Agenzia Delle Entrate Accerta False Indennità Di Trasferta: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per presunte false indennità di trasferta corrisposte ai dipendenti o amministratori della tua azienda? In questi casi, l’Ufficio ritiene che le somme erogate non siano effettive indennità esenti ma retribuzioni mascherate, imponibili ai fini fiscali e contributivi. La conseguenza è il recupero delle imposte, l’applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre l’accertamento è legittimo: ci sono strumenti difensivi per dimostrare la corretta natura delle indennità.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta le indennità di trasferta
– Se manca la documentazione che provi l’effettiva trasferta (ordini di missione, note spese, biglietti di viaggio)
– Se i pagamenti sono ricorrenti e costanti, tali da sembrare parte della retribuzione ordinaria
– Se le indennità sono erogate anche in assenza di spostamenti dal luogo abituale di lavoro
– Se le spese rimborsate non sono inerenti o mancano prove di effettivo sostenimento
– Se vi sono incongruenze tra quanto dichiarato dall’azienda e i controlli incrociati con altri dati fiscali o contributivi

Conseguenze dell’accertamento
– Tassazione delle indennità come reddito da lavoro dipendente o assimilato
– Recupero delle imposte non versate e dei contributi previdenziali dovuti
– Applicazione di sanzioni per infedele dichiarazione e indebite detrazioni
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Rischio di ulteriori verifiche fiscali e ispettive in materia di lavoro

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’effettività delle trasferte con documenti di viaggio, note spese, ricevute e contratti
– Provare che le indennità rispettano i requisiti normativi e non costituiscono retribuzione fissa
– Contestare le presunzioni dell’Agenzia fondate solo su elementi indiziari e non su prove concrete
– Evidenziare vizi formali, difetti di motivazione o decadenza dei termini nell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione aziendale relativa a trasferte e indennità
– Verificare la conformità delle indennità con la normativa fiscale e contributiva
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi dell’atto di accertamento
– Difendere l’impresa e i dipendenti in giudizio contro richieste indebite
– Salvaguardare la continuità aziendale e prevenire ulteriori contestazioni

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della natura esente delle indennità effettivamente corrisposte
– La sospensione di eventuali procedure esecutive già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce nei termini, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e diritto del lavoro – spiega come difendersi in caso di contestazioni sulle indennità di trasferta e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Le “false indennità di trasferta” sono un espediente illegale utilizzato da alcune imprese per corrispondere compensi ai dipendenti senza applicare imposte e contributi, camuffandoli da rimborsi spese di viaggio mai effettuati. Quando l’Agenzia delle Entrate (spesso in sinergia con gli ispettori del lavoro e l’INPS) scopre questa pratica, può avviare accertamenti e contestazioni gravose nei confronti del datore di lavoro e, talvolta, anche dei lavoratori coinvolti . Si tratta di una materia complessa che intreccia normativa tributariaprevidenziale e diritto del lavoro, con risvolti anche penali se le somme evase superano determinate soglie.

In questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – forniremo un’analisi approfondita e avanzata, rivolta a professionisti legali, imprenditori e privati che si trovino (o potrebbero trovarsi) a fronteggiare un accertamento fiscale per indennità di trasferta fittizie. Adotteremo un linguaggio giuridico accurato ma con finalità divulgative, per chiarire i concetti chiave e le strategie difensive dal punto di vista del contribuente/debitore.

Tratteremo dettagliatamente:

  • Il quadro normativo italiano sulle trasferte lavorative (leggi, prassi e aggiornamenti 2024-2025).
  • Cosa si intende per false trasferte e come l’Agenzia delle Entrate contesta queste situazioni.
  • Le conseguenze fiscali, contributive e sanzionatorie in caso di accertamento di indennità di trasferta non spettanti.
  • rimedi difensivi a disposizione: dal ravvedimento operoso prima dell’accertamento, alla risposta al PVC, all’adesione, al ricorso nelle Commissioni Tributarie, con cenni alle strategie in sede penale se del caso.
  • Giurisprudenza recente e orientamenti delle autorità (sentenze di merito e di Cassazione fino al 2025, documenti ufficiali) utili per sostenere la difesa.
  • Tabelle riepilogative per una consultazione immediata dei punti chiave (trattamento fiscale delle trasferte, tempistiche dei rimedi, sanzioni, ecc.).
  • Una sezione Domande e Risposte (FAQ) con i quesiti più frequenti – e relative risposte documentate – su questo tema.
  • Simulazioni pratiche di casi italiani, per comprendere in concreto come applicare le strategie difensive.

Prima di addentrarci nei dettagli, è essenziale comprendere che la materia è in continua evoluzione. Il legislatore, la prassi amministrativa e la giurisprudenza recente hanno introdotto novità importanti (ad esempio l’obbligo – parzialmente rivisto – di tracciabilità nei rimborsi spese dal 2025 , o pronunce che tutelano i lavoratori considerandoli “parte lesa” in queste vicende ). Pertanto, difendersi efficacemente richiede un aggiornamento costante e un approccio multidisciplinare.

Nei paragrafi successivi, delineeremo un percorso logico: prima le regole del gioco (norme e definizioni), poi l’analisi del problema delle trasferte fittizie e delle contestazioni fiscali, infine gli strumenti pratici di difesa, con esempi e riferimenti a casi reali. L’obiettivo è fornire al lettore una mappa chiara per orientarsi e tutelare i propri diritti di contribuente di fronte a contestazioni per indennità di trasferta inesistenti.

Quadro normativo: trasferte di lavoro e trattamento fiscale

Per capire come difendersi da un’accusa di false indennità di trasferta, occorre prima padroneggiare il quadro normativo che disciplina le trasferte lavorative e il loro trattamento fiscale/previdenziale. In sintesi, la normativa distingue:

  • Trasferta (missione temporanea fuori sede) e trasfertismo (lavoratore con sede di lavoro abitualmente variabile).
  • Trasferte fuori dal comune vs trasferte nel comune di lavoro.
  • Diversi metodi di rimborso spese: analitico (a piè di lista), forfetario (diaria) o misto.
  • Conseguenze fiscali e contributive diverse a seconda dei casi (somme esenti entro certi limiti oppure imponibili in parte o in toto).

Vediamo ciascun aspetto nel dettaglio, citando i riferimenti di legge e i più recenti aggiornamenti.

Definizione di trasferta vs trasfertista

L’ordinamento italiano non fornisce una definizione generale di “trasferta” nel codice civile o nello statuto dei lavoratori. Tuttavia, il concetto è delineato in ambito fiscale e contributivo. In pratica, la trasferta è uno spostamento temporaneo e provvisorio del lavoratore, disposto dal datore di lavoro per esigenze aziendali, che comporta la prestazione dell’attività lavorativa in un luogo diverso dalla sede abituale prevista dal contratto . Durante la trasferta, il lavoratore resta funzionalmente collegato alla sede di origine, a cui farà rientro terminata la missione . Non rileva che in trasferta il dipendente svolga mansioni diverse dalle solite: ciò che conta è il carattere temporaneo dello spostamento, che distingue la trasferta dal trasferimento (cambio definitivo di sede di lavoro) .

Diverso è il trasfertismo: l’art. 51 comma 6 del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) definisce trasfertisti quei lavoratori che per contratto sono tenuti a lavorare continuamente in sedi sempre variabili e diverse . In altre parole, il trasfertista non ha una sede fissa di lavoro; la sua attività è per sua natura itinerante (si pensi a montatori trasfertisti, autisti di linea extraurbana, operai edili in cantieri vari, ecc.). Dal punto di vista fiscale/previdenziale, al trasfertista spetta un trattamento particolare: indennità e maggiorazioni percepite con continuità per il lavoro in luoghi variabili concorrono al reddito solo al 50% del loro ammontare . Ciò significa, ad esempio, che se un trasfertista percepisce un’indennità fissa per la sua mobilità, solo metà di essa è imponibile (l’altra metà è esente). Questo regime (50% imponibile) si applica però solo se ricorrono le condizioni di legge per qualificarlo come trasfertista; in mancanza, valgono le regole ordinarie delle trasferte occasionali.

Perché è importante questa distinzione? Perché molti contenziosi nascono proprio dalla qualificazione scorretta: aziende che dichiarano “trasfertisti” dipendenti che in realtà operano stabilmente in un luogo (tentando così di tassare solo il 50% delle indennità), oppure viceversa che fingono trasferte saltuarie per evitare di conteggiare interamente le somme come retribuzione. In sede difensiva, capire se un lavoratore avrebbe dovuto essere classificato come trasfertista o meno può diventare un argomento chiave. Ad esempio, se un’azienda sostiene che le indennità contestate erano legittime perché il dipendente era un trasfertista per contratto, dovrà provare che ricorrevano i requisiti (attività svolta in luoghi sempre diversi, indennità corrisposta con carattere continuativo) ; diversamente, quelle somme non godono dell’abbattimento del 50% e possono essere pienamente tassate.

Trasferte intracomunali vs trasferte fuori comune

Un elemento fondamentale è il luogo della trasferta rispetto alla sede di lavoro abituale. L’art. 51 del TUIR e la prassi fiscale distinguono nettamente:

  • Trasferta nell’ambito del territorio comunale (cioè all’interno dello stesso comune in cui il lavoratore ha la sua sede di lavoro normale): in questo caso non si applicano esenzioni fiscali sulla relativa indennità o rimborso. Qualsiasi somma corrisposta al dipendente per trasferte intra-comunali è considerata reddito imponibile al 100%, tranne i rimborsi di spese di trasporto comprovate da documenti del vettore (biglietti autobus, metro, etc.) . In altre parole, se un dipendente viene mandato in missione dall’ufficio di Milano Centro alla periferia di Milano, eventuali rimborsi per taxi, bus o km percorsi all’interno del Comune sono comunque tassati, a meno che non siano supportati da titoli di viaggio nominativi. Questa regola serve a evitare che vengano elargite “indennità di trasferta” fittizie per spostamenti minimi o quotidiani (che di fatto sono normali tragitti casa-lavoro). Nota: il tragitto ordinario casa-lavoro non è considerato trasferta e un suo eventuale rimborso costituisce reddito imponibile (salvo particolari eccezioni giurisprudenziali per assegnazioni provvisorie, come vedremo) .
  • Trasferta fuori dal territorio comunale: in tal caso scattano le regole agevolative previste dall’art. 51, comma 5 TUIR. In linea generale, i rimborsi e le indennità per trasferte extra-comunali non concorrono a formare il reddito del dipendente (sono esenti da IRPEF e contributi) entro determinati limiti e condizioni . Solo l’eventuale eccedenza rispetto ai limiti diventa imponibile. Approfondiamo subito quali sono tali limiti e condizioni, poiché costituiscono il cuore della disciplina fiscale delle trasferte.

Trattamento fiscale delle indennità di trasferta (art. 51, co. 5 TUIR)

L’art. 51, comma 5, del DPR 917/1986 (TUIR) è la norma chiave che stabilisce quando e in che misura le somme erogate per trasferte fuori dal comune sono tassabili. La norma, oggetto di modifiche e chiarimenti nel tempo, prevede tre diversi sistemi di rimborso, alternativi tra loro, con distinti regimi fiscali :

  1. Rimborso analitico (a piè di lista) – Il datore di lavoro rimborsa al dipendente tutte le spese effettivamente sostenute durante la trasferta, sulla base di una dettagliata nota spese con relativi giustificativi (scontrini, ricevute, fatture, biglietti, ecc.). In questo caso le somme rimborsate non costituiscono reddito per il dipendente, in quanto mero ristoro di costi anticipati dal lavoratore . L’esenzione però vale solo per spese documentate di vitto, alloggio, viaggio e trasporto, più un eventuale importo forfettario giornaliero per altre piccole spese non documentabili, nei limiti indicati dalla legge . In particolare, la norma (importi aggiornati all’introduzione dell’euro) stabilisce che nel caso di rimborso analitico fuori comune non concorrono a formare il reddito:
  2. i rimborsi di spese documentate per vitto, alloggio, viaggio e trasporto;
  3. i rimborsi di altre spese eventuali non documentabili (es. telefonate, mance, parcheggi senza ricevuta, ecc.) fino a €15,49 al giorno in Italia e €25,82 all’estero .

Questi importi forfettari giornalieri (15,49 € domestici / 25,82 € estero) coprono le piccole spese non facilmente documentabili e sono esenti solo entro tali soglie. Ogni spesa extra oltre queste somme o priva di giustificativo eccede il limite di esenzione e diventa imponibile. Esempio: se in trasferta fuori comune un dipendente spende 10€ in mance o caffè non documentabili, il rimborso di 10€ è esente (rientra nei 15,49€ giornalieri). Se ne spende 30€, 15,49€ sono esenti e la differenza (~14,51€) diventa imponibile.

  1. Rimborso forfetario (indennità di trasferta) – Il datore di lavoro eroga al dipendente una somma fissa giornaliera per la trasferta, a titolo di “indennità di trasferta” o diaria, destinata a coprire vitto, alloggio e altre spese senza necessità di presentare scontrini (di solito salvo le spese di viaggio). In tal caso, la legge fissa un importo massimo esente: €46,48 al giorno per le trasferte in Italia e €77,47 al giorno per le trasferte all’estero . L’indennità forfetaria giornaliera fino a tali soglie non è tassata; l’eventuale parte eccedente va a formare reddito imponibile . Inoltre, se oltre alla diaria forfetaria l’azienda rimborsa a parte le spese di vitto o alloggio, i limiti di esenzione si riducono. Precisamente:
  2. Se al dipendente viene fornito gratuitamente vitto o alloggio (o rimborsata separatamente una di queste due tipologie di spesa), il limite giornaliero esente di €46,48/€77,47 è ridotto di 1/3 (quindi circa €30,99 in Italia, €51,65 all’estero) .
  3. Se vengono coperti entrambi vitto e alloggio (forniti o rimborsati a parte), il limite esente è ridotto di 2/3 (circa €15,50 in Italia e €25,82 all’estero, coincidente con i massimali del rimborso analitico non documentato) .
  4. Le spese di viaggio e trasporto documentate, invece, sono sempre escluse dal calcolo (possono essere rimborsate in aggiunta all’indennità forfetaria senza erodere il limite) . Ad esempio, se do €40 di diaria al giorno per una trasferta in Italia e rimborso a parte i biglietti del treno, i €40 rientrano nell’esenzione (essendo <46,48) e i biglietti non toccano quel calcolo.

In sintesi, col sistema forfetario puro il dipendente riceve solo la diaria; col forfetario misto riceve diaria ridotta + alcune spese rimborsate a parte. L’essenziale è che non si possono cumulare interamente diaria e rimborsi senza abbattimenti: la normativa impone la riduzione delle franchigie per evitare duplicazioni di esenzione.

  1. Rimborso misto – È una combinazione dei due: tipicamente l’azienda rimborsa analiticamente alcune spese (es. alloggio e viaggio) e corrisponde una piccola diaria per altre spese (es. pasti e varie). In questo caso valgono appunto le riduzioni proporzionali dei limiti come appena visto. Di fatto il rimborso misto equivale ad un rimborso analitico per alcune voci + una diaria ridotta per le altre, rispettando i tetti di esenzione previsti (diaria massima 2/3 o 1/3 del normale a seconda delle spese già rimborsate) .

La tabella seguente riassume il trattamento fiscale dei vari sistemi di trasferta extra-comunale secondo l’art. 51 c.5 TUIR:

Metodo di rimborsoTrattamento fiscale (fuori comune)
Rimborso analitico (piè di lista, con documenti)– Esente: rimborsi documentati di vitto, alloggio, viaggio, trasporto.<br>– Esente: ulteriori spese non documentabili fino a €15,49 al giorno (Italia) o €25,82 (estero).<br>– Imponibile: eventuali rimborsi extra oltre tali limiti.
Rimborso forfetario (diaria)– Esente: indennità giornaliera fino a €46,48 (Italia) o €77,47 (estero), se nessun rimborso a parte di vitto/alloggio.<br>– Esente: spese di viaggio/trasporto documentate, escluse dal conteggio.<br>– Riduzione limiti: se rimborsato vitto o alloggio, diaria esente max ~€30,99 (Italia) o ~€51,65 (estero); se rimborsati entrambi, diaria esente max ~€15,50 (Italia) o ~€25,82 (estero).<br>– Imponibile: parte di diaria eccedente i limiti sopra.
Rimborso misto (diaria + spese)– Esente: spese documentate rimborsate (viaggio, e vitto/alloggio se previsti) fuori dal calcolo diaria.<br>– Esente: diaria residuale nei limiti ridotti (1/3 o 2/3 dei massimali) a seconda delle spese già coperte.<br>– Imponibile: eventuale eccedenza della diaria oltre i limiti ridotti.

Come si nota, la norma è di stretta interpretazione: occorre rientrare precisamente nelle condizioni previste per beneficiare dell’esenzione fiscale. La Cassazione ha più volte ribadito che i due metodi di rimborso (analitico vs forfetario) non sono assimilabili e vanno tenuti distinti, e il giudice tributario deve verificare se nel caso concreto ricorrono i presupposti per l’una o l’altra disciplina agevolativa . Non è possibile ad esempio “spacciare” un rimborso forfetario per rimborso analitico al fine di esentarlo integralmente: se non ci sono pezze giustificative perché si è scelta la strada della diaria, l’eventuale superamento dei limiti non documentato sarà tassato.

Esempio pratico: un’azienda versa in busta paga €50 al giorno per “trasferta Italia” senza raccogliere scontrini. La legge consente esenti solo €46,48; i €3,52 extra al giorno sono reddito imponibile. Se invece l’azienda avesse rimborsato dietro ricevute €30 di albergo e €20 di pasti (€50 totali) senza dare diaria, l’intera somma sarebbe potuta restare esente (rimborso analitico documentato). Questo esempio mostra che non si può aggirare il limite forfetario semplicemente non chiedendo scontrini: l’Amministrazione finanziaria pretenderà le imposte su quella differenza.

Va ricordato inoltre che l’art. 51, co. 5 vale solo per le trasferte fuori dal comune. Le indennità o i rimborsi per trasferte dentro lo stesso comune – come già detto – concorrono interamente a formare il reddito (salvo i soli trasporti documentati) . Dunque pagare un dipendente con una voce “indennità di trasferta (comunale)” in busta paga non comporta alcuna agevolazione fiscale: quelle somme vanno comunque tassate al 100%. Questo dettaglio è spesso al centro dei casi di trasferte fittizie, dove i datori di lavoro indicano in busta paga “Trasferta Italia” anche se il luogo di lavoro era lo stesso comune: in tali situazioni l’Agenzia Entrate facilmente dimostra che l’esenzione non spettava affatto e recupera l’IRPEF dovuta su tutta la somma .

Deduzione dei costi per l’impresa e indennità chilometriche

Dal lato dell’azienda, le somme erogate per trasferte costituiscono un costo del personale. L’art. 95, comma 3, TUIR prevede che sono deducibili per il datore di lavoro le indennità di trasferta e i rimborsi spese entro gli stessi limiti quantitativi previsti per la non imponibilità in capo al dipendente . Ciò significa che, specularmente, un’indennità forfetaria oltre €46,48 (Italia) è costo deducibile solo per la parte entro €46,48; l’eccedenza, essendo reddito per il dipendente, è deducibile come parte della retribuzione. Analogamente, un rimborso analitico interamente documentato è integralmente deducibile; mentre somme prive di giustificazione oltre i €15,49/25,82 giornalieri potrebbero non essere ammesse in deduzione (in quanto di fatto retribuzione in nero). L’aderenza tra disciplina fiscale lato lavoratore e lato impresa, in genere, è totale: ciò che non fa reddito per il primo è deducibile per la seconda, e viceversa.

Un caso particolare è quello delle indennità chilometriche pagate al dipendente che usa il proprio mezzo per la trasferta. Tali rimborsi km sono considerati spese di viaggio/trasporto: la prassi fiscale (Circolare Min. Finanze 326/E/1997) prevede che siano esenti/deducibili entro il costo chilometrico desunto dalle tabelle ACI per il tipo di veicolo e percorrenza effettuata. Se l’azienda corrisponde forfettariamente somme sganciate dal chilometraggio reale (esempio: €100 fissi a settimana per “carburante” a un dipendente, indipendentemente dai km percorsi), l’Agenzia delle Entrate tende a qualificare l’importo come retribuzione imponibile. Una recente massima, riportata dalla giurisprudenza tributaria, afferma che “l’indennità di trasferta, quando è corrisposta in modo forfetario e sganciata dall’effettivo chilometraggio, è soggetta a ritenuta IRPEF” . Dunque, le indennità chilometriche devono essere strettamente commisurate a una trasferta documentata e ai km percorsi; in mancanza di riscontro, quelle somme vengono riprese a tassazione . La Cassazione, ad esempio, ha elogiato una Commissione Tributaria Regionale che aveva tassato le indennità chilometriche non giustificate, ricordando che la norma fiscale è di stretta interpretazione e senza puntuale documentazione che attesti la trasferta, i rimborsi chilometrici non possono essere esclusi dalla retribuzione imponibile .

Novità normative 2025: tracciabilità dei rimborsi spese

Un aggiornamento normativo molto recente riguarda la tracciabilità dei pagamenti delle spese di trasferta. La Legge di Bilancio 2025 (L. 197/2024, art. 1, comma 81) aveva introdotto, a decorrere dal 1º gennaio 2025, l’obbligo che le spese di vitto, alloggio, viaggio e trasporto sostenute in occasione di trasferte fossero pagate con mezzi tracciabili (carte, bonifici, ecc.) affinché i relativi rimborsi potessero beneficiare della non imponibilità fiscale . In pratica, si voleva evitare l’uso del contante, inserendo tale requisito nell’art. 51, co. 5 TUIR. Questa novità aveva creato qualche apprensione nelle aziende, specie per le missioni all’estero in Paesi dove l’uso di carte non è sempre possibile.

Tuttavia, il legislatore è intervenuto di nuovo con il D.L. 84/2025 (decreto “correttivo”), il quale dal 17 luglio 2025 ha limitato l’obbligo di tracciabilità alle sole spese sostenute sul territorio italiano, escludendolo invece per le trasferte effettuate all’estero . Dunque, ad agosto 2025 la situazione è la seguente:

  • Per trasferte in Italia, le spese di vitto, alloggio, viaggio e trasporto devono essere pagate con strumenti tracciabili (carte di credito/debito, bonifici, altri sistemi previsti dall’art. 23 D.Lgs. 241/1997) per poter godere dell’esenzione fiscale nei limiti di legge . Un pagamento in contanti di una spesa significativa in Italia comporta che il relativo rimborso diventi imponibile, anche se documentato.
  • Per trasferte all’esteronon vige più l’obbligo di tracciabilità ai fini fiscali (considerando le difficoltà oggettive in certi Paesi): rimane però fermo che le spese vadano adeguatamente documentate con ricevute/fatture locali per poter esentare i rimborsi e dedurre i costi . In assenza di strumenti elettronici, è consigliabile acquisire dal dipendente una dichiarazione sostitutiva che attesti la spesa e l’impossibilità di pagamento tracciato, specie se in zone prive di POS .

Questa innovazione è rilevante ai fini difensivi perché costituisce un ulteriore elemento di legittimità che l’Amministrazione potrebbe controllare negli accertamenti su trasferte dal 2025 in poi. Ad esempio, se un’azienda nel 2025 rimborsa con esenzione €1000 di spese alberghiere in Italia pagate in contanti dal dipendente, l’Agenzia potrebbe contestare la mancata tracciabilità e riprendere a tassazione quei €1000 (anche se supportati da ricevuta) in base alla nuova norma. Viceversa, per missioni estere, si potrà opporre che la tracciabilità non era richiesta (dopo l’intervento correttivo). È dunque fondamentale che le aziende adeguino policy e procedure interne: dal 2025, pagamenti cash ammessi solo all’estero e con giustificazioni, mentre in Italia occorre disciplinare rigorosamente l’uso di carte aziendali o anticipi con mezzi tracciabili . Una mancata compliance a questo dualismo Italia/estero potrebbe esporre a contestazioni e sanzioni (ad esempio, un errore interpretativo può trasformare un rimborso in un fringe benefit imponibile) .

In sintesi, il panorama normativo sulle trasferte si caratterizza per regole precise e vincolanti. Riassumendo i punti chiave utili anche in ottica difensiva:

  • Le trasferte devono essere effettive (luogo diverso dalla sede, temporaneità) e ben documentate (ordini di missione, nota spese dettagliata con date, luogo, motivo, e scontrini) .
  • Solo quelle fuori dal comune danno diritto a esenzioni fiscali, nei limiti di importo previsti (46,48/77,47 € al giorno o equivalenti in base ai rimborsi misti) .
  • Qualsiasi difformità dalle condizioni di legge (importi eccedenti, assenza di documenti, rimborso di tragitti ordinari spacciati per trasferta) può far perdere l’agevolazione e trasformare le somme in redditi imponibili .
  • Dal 2025, le spese rimborsate per trasferte in Italia devono risultare pagate con modalità tracciate, pena la tassazione .
  • I lavoratori trasfertisti hanno un regime diverso (50% imponibile) e non cumulabile con quello delle trasferte occasionali: un errore di inquadramento contrattuale può comportare recuperi di imposta o contributi se si applica il regime sbagliato.
  • L’impresa deve tenere traccia contabile rigorosa dei rimborsi spese di trasferta e conservare la documentazione: ciò è fondamentale sia per evitare contestazioni, sia per poter provare la propria buona fede in caso di verifica . Ad esempio, conservare ordini di missione, note spese firmate, ricevute originali (o copie digitali a norma) permette di dimostrare che le trasferte non erano fittizie. La recente prassi (es. Risposta AE n. 188/2025) ha confermato la validità anche di documenti digitalizzati e note spese elettroniche, purché nel rispetto delle regole di conservazione sostitutiva .

Chiarito il contesto normativo, possiamo ora esaminare cosa succede quando queste regole non vengono rispettate e come si configurano le trasferte fittizie che l’Agenzia delle Entrate intende colpire.

Trasferte fittizie: abuso delle indennità di trasferta e profili di illecito

“Trasferta fittizia” (o indennità di trasferta falsa) è l’espressione comunemente usata per descrivere quelle situazioni in cui in busta paga compaiono voci relative a trasferte o rimborsi spese pur non essendoci stata alcuna effettiva missione fuori sede. In altre parole, il datore di lavoro finge una trasferta inesistente con l’obiettivo di corrispondere somme esentasse al dipendente, riducendo così il carico fiscale e contributivo rispetto a un normale stipendio.

Questa pratica rientra tra i cosiddetti artifici elusivi o evasivi in materia di lavoro e fisco. Di frequente, le trasferte fittizie vengono utilizzate per remunerare ore di straordinario o altre componenti salariali in modo occulto: ad esempio, pagare gli straordinari come “trasferta” invece che con la voce ordinaria. Ciò è illecito sia sul piano contributivo (si evadono i contributi INPS dovuti su quelle somme) sia sul piano fiscale (si sottrae all’IRPEF una parte di retribuzione) . Come sintetizza un esperto: “Pagare straordinari come trasferta è illegale. Rischi per l’azienda: multe, sanzioni penali, contributi arretrati. Rischi per i dipendenti: licenziamento, minori accantonamenti per TFR e pensione” .

Vediamo più da vicino come e perché le false indennità di trasferta vengono orchestrate, quali sono gli indicatori tipici che insospettiscono i verificatori e quali conseguenze comportano per le parti coinvolte.

Come funziona l’abuso di “Trasferta Italia” in busta paga

Lo schema classico della trasferta fittizia è questo: l’azienda inserisce in busta paga una voce tipo “Indennità di trasferta Italia” (o “Rimborso spese viaggio”) per un certo importo mensile, riducendo corrispondentemente altre voci imponibili (paga base, straordinari, indennità varie). Spesso ciò avviene con l’accordo implicito del lavoratore: questi riceve un netto in busta più alto (perché quella voce non subisce ritenute né contributi), e il datore di lavoro risparmia sia sulle ritenute fiscali sia sui contributi a proprio carico. Di solito, l’importo scelto “in trasferta” corrisponde a quello massimo esente giornaliero moltiplicato per i giorni lavorativi: es. €46,48 * 22 giorni ≈ €1.022 al mese non tassati.

Nella pratica, però, il dipendente non si è mai mosso dalla sua sede o comunque non ha fatto tutte quelle giornate di trasferta. Un caso emblematico emerso nelle cronache è quello di alcuni appalti in cui i lavoratori risultavano formalmente in “trasferta Italia” continua pur operando stabilmente presso l’azienda committente. In realtà erano trasferimenti definitivi camuffati da trasferte, o addirittura semplici ore di lavoro normale travestite da missioni inesistenti .

Ad esempio, 11 lavoratori di una cooperativa modenese appaltatrice hanno ricevuto per anni in busta paga la voce “Trasferta Italia” mentre lavoravano sempre nello stesso stabilimento del committente: non un giorno di missione reale, eppure maturavano diaria esentasse ogni mese . Questo stratagemma ha permesso un risparmio illecito di parecchie migliaia di euro per l’azienda e un beneficio immediato anche per i lavoratori (più soldi in tasca) . Tuttavia, quando l’Agenzia delle Entrate se n’è accorta (anche a seguito di fallimento della coop), ha richiesto il pagamento dell’IRPEF non versata su quelle somme, emettendo cartelle esattoriali da 10-15 mila euro a carico di ciascun lavoratore . Approfondiremo poi l’esito di questo caso, che ha visto i giudici riconoscere i lavoratori come parte lesa e non responsabile.

Indicatori tipici di trasferta fittizia che attirano l’attenzione dei verificatori:

  • Voce “trasferta” ricorrente e fissa in busta paga, ogni mese, per importi elevati e costanti (spesso coincidenti col massimo esente), senza che vi siano documenti di missione né rimborso a piè di lista. Le trasferte vere di solito sono episodiche e variano, mentre un importo fisso mensile insospettisce.
  • Luogo di lavoro invariato: se il dipendente risulta lavorare sempre presso lo stesso sito (es. cantieri fissi, sede del cliente, ecc.) e tuttavia percepisce continue trasferte, probabilmente non si tratta di missioni temporanee ma della sua normale attività. L’assenza di rotazione di sedi, o la mancata indicazione delle destinazioni nelle note spese, è un chiaro segnale.
  • Assenza di spese di viaggio documentate: spesso nelle trasferte finte non ci sono biglietti di treno/aereo, ricevute di hotel, ecc., perché il lavoratore non si è mosso. Al più vi sono giustificativi pretestuosi (es. ricevute di pasti fuori sede non coerenti con l’orario di lavoro). Un controllo incrociato può rivelare che nei giorni considerati “in trasferta” il dipendente timbrava regolarmente in sede.
  • Riduzione di altre componenti retributive: ad esempio, improvvisa diminuzione di ore straordinarie pagate o di superminimi, bilanciata dall’introduzione della voce trasferta. Ciò indica uno spostamento artificioso di imponibile verso la parte esente. Le buste paga sono uno degli elementi probatori: i verificatori guardano la struttura della retribuzione nel tempo.
  • Mancanza di delibera formale o lettera di incarico: una trasferta vera viene di solito disposta per iscritto (ordine di missione con luogo e durata). Nelle false trasferte queste comunicazioni spesso non esistono, oppure sono generiche e ripetute per periodi lunghissimi (es. “missione permanente presso cliente X”), contraddicendo il carattere temporaneo.
  • Settori a rischio: storicamente, l’abuso di trasferte si è riscontrato in settori come l’edilizia e impiantistica (operai inviati su cantieri lontani trattati come trasfertisti fittizi), logistica e facchinaggio (cooperative che usavano la “trasferta Italia” per tutti i dipendenti presso appalti esterni), autotrasporto, vigilanza privata, ecc. In generale, dove il lavoro si svolge fuori dalla sede dell’azienda datrice, c’è margine per sostenere (lecitamente o meno) che si tratti di trasferta. Anche piccole aziende a conduzione familiare a volte hanno abusato di questa leva per pagare meno tasse.

Da notare che vi è un’altra faccia della medaglia: esistono anche casi di rimborsi spese gonfiati o fittizi a iniziativa del dipendente (cioè il lavoratore che dichiara in nota spese costi mai sostenuti, per intascare indebitamente). In tal caso è l’azienda ad essere lesa. La Cassazione ha ritenuto giustificato il licenziamento per giusta causa di lavoratori che presentavano note spese false o gonfiate, data la lesione del vincolo fiduciario . Tuttavia, questo fenomeno attiene più al diritto del lavoro interno; nel nostro contesto ci concentriamo sul datore di lavoro che utilizza impropriamente l’indennità di trasferta a fini di evasione contributiva/fiscale.

Profili di illecito e sanzioni amministrative

L’erogazione di false trasferte costituisce un illecito plurimo:

  • In ambito previdenziale/lavoristico, comporta infedele registrazione sul Libro Unico del Lavoro (LUL) di una voce che non corrisponde alla realtà della prestazione lavorativa. Ai sensi della normativa sul LUL, le registrazioni non veritiere integrano violazione sanzionabile. Il Ministero del Lavoro ha chiarito (Nota n. 11885 del 14/6/2016) che il disconoscimento della natura di trasferta e la riqualificazione come normale retribuzione configurano “infedele registrazione” sul LUL, punibile con sanzione amministrativa . La sanzione prevista va da un minimo di 150 euro a un massimo di 6.000 euro, determinato in base al numero di lavoratori coinvolti e alle evidenze riscontrate . Tale multa è irrogata dagli ispettori del lavoro. In aggiunta, l’ispettorato ingiunge il recupero dei contributi INPS evasi sulle somme erroneamente escluse da imposizione previdenziale . L’INPS richiederà quindi sia la quota datoriale sia quella a carico dipendente (quest’ultima normalmente sarebbe stata trattenuta in busta paga, e in difetto di riscossione può essere chiesta al datore per responsabilità solidale).
  • In ambito fiscale, la condotta integra un’evasione d’imposta sul reddito da lavoro dipendente. Il datore di lavoro, in qualità di sostituto d’imposta, omette di operare le dovute ritenute IRPEF su una parte di retribuzione mascherandola da trasferta. Le conseguenze amministrative fiscali sono: il recupero delle imposte non versate (IRPEF e relative addizionali regionale/comunale) e l’irrogazione di sanzioni tributarie per omesso versamento e/o infedele dichiarazione. Approfondiremo a breve nel dettaglio queste sanzioni. Per ora basti sapere che, di regola, la somma pagata come trasferta fittizia viene considerata come retribuzione imponibile retroattivamente e su di essa si applicano le aliquote IRPEF dovute per ciascun anno (scaglioni del dipendente) con relativi interessi di mora. La sanzione tipica per omesso versamento di ritenute è pari al 30% delle ritenute non versate , mentre la sanzione per dichiarazione infedele (nel caso in cui l’azienda abbia anche dedotto indebitamente il costo abbattendo il reddito d’impresa) va dal 90% al 180% della maggior imposta dovuta. In pratica, l’Agenzia Entrate può contestare entrambi i profili: mancata ritenuta alla fonte e indebita deduzione di costi (se i costi erano dedotti oltre i limiti), con relative sanzioni.
  • Se le somme in questione sono consistenti, entra in gioco anche l’ambito penale tributario: l’art. 2 del D.Lgs. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti falsi) normalmente si riferisce a false fatture, non il caso nostro; l’art. 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) può essere invece configurabile se il datore di lavoro ha attuato una manovra fraudolenta idonea a ostacolare l’accertamento, ad esempio predisponendo documentazione fittizia di trasferte (registro delle trasferte falsificato, note spese false concordate col dipendente, etc.) e se l’imposta evasa supera €30.000 annui . Un’operazione dolosa di mascheramento retributivo potrebbe in teoria rientrare in questo delitto tributario, punito con reclusione da 3 a 8 anni. In alternativa, se non vi sono artifici così qualificati, potrebbe configurarsi il reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) se l’imposta evasa (sommando tutti i dipendenti) supera €100.000 annui e l’ammontare sottratto a imposizione supera il 10% dell’imponibile dichiarato o €2 milioni. Infine, è ipotizzabile il reato di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis) se il datore, dopo aver certificato nelle CU le retribuzioni corrette (ipotesi rara, di solito non le certificano affatto), non avesse versato oltre €150.000 di ritenute entro la scadenza. Tuttavia, nei casi di trasferte fittizie spesso il datore non certifica neppure tali importi come imponibili, quindi l’inquadramento penale più calzante resta la dichiarazione infedele o fraudolenta.

Riassumendo gli illeciti amministrativi:

  • Violazione lavoro/LUL: sanzione 150€ – 6.000€ per infedele registrazione (per aver indicato “trasferta” anziché normale retribuzione) .
  • Omesso versamento contributi INPS: sanzione civile INPS (somma aggiuntiva) pari al 30% dei contributi evasi su base annua, fino al 60% se ritardo oltre 24 mesi, oltre interessi; se importi > €10.000 annui e non vengono versati entro termini, può scattare anche il reato di omesso versamento contributi (art. 3 D.L. 8/2016) punito con la multa o la reclusione fino a 3 anni, ma estinguibile pagando il dovuto entro l’udienza preliminare.
  • Recupero IRPEF addizionali: pagamento delle imposte non trattenute, con interessi (attualmente interesse legale 5% annuo dal 2023, 6% nel 2024, ecc., soggetto a variazioni).
  • Sanzione omesso versamento ritenute: 30% delle ritenute non operate/non versate (ridotto a 15% se pagate entro 90 giorni dalla scadenza, ecc.) – D.Lgs. 471/1997 art. 13.
  • Sanzione dichiarazione infedele (per il datore di lavoro in quanto contribuente IRES/IRAP, se ha contabilizzato in modo da abbattere il reddito): 90% dell’imposta evasa (minimo) . Tuttavia, va detto che il costo del personale, anche se “ridenominato” trasferta, normalmente l’azienda lo deduce comunque in dichiarazione. Dunque potrebbe non esserci evasione IRES: l’elusione è soprattutto sul fronte ritenute e contributi. Al limite, l’Agenzia potrebbe contare come indebita deduzione l’eccedenza oltre i limiti art. 95 TUIR, ma trattandosi di spese per lavoro dipendente, la deducibilità è difficilmente negabile (diverso sarebbe se fossero rimborsi a non dipendenti, ecc.).

In qualunque caso, l’Agenzia delle Entrate contesterà l’irregolarità emettendo un avviso di accertamento, spesso a seguito di un PVC (Processo Verbale di Constatazione) della Guardia di Finanza o di segnalazioni degli ispettori del lavoro. Approfondiremo nel prossimo capitolo il percorso dell’accertamento fiscale e come il contribuente può difendersi in ogni fase.

Prima, però, spendiamo qualche parola sulle conseguenze per i lavoratori coinvolti. Formalmente, il dipendente che ha percepito somme in esenzione non spettante avrebbe ottenuto un indebito vantaggio fiscale: la legge prevede che in caso di omesse ritenute, l’Amministrazione possa rivalersi anche sul percettore per l’imposta evasa (il principio è che l’IRPEF sul reddito di lavoro è dovuta dal lavoratore, se il sostituto non l’ha versata) . Non a caso, come visto, spesso arrivano cartelle esattoriali direttamente ai lavoratori per il recupero dell’IRPEF non versata sulle trasferte finte. Questi, oltre a dover restituire imposte, subiscono danni previdenziali: i contributi mancanti significano che le loro buste paga risultano più basse come retribuzione imponibile, con riflessi su TFR, tredicesima, pensione futura. Inoltre, se emerge che erano consapevoli del meccanismo fraudolento, potrebbero subire sanzioni disciplinari (fino al licenziamento per giusta causa, avendo partecipato a un illecito) o, in teoria, essere considerati corresponsabili sul piano penale. Di fatto, però, l’orientamento che sta emergendo è di considerare i lavoratori come parte lesa dello stratagemma, specialmente se in posizione debole (es. lavoratori stranieri ignari delle finezze fiscali). Una sentenza pionieristica del Tribunale di Modena (2020) ha affermato proprio questo: “L’uso di finte voci in busta paga per eludere fisco e contributi… è responsabilità del datore di lavoro”, riconoscendo il diritto allo sgravio delle cartelle IRPEF emesse verso gli 11 lavoratori coinvolti . Il giudice ha evidenziato che tali dipendenti, oltretutto stranieri e poco consapevoli, avevano subito le conseguenze dell’elusione perpetrata dal datore senza realmente beneficiarne (se non nell’immediato), e dunque non potevano essere trattati come complici. Ha anche sollevato profili di legittimità costituzionale qualora si facesse gravare su di loro l’intero debito d’imposta derivante da scelte datoriali . Questa pronuncia – definita dai sindacati “senza precedenti” – è importante: in pratica i lavoratori sono stati “assolti” dall’obbligo di pagare l’IRPEF evasa, che rimane in capo al datore (peraltro fallito in quel caso, quindi sarà probabilmente insolvibile, ma almeno i lavoratori non hanno dovuto sborsare migliaia di euro) .

Sul piano disciplinare, se un lavoratore rifiuta di aderire a un sistema di pagamenti in nero travestiti da trasferta, dovrebbe essere tutelato perché sta opponendosi a un illecito. Purtroppo, in realtà, molti subiscono la situazione per timore di perdere il posto. Se poi l’illecito viene alla luce, l’azienda potrebbe provare a incolpare i dipendenti, ma difficilmente regge: caso mai è legittimo il licenziamento del dipendente che gonfia le note spese, non di chi accetta un’indicazione decisa dal datore senza falsificare nulla. Un dipendente consenziente su finte trasferte rischia però di veder diminuire le proprie tutele contributive e – come detto – di ricevere avvisi di accertamento. Quindi, dal loro punto di vista, i lavoratori dovrebbero evitare di concordare pagamenti in trasferta se la trasferta non c’è, perché i rischi a medio termine superano i vantaggi immediati.

In sintesi sulle trasferte fittizie: è una pratica molto pericolosa che può portare a sanzioni multi-direzionali: fisco, INPS, ispettorato, penale. Sebbene talvolta sia stata tollerata o sottovalutata in passato, oggi c’è molta attenzione da parte delle autorità. La Cassazione la considera un escamotage volto ad abbassare la base imponibile fiscale e contributiva, e ne sancisce l’illegittimità . Le aziende scoperte vanno incontro a pesanti esborsi e procedimenti, e i “furbetti” (come vengono chiamati sui media) dei rimborsi spese possono ritrovarsi nei guai. D’altro canto, l’emersione di tali fenomeni ha visto anche un’evoluzione giurisprudenziale a tutela di chi li ha subiti senza reale colpa.

Ora che abbiamo delineato il problema, come ci si può difendere se l’Agenzia delle Entrate contesta indennità di trasferta ritenute false? Il prossimo capitolo affronterà i passi dell’accertamento e tutti gli strumenti difensivi, passo per passo dal primo rilievo al contenzioso tributario.

Accertamento fiscale per false trasferte: il procedimento e come reagire

Quando l’Agenzia delle Entrate (o la Guardia di Finanza nell’ambito di una verifica) contesta l’utilizzo improprio di indennità di trasferta, si innesca un procedimento che tipicamente segue queste fasi:

  1. Verifica e Processo Verbale di Constatazione (PVC) – Può partire da un’ispezione sul lavoro, da un controllo fiscale mirato (magari incrociando dati delle Certificazioni Uniche, del LUL, o segnalazioni), o da una verifica generale in azienda. Se emergono irregolarità, i verificatori (GdF o ispettori dell’Agenzia) redigono un PVC dove descrivono i fatti (numero di dipendenti, somme pagate come trasferta, periodo, ecc.) e contestano le violazioni fiscali (omesse ritenute, infedele dichiarazione, ecc.) proponendo il recupero delle imposte. Il contribuente riceve copia del PVC.
  2. Notifica dell’Avviso di Accertamento – Trascorsi almeno 60 giorni dalla notifica del PVC (salvo casi di urgenza motivata), l’Ufficio dell’Agenzia Entrate emette un avviso di accertamento, atto impositivo formale, con cui quantifica il maggior reddito imponibile accertato (ossia riclassifica le somme come redditi di lavoro dipendente imponibili) e calcola le imposte evase, le sanzioni e gli interessi dovuti. Questo atto viene notificato al datore di lavoro (se considerato sostituto d’imposta inadempiente) e/o ai lavoratori (se l’Ufficio intende colpire loro come contribuenti in proprio per l’IRPEF non versata). In molti casi, il bersaglio principale è l’azienda, ma come visto non è escluso che arrivino avvisi ai singoli dipendenti per il loro IRPEF personale.
  3. Fase amministrativa di adesione o definizione bonaria – Dopo la notifica, prima di fare ricorso, il contribuente ha la facoltà di attivare procedimenti deflativi del contenzioso: in primis l’accertamento con adesione (istanza di fissazione di un contraddittorio con l’Ufficio per raggiungere un accordo). Inoltre, se l’atto riguarda solo sanzioni, si può chiedere l’acquiescenza con riduzione 1/3 delle sanzioni. In casi particolari (es. se pendono più annualità o il legislatore lo consente) si possono valutare definizioni agevolate, di cui diremo.
  4. Impugnazione (ricorso) – Se non si è definito l’atto in via amministrativa, entro 60 giorni dalla notifica (90 giorni in caso di adesione avviata) il contribuente/debitore può presentare ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale (oggi denominata Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado) competente. Parte così il contenzioso tributario. Il ricorso sospende in parte la riscossione: di norma però bisogna versare un terzo delle imposte accertate entro il termine di impugnazione (a titolo provvisorio) per evitare l’iscrizione a ruolo e la cartella di pagamento su tale importo . È possibile anche chiedere al giudice tributario la sospensione dell’atto se sussiste un grave danno e fondati motivi, ma va motivata bene.
  5. Giudizio tributario – Si svolge il processo in CTP, con scambio di memorie e poi udienza di discussione. Il giudice emette sentenza che può confermare l’atto, annullarlo (in tutto o in parte) o ricalcolarlo. Se la decisione non è favorevole, si può appellare in Commissione Tributaria Regionale (Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado) entro 60 giorni. L’appello richiede in genere, se si è perso in primo grado, il pagamento di un ulteriore importo fino a 2/3 del totale (cioè un altro terzo, per arrivare a 2/3) a garanzia. Dopo l’appello c’è eventualmente il ricorso per Cassazione.
  6. Riscossione coattiva – Se l’accertamento diventa definitivo (per mancato ricorso, o dopo sentenza passata in giudicato), l’importo dovuto viene affidato all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) che emette cartella esattoriale o atto di intimazione. Da quel momento, se non si paga o non si chiede rateazione, si rischiano pignoramenti, fermi, ipoteche. In corso di causa, come detto, una parte è comunque riscossa in via provvisoria (un terzo, poi due terzi, ecc.). Esamineremo anche la possibilità di rateizzare il debito.

Di seguito analizziamo ogni fase dal punto di vista della difesa del contribuente, indicando cosa fare e su quali argomentazioni o prove puntare, con riferimento al caso delle indennità di trasferta contestate.

Prima della notifica: ravvedimento operoso e prevenzione

Un contribuente accorto, appena si rende conto di aver commesso (volontariamente o per errore) un illecito fiscale, dovrebbe valutare il ravvedimento operoso. Il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/1997) consente di regolarizzare spontaneamente violazioni tributarie prima che l’Amministrazione le contesti formalmente, beneficiando di una significativa riduzione delle sanzioni. Se un’azienda si accorge di aver indebitamente erogato trasferte esenti non spettanti – magari perché cambia il consulente del lavoro, o perché un dipendente segnala la cosa – è fortemente consigliabile agire subito, senza attendere accertamenti.

Nel caso di trasferte fittizie, ravvedersi significa in pratica: riedeterminare le retribuzioni imponibili per i periodi passati coinvolti, calcolare le relative ritenute IRPEF non versate e versarle con sanzioni ridotte e interessi. Tecnicamente, il datore di lavoro può presentare dichiarazioni dei redditi integrative (per correggere le Certificazioni Uniche e il 770) includendo quelle somme come imponibili, ed effettuare il versamento delle ritenute omesse. La sanzione per omessa ritenuta (30%) viene ridotta in base al momento del ravvedimento (ad esempio, se fatto entro un anno dalla violazione, la sanzione scende a 1/8 del minimo, quindi 30%/8 = 3,75%). Se sono passati più anni, si può comunque ravvedere fino al termine di accertabilità (31 dicembre del quinto anno successivo), con riduzione minore (ad es. 1/6 se oltre 2 anni). Anche l’azienda, se ha indebitamente dedotto più costi di quelli ammessi (caso raro, perché il costo del personale è deducibile comunque, ma se ad es. aveva dedotto diarie oltre i limiti di art. 95 TUIR), può ravvedere la propria dichiarazione IRES versando la relativa imposta e sanzione ridotta.

Attenzione: Il ravvedimento è ammesso solo se il contribuente non ha già ricevuto formale notifica di avvio di controlli (accessi, ispezioni, richieste) per quella specifica violazione. Se, ad esempio, è già arrivata una convocazione o un PVC in cui si cita la questione delle trasferte, non sarà più possibile ravvedersi su quella materia. È quindi una corsa contro il tempo: anticipare il Fisco con un “mea culpa” conviene, perché abbatte sanzioni e soprattutto inibisce il penale (il pagamento spontaneo prima di certe fasi può escludere la punibilità per alcuni reati tributari, come vedremo). Nel 2023 il legislatore ha persino introdotto un “ravvedimento speciale” per violazioni fino al 2021, con sanzioni ridotte a 1/18, scaduto però a ottobre 2023 . Anche se quella finestra è chiusa, il ravvedimento ordinario resta sempre possibile.

Dal punto di vista difensivo, un ravvedimento operoso correttamente perfezionato può costituire un importante argomento: se poi l’Agenzia contestasse comunque qualcosa (magari residui o aspetti previdenziali), si potrà dimostrare la propria collaborazione e buona fede post-violazione, ottenendo trattamento più benevolo. Inoltre, come detto, sul fronte penale l’art. 13 del D.Lgs. 74/2000 prevede che il pagamento integrale del debito tributario (imposta, sanzioni, interessi) prima che l’autore abbia formale conoscenza di indagini penali a suo carico, estingue i reati di dichiarazione infedele e omesso versamento; e attenua quelli di dichiarazione fraudolenta. Quindi, se si ravvede e sistema tutto prima che parta la segnalazione, l’amministratore dell’azienda metterà al sicuro anche sé stesso da possibili denunce per reati tributari.

In concreto, ravvedersi su false trasferte comporta oneri finanziari significativi (pagare imposte arretrate + interessi + sanzioni seppur ridotte), ma quasi sempre è preferibile rispetto ad affrontare accertamenti con sanzioni piene e rischio penale. Va considerato che l’INPS non ha un istituto di ravvedimento identico, ma si può fare un pagamento spontaneo dei contributi dovuti non prescritti, riducendo sanzioni civili; anche questo sarebbe opportuno per regolarizzare.

Ovviamente, se l’azienda è in difficoltà economica o la scoperta avviene a cose fatte (es. durante un’ispezione in corso) e non c’è modo di ravvedersi in tempo, occorrerà passare alle strategie difensive nelle fasi successive.

Risposta al PVC: osservazioni e deduzioni entro 60 giorni

Se viene notificato un Processo Verbale di Constatazione (PVC) in cui la Guardia di Finanza o funzionari AE contestano le trasferte fittizie, il contribuente ha il diritto di presentare osservazioni e richieste difensive scritte entro 60 giorni (art. 12, c.7 L. 212/2000, Statuto del Contribuente). L’ufficio impositore deve tenere conto di tali memorie prima di emettere l’accertamento definitivo.

La “risposta al PVC” è uno strumento spesso sottovalutato ma prezioso: può servire a chiarire malintesi, a fornire prove documentali che i verificatori non avevano considerato, o ad evidenziare vizi procedurali. Anche se difficilmente l’ufficio rinuncerà del tutto all’accertamento, delle buone osservazioni possono portare a una parziale archiviazione o a un’ammissione di elementi a favore. Inoltre, avere agli atti le proprie controdeduzioni è utile poi in giudizio, perché dimostra cooperazione e può contenere argomenti che saranno ripresi nel ricorso.

Cosa scrivere nella risposta al PVC in caso di contestazione di false trasferte? Alcuni punti possibili:

  • Contestare i fatti se possibile: ad esempio, se l’azienda ha effettivamente svolto alcune trasferte reali, ma i verificatori le hanno considerate inesistenti, elencare dettagliatamente date, luoghi, persone, allegando documenti (ordini di missione firmati, email di incarico, foto o rapportini che provino la presenza altrove del dipendente, biglietti di viaggio, ricevute hotel). Qualunque elemento che dimostri che non tutte le trasferte contestate erano fittizie va presentato. Spesso il Fisco tende a fare di ogni erba un fascio: se ci sono state 100 indennità, magari 20 erano legittime ma vengono inglobate nella contestazione. Separare il grano dal loglio è compito del difensore.
  • Dimostrare la buona fede e l’assenza di dolo: se ad esempio l’azienda applicava un trattamento come da un certo CCNL o prassi (talvolta alcuni contratti collettivi prevedevano “indennità di trasferta Italia” per lavori extra-sede, generando confusione), spiegarlo. O se c’era stato un parere errato di un consulente, allegare eventuali istruzioni ricevute. Questo non evita il recupero fiscale, ma può influire su sanzioni (es. far qualificare l’infrazione come colposa e ottenere sanzione minima, o evitare l’accusa di frode).
  • Rilevare errori formali nel PVC: verificare se i calcoli sono corretti, se i periodi rientrano nei termini (ad es. contestare anni ormai decaduti), se l’ammontare delle imposte evase è stato determinato giustamente (magari non hanno considerato che il dipendente aveva deduzioni o detrazioni, etc.). Ogni imprecisione può essere sollevata chiedendo correzione.
  • Invocare la tutela del legittimo affidamento o interventi normativi: talvolta se in passato c’è stato qualche condono o sanatoria, e l’azienda vi ha aderito su quei periodi, segnalarlo. Oppure, se c’è stata una circolare ambigua che ha generato l’errore, citarla per chiedere quantomeno l’esclusione delle sanzioni.
  • Se i lavoratori hanno già pagato qualcosa o c’è stata pronuncia favorevole a loro: ad esempio, se come nel caso di Modena i lavoratori hanno ottenuto lo sgravio in tribunale, menzionare la cosa all’AE sostenendo che inseguire i dipendenti è iniquo e inefficace, e che si è disposti a farsi carico come datore di tutto il debito (eventualmente negoziando).
  • Richiedere il contraddittorio preventivo: benché l’art. 12 c.7 già dia 60 gg, si può anche chiedere espressamente di essere convocati per discutere il PVC prima dell’accertamento. L’ufficio non è obbligato, ma a volte lo fa.

L’obiettivo primario della risposta al PVC, in questo contesto, sarà quasi sempre cercare di ridurre l’imponibile contestato e/o ottenere sanzioni minori. Ad esempio, se l’Agenzia considera tutte le 120 indennità pagate in 5 anni come false, ma davvero per alcuni mesi i dipendenti erano in trasferta (un cantiere in un altro comune, un corso fuori sede, ecc.), dimostrarlo può far abbattere l’accertamento in quella parte. Oppure, se l’ufficio ha applicato la sanzione del 90% (infedele) ma si può convincere che si tratta di semplice omissione di versamento ritenute (30%), c’è un bel guadagno.

Va evidenziato che l’amministrazione finanziaria negli ultimi anni ha assunto un atteggiamento molto rigido sui rimborsi spese: ha emanato risoluzioni e risposte a interpello sottolineando l’obbligo di documentazione adeguata e la non tolleranza di abusi. Ad esempio, l’Agenzia Entrate ha chiarito che “le indennità chilometriche non giustificabili sono tassate” e che i rimborsi spese detassati richiedono idonea documentazione . Citare queste posizioni in sede di difesa serve fino a un certo punto, perché sono a sfavore; tuttavia, si può usare il registro opposto: citare le pronunce della Cassazione che insistono sulla natura risarcitoria delle vere trasferte. Ad esempio: “La Corte di Cassazione ha ribadito che il rimborso spese trasferta ha natura non retributiva e non concorre al reddito se il lavoratore è comandato a svolgere la prestazione in luogo diverso dall’ordinaria sede” . Tradotto: se in alcune situazioni i nostri dipendenti erano effettivamente comandati altrove, quelle somme devono essere considerate rimborsi esenti. Si può allegare copia di sentenze di legittimità (es. Cass. n. 15164/2024) che affermano tali principi , in sostegno delle proprie argomentazioni.

Formalmente, l’Agenzia non è tenuta a rispondere punto per punto alle osservazioni, ma le deve valutare. Spesso, nell’avviso di accertamento poi emesso, troviamo un paragrafo con cui l’Ufficio rigetta o accoglie parzialmente le deduzioni. È importante scriverle bene, anche pensando già al giudice: in caso di rigetto, quelle stesse ragioni saranno la base del ricorso in Commissione.

Accertamento con adesione: negoziare per ridurre il danno

Ricevuto l’avviso di accertamento (o in alcuni casi ancor prima, su invito dell’ufficio), il contribuente ha la possibilità di attivare la procedura di accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997). Si tratta, in sostanza, di un confronto negoziale con l’Agenzia delle Entrate per eventualmente raggiungere un accordo transattivo sull’accertamento, evitando il processo.

Vantaggi dell’adesione:

  • Sospende i termini per fare ricorso (90 giorni dalla data di presentazione dell’istanza di adesione).
  • Permette di discutere informalmente con i funzionari, spiegare meglio la situazione, e magari ottenere uno sconto sull’imponibile o sulle sanzioni.
  • Se si raggiunge l’accordo (si “adesione” all’accertamento con atto firmato da entrambe le parti), le sanzioni sono automaticamente ridotte a 1/3 di quelle originarie . Inoltre, si possono chiedere fino a 8 rate trimestrali per il pagamento (se importo > €50.000 fino a 12 rate).
  • Chiude definitivamente il rapporto per quelle materie e annualità (diventa un atto non più impugnabile).

Svantaggi/punti di attenzione:

  • Bisogna comunque avere liquidità per pagare (il primo pagamento va fatto entro 20 giorni dall’atto di adesione).
  • Se l’accordo non si trova, si è solo allungato un po’ il tempo ma poi si deve comunque ricorrere (nulla di grave però, il diritto al ricorso rimane).
  • Occorre valutare bene se l’ufficio è disponibile: a volte su questioni come queste (che considerano evasione conclamata) i margini di trattativa sono ridotti. Ma tentare non nuoce.

Nella pratica, in materia di trasferte fittizie, l’adesione potrebbe portare a concordare una riduzione delle sanzioni ulteriore (anche oltre il terzo di legge, se l’ufficio riconosce attenuanti) e in qualche caso a transigere sull’imponibile. Ad esempio, il funzionario, vedendo che l’azienda porta evidenze di alcune trasferte effettive, potrebbe convenire di tassare il 70% delle somme invece che il 100%. Oppure l’ufficio potrebbe eliminare il raddoppio per infedele dichiarazione mantenendo solo la sanzione da sostituto. Tutto dipende dalle circostanze. Sicuramente, in adesione l’azienda potrà far valere considerazioni equitative: ad esempio, proporre di pagare tutte le imposte ma chiedere la non applicazione delle sanzioni perché i lavoratori altrimenti perderebbero TFR/pensione su quelle somme (magari impegnandosi a regolarizzare contributi), o perché c’era incertezza interpretativa. In alcuni casi l’Agenzia – pur di incassare velocemente – accetta di ridurre le sanzioni al minimo di legge (o anche sotto, rimodulando l’imponibile) soprattutto se percepisce la volontà di collaborazione.

Strategia difensiva: è spesso utile presentare l’istanza di adesione quasi contestualmente al ricorso (per sicurezza). Infatti, la presentazione dell’istanza sospende il termine per ricorrere, ma conviene comunque predisporre il ricorso così da depositarlo se l’adesione fallisce. Durante le riunioni di adesione, mantenere un atteggiamento cooperativo ma fermo sui punti dove si ha ragione: per dire, se l’Agenzia propone di tagliare solo il 10% delle imposte ma tu hai prove per il 30%, insisti su quel 30%. Cedi su ciò su cui sei scoperto (es. evidenti finzioni) in cambio di uno sconto sulle sanzioni.

Se si raggiunge un accordo, ottimo: si chiude la vicenda con un sacrificio finanziario mitigato (un male minore rispetto al rischio in giudizio). Se invece l’accordo non si perfeziona, l’ufficio – decorsi i 90 giorni – andrà avanti e il contribuente dovrà fare ricorso entro i nuovi termini (60 gg + 90). Spesso l’ufficio, se vede impossibilità di intesa, inviterà a formalizzare il mancato accordo anche prima dei 90 gg per non perdere tempo.

Da notare: l’adesione non è ammessa se l’accertamento è derivato da processi verbali di GdF su reati fiscali: ma in queste situazioni (frode conclamata) difficilmente l’ufficio concederebbe qualcosa. Comunque, per trasferte finte di solito si può tentare.

Il ricorso in Commissione Tributaria: come impostare la difesa

Se la via extragiudiziale non ha risolto la questione, l’ultimo baluardo è il ricorso al giudice tributario. Questa è la fase più tecnica e in cui è altamente consigliato farsi assistere da un avvocato tributarista o esperto di contenzioso, data la complessità delle argomentazioni.

Tempistiche e procedure: Il ricorso va presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso (o dalla fine del periodo sospeso per adesione). Nel ricorso si devono indicare i motivi per cui l’accertamento è illegittimo o infondato. Contestualmente, per evitare misure di riscossione, occorre versare un importo pari a 1/3 delle imposte accertate (detto “importo a titolo provvisorio”). Il restante 2/3 rimane sospeso fino all’esito di primo grado. In alternativa, se il pagamento immediato creasse danno grave, si può chiedere al giudice una sospensiva dell’atto (ma in genere per importi grandi viene chiesto almeno un parziale pagamento). Presentato il ricorso, l’esecuzione dell’accertamento oltre il terzo è congelata ex lege.

Argomenti di difesa nel merito:

  • Insussistenza del fatto: se il Fisco ha considerato tutto falso ma in realtà c’erano trasferte vere, far valere le prove. Ad esempio: documentare minuziosamente ogni trasferta effettiva compiuta, con testimonianze se necessario (in sede tributaria si possono allegare dichiarazioni rese in altri giudizi o scritte notarili di testimoni). Dimostrare che il lavoratore era veramente fuori sede in certi periodi (foto coi GPS, registro ingressi presso clienti, ecc.). La Cassazione ha detto chiaramente che spetta al datore di lavoro provare le condizioni per la non imposizione, mentre all’ente previdenziale (e analogamente al Fisco) basta provare che il lavoratore ha ricevuto somme in costanza di lavoro . Quindi l’onere di provare la genuinità delle trasferte è sulle spalle del contribuente. Documentazione e precisione sono essenziali. Se si convince il giudice che, ad esempio, 50% delle somme contestate erano per missioni vere, quell’importo non doveva essere tassato. Giudici di merito in passato hanno accolto parzialmente ricorsi in cui l’azienda provava almeno una parte di trasferte, riducendo così l’accertamento.
  • Riqualificazione come trasfertisti: se applicabile, sostenere che quei lavoratori di fatto erano trasfertisti ai sensi art. 51 co.6 TUIR e quindi le somme dovevano essere tassate solo al 50%. Questo argomento si può usare se: il dipendente non aveva una sede fissa, lavorava sempre in posti vari per natura del lavoro e percepiva continuativamente l’indennità. Attenzione: se era davvero trasfertista, allora l’errore dell’azienda è formale (averlo chiamato trasferta invece che indennità trasfertista) ma la sostanza sarebbe che il 50% era esente. Occorre dimostrarlo con contratto, mansioni, ecc. Cassazione ha chiarito che quell’agevolazione (50%) si applica anche se l’indennità è corrisposta con continuità, purché appunto l’attività sia “in luoghi sempre variabili” . Quindi, se i verificatori hanno trattato i soggetti come stanziali mentre in realtà cambiavano cantiere ogni settimana, potrebbe essere calzante reclamarne lo status di trasfertisti.
  • Eccezioni procedurali: verificare se l’accertamento rispetta i requisiti formali: motivazione adeguata (ha risposto alle nostre osservazioni PVC? Ha spiegato perché ritiene fittizie le trasferte, o si è limitato a affermarlo?), eventuale vizio di notifica, o mancato rispetto del termine dei 60 giorni dal PVC (se l’atto è stato emesso prima dei 60 giorni senza urgenza, è nullo per violazione statuto contribuente). Ogni appiglio procedurale può portare all’annullamento dell’atto indipendentemente dal merito.
  • Termini decadenziali: controllare se l’anno più vecchio contestato è decaduto. In genere il Fisco ha tempo fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (per i sostituti d’imposta, alcuni ritengono quarto anno). Se le annualità sono remote (soprattutto se connesse a reati, possono aver raddoppiato i termini), bisogna verificare la legittimità del raddoppio. Se, ad esempio, contestano l’anno 2017 e non c’è stato nessun reato denunciato, dopo il 2023 sarebbe decaduto l’accertamento. L’eccezione di decadenza va sollevata nel ricorso per far annullare quell’anno.
  • Quantificazione delle imposte errata: spesso l’AE calcola l’IRPEF evasa in modo semplificato, attribuendo magari l’aliquota marginale massima a tutte le somme. Invece, se quelle somme fossero state retribuzione, si sarebbero integrate negli scaglioni del dipendente. Potrebbe darsi che alcuni dipendenti, avendo redditi bassi, sarebbero rimasti in aliquote minori. O che l’azienda ha comunque versato qualcosa (es. contributi minimi su quella voce se previsti). Insomma, un ricalcolo più fine può ridurre il debito. Un consulente del lavoro può rifare le buste paga “come se” quelle somme fossero state tassate regolarmente, per confrontare i dati. Se emergono discrepanze (in eccesso) rispetto a quanto chiesto dall’AE, si adducono come motivo (richiedendo CTU, consulenza tecnica, se serve).
  • Non applicabilità di sanzioni o cumulo: sostenere, ad esempio, che non c’è stata volontà di evadere ma errore interpretativo, per chiedere la disapplicazione delle sanzioni per obiettiva incertezza normativa (art. 6, c.2 D.Lgs. 472/97). Non è facilissimo farla valere – dato che qui la norma è chiara e l’abuso palese – ma se ad esempio un CCNL prevedeva quell’indennità e l’azienda pensava fosse lecita, lo si può argomentare. Oppure se in passato l’INPS o l’AE locale non avevano mai obiettato in controlli precedenti, c’è affidamento.
  • Doppia punizione: far presente se la stessa somma è già stata sanzionata da un diverso ente. Per esempio, se l’ispettorato lavoro ha già multato per LUL infedele, si può chiedere che la sanzione fiscale sia applicata nel minimo perché la condotta è unica (principio di non duplicazione sanzioni per medesimo fatto). Non è automatico in ambito tributi vs lavoro, ma un giudice potrebbe tenerne conto equitativamente.

Importante anche allegare giurisprudenza: in mancanza di precedenti specifici identici (ogni caso è un po’ a sé), citare i principi generali affermati dalle Corti superiori, come: “Il rimborso spese di trasferta al di fuori del comune di lavoro ha natura compensativa e non reddituale, pertanto non è soggetto a imposizione” ; oppure “In mancanza di puntuale documentazione della trasferta e considerato che la spesa per recarsi giornalmente al lavoro non è rimborsabile, le somme percepite a titolo di indennità chilometrica sono da considerarsi retribuzione imponibile” – quest’ultima a sfavore, ma serve a dire che servono documenti puntuali. Se noi li abbiamo, allora la controparte non può ignorarli.

Un eventuale precedente favorevole potrebbe venire da Commissioni Tributarie che abbiano deciso casi simili. Vale la pena fare ricerca di sentenze CTP/CTR (per es. la vicenda di Modena dei lavoratori, lì era Tribunale ordinario; ma forse ci saranno cause tributarie di aziende). Non è facile reperirle pubblicamente, ma se il difensore ne trova (citazioni in riviste fiscali) le può usare.

Durante il contenzioso, c’è spazio anche per soluzioni conciliative: con la nuova riforma del processo tributario, è incentivata la conciliazione giudiziale (le parti possono accordarsi anche in corso di causa con ulteriori riduzioni di sanzioni, ad es. al 40% se conciliano in 1° grado). Quindi, anche dopo aver fatto ricorso, si può proporre un accordo all’Agenzia (talvolta proprio davanti al giudice, che aggiorna l’udienza per permettere la trattativa). Se si concilia in primo grado, le sanzioni si riducono al 1/3 (o addirittura al 10% se definizione agevolata prevista dalla legge di bilancio 2023 per liti pendenti, ma era temporanea) – comunque c’è un beneficio. In secondo grado la riduzione è minore (50% sanzioni mi pare). Dunque, mai chiudere la porta a un accordo, se sostenibile.

Dopo la sentenza: appello, Cassazione e definizioni speciali

Se in primo grado l’esito è sfavorevole o solo parzialmente favorevole, il contribuente può appellare in CTR. Le considerazioni fatte per il primo grado valgono in gran parte anche in appello, con in più la possibilità di valorizzare eventuali errori dei giudici di prime cure. Ad esempio, se il giudice ha ignorato prove decisive, si deduce come motivo di appello (error in iudicando, carenza motivazione).

In appello, come accennato, bisogna versare un ulteriore importo (arrivando a coprire i 2/3 dell’imposta) salvo sospensive. Se l’importo è enorme e l’azienda rischia il collasso, si può chiedere nuovamente sospensione al giudice d’appello.

Dopo l’appello c’è la Cassazione, ma lì si discutono solo questioni di legittimità (interpretazione di norme, vizi di motivazione macroscopici). Non si rivalutano i fatti, per cui la partita vera si gioca in CTP e CTR.

Una menzione va fatta alle possibili definizioni agevolate delle liti pendenti. Negli ultimi anni il legislatore ha talvolta aperto finestre per chiudere le cause fiscali in corso pagando una percentuale. Ad esempio, con la “tregua fiscale” 2023 (L. 197/2022) era possibile definire le liti pendenti al 1°/1/23 pagando dal 90% al 40% del valore a seconda degli esiti pregressi (100% se aveva perso il contribuente in 1° grado, 40% se aveva già vinto in primo e secondo, ecc.). Queste misure vanno monitorate: se durante la vertenza ne esce una nuova e conviene, può essere saggio aderire e chiudere la causa. Ad agosto 2025, quelle previste nel 2023 si sono pressoché concluse (scadenza 30/9/2023 per domanda definizione liti). Non sappiamo se il futuro ne offrirà altre, ma è un elemento da tenere presente come opportunità di riduzione del danno economico, qualora il caso rientri.

Il ruolo del lavoratore-debitore: difesa dalle richieste fiscali

Finora ci siamo posti soprattutto nella prospettiva dell’azienda datore di lavoro (che in genere è il bersaglio primario dell’Agenzia per recuperare imposte e contributi). Ma come evidenziato, può accadere che il Fisco persegua direttamente i lavoratori per l’IRPEF non pagata sui redditi da loro percepiti. Questo scenario è particolarmente delicato perché il singolo dipendente spesso non ha avuto un ruolo decisionale nell’illecito, eppure si vede recapitare una cartella esattoriale da migliaia di euro.

Dal punto di vista strettamente legale, l’Agenzia Entrate può agire sia verso il sostituto d’imposta (datore) che verso il percettore (sostituito), avendo entrambi obbligazioni tributarie (se il sostituto non paga, il sostituito rimane obbligato per l’imposta sul proprio reddito, salvo diritto di rivalsa verso il sostituto). Perciò un lavoratore che riceve un avviso di accertamento o cartella per IRPEF su finte trasferte dovrà impugnarla anch’egli presso la Commissione Tributaria, sollevando magari in aggiunta profili di equità e tutela del reddito minimo.

Nel caso dei lavoratori della cooperativa M.T. Service citato sopra, loro hanno scelto di fare opposizione davanti al Tribunale civile (in sede di esecuzione/precetto suppongo, o come azione di accertamento) e hanno ottenuto quella pronuncia innovativa che li esonera dal pagamento, riconoscendo la responsabilità esclusiva del datore . È una strategia non comune (di solito le questioni tributarie si discutono nel giudice tributario, non civile) ma hanno impostato la causa come vertenza lavoristica e di diritto costituzionale, con successo.

Un altro dipendente potrebbe seguire quell’esempio: adire il giudice del lavoro o civile sostenendo che il dover pagare imposte su somme che lui pensava legittime viola i suoi diritti di lavoratore subordinato, chiedendo un accertamento di non debenza. Non è garantito che ovunque i tribunali seguano Modena, ma è un precedente importante per sindacati e avvocati del lavoro.

In parallelo, nulla impedisce che anche nel processo tributario il lavoratore porti tali argomenti. Ad esempio, invocare l’art. 10 Statuto Contribuente (“non sono irrogate sanzioni al contribuente che si è conformato a indicazioni dell’amministrazione o a fatti imputabili ad altri”): il dipendente poteva ritenere, vedendo in busta paga la voce trasferta, che fosse tutto regolare, quindi assenza di colpevolezza da parte sua. Oppure chiedere al giudice tributario di sospendere la cartella perché incolpevole e magari in attesa di rivalsa sul datore.

In ogni caso, dal punto di vista pratico del debitore, che sia azienda o persona fisica, occorre affrontare il debito tributario. Se dopo tutto il contenzioso (o per scelta di non farlo) rimane un importo da pagare, esistono strumenti per dilazionare e gestire:

  • Rateazione con Agenzia Riscossione: le cartelle esattoriali possono essere rateizzate fino a 72 rate mensili (6 anni) se sotto €120.000, e fino a 120 rate (10 anni) se c’è comprovata grave difficoltà e importo alto. Questo consente di evitare misure esecutive purché si paghino le rate. Il tasso d’interesse sulle rateazioni è piuttosto basso (attualmente ~3.5%). È bene presentare la domanda di rateazione prima che scadano i 60 giorni dalla notifica cartella, così da bloccare sul nascere azioni esecutive.
  • Sgravi o annullamenti in autotutela: se dopo la definizione si scopre un errore (ad es. doppio addebito, calcolo sbagliato), si può chiedere all’ufficio di annullare in autotutela la parte non dovuta. Non sospende termini, ma tentare non costa nulla.
  • Rivalsa sul datore di lavoro: i lavoratori che avessero dovuto pagare imposte che il datore non aveva trattenuto possono rivalersi civilmente su quest’ultimo. In pratica, possono chiedere come danno o come obbligazione di manleva il rimborso di quanto versato al Fisco, sostenendo che era un suo inadempimento causativo. Nel caso di datori falliti o insolventi, purtroppo rimane lettera morta. Ma se il datore è ancora attivo, un accordo potrebbe essere trovato (es. l’azienda paga i contributi arretrati e il lavoratore l’IRPEF, oppure versa al lavoratore un’indennità compensativa).
  • Contributi pensionistici: una volta pagati i contributi evasi (volontariamente o tramite recupero coattivo), l’INPS accredita quei periodi sulla posizione assicurativa dei dipendenti, cosicché non perdano in pensione. Se invece il datore non paga e non c’è modo di recuperarli (fallimento), i lavoratori possono insinuarsi al passivo per il danno o chiedere intervento del Fondo di garanzia INPS per TFR e ultime 3 mensilità (che però non copre contributi). La pronuncia di Modena potrebbe aprire la strada a far riconoscere i contributi figurativamente a carico del datore inadempiente, ma è un tema complesso.

Infine, dal punto di vista penale, se la Procura della Repubblica avvia un procedimento per reati fiscali (cosa possibile se evasioni sopra soglie), difendersi significa soprattutto dimostrare l’assenza di elementi fraudolenti (es. niente documenti falsi, ma solo un’errata qualificazione giuridica) per evitare l’aggravante della frode. In diversi casi di questo tipo, i titolari hanno potuto patteggiare o ottenere l’archiviazione se hanno pagato il dovuto: ricordiamo infatti che, ad esempio, l’omessa dichiarazione di ritenute (art. 10-bis) non punisce chi versa tutto il dovuto anche tardivamente prima del dibattimento, e la dichiarazione infedele idem se si paga prima della sentenza di primo grado (causa di non punibilità introdotta nel 2019). Dunque, la linea difensiva migliore in ambito penale è estinguere il debito tributario. In tal senso, una stretta collaborazione con l’Agenzia Entrate per sistemare in via amministrativa aiuta molto anche nella sede penale, mostrando ravvedimento attivo.

Simulazioni pratiche: casi risolti di accertamento su trasferte fittizie

Per concretizzare quanto esposto, analizziamo due scenari ipotetici (ma basati su fatti realistici) di accertamenti riguardanti false indennità di trasferta, illustrando l’approccio difensivo e l’esito.

Esempio 1: Piccola impresa edile – trasferte fittizie parziali

Scenario: La EdilBeta Srl (10 dipendenti) opera in Toscana. La sede legale è a Firenze, ma gli operai lavorano spesso in cantieri fuori città. Per il periodo 2019-2021 l’azienda, su suggerimento di un consulente, ha erogato ai 5 operai trasferisti un’indennità di trasferta di €30 al giorno per tutti i giorni lavorativi, riducendo di pari importo gli straordinari pagati. In realtà, buona parte di quelle giornate gli operai erano davvero in cantieri fuori Firenze, ma alcune no (circa il 30% delle indennità si riferivano a giorni in cui l’operaio era in sede o comunque nel comune). Nel 2022 un controllo dell’INL (ispettorato del lavoro) scopre la cosa: viene elevata sanzione LUL infedele di €1.500 e segnalato all’Agenzia delle Entrate e INPS il recupero di imposte e contributi. L’INPS avvia il proprio iter per contributi, l’Agenzia Entrate notifica un PVC e poi un accertamento per omesse ritenute 2019-2021 pari a €45.000 di IRPEF + €13.500 di sanzioni (30%) + interessi.

Difesa: La EdilBeta, tramite il suo avvocato, predispone una risposta al PVC entro 60 giorni mostrando che: – per il 70% dei giorni indicati come trasferta vi sono effettivamente ordini di lavoro in cantieri extra-comunali (allega copie di libretti di cantiere firmati dal direttore lavori, con date e nomi degli operai, fotografie geolocalizzate scattate dagli operai sul luogo, e copie di scontrini autostradali/fuel card usate per quei viaggi); – solo nel 30% dei casi vi è stato un uso improprio (l’azienda ammette l’errore su quei giorni e sul relativo importo ~€20.000 di indennità totali nel triennio); – chiede pertanto di ridurre l’imponibile accertato del 70%, limitandolo a ~€6.000 di IRPEF evasa reale (30% di 45k), e di applicare la sanzione del 90% su quella parte come infedele dichiarazione, ma non la sanzione omesso sostituto perché per la parte legittima non era dovuta ritenuta.

L’ufficio parzialmente recepisce: nell’avviso di accertamento riconosce esenti i rimborsi per i giorni documentati extra-comune (accogliendo in pieno il 50% delle osservazioni, e un altro 20% parzialmente perché alcuni documenti non erano incontestabili), riducendo così l’IRPEF accertata da 45k a 15k. Mantiene però la qualifica di omesso versamento ritenute con sanzione 30% (4.500 €).

A questo punto EdilBeta valuta l’adesione: presenta istanza. In sede di adesione riesce a convincere l’ufficio a un ulteriore piccolo sconto sull’imposta (portandola a 12k) e concorda sanzioni ridotte a 1/3 del 30% (quindi 10% ≈ 1.200 €). Totale dovuto concordato €13.200 + interessi. L’azienda accetta e firma l’atto di adesione, rateizzando in 6 rate trimestrali. Nel frattempo concorda con l’INPS anche un versamento dilazionato dei contributi per le giornate in questione.

Esito: EdilBeta risolve la questione pagando un importo consistente ma sostenibile, e soprattutto evita il contenzioso. I dipendenti non subiscono cartelle personali (perché l’azienda ha pagato come sostituto) e vengono regolarizzati i loro contributi per quei periodi. L’azienda d’ora in avanti adotta una procedura: paga le trasferte solo quando c’è ordine scritto e tracce dei viaggi, altrimenti paga straordinari normali.

Esempio 2: Cooperativa servizi – trasferte fittizie totali, datore insolvente

Scenario: La Pulimax Coop forniva servizi di pulizia presso un grande stabilimento a Napoli. Aveva 50 addetti, tutti inquadrati come con sede di lavoro presso la cooperativa, ma di fatto lavoravano ogni giorno nello stabilimento del cliente (nel medesimo comune di Napoli). Dal 2018 al 2020 la cooperativa, per vincere l’appalto riducendo i costi, ha adottato lo stratagemma: in busta paga di ciascun addetto c’era voce “Indennità di trasferta Italia” di €500 mensili, con pari riduzione dello stipendio base. Nessuno degli addetti si spostava dal comune (erano sempre lì). Nel 2021, a seguito di controlli fiscali a tappeto nel settore, l’Agenzia Entrate notifica avvisi di accertamento ai 50 lavoratori (poiché nel frattempo la cooperativa è fallita nel 2020 e il curatore non ha risorse): a ciascun lavoratore viene richiesto di pagare IRPEF evasa per circa €3.000 a testa (corrispondente ai €500/mese * 3 anni * aliquota media 20%) più sanzione 90% e interessi, per un totale di ~€4.500 cadauno. Molti di questi lavoratori sono stranieri e in cassa integrazione dopo il fallimento, impossibilitati a pagare.

Difesa: I lavoratori, supportati dal sindacato, presentano ricorso in Commissione Tributaria chiedendo l’annullamento delle cartelle per insussistenza del presupposto soggettivo: loro affermano di essere parte lesa, di aver subito la condotta del datore, e invocano la sentenza del Tribunale di Modena del 2020 come precedente persuasivo. Sostengono inoltre violazione dell’art. 3 Cost. e 36 Cost.: dover restituire IRPEF li priverebbe del giusto salario in quanto essi hanno accettato quell’assetto retributivo confidando nel datore e non avendo conoscenze fiscali. In subordine chiedono quantomeno l’annullamento delle sanzioni per non colpevolezza ex art. 6, c.3 D.Lgs. 472/97.

Parallelamente il sindacato fa intervenire i propri legali in sede di fallimento per insinuare il credito di queste imposte e contributi come danno verso il datore, e presenta denuncia per evasione fiscale verso gli amministratori (che però risultano irreperibili).

La Commissione Tributaria, sensibilizzata dalla difesa, emette sentenza pilota in cui, pur riconoscendo formalmente l’esistenza del debito d’imposta, annulla le sanzioni per obiettiva condizione di affidamento dei lavoratori e dispone lo sgravio delle cartelle rinviando la riscossione all’esito della procedura fallimentare (in pratica sospende indefinitamente verso i lavoratori, invitando l’Erario a rivalersi sul curatore). Si tratta di una soluzione di compromesso trovata dalla CT per ragioni di equità.

Esito: I lavoratori, di fatto, non pagheranno nulla immediatamente. L’Erario resterà insinuato nel fallimento come creditore chirografario difficilmente soddisfatto. Giuridicamente non è la soluzione standard (che sarebbe far pagare i lavoratori e far loro chiedere rimborso al datore), ma data la situazione sociale la Commissione ha privilegiato la sostanza, equiparando i lavoratori a vittime di un sistema elusivo. Questa decisione, seppur non di legittimità, crea un precedente locale citato in altri casi simili. I lavoratori ottengono inoltre, tramite l’INPS, l’accredito figurativo dei contributi ai fini pensionistici grazie a una norma del 2022 che ha sanato alcuni buchi contributivi in appalti illeciti (norma di fantasia per lo scenario, ma plausibile come misura di tutela).

Questi due esempi mostrano come l’esito possa variare molto: nel primo caso l’azienda solvibile negozia e risolve in via amministrativa; nel secondo caso, con datore insolvente, la questione finisce per scaricarsi sul sistema giudiziario con una soluzione “di equità”. In entrambi i casi, però, la costante è che le false trasferte sono emerse e hanno provocato conseguenze onerose.

La miglior difesa resta prevenire tali situazioni: le aziende dovrebbero evitare di adottare simili stratagemmi, e i lavoratori dovrebbero segnalare per tempo eventuali anomalie nelle buste paga. Se però la contestazione è arrivata, le strategie viste (fornire prove delle trasferte reali, ravvedersi tempestivamente, utilizzare tutti gli strumenti deflattivi e contenziosi) possono fare la differenza tra un esborso rovinoso e uno più gestibile, o addirittura l’annullamento di parti delle pretese.

Domande e Risposte (FAQ)

Di seguito, presentiamo una serie di domande frequenti sul tema delle indennità di trasferta false e delle relative difese, con risposte sintetiche basate su quanto esposto finora.

D1: È vero che molte aziende usano ancora la “trasferta Italia” per pagare meno tasse? Cosa rischio se lo faccio?
R: Purtroppo sì, l’abuso delle trasferte è stata una pratica abbastanza diffusa in certi settori. Oggi però i controlli sono più stringenti e le conseguenze sono pesanti. Chi utilizza false trasferte rischia accertamenti dall’Agenzia Entrate con recupero di IRPEF, sanzioni fino al 180%, e dall’INPS con recupero contributi e sanzioni civili, oltre a possibili multe amministrative (150–6.000 € per infedele LUL) e nei casi gravi denunce penali per evasione fiscale. Oltre al rischio economico, c’è quello reputazionale e di contenziosi con i dipendenti. In sintesi: non ne vale la pena. Le trasferte vanno applicate solo quando sono reali e nei limiti consentiti .

D2: L’Agenzia Entrate può chiedere le imposte direttamente ai lavoratori invece che all’azienda?
R: Sì, può. Per legge, il datore di lavoro è obbligato in solido col dipendente per le ritenute non fatte. Se l’azienda è inadempiente o insolvente, il Fisco può emettere cartelle agli stessi dipendenti per recuperare l’IRPEF su quei redditi . Questo è avvenuto in vari casi (lavoratori di cooperative fallite, ecc.). Tuttavia, i lavoratori possono fare ricorso, sostenendo di essere vittime inconsapevoli. C’è un importante precedente del 2020 in cui un giudice ha “assolto” i lavoratori, affermando che la responsabilità del mancato versamento era solo del datore e riconoscendo lo sgravio ai dipendenti coinvolti . Quindi, anche se formalmente il Fisco ha tale potere, è possibile difendersi in sede giudiziaria, specie se si dimostra la propria buona fede e la condotta scorretta altrui.

D3: I dipendenti che accettano le finte trasferte commettono reato o possono essere licenziati?
R: In genere il dipendente non è perseguito penalmente a meno che abbia avuto un ruolo attivo nel frode (ad es. ha contribuito a falsificare note spese). Se è mero beneficiario, di solito no. Sul piano disciplinare, se emerge che era consapevole dell’illecito e ha tratto vantaggio indebito, l’azienda potrebbe tentare il licenziamento per giusta causa per venir meno della fiducia. La Cassazione ha convalidato licenziamenti quando il dipendente gonfia le note spese personalmente , perché è assimilato a un furto. Ma se la situazione è imposta dal datore (es. lui stesso in busta paga configura così), difficilmente potrebbe licenziare il lavoratore “perché gli ha versato soldi in esenzione”! Anzi, sarebbe una contraddizione. Semmai, come visto, i tribunali stanno riconoscendo che in questi casi il dipendente è parte lesa. Quindi: penalmente in posizione tranquilla (salvo eccezioni), disciplinarmente non dovrebbe subire sanzioni per aver eseguito istruzioni datoriali – caso mai l’illecito disciplinare è dell’azienda. Certo, un ambiente di lavoro poco trasparente potrebbe far pressioni sul lavoratore; ma giuridicamente, il dipendente ha il diritto di rifiutare pagamenti “in nero mascherato” e non può essere punito per questo.

D4: Ho in corso un controllo; mi hanno contestato gli ultimi 5 anni. Possono andare indietro oltre?
R: Normalmente no: il termine di accertamento per IRPEF è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (quarto anno se dichiarazione omessa). Dunque se oggi (2025) ti contestano anni dal 2018 al 2022, ad esempio, il 2018 scadeva a fine 2023, quindi non sarebbe accertabile (a meno che abbiano inviato prima un PVC nel 2023, che estende di 1 anno). Fa eccezione la presenza di violazioni penali: se l’Agenzia presenta denuncia per reato tributario, i termini raddoppiano (diventano 10 anni). Quindi in teoria, con il raddoppio, potrebbero riprendere anche anni più vecchi (2016, 2017…) se configurano il reato di frode o dichiarazione infedele rilevante. Spesso però per importi su trasferte, a meno che l’evaso superi 100k annui, rimane amministrativo. Quindi controlla la data degli anni contestati: se ce n’è uno oltre il quinquennio e non c’è stato formale raddoppio motivato, puoi eccepire la decadenza dell’accertamento per quell’anno.

D5: Cosa cambia se un lavoratore era formalmente “trasfertista”?
R: Come spiegato, il trasfertista ex art. 51 c.6 TUIR ha un regime speciale: le indennità che percepisce (anche continuativamente) per il lavoro in luoghi variabili sono tassate al 50%. Se un datore viene accusato di aver esentato al 100% somme per un dipendente, potresti difenderti provando che quel dipendente in realtà rientrava nella categoria trasfertisti (sempre in viaggio per contratto). In tal caso, l’accertamento sarebbe eccessivo: al massimo il Fisco doveva tassare il 50% di quelle somme, non tutto. È una linea difensiva sottile (bisogna averne i requisiti), ma se ad esempio hai dipendenti che ogni giorno cambiano cantiere o città, senza sede fissa, potresti sostenere che erano trasfertisti. Fai attenzione però: per esserlo non basta farli viaggiare sempre, servirebbe che nel contratto di assunzione o lettera d’incarico sia indicato che la loro attività è itinerante senza luogo di lavoro predeterminato . In mancanza, il Fisco dirà che la sede di lavoro c’era (es. la sede legale) e quindi erano trasferte ordinarie.

D6: Ho usato la diaria trasferte ma non ho scontrini di tutti i pasti. Possono contestarmelo?
R: Dipende. Se hai usato il sistema forfetario puro (diaria), non c’è obbligo di giustificativi per vitto/alloggio perché coperti dalla somma forfetaria – ma devi rispettare i limiti giornalieri. Se però oltre alla diaria hai rimborsato anche qualcosa (metodo misto), allora i documenti servono per quelle spese. Inoltre oggi c’è la questione tracciabilità: se i pasti erano in Italia e pagati in contanti, dal 2025 quel rimborso potrebbe essere contestato come imponibile . Quindi in generale, è sempre bene avere documenti: se non li hai per il passato, l’Agenzia potrebbe dire che parte di quella diaria in realtà superava i limiti (es. se davi diaria intera e rimborsavi comunque qualche spesa) oppure – nei controlli vecchi stile – potrebbe insinuare che la trasferta non c’è stata proprio (assenza di prove). La Cassazione, ad esempio, ha detto: norma di stretta interpretazione, se manca puntuale documentazione a supporto che attesti la trasferta, le somme non possono essere escluse dal reddito . Quindi sì, la mancanza di scontrini può facilitare la contestazione. Nel difenderti potresti portare altri riscontri (foto, mail, testimoni) per provare che hai effettivamente sostenuto spese in trasferta. Ma per il futuro: sempre meglio conservare tutto e usare carte tracciabili in Italia.

D7: Cosa succede esattamente se accetto un accertamento con adesione? Rischio comunque il penale?
R: Accettare l’adesione significa firmare un accordo col fisco e pagare quanto concordato. Con l’adesione le sanzioni si riducono automaticamente a 1/3. Una volta pagato (o avviato pagamenti rateali regolari), l’atto è definito e non c’è processo tributario. Sul penale: il fatto di aderire e pagare non blocca automaticamente un eventuale procedimento penale già partito, ma in molti casi la Procura non ha nemmeno avviato l’azione quando tu stai definendo col fisco. Se l’importo evaso configura reato, l’adesione con pagamento ti mette in una posizione favorevole: potrai invocare la non punibilità (art. 13 D.Lgs. 74/2000) se hai pagato tutto il debito prima del dibattimento. Nel concreto, aderire entro la fase amministrativa spesso fa sì che il penale non decolli affatto (perché l’Agenzia talvolta evita di presentare denuncia se incassa, specialmente per infedele dichiarazione). In caso di reati più gravi (frode), la denuncia la fanno comunque, ma tu potrai chiedere un patteggiamento molto mite in virtù dell’avvenuto pagamento. Quindi, riassumendo: l’adesione non esterna il penale formalmente, ma riduce moltissimo la probabilità di guai penali seri.

D8: In Commissione tributaria che probabilità ho di vincere contro l’Agenzia su queste questioni?
R: Dipende dalla situazione concreta: se davvero era un abuso palese, le chance di annullamento totale sono basse perché le norme sono chiare (il giudice applica la legge e se la trasferta non c’era, il Fisco ha ragione a volere le imposte). Tuttavia, spesso si ottengono risultati parziali: ad esempio far riconoscere qualche esenzione parziale, o farsi ridurre le sanzioni. Le Commissioni tendono ad avere un approccio equitativo quando vedono lavoratori coinvolti o errori non totalmente dolosi. Negli ultimi anni ci sono state varie decisioni che in parte davano ragione al contribuente. Ad esempio, CTR che hanno ridotto l’imponibile se il datore provava trasferte reali per alcuni giorni . Oppure commissioni che hanno tolto le sanzioni per buona fede. Quindi, la probabilità di una vittoria totale (zero tasse) c’è solo se effettivamente tu riesci a dimostrare che tutte le trasferte erano legittime (ossia che l’Agenzia si sbaglia e non erano finte). Se invece qualcosa di fittizio c’era, punterei più realisticamente a vittorie parziali: riduzione base imponibile, ricalcolo più favorevole, cancellazione o minimo delle sanzioni. Considera poi la possibilità di conciliare: a volte l’Agenzia stessa, durante il processo, capisce che rischia di perdere in parte e offre un compromesso vantaggioso (paghi solo il 50% del contestato, per dire). In conclusione, hai buone chance di migliorare la tua posizione col ricorso, anche se non sempre di azzerare tutto.

D9: L’ispettore del lavoro ha fatto il verbale: devo aspettare l’accertamento fiscale o posso già fare qualcosa?
R: Puoi e dovresti già muoverti. Se l’ispettore ha concluso il verbale (PVC) e presumibilmente lo manderà all’Agenzia Entrate, tu hai quei 60 giorni di tempo per presentare memorie allo stesso ispettorato/fisco. Inoltra le tue osservazioni a entrambi (ITL e AE) per iscritto. Inoltre, nulla ti vieta di iniziare un ravvedimento operoso per le ritenute e contributi prima che arrivi l’atto fiscale. Anzi, sarebbe opportuno: potresti pagare volontariamente le differenze di ritenute emergenti dal verbale (magari coordinandoti con un professionista per calcolarle bene) usufruendo delle sanzioni ridotte. Poi comunichi all’Agenzia di esserti ravveduto. Così quando arriverà il loro accertamento, potrai far presente che gran parte del dovuto è già stata versata. Questo potrebbe portare l’ufficio a ridurre l’atto alle sole sanzioni residue, o addirittura a non emetterlo (in alcuni casi, se paghi tutto col ravvedimento, l’AE potrebbe soprassedere). Certamente, aspettare passivamente non è consigliabile: anticipa le mosse se possibile.

D10: Per il passato ho fatto trasferte fittizie ma da quest’anno ho smesso. Possono accertarmi lo stesso?
R: Sì, purtroppo il fatto che tu abbia smesso ora non impedisce che possano controllare gli anni scorsi (fino a 5 anni indietro, come visto). Anzi, a volte il cambiamento improvviso potrebbe insospettire se incrociano i dati (es. vedono che fino all’anno X avevi tot rimborsi esenti e dall’anno dopo zero: potrebbero chiedersi perché). In ogni caso, se ritieni di avere scheletri nell’armadio per il passato, la cosa migliore è fare un ravvedimento operoso subito per quegli anni. Così riduci l’eventuale impatto di un accertamento futuro. Hai smesso – bene – ora regolarizza il pregresso. In alternativa, se il rischio è modesto e mancano pochi anni a decadere, potresti confidare di farla franca; ma tieni presente che controlli mirati su determinati settori o aziende possono partire anche dopo anni. Quindi meglio dormire sonni tranquilli e chiudere la partita, se ne hai la possibilità finanziaria.

D11: È vero che ora serve per forza la carta di credito per i rimborsi spese?
R: Dipende dove. La legge di Bilancio 2025 aveva imposto la tracciabilità in generale, ma il Decreto 84/2025 ha limitato l’obbligo alle sole spese sostenute in Italia . Ciò significa: per trasferte sul territorio italiano, se vuoi che il rimborso di vitto/alloggio/trasporti sia esente, devi dimostrare che il dipendente ha pagato con strumenti tracciabili (carta, bancomat, bonifico, ecc.). Per trasferte all’estero invece non è necessario (si presume la difficoltà, specie in Paesi extra-UE). In sintesi: , per l’Italia è diventato obbligatorio dal 2025 usare mezzi di pagamento tracciabili ai fini dell’agevolazione fiscale, mentre per l’estero no (basta la documentazione). Quindi fai attenzione: se prima rimborsavi contanti su spese in Italia, d’ora in poi cambia modus operandi (ad esempio consegna ai dipendenti carte prepagate aziendali, o anticipa tu le spese tramite fornitori convenzionati). Ricorda: la norma è nuova e magari nei primi tempi l’Agenzia sarà meno severa in caso di inadempienze formali, ma dalla metà 2025 la regola è chiara e ufficiale .

D12: In conclusione, quali sono i punti fondamentali per difendersi con successo da un accertamento su trasferte fittizie?
R: Riassumendo quanto detto nell’articolo, possiamo elencare alcuni punti chiave difensivi:

  • Documentazione: raccogli e presenta ogni prova delle trasferte reali (ordini di missione, ricevute, registro presenze fuori sede). La mancanza di prove ti condanna quasi certamente .
  • Ravvedimento: se sei ancora in tempo, ravvediti spontaneamente pagando quanto dovuto. Riduce sanzioni e spegne il dolo, aiutando anche a evitare guai penali.
  • Osservazioni al PVC: non ignorare quella finestra di 60 giorni. Usa quel tempo per persuadere l’ufficio e correggere eventuali errori fattuali nella constatazione.
  • Negoziazione: considera l’accertamento con adesione o conciliazione in giudizio. Spesso chiudere con uno sconto è meglio che impuntarsi per la vittoria totale e rischiare di dover pagare di più.
  • Aspetti formali: verifica sempre che l’Agenzia abbia rispettato le procedure (60 giorni, motivazione, termini). Un vizio può salvarti indipendentemente dal merito.
  • Giurisprudenza a favore: cita i precedenti rilevanti, soprattutto Cassazione su natura risarcitoria delle trasferte legittime e su onere della prova; e casi di merito dove i lavoratori sono stati tutelati .
  • Pagamenti e rate: se alla fine devi pagare, sfrutta le dilazioni per attenuare l’impatto. E se possibile fai pagare al vero responsabile: ad esempio, se sei un lavoratore e hai dovuto saldare, valuta azione di regresso contro il datore.
  • Consulenza esperta: fatti assistere da professionisti (avvocati tributaristi, consulenti del lavoro) perché la materia coinvolge più ambiti. Un errore nel calcolo o una memoria scritta male possono pregiudicare il caso.
  • Buona fede: mantieni un approccio cooperativo e mostrati trasparente. Le autorità (e i giudici) apprezzano la collaborazione. Se percepiscono che non c’era intenzione fraudolenta e che stai cercando di sistemare, è più probabile ottenere clemenza sul lato sanzionatorio.

In definitiva, la migliore difesa è non entrare proprio in queste situazioni; ma se ci sei dentro, informarsi, agire per tempo e utilizzare tutti gli strumenti offerti dall’ordinamento consente spesso di limitare i danni e in qualche caso di uscirne con ragione. Come visto, normative e sentenze aggiornate al 2025 forniscono ormai un quadro chiaro: le trasferte “vere” godono di benefici, quelle “finte” no – e chi insiste con queste ultime, inevitabilmente, prima o poi dovrà renderne conto al Fisco.

  • Cassazione civile Sez. Trib. ordinanza n. 628 del 8 gennaio 2024

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate sostiene che tu (o la tua azienda) abbiate corrisposto o percepito false indennità di trasferta? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate sostiene che tu (o la tua azienda) abbiate corrisposto o percepito false indennità di trasferta?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

Le indennità di trasferta sono somme corrisposte ai lavoratori per le spese sostenute fuori sede. Sono parzialmente o totalmente esenti da tassazione, ma proprio per questo il Fisco le controlla con attenzione. Se ritiene che siano state erogate senza reali trasferte, scatta l’accertamento con richiesta di imposte, sanzioni e interessi.

👉 Prima regola: documenta sempre in modo preciso la trasferta, con ordini di servizio, note spese e prove dei viaggi.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Assenza di documentazione che provi lo svolgimento della trasferta;
  • Note spese generiche o prive di giustificativi;
  • Indennità corrisposte regolarmente senza che i lavoratori si spostassero dalla sede;
  • Importi sproporzionati rispetto alle trasferte effettive;
  • Utilizzo sistematico delle trasferte per ridurre l’imponibile fiscale e contributivo.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Recupero delle imposte su somme considerate redditi da lavoro ordinari;
  • Recupero dei contributi previdenziali non versati;
  • Applicazione di sanzioni fiscali e contributive;
  • Interessi di mora;
  • Rischio di contestazioni aggiuntive su deduzioni e costi collegati.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Ordini di servizio e missioni aziendali: esistono documenti che giustificano lo spostamento?
  • Note spese: sono corredate da scontrini, ricevute, biglietti di viaggio, pedaggi?
  • Coerenza delle trasferte con l’attività aziendale;
  • Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia deve fornire prove concrete della falsità;
  • Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Ordini di missione firmati dall’azienda;
  • Note spese con allegati (biglietti, ricevute, fatture, scontrini, pedaggi);
  • Prove di pernottamenti (hotel, B&B, ecc.);
  • Documenti di trasporto o fogli di viaggio;
  • Contratti e incarichi che giustificano le trasferte;
  • Dichiarazioni del personale o dei clienti presso cui è avvenuta la trasferta.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la reale esistenza delle trasferte tramite documenti e testimonianze;
  • Contestare errori dell’Agenzia in merito alla qualificazione delle indennità;
  • Eccepire vizi formali: notifica irregolare, motivazione insufficiente, decadenza dei termini;
  • Richiedere autotutela se la contestazione è manifestamente infondata;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni con possibilità di sospendere la riscossione;
  • Mediazione tributaria (quando obbligatoria) per ridurre sanzioni e interessi.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza la documentazione sulle indennità contestate;
📌 Verifica la legittimità dell’accertamento e delle prove raccolte dal Fisco;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per dimostrare la correttezza delle indennità;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce strategie preventive per gestire in sicurezza note spese e trasferte future.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali su redditi da lavoro e indennità;
✔️ Specializzato in difesa di imprese e lavoratori nelle contestazioni su trasferte;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulle false indennità di trasferta non sempre sono fondate: spesso derivano da documentazione incompleta o valutazioni arbitrarie.
Con una difesa tecnica puoi dimostrare la reale natura delle trasferte, evitare la riqualificazione dei redditi e proteggere la tua attività.

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  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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