non rimborsano affatto oltre la distanza sede-destinazione, per non creare il problema. Ma se avete rimborsato tutto, tecnicamente avreste dovuto tassare la quota in eccedenza. Se non l’avete fatto, potreste rimediare con un conguaglio fiscale al dipendente in busta paga successiva, oppure attendere e sperare non venga contestato. Ma se venisse un controllo, l’Agenzia certamente applicherà la regola e recupererà quell’importo. Dunque è opportuno regolarsi ex ante.

D.4: Quali documenti devo conservare per stare tranquillo in caso di verifica sui rimborsi chilometrici?
R.4: È consigliabile predisporre e conservare un dossier completo per ogni trasferta rimborsata. In particolare: – La nota spese firmata dal dipendente, con data e descrizione della missione, luogo di inizio e fine, km percorsi, mezzo utilizzato, e calcolo del rimborso (km × tariffa). – Copia della tabella ACI o estratto della stessa indicante il costo al km per quel modello di veicolo (o almeno indicare chiaramente modello auto e tariffa applicata, così da poterla verificare a posteriori). – Ordine di missione o autorizzazione (email del superiore che dispone la trasferta, o modulo pre-approvazione). – Qualsiasi pezza giustificativa collegata: ricevute di pedaggi, scontrini carburante (anche se non direttamente rimborsati, provano che il viaggio c’è stato), ricevute di ristoranti/hotel se pertinenti alla trasferta, biglietti da visita raccolti durante la visita clienti, ecc. – Idealmente, un rapporto di trasferta al rientro, in cui il dipendente o professionista annota l’esito (es. “cliente interessato, seguirà offerta”), giusto per dare sostanza. – Registro o agenda aziendale dove risultino gli appuntamenti/fiere/attività esterne svolte quel giorno. Tutti questi documenti vanno poi archiviati (anche in digitale, scansioni) per almeno il periodo di accertamento (7 anni dal dichiarativo relativo). Così, se arriva un controllo, potete presentare immediatamente tutta la documentazione richiesta . Una carenza documentale, come detto, può risultare fatale: l’onere della prova è principalmente a carico vostro. In mancanza, vi trovereste a dover ricostruire a posteriori con difficoltà.

D.5: I rimborsi chilometrici concorrono al calcolo del TFR, ferie, tredicesima?
R.5: No, in linea generale i rimborsi spese veri non fanno parte della retribuzione utile per istituti contrattuali come TFR, 13esima, ferie, ecc., proprio perché non sono considerati remunerazione. Il TFR ad esempio si calcola sulla retribuzione imponibile ai fini previdenziali. Se il rimborso chilometrico è esente da contributi (come dovrebbe essere se è appunto fuori comune e documentato), rimane fuori anche dal TFR. Attenzione: se però un rimborso viene “riqualificato” come componente retributiva (tipo le indennità fisse da trasfertista), allora sì, in quel caso diventando imponibile INPS va a confluire anche nelle altre voci. In sostanza, finché il rimborso resta trattamento di missione, è escluso dal calcolo di mensilità aggiuntive e trattamento di fine rapporto. Alcuni contratti collettivi potrebbero avere disposizioni specifiche, ma tendenzialmente è così. Ai fini pratici, l’azienda in busta paga tiene quei rimborsi fuori dagli istituti differiti. Dunque non c’è un effetto moltiplicativo. Tuttavia, se l’Agenzia Entrate in un secondo momento dice “eh no, quella era paga”, e lo stesso fa l’INPS, in teoria potrebbero pretendere contributi pure a fini TFR, ma è uno scenario complesso (dovrebbero rettificare non solo le imposte ma tutte le spettanze lavorative arretrate, evento raro che esula dal fisco stretto).

D.6: In qualità di amministratore di SRL, posso farmi rimborsare i chilometri percorsi con la mia auto senza pagarci tasse?
R.6: Sì, a condizione che siano effettivamente percorsi per ragioni aziendali. Per gli amministratori di società, la legge (art.95 TUIR) equipara il trattamento a quello dei dipendenti autorizzati all’uso del proprio mezzo . Quindi se, ad esempio, l’amministratore unico della SRL va in trasferta per trattative d’affari, può percepire dall’azienda un rimborso chilometrico calcolato secondo ACI sui km effettuati: tale somma non costituisce compenso aggiuntivo per lui (quindi niente IRPEF né ritenuta d’acconto) e per l’azienda è costo deducibile nei limiti di potenza fiscale del veicolo . Ci sono però alcuni accorgimenti: deve esserci una deliberazione o un accordo che preveda questo rimborso (meglio se il verbale assembleare o il CDA lo stabilisce, per non apparire auto-elargito), e va documentato come al solito con nota spese e giustificativi. Se l’amministratore è anche dipendente (caso raro ma possibile), lo può ricevere in busta paga come rimborso spese. Se è solo amministratore, il rimborso risulta come rimborso di una spesa amministrativa (spesso registrato in contabilità su un conto “spese amministratore non imponibili”). Attenzione a non usare l’escamotage per coprire spese private: l’amministratore che si facesse rimborsare i tragitti casa-ufficio giornalieri sarebbe fuori legge (quello è fringe benefit semmai, tassato). In sintesi: sì ai rimborsi per viaggi inerenti l’attività sociale (anche qui fuori comune), no per spostamenti personali o sistematici. Se rispetti queste condizioni, non pagherai tasse su quei rimborsi e neppure la SRL dovrà operare ritenute su di essi, trattandoli come anticipazioni spese.

D.7: Un professionista titolare di partita IVA (es. consulente freelance) può “autodetrarsi” un rimborso chilometrico?
R.7: I professionisti individuali non percepiscono rimborsi da terzi per le proprie trasferte (a meno che il cliente non glieli rimborsi a parte, ma in tal caso sarebbero fuori campo IVA se a piè di lista). Quello che possono fare è dedurre dalle proprie tasse i costi auto. La normativa per i professionisti (art.54 TUIR) è però più restrittiva di quella per dipendenti: le spese relative all’auto propria del professionista sono deducibili solo al 20% del loro ammontare, entro un limite massimo di costo dell’auto (circa €18.000) e solo per un veicolo (se ne ha più di uno) uso promiscuo. Quindi un avvocato con partita IVA individuale che usa la propria auto per andare in udienza può dedurre il 20% dei costi (carburante, assicurazione, manutenzione) come spesa professionale. Non esiste per lui un vero e proprio “rimborso chilometrico” se lavora in proprio, a meno di usare le tariffe ACI per calcolare quanto mettere in contabilità come costo viaggio (qualcuno lo fa come criterio interno). Ma comunque poi se ne deduce solo il 20%. Diverso è il caso di uno studio associato (che abbiamo affrontato): lì l’associazione è il soggetto fiscale che deduce, e l’associato può ricevere il rimborso integrale dei suoi km. Per i professionisti individuali, le recenti sentenze Cassazione 2025 non cambiano la legge: rimane il tetto 20%. Quindi paradossalmente un professionista associato sta meglio (studio deduce 100%) di un professionista singolo (lui deduce 20%). Questo è voluto dal legislatore per scoraggiare l’abuso privato dell’auto sui redditi autonomi. In pratica, il singolo professionista non può “autofarsi” rimborsi esenti, deve usare quell’auto a proprio carico e dedurne solo una quota. Unico caso in cui potrebbe “non pagare tasse” è se ribalta il costo sul cliente fuori dal compenso: esempio, contratto col cliente dice “mi paghi €X di compenso più i rimborsi km secondo ACI”. Quel rimborso, incassato dal cliente, non è reddito professionale (perché è mera reintegrazione di spesa anticipata) e infatti non è soggetto ad IVA né a ritenuta, e il professionista non lo conteggia come ricavo ma nemmeno deduce i relativi costi (evita proprio di contabilizzare, è neutro). È una pratica ammessa: rimborso spese fuori campo IVA. Quindi in quel caso il professionista ha ottenuto un rimborso chilometrico “esente” perché neanche entra nel reddito. È una soluzione usata in consulenze, purché i costi rimborsati siano documentati. In definitiva: come percipiente di un rimborso, il freelance può averlo dal cliente esente, come deducente di costi se va per conto suo è limitato.

D.8: Se l’Agenzia contesta i rimborsi chilometrici della mia ditta, devo restituire anche i soldi ai dipendenti?
R.8: No, l’accertamento fiscale non impone di stornare i rimborsi ai dipendenti. Quello che succede è che l’azienda dovrà versare le imposte (e contributi se del caso) su quelle somme, ma il dipendente di solito non subisce prelievi retroattivi (a meno che l’azienda non decida di rivalersi su di lui). Facciamo un esempio: dipendente Tizio ha ricevuto €1.000 di rimborsi chilometrici non tassati l’anno scorso; arriva accertamento e l’azienda paga €300 tra imposte e sanzioni. L’azienda potrebbe legalmente rivalersi su Tizio per l’IRPEF dovuta (non sulle sanzioni), chiedendogli di restituire quanto pagato per suo conto – c’è base nel codice civile per la rivalsa del sostituto. Ma normalmente, specie se si tratta di pochi soldi, l’azienda non lo fa per mantenere buoni rapporti. Talvolta, se i rimborsi erano palesemente gonfiati con il consenso del dipendente, l’azienda potrebbe dire: “Caro dipendente, abbiamo evaso un po’ insieme, ora l’hanno scoperto e dobbiamo pagare: dividiamo il danno”. Ma non è un obbligo di legge. In sintesi, i dipendenti non devono restituire i rimborsi percepiti in buona fede; semmai in futuro l’azienda cambierà la politica (per es. riducendo l’importo rimborsato o tassandolo) per evitare recidive. Diverso scenario: se l’accertamento sanziona un amministratore-socio che si era auto-liquidato troppi rimborsi, in pratica paga lui stesso come figura aziendale – ma non è una “restituzione”, è pagare tasse. Solo in tribunale civile, in teoria, i soci potrebbero rivalersi sull’amministratore per danni se quell’operato ha causato sanzioni alla società, ma sono ipotesi remote e extra-fiscali.

D.9: Le sentenze della Cassazione che citate (2021-2025) sono definitive? Posso usarle subito nella mia difesa?
R.9: Sì, le sentenze e ordinanze di Cassazione fanno giurisprudenza dal momento della pubblicazione. Quelle del 2025 che abbiamo discusso sono ordinanze della Sezione Tributaria su ricorsi in camera di consiglio (quindi non sentenze a sezioni unite, ma ciò non ne sminuisce il peso). Esse costituiscono precedenti importanti. In Italia non c’è la stare decisis all’anglosassone, quindi il giudice non è formalmente vincolato, ma di fatto le commissioni tributarie tendono a uniformarsi agli orientamenti della Cassazione, specie se recenti e univoci. Nel nostro caso, le ordinanze 4226 e 18364/2025 consolidano un orientamento: potete certamente usarle nelle vostre memorie difensive come autorità di diritto. L’Agenzia delle Entrate stessa, in linea teorica, dovrebbe tenerne conto: spesso dopo pronunce di questo tipo l’Amministrazione emana circolari per adeguarsi. Non ne ha ancora pubblicata (ad agosto 2025) una specifica, ma è lecito attendersi che lo faccia o comunque istruisca gli uffici a non insistere più su certe tesi perdenti. Dunque sì, potete e dovete citarle se pertinenti. Se siete in primo grado, potete addirittura produrre la copia integrale dell’ordinanza (è un documento pubblico, la Cassazione le pubblica anche online) . In secondo grado o in Cassazione, i giudici ne saranno già probabilmente al corrente. Da ora in avanti, le difese dei contribuenti sui rimborsi chilometrici sono molto più robuste grazie a queste pronunce.

D.10: In conclusione, qual è il miglior consiglio per un’azienda per evitare problemi coi rimborsi chilometrici?
R.10: Trasparenza e aderenza alle regole. In altre parole: pagare i rimborsi chilometrici solo quando dovuti, nelle misure corrette e accompagnandoli da una documentazione cristallina. Se un’azienda struttura dall’inizio una politica di trasferte in linea con la normativa (tariffe ACI, niente forfettoni ingiustificati, no rimborsi per tragitti casa-lavoro, tutto registrato e approvato), difficilmente incapperà in contestazioni. Anche un controllo fiscale, vedendo l’ordine e la precisione con cui si gestiscono le note spese, sarà portato a non aprire un fronte su quel tema, dedicandosi magari ad altro. Viceversa, improvvisare o – peggio – usare i rimborsi come “scatola nera” per altri pagamenti è il modo sicuro per avere problemi. Quindi il consiglio principe: attenersi scrupolosamente alla normativa (che, riassumendo, dice: fuori comune esente entro certi limiti, dentro comune tassato; documenta tutto; non pagare oltre ACI) e tenere traccia di ogni spostamento. Così il rimborso chilometrico rimarrà un ottimo strumento di gestione delle trasferte, e non si trasformerà in un incubo fiscale.

Conclusioni

La materia dei rimborsi chilometrici si colloca al crocevia tra esigenze pratiche di mobilità aziendale e complessi risvolti fiscali. L’ordinamento italiano, attraverso una serie di norme puntuali (artt.51, 54, 95, 164 TUIR) e indicazioni di prassi, delinea un quadro che consente di non tassare tali rimborsi in tutti i casi in cui essi rappresentino effettivamente il ristoro di spese inerenti all’attività lavorativa svolta . Di contro, il Fisco è legittimato a intervenire e ricaratterizzare come redditi o costi indeducibili quelle somme che travalicano i limiti di esenzione, difettano di prova, o celano un intento elusivo. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un irrigidimento dei controlli, ma anche a una progressiva evoluzione giurisprudenziale che ha chiarito diversi punti a favore dei contribuenti virtuosi (si pensi alle ordinanze del 2025 sulla deducibilità integrale per professionisti associati , o alla conferma della natura non retributiva dei rimborsi analitici per trasferte di lavoro ).

Dal punto di vista di chi subisce un accertamento – il debitore chiamato a giustificare i propri rimborsi – la chiave del successo sta nel dimostrare la verità economica: se quei chilometri sono stati percorsi per lavoro, se l’importo è calcolato correttamente e il dipendente non ne ha tratto un arricchimento, allora con una difesa ben preparata si può convincere anche il giudice più scettico. Abbiamo visto come predisporre documenti, citare norme e sentenze, e usare gli strumenti processuali adeguati possa portare all’annullamento di pretese infondate del Fisco.

È auspicabile, per il futuro, un intervento normativo o quantomeno amministrativo (circolare esplicativa) che recepisca questi sviluppi giurisprudenziali, fornendo indicazioni univoche agli uffici periferici dell’Agenzia. Ciò ridurrebbe il contenzioso e darebbe certezza a imprese e professionisti. Nel frattempo, il panorama ad agosto 2025 è il seguente:

  • dipendenti e datori di lavoro possono contare su regole ormai consolidate per tenere fuori dalle tasse i rimborsi spese di trasferta, sempreché operino entro le soglie e con trasparenza . Devono però vigilare sulla corretta applicazione (in particolare evitare facili abusi su percorsi e destinazioni).
  • professionisti associati hanno ottenuto importanti vittorie in Cassazione, a tutela di una prassi (rimborso costi auto) che era nel giusto e ora è riconosciuta come tale . La loro deducibilità al 100% è sancita, a condizione di saper provare l’effettività di quei costi.
  • Per gli amministratori e collaboratori, vige la disciplina parallela assimilata ai dipendenti: il rimborso chilometrico resta un ottimo strumento per gestire trasferte senza appesantimenti fiscali, ma anch’esso va usato con onestà e precisione.
  • Quando l’Agenzia delle Entrate “ci prova” a contestare rimborsi chilometrici, il contribuente ha oggi a disposizione un arsenale di difesa ben fornito: dalla documentazione di fatto, al richiamo delle interpretazioni autentiche (Risoluzioni, Risposte a interpello) fino ai precedenti di alto livello .

In definitiva, difendersi è possibile e spesso fruttuoso, purché il rimborso contestato non sia realmente un abuso. Se invece, ahimè, la contestazione coglie nel segno (cioè il rimborso era usato per finalità elusive), la via migliore sarà cercare un accordo col Fisco, poiché le probabilità di vincere in giudizio sarebbero scarse e le sanzioni rischiano di aggravare la posizione. Questa guida ha voluto fornire gli strumenti conoscitivi sia per evitare di incorrere in contestazioni (tramite la conformità alle regole) sia per affrontarle a testa alta, forti del punto di vista del contribuente che – quando legittimo – risulta sempre più autorevolmente riconosciuto anche in sede giurisdizionale.

Fonti: abbiamo citato nell’elaborato le principali disposizioni normative (DPR 917/1986, art.51, 54, 95, 164), i documenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate (Risoluzione 92/E/2015 , Risposta interpello 290/2023 sui rider ) e le sentenze di riferimento (Corte Cass. nn.40860/2021 , 776/2022 , 4226/2025 , 18364/2025 , ecc.), reperibili tramite le rispettive pubblicazioni ufficiali e banche dati giuridiche. Si raccomanda, in sede di predisposizione di un ricorso o memoria, di allegare copia integrale di tali fonti o quantomeno di riportarne i passaggi chiave, come fatto in questa trattazione, per dare forza alle argomentazioni. In un mondo ideale, Agenzia delle Entrate e contribuenti dovrebbero avere una visione condivisa del perimetro lecito dei rimborsi spese; finché permane divergenza, sarà compito degli operatori del diritto far valere nelle sedi opportune quanto emerso in giurisprudenza, assicurando che nessun rimborso chilometrico ragionevole venga penalizzato e che, al contempo, ogni abuso venga scoraggiato, garantendo così equità e buon senso nell’applicazione della normativa tributaria.

  • RIMBORSI CHILOMETRICI E LAVORO AUTONOMO: UNA NUOVA INTERPRETAZIONE (Gazzetta Tributaria 2/2022)

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate contesta i rimborsi chilometrici erogati o percepiti, ritenendoli esagerati o non giustificati? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate contesta i rimborsi chilometrici erogati o percepiti, ritenendoli esagerati o non giustificati?
Vuoi sapere quali rischi corri e come puoi difenderti da queste contestazioni?

I rimborsi chilometrici, se calcolati correttamente e documentati, non costituiscono reddito imponibile. Tuttavia, quando il Fisco ritiene che siano sproporzionati, gonfiati o privi di adeguata documentazione, li considera redditi da lavoro con conseguente tassazione e recupero di imposte.

👉 Prima regola: i rimborsi devono sempre rispettare le tabelle ACI e risultare da documentazione precisa sulle trasferte.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Rimborsi calcolati oltre le tabelle ACI per il veicolo utilizzato;
  • Assenza di giustificativi (ordini di missione, note spese, itinerari);
  • Percorsi incongruenti o distanze eccessive rispetto alle mete dichiarate;
  • Utilizzo improprio dell’auto privata senza prove della trasferta lavorativa;
  • Attribuzione sistematica di rimborsi chilometrici elevati usati per ridurre l’imponibile.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Riqualificazione dei rimborsi come redditi imponibili;
  • Recupero delle imposte non versate su somme ritenute compensi;
  • Recupero dei contributi previdenziali non calcolati;
  • Sanzioni fiscali e contributive;
  • Interessi di mora.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Criterio di calcolo: i rimborsi rispettano le tabelle ACI aggiornate?
  • Documentazione: sono presenti note spese, itinerari, missioni autorizzate?
  • Effettività della trasferta: ci sono prove (fatture, biglietti, contratti) che attestino la necessità dello spostamento?
  • Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia deve dimostrare la sproporzione, non basta un sospetto;
  • Regolarità della notifica e rispetto dei termini.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Note spese e ordini di missione firmati;
  • Prospetti di calcolo dei rimborsi basati sulle tabelle ACI;
  • Estratti conto con i pagamenti ai dipendenti;
  • Documentazione che provi la trasferta (fatture clienti, relazioni, biglietti, ricevute);
  • Dichiarazioni di dirigenti o colleghi che confermano lo svolgimento della missione.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la corretta applicazione delle tabelle ACI;
  • Provare l’effettività delle trasferte con documenti e testimonianze;
  • Contestare errori del Fisco nei calcoli delle distanze e dei valori chilometrici;
  • Eccepire vizi formali: carenza di motivazione, decadenza dei termini, notifica irregolare;
  • Richiedere autotutela se la contestazione è palesemente infondata;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni con possibilità di sospendere la riscossione;
  • Mediazione tributaria per ridurre sanzioni e chiudere la controversia.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza i rimborsi contestati e la documentazione aziendale;
📌 Verifica la corretta applicazione delle tabelle ACI;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi per annullare o ridurre la pretesa del Fisco;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce procedure interne per una gestione trasparente e sicura dei rimborsi chilometrici.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali e lavoro dipendente;
✔️ Specializzato in difesa di imprese e professionisti contro contestazioni su rimborsi spese;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni del Fisco sui rimborsi chilometrici esagerati non sempre sono fondate: spesso si basano su calcoli errati o su documentazione non considerata.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la correttezza dei rimborsi, evitare la riqualificazione come redditi imponibili e proteggere la tua attività da sanzioni indebite.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sui rimborsi chilometrici inizia qui.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
Si invita a leggere attentamente il disclaimer del sito.

Torna in alto

Abbiamo Notato Che Stai Leggendo L’Articolo. Desideri Una Prima Consulenza Gratuita A Riguardo? Clicca Qui e Prenotala Subito!