Accrediti Su Carte Prepagate Contestati Come Redditi: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché i movimenti sulla tua carta prepagata sono stati considerati redditi non dichiarati? In questi casi, l’Ufficio presume che gli accrediti siano entrate imponibili occultate al Fisco e procede con un accertamento sintetico, chiedendo il pagamento di imposte, sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: con adeguate prove è possibile dimostrare che gli accrediti non costituiscono redditi tassabili.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta gli accrediti su carte prepagate
– Se vi sono versamenti o ricariche non giustificati da redditi dichiarati
– Se gli accrediti risultano superiori alle disponibilità economiche ufficialmente dichiarate
– Se i movimenti appaiono frequenti e sistematici, tali da essere considerati redditi occulti
– Se l’intestatario non riesce a dimostrare la provenienza delle somme
– Se i dati emergono da controlli incrociati con l’Anagrafe dei rapporti finanziari

Conseguenze della contestazione
– Attribuzione degli accrediti come redditi imponibili non dichiarati
– Recupero delle imposte dirette (IRPEF) sui presunti redditi
– Applicazione di sanzioni per omessa o infedele dichiarazione
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Possibili segnalazioni per riciclaggio o operazioni sospette in casi particolari

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la reale provenienza delle somme (donazioni, prestiti, rimborsi spese, risparmi pregressi)
– Produrre documentazione bancaria o contrattuale a supporto degli accrediti contestati
– Contestare la presunzione automatica di redditività applicata dall’Agenzia delle Entrate
– Evidenziare errori nei calcoli o vizi di motivazione dell’atto di accertamento
– Impugnare l’accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenerne l’annullamento

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i movimenti della carta e la contestazione dell’Agenzia
– Ricostruire la provenienza delle somme con documenti idonei
– Redigere un ricorso mirato su vizi formali e sostanziali dell’accertamento
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari contro pretese indebite
– Tutelare il patrimonio personale da azioni esecutive o indebite tassazioni

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della non imponibilità delle somme accreditate
– La sospensione di eventuali procedure esecutive già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Trascorso questo termine, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e difesa fiscale – spiega come difendersi in caso di contestazioni sugli accrediti su carte prepagate e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Le carte prepagate, specialmente quelle dotate di IBAN come la PostePay Evolution, sono sempre più utilizzate da privati, professionisti e piccoli imprenditori come strumenti di pagamento e deposito. Talvolta si pensa, erroneamente, che i movimenti su queste carte siano meno tracciabili o “invisibili” al Fisco rispetto a un conto corrente tradizionale. In realtà, dal punto di vista normativo e fiscale italiano, le carte prepagate sono equiparate ai conti bancari e i loro movimenti finanziari sono soggetti a controlli e verifiche come qualsiasi altro rapporto finanziario .

Il problema sorge quando l’Agenzia delle Entrate (e in alcuni casi altri enti come l’INPS o l’agente della riscossione) considera gli accrediti ricevuti su una carta prepagata come redditi non dichiarati. In tali circostanze il titolare della carta – che dal punto di vista fiscale diventa un debitore verso l’Erario per le imposte presumibilmente evase – può subire accertamenti tributari, sanzioni pecuniarie e, nei casi più gravi, anche conseguenze penali. Inoltre, altri enti come l’INPS potrebbero rivalersi per contributi previdenziali evasi o indebite percezioni di prestazioni, e l’Agenzia Entrate-Riscossione (già Equitalia) può arrivare a pignorare le somme presenti sulla carta per recuperare i crediti dello Stato .

Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 con riferimenti normativi recenti, pronunce giurisprudenziali rilevanti e casi pratici – esamina in dettaglio il fenomeno degli accrediti su carte prepagate contestati come redditi. Adotteremo un taglio avanzato, con linguaggio giuridico ma al tempo stesso divulgativo, rivolgendoci tanto a professionisti del diritto quanto a contribuenti privati e piccoli imprenditori. L’obiettivo è spiegare come difendersi efficacemente da tali contestazioni, dal punto di vista del contribuente/debitore.

Nel prosieguo vedremo:

  • il quadro normativo di riferimento in Italia (presunzioni fiscali sulle movimentazioni finanziarie e obblighi di tracciabilità);
  • le modalità di controllo del Fisco sulle carte prepagate, inclusa la distinzione tra carte con IBAN e senza IBAN;
  • le pronunce giurisprudenziali più aggiornate (Corte di Cassazione e Corte Costituzionale) che chiariscono l’onere della prova e i limiti delle presunzioni a favore del Fisco;
  • come predisporre una difesa adeguata in sede di accertamento tributario, con esempi pratici (simulazioni di casi riguardanti lavoratori autonomi, soggetti in regime forfettario, persone fisiche senza partita IVA, ecc.);
  • possibili implicazioni con altri enti: ad esempio, richieste di contribuzione INPS su redditi occultati o rischi legati al percepimento di sussidi indebiti;
  • profili penali connessi (dal reato di dichiarazione infedele alle ipotesi di autoriciclaggio e altri illeciti collegati all’occultamento di redditi) e come attenuare o evitare tali conseguenze;
  • la fase della riscossione coattiva, con un focus sulla pignorabilità delle carte prepagate e le tutele previste per il debitore;
  • una sezione di domande e risposte frequenti (FAQ) per chiarire i dubbi più comuni;
  • tabelle riepilogative che sintetizzano i punti chiave (ad es. differenze tra tipi di carte, principali reati e soglie, casistiche di accrediti contestati e relative difese).

Muovendoci in questo percorso, forniremo costanti riferimenti a fonti autorevoli, come sentenze recenti e circolari ufficiali, indispensabili per un approfondimento avanzato. Iniziamo inquadrando il fenomeno delle carte prepagate e il loro rapporto con il Fisco italiano.

Le carte prepagate sotto la lente del Fisco italiano

Una carta prepagata è uno strumento di moneta elettronica ricaricabile, non collegato necessariamente a un conto corrente tradizionale, che consente di effettuare pagamenti, prelevare contante e, in molti casi, anche ricevere bonifici. Esistono prepagate dotate di codice IBAN – talora dette anche “carte-conto” – e carte prive di IBAN. Le prime permettono di inviare e ricevere bonifici bancari come un normale conto (ad esempio la PostePay Evolution, carta emessa da Poste Italiane con IBAN). Le seconde consentono ricariche e pagamenti ma non hanno un IBAN personale; un esempio tipico sono le carte ricaricabili anonime usa-e-getta (oggi quasi scomparse, a causa delle restrizioni antiriciclaggio) o alcune carte nominative emesse da istituti di moneta elettronica che prevedono solo ricariche e utilizzo tramite circuito Visa/Mastercard senza bonifici.

Indipendentemente dalla presenza o meno di un IBAN, la legge equipara le carte prepagate ad altri rapporti finanziari in termini di tracciabilità. Le banche e gli operatori finanziari, infatti, hanno l’obbligo di comunicare periodicamente all’Archivio dei Rapporti Finanziari (gestito dall’Agenzia delle Entrate) i dati relativi a tutti i rapporti finanziari intestati a ciascun codice fiscale . Ciò include conti correnti, depositi, carte di credito e anche le carte prepagate. In particolare, per le carte prepagate nominative con IBAN, la comunicazione avviene con le stesse modalità di un conto (codice rapporto “01” secondo le istruzioni dell’Agenzia Entrate). Anche le carte senza IBAN, se ricaricabili e intestate a un nominativo, rientrano nelle segnalazioni aggregando il saldo e gli importi movimentati (fanno eccezione solo strumenti particolari come le prepagate anonime usa-e-getta di importo limitato, che però per normativa antiriciclaggio non possono superare certe soglie e oggi non sono di fatto più diffuse).

Di conseguenza, non esiste un vero “schermo” fiscale fornito dalla carta prepagata in sé: i movimenti e il saldo della carta sono noti all’Amministrazione finanziaria, e possono essere analizzati in caso di controlli o richieste specifiche. Un esempio pratico: se un contribuente versa 5.000€ in contanti sulla propria carta prepagata nominativa, l’operazione risulta tracciata e potenzialmente visibile al Fisco (oltre che, se l’importo in contanti eccede le soglie di legge, segnalabile per antiriciclaggio). Non è dunque l’uso della carta prepagata di per sé a costituire illecito – versare denaro su dieci carte prepagate diverse, con importi modesti e giustificati, non è vietato né costituisce automaticamente reato – ma l’origine e la mancata dichiarazione di quei fondi potrebbero destare l’attenzione del Fisco . In altri termini: sono i flussi di denaro non giustificati che possono far scattare i controlli, non la mera titolarità o apertura di una prepagata. A conferma di ciò, l’apertura di una carta prepagata in sé non deve essere comunicata nella dichiarazione dei redditi (non c’è un quadro del 730 o Unico in cui indicarla, così come non si indicano i conti bancari italiani); tuttavia, devono essere dichiarati all’Erario i redditi eventualmente percepiti su quella carta, esattamente come se fossero transitati su un conto corrente ordinario .

Dal punto di vista della riscossione coattiva dei debiti, le carte prepagate rappresentano un bene aggredibile al pari di un conto in banca. Trattandosi di somme di denaro riconducibili a un soggetto, esse sono pignorabili entro i limiti di legge. È importante chiarire che le carte prepagate nominative sono pignorabili – anche se non collegate formalmente a un conto corrente – in quanto il saldo presente sulla carta appartiene giuridicamente al titolare e costituisce un suo credito verso l’emittente della carta . Un creditore (Agenzia delle Entrate-Riscossione o altro creditore procedente) può notificare un atto di pignoramento presso terzi all’istituto emittente della carta (es. Poste Italiane per la PostePay), senza dover necessariamente conoscere il numero di carta: è sufficiente indicare il codice fiscale del debitore e tutti i rapporti finanziari presso quel soggetto saranno bloccati fino a concorrenza del debito . Il fatto che la carta non abbia un IBAN stampato o che non riporti il nome sul fronte fisico non offre protezione: se è associata al tuo codice fiscale, rientra nei tuoi beni pignorabili . Le uniche carte difficilmente aggredibili sono quelle realmente anonime (usa e getta, ormai limitate a importi irrisori) e quelle estere intestate a soggetti non residenti, perché sfuggono all’anagrafe italiana . Ma si tratta di eccezioni marginali; nel contesto di questa guida ci occuperemo delle carte prepagate intestate a contribuenti italiani, che sono pienamente tracciabili e, se del caso, sequestrabili o pignorabili.

Riassumendo: la carta prepagata va usata con lo stesso grado di trasparenza fiscale di un normale conto corrente. Ciò significa che, se la si impiega per ricevere somme che costituiscono reddito (compensi, ricavi, proventi vari), tali somme vanno regolarmente dichiarate al Fisco. In mancanza, l’Agenzia Entrate potrebbe accorgersi dell’incongruenza – tramite controlli incrociati o verifiche finanziarie – e procedere ad accertamento. Vediamo allora quali strumenti normativi ha l’Amministrazione finanziaria per presumere che gli accrediti non giustificati siano redditi imponibili e come il contribuente può difendersi da tali presunzioni.

Presunzioni fiscali sugli accrediti non giustificati: normativa e giurisprudenza

Il principale riferimento normativo in materia è l’art. 32, comma 1, n. 2 del DPR 600/1973 (disposizioni sull’accertamento delle imposte sui redditi), specularmente richiamato dall’art. 51, comma 2, n. 2 del DPR 633/1972 (in ambito IVA). Questa norma stabilisce una presunzione legale relativa in base alla quale tutte le somme accreditate su conti o rapporti finanziari intestati al contribuente si presumono redditi imponibili, se il contribuente non è in grado di dimostrarne la provenienza non reddituale . In altre parole, di fronte a versamenti o accrediti bancari non giustificati, il Fisco può assumere che essi rappresentino ricavi non dichiarati o compensi in nero. Si tratta di una presunzione relativa (iuris tantum), quindi ammette prova contraria da parte del contribuente. Tuttavia, fino a che tale prova contraria non sia fornita, la legge attribuisce all’Ufficio fiscale un potere di rettifica basato sulle risultanze bancarie: l’onere della prova è invertito a carico del contribuente, il quale deve fornire una giustificazione analitica per ogni singolo movimento contestato .

Questa presunzione – introdotta per contrastare l’evasione fiscale tramite utili non dichiarati e fatti transitare su conti – è stata oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali, che ne hanno definito portata e limiti. Vediamo i punti fermi consolidati:

  • La presunzione si applica sia ai contribuenti esercenti attività d’impresa o professionale, sia ai privati non imprenditori. In passato vi sono stati dubbi sulla possibilità di imputare a “ricavi” certi movimenti di conti intestati a soggetti non imprenditori; tuttavia, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’art. 32 DPR 600/73 si applica in generale, adattando la qualifica del reddito al tipo di soggetto. Ad esempio, per un lavoratore dipendente o pensionato, accrediti non spiegati potrebbero indicare altri redditi (redditi diversi, redditi da lavoro occasionale, ecc.), mentre per un imprenditore individuale saranno presumibilmente ricavi d’impresa non contabilizzati, per un professionista compensi non fatturati, e così via. Dunque nessuno è escluso dai controlli finanziari: anche un privato cittadino senza partita IVA deve spiegare gli accrediti sul proprio conto/carta, se chiamato a farlo, altrimenti quei movimenti potranno essere considerati redditi evasi.
  • La presunzione riguarda in particolare i versamenti (accrediti) sul conto. Per i prelievi dal conto, la situazione è stata controversa: la legge originariamente prevedeva di presumere che anche i prelevamenti ingiustificati servissero a finanziare spese “in nero” e quindi corrispondenti ricavi non dichiarati. Tale estensione, applicata in passato a imprenditori e anche a lavoratori autonomi, è stata fortemente criticata e in parte censurata. La Corte Costituzionale con sentenza n. 228/2014 ha dichiarato illegittima la presunzione sui prelievi per i professionisti, evidenziando come per questi ultimi un prelievo dal conto poteva ben essere destinato a esigenze personali, non essendo sempre distinguibili dalle spese di lavoro (promiscuità dei conti) . Successivamente, il legislatore è intervenuto (decreto legge 193/2016) limitando l’uso dei prelievi non giustificati come indice di evasione solo agli imprenditori, e solo oltre certe soglie (5.000€ mensili). Oggi, quindi, la “doppia presunzione” vale in misura molto ridotta. In sintesi: per gli accrediti su qualsiasi conto o carta, permane la presunzione che siano redditi; per i prelievi, solo in casi circoscritti (imprenditori con ampi prelevamenti non giustificati) si potrebbe ipotizzare un ricavo occulto corrispondente, mentre per privati e professionisti la presunzione su prelievi è venuta meno . Il cuore del problema restano dunque gli accrediti.
  • L’onere della prova a carico del contribuente è stringente: non basta una spiegazione generica (“erano risparmi”, “me li ha dati mio padre”) se non è corroborata da elementi precisi. La Cassazione richiede una prova analitica e puntuale per ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che quella somma non è frutto di attività imponibile . Ad esempio, se il contribuente afferma che un dato versamento di 3.000€ ricevuto su carta prepagata è il rimborso di un prestito precedente a un amico, dovrà idealmente esibire documenti o testimonianze: un contratto di mutuo, una scrittura privata con data certa, o almeno movimentazioni bancarie che mostrino l’uscita iniziale del prestito a favore di quell’amico e il rientro successivo della somma. Senza elementi concreti, l’affermazione difensiva rischia di essere considerata “prova generica” e dunque insufficiente a vincere la presunzione . Ciò detto, la prova contraria può anche essere presuntiva o documentale, non necessariamente un “prova scritta” formale: ad esempio, per piccoli importi una circostanza logica e coerente potrebbe essere accolta dal giudice tributario. Ma è bene comprendere che la legge favorisce l’Amministrazione finanziaria, e spetta al contribuente dissipare ogni dubbio con evidenze tracciabili.
  • I trasferimenti infrannuali tra conti dello stesso contribuente sono neutri. Un principio giurisprudenziale consolidato è che gli spostamenti di somme tra conti diversi ma riconducibili al medesimo titolare non possono generare materia imponibile . Se ad esempio Tizio sposta 5.000€ dal proprio conto corrente bancario A alla propria carta prepagata B (intestata sempre a Tizio), questo giroconto non rappresenta un reddito nuovo, ma solo la stessa ricchezza che si muove all’interno del patrimonio di Tizio. La Cassazione ha affermato chiaramente che in tal caso la presunzione legale non opera, poiché l’art. 32 DPR 600/73 esclude rilievo fiscale a tali operazioni interne . Come difendersi in concreto: il contribuente dovrà dimostrare che l’accredito contestato sul rapporto X proviene da altro suo rapporto Y. Tipicamente, questo si fa producendo gli estratti conto o le ricevute: ad esempio, a fronte di un accredito di 2.000€ su PostePay in data 10 marzo, si esibisce l’estratto del proprio conto corrente bancario da cui risulta un bonifico di pari importo il 9 marzo verso l’IBAN della PostePay. Ottenuta tale prova, la presunzione è superata e spetta semmai al Fisco, a quel punto, provare che anche l’operazione originaria aveva natura imponibile (cosa che potrebbe fare solo se quell’altro conto avesse a sua volta movimenti sospetti non verificati) . In sostanza, dunque, è fondamentale verificare se gli accrediti contestati siano semplici giroconti: qualora lo siano, questa è la difesa più immediata e vincente (e l’Ufficio non dovrebbe neppure effettuare rettifiche su di essi, a rigore di legge).
  • Ammissibilità di costi correlati ai ricavi presunti: un aspetto spesso dibattuto riguarda il fatto che, se il Fisco presume un certo ricavo non dichiarato, debba anche riconoscere al contribuente i possibili costi sostenuti per realizzare quel ricavo, al fine di tassare il solo reddito netto. In principio, negli accertamenti bancari l’Amministrazione tende a sommare tutti gli accrediti come ricavi lordi. La giurisprudenza però, per evitare violazioni del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), ha affermato che anche negli accertamenti induttivi da indagini finanziarie vanno considerati forfettariamente i costi inerenti . Un importante intervento è della Corte Costituzionale con sentenza n. 10/2023, la quale – pur dichiarando legittima in sé la presunzione sui versamenti – ha sottolineato che il contribuente può eccepire una percentuale di costi deducibili dagli importi presunti, e il Fisco/giudice deve tenerne conto . Ad esempio, se un professionista in regime semplificato subisce un accertamento su €50.000 di compensi non fatturati ricostruiti tramite versamenti su carta, dovrebbe essergli riconosciuta la deduzione dei costi relativi (anche solo in percentuale standard, poniamo un 30%) invece di tassare l’intero importo come profitto pulito. La Cassazione (ord. n. 23741 del 23/08/2025) ha di recente ribadito questo principio: “anche in caso di accertamento basato su presunzioni, l’Agenzia delle Entrate deve considerare una quota di costi deducibili per rispettare il principio di capacità contributiva” . Dunque, una difesa possibile, in sede contenziosa, è invocare la detrazione di costi impliciti: se l’Ufficio ha ignorato completamente i costi, la rettifica potrebbe essere annullata in parte per eccesso di imponibile. Ovviamente, l’ideale è poter documentare direttamente alcuni costi relativi (materie prime, spese specifiche legate alle operazioni non fatturate), ma quando ciò non sia possibile, si può far leva sul riconoscimento equitativo di costi, come sancito dalle citate pronunce.
  • Tempistica e anni controllabili: le indagini bancarie possono riguardare operazioni entro i termini di accertamento (tipicamente il quinto anno precedente, che diventa il settimo in caso di omessa dichiarazione). Ad esempio, nel 2025 il Fisco può indagare sui movimenti dal 2020 in poi (dichiarazioni 2021 ancora accertabili) ed eventualmente 2019-2018 se c’è omessa dichiarazione o reati. È importante sapere che se si ricevono questionari o inviti a fornire dati su accrediti passati, il contribuente ha diritto a conoscere quali movimentazioni specifiche sono sotto esame e di quale annualità, per poter circoscrivere la difesa.

Analizzati i principi generali, passiamo ora all’aspetto pratico: come difendersi efficacemente se l’Agenzia delle Entrate contesta accrediti su carta prepagata come redditi non dichiarati.

Difendersi in sede di accertamento fiscale: strategie ed esempi pratici

Trovarsi di fronte a un avviso di accertamento o anche solo a una richiesta di chiarimenti da parte del Fisco relativa ai movimenti sulla propria carta prepagata può generare comprensibile apprensione. È fondamentale però affrontare la situazione in modo proattivo e documentato. Di seguito esaminiamo le principali strategie difensive, con esempi pratici, mettendoci nei panni di diversi tipi di contribuenti (dal privato senza partita IVA, al lavoratore autonomo in regime forfettario, all’imprenditore individuale).

1) Raccogliere la documentazione giustificativa: appena si riceve notizia di una verifica o accertamento sui propri conti/carte, occorre reperire tutte le prove a supporto delle giustificazioni dei movimenti. Questo può includere: estratti conto bancari, ricevute di bonifici, contabili di versamenti, assegni, contratti, comunicazioni email o WhatsApp che confermino prestiti o regali, ecc. Ad esempio, se nel 2022 avete ricevuto sulla carta prepagata un bonifico di €10.000 da un parente, e sostenete che si trattava di una donazione o di un aiuto familiare, cercate di recuperare una lettera o email in cui quel parente annunciava il regalo, oppure fatevi fare una dichiarazione firmata dove conferma che l’importo era a titolo di liberalità. Meglio ancora sarebbe aver indicato nella causale del bonifico la parola “donazione” o simili. Questi elementi, sebbene non vincolanti per il Fisco, forniscono principi di prova utili a corroborare la vostra versione. Nella difesa, qualità e quantità delle prove contano: più elementi specifici portate, più chance avrete di convincere gli organi accertatori o il giudice tributario.

2) Distinguere caso per caso la natura degli accrediti contestati: è utile scomporre ogni singolo movimento oggetto di verifica e attribuirgli una causale plausibile: stipendio, prestito, rimborso spese, vendita bene usato, risparmio prelevato, ecc. L’analisi caso per caso è necessaria perché la legge richiede spiegazioni analitiche per ogni versamento . Può essere d’aiuto redigere una tabella (per uso proprio e del proprio difensore) dove a fianco di ogni entrata contestata si annota la presunta fonte e le relative prove disponibili. Ad esempio:

Data accreditoImportoProvenienza dichiarataProve disponibili
10/03/2022€3.000Trasferimento da mio conto corrente (giroconto)Estratto conto bancario di febbraio-marzo 2022 che mostra bonifico uscente di €3.000 verso carta prepagata
05/05/2022€500Vendita del telefono usato su MarketplaceScreenshot chat di vendita + ricevuta di consegna pacco
20/07/2022€4.000Prestito restituito dall’amico CaioScrittura privata del 01/01/2021 in cui prestavo €4.000 a Caio + bonifico di Caio del 20/07/22 con causale “restituzione prestito”
15/09/2022€1.200Stipendio netto da lavoro dipendente (già tassato in busta paga)Busta paga settembre 2022 + CRO bonifico stipendio su prepagata

(Tabella 1: Esempio di analisi degli accrediti contestati e relative giustificazioni)

L’obiettivo è presentare all’Ufficio, o successivamente al giudice, un quadro chiaro e completo che riconduca ogni importo ad una fonte lecita e non imponibile (o già tassata). Notate che nell’ultimo esempio in tabella, lo stipendio, pur essendo chiaramente un reddito, è stato già tassato all’origine come reddito di lavoro dipendente: in tal caso, la difesa consisterà nel mostrare che quell’accredito deriva dal datore di lavoro ed è stato dichiarato nel CUD/Certificazione Unica. Gli accrediti da redditi già dichiarati non vanno tassati di nuovo, è ovvio, ma vanno spiegati per non confonderli con altro. A tal proposito, la Cassazione stessa ha affermato che i versamenti rappresentativi di redditi già sottoposti a imposizione (perché provenienti da soggetti che hanno operato ritenute o da redditi esenti) non devono essere considerati ulteriori redditi: spetta al contribuente evidenziarlo in sede di controllo.

3) Evidenziare i giroconti intra-personali: come detto, se un accredito deriva dal vostro stesso denaro spostato, la legge non lo considera ricavo . È quindi prioritario segnalare all’Agenzia Entrate tutti i casi di tal genere. Conviene allegare le prove (es. copia del bonifico di provenienza) già nella fase del contraddittorio amministrativo, per cercare di ottenere lo stralcio di quelle voci dall’accertamento. Esempio pratico: Mario, libero professionista, riceve un questionario dal Fisco che gli chiede di giustificare accrediti per €20.000 avuti nel 2023 sulla sua carta prepagata. Mario individua che €15.000 provengono dal suo conto corrente personale (trasferiti a tranche durante l’anno per comodità). Fornisce quindi gli estratti conto al funzionario, dimostrando che quelle somme erano sue disponibilità già presenti sul conto principale (magari alimentato da redditi dichiarati negli anni precedenti). In tal modo, Mario rimuove €15.000 dal tavolo delle contestazioni, riducendo la questione ai restanti €5.000, per i quali concentrerà la difesa. Questo approccio mirato aumenta la credibilità del contribuente e semplifica la risoluzione del caso.

4) Contestare formalmente l’accertamento se le spiegazioni non sono accolte: se l’Ufficio finanziario emette comunque un avviso di accertamento (per maggiori imposte IRPEF, IVA, IRAP, ecc.) imputando gli accrediti a redditi non dichiarati, il contribuente può presentare ricorso presso la competente Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria). In tale ricorso si possono far valere sia i vizi formali dell’atto (ad esempio motivazione carente, mancato contraddittorio se dovuto, ecc.), sia e soprattutto le ragioni di merito, portando all’attenzione del giudice le prove e gli argomenti giustificativi. Qui giova ribadire alcuni capisaldi giurisprudenziali a proprio favore, con i necessari riferimenti: ad esempio citare Cass. 9657/2017 per sostenere la neutralità dei giroconti tra conti stessi , o citare la Corte Cost. 10/2023 per il diritto al riconoscimento di costi forfettari. Il ricorso tributario è materia tecnica: è consigliabile farsi assistere da un avvocato tributarista o commercialista abilitato, specie in casi complessi o di importi elevati. Tuttavia, anche il contribuente può contribuire attivamente alla difesa, avendo spesso la miglior conoscenza del perché quei soldi sono arrivati sulla carta. Preparare memoria dettagliata di tali ragioni, con allegati, può aiutare il professionista a impostare il ricorso in modo persuasivo.

5) Valutare strumenti deflattivi del contenzioso: a seconda dei casi, potrebbe convenire cercare un accordo con l’Amministrazione finanziaria per chiudere la controversia prima che degeneri in un lungo contenzioso. Gli strumenti possibili includono l’accertamento con adesione, che consente di discutere col Fisco e magari ottenere una riduzione di imponibile e sanzioni (con uno sconto sulle sanzioni per il fatto stesso di aderire). Oppure, in certi casi di omissioni limitate, si può ricorrere al ravvedimento operoso: ad esempio, se ci si rende conto – anche prima di un controllo formale – di aver effettivamente dimenticato di dichiarare un reddito arrivato sulla carta, si può spontaneamente ravvedere pagando le imposte dovute con sanzioni ridotte. Questo ovviamente implica ammettere la tassabilità di quelle somme, quindi è applicabile solo quando realmente gli accrediti erano redditi non dichiarati su cui non si hanno esimenti. In situazioni borderline, però, può essere una via per limitare i danni ed evitare il contenzioso e le sue incertezze.

Passiamo ora a qualche scenario pratico di difesa, collegato a figure tipiche di contribuenti:

  • Caso A: Privato senza partita IVA che vende online oggetti usati. Marco, studente universitario, arrotonda vendendo su eBay capi di abbigliamento usati e oggetti tecnologici di seconda mano propri. Si fa accreditare i pagamenti degli acquirenti su una carta prepagata (senza IBAN) a lui intestata. Nel 2024 l’Agenzia Entrate lo convoca chiedendo spiegazioni su accrediti cumulativi di €8.000 ricevuti in un anno. Marco dovrà mostrare che si tratta di vendite occasionali di beni usati di proprietà, attività che di norma non genera reddito tassabile ai sensi dell’art. 67 TUIR (alienazione di beni personali, non effettuata per professione abituale). Può presentare le schermate delle piattaforme online con i dettagli delle transazioni, per evidenziare che vendeva effetti personali già acquistati in passato (magari a prezzo superiore, quindi ha pure rimesso dei soldi rispetto al nuovo). Se le cessioni sono state episodiche e non qualificabili come impresa, il Fisco non può pretendere di tassare quelle entrate. La difesa quindi punterà sul carattere occasionale e di realizzo patrimoniale di tali accrediti, escludendo che siano redditi. Importante: se però le vendite sono state numerose e sistematiche, il Fisco potrebbe dubitare della “occasionalità” e riqualificarle come attività commerciale in nero. In tal caso, la posizione di Marco si complica, ma potrebbe comunque invocare la soglia di €5.000 annui come limite oltre il quale l’attività occasionale di vendita di oggetti (ex art. 67, co.1, lett. i) TUIR) diviene impresa. Se sta sotto quel limite e i beni erano usati propri, ha solide argomentazioni per annullare l’accertamento.
  • Caso B: Lavoratore autonomo in regime forfettario. Sara è una grafica freelance in regime fiscale forfettario (quindi esente IVA e con imposta sostitutiva al 15%). Alcuni clienti privati le pagano compensi facendole ricariche sulla PostePay Evolution, compensi che lei – sbagliando – non dichiara ritenendoli poco tracciabili. Nel 2025 subisce un controllo: vengono contestati €20.000 di accrediti dal 2023 non riportati in dichiarazione. Qui Sara ha due problemi: tributario e contributivo. Dal lato fiscale, anche se è forfettaria, quei compensi andavano dichiarati come ricavi imponibili (nel forfait non c’è IVA ma l’obbligo dichiarativo sussiste). Non avendolo fatto, rischia il recupero dell’imposta sostitutiva su €20.000 (al 15%, salvo che con quei €20.000 abbia sforato il tetto dei 65.000 e perso il regime, scenario ancor peggiore). Dal lato previdenziale, come gestione separata INPS, i compensi non dichiarati sfuggivano ai contributi del 25%. Difesa fiscale: se non ha giustificazioni lecite di esenzione (ma in questo caso erano compensi da lavoro, quindi reddito puro), la strategia migliore potrebbe essere cercare un accertamento con adesione per ridurre le sanzioni. Sara può però controllare se fra quei €20.000 vi erano movimenti non reddituali (ad es. un bonifico da un familiare, un rimborso di spese anticipate per conto di un cliente – in regime forfettario comunque non avrebbe potuto dedurre costi ma almeno chiarisce che non era compenso). Se trova tali elementi, li evidenzia per depurare l’importo. Per la parte che effettivamente è compenso non dichiarato, Sara può chiedere di applicare le sole sanzioni da infedele dichiarazione (90% dell’imposta evasa, riducibile in adesione) evitando guai penali perché comunque l’imposta evasa è modesta (il 15% di 20k = €3.000, sotto la soglia penale di 100k) . Difesa previdenziale: l’INPS quasi sicuramente, dopo l’accertamento fiscale definitivo, le chiederà il 25% di €20.000 come contributi più sanzioni civili. Anche qui potrà chiedere rateazione, ma difficilmente eviterà il pagamento. La lezione in questi casi è che conviene dichiarare anche in forfait tutti i compensi, tanto l’aliquota è bassa e non vale il rischio.
  • Caso C: Imprenditore individuale (ditta) che occulta ricavi con prepagata intestata a terzi. Luigi ha un’attività di impianti elettrici. Alcuni clienti pagano in nero, in contanti, e Luigi deposita questo contante su una carta ricaricabile intestata alla moglie, pensando di eludere controlli. Le somme servono poi per le spese familiari. La Guardia di Finanza, tuttavia, durante un’indagine antiriciclaggio scopre movimenti sospetti: versamenti frequenti in contanti sulla carta della moglie senza giustificazione economica. Approfondendo, emergono correlazioni con i lavori svolti da Luigi. Risultato: l’Agenzia Entrate presume che quei versamenti su carta del coniuge siano in realtà ricavi della ditta non dichiarati (tramite interposizione fittizia della moglie). In giudizio, Luigi proverebbe difficilmente il contrario, a meno di negare tutto e sostenere trattarsi di redditi della moglie stessa (ma se la moglie è casalinga, poco credibile). In una controversia analoga, la giurisprudenza tende a dare ragione al Fisco, specie se c’è una mole significativa di denaro incoerente col profilo della persona intestataria. Difesa possibile: Luigi potrebbe solo puntare su eventuali errori procedurali (es. se l’autorizzazione alle indagini bancarie non era valida – ma attenzione: la Cassazione ha stabilito che il Fisco può acquisire dati bancari anche di conti intestati a terzi, familiari o soci, purché vi sia connessione con il soggetto verificato ). Inoltre, se l’attività di Luigi era soggetta a studio di settore/ISA e risultava congrua, potrebbe usare questo a suo favore come indice di adempimento spontaneo, ma di fronte a prove concrete di movimenti non dichiarati serve poco. La difesa qui è debole in merito; potrebbe convenire negoziare il più possibile l’ammontare evaso e pagare per evitare imputazioni penali (se le cifre sono alte, come vedremo a proposito di reati tributari).

Questi esempi illustrano che ogni situazione ha le sue particolarità. Tuttavia, alcuni consigli generali di difesa valgono sempre:

  • Agire con trasparenza durante il controllo: nascondere o mentire su un fatto facilmente smascherabile peggiora la posizione. Se un accredito è effettivamente un compenso non dichiarato, negarlo spudoratamente di fronte all’evidenza mina la credibilità su tutto il resto. Meglio eventualmente ammettere quello su cui non si hanno scappatoie e concentrarsi su altri elementi difendibili, magari ottenendo trattativa su sanzioni.
  • Verificare la correttezza formale dell’operato del Fisco: per esempio, se l’accertamento nasce da indagini finanziarie, deve essere stata ottenuta l’autorizzazione del Direttore centrale o regionale dell’Agenzia (come da art. 32, co.1, n.7 DPR 600/73). In alcuni casi, la Cassazione (ordinanza n. 17228/2025) ha ricordato che un’autorizzazione troppo generica non legittima controlli a tappeto . Se emergono vizi formali, possono invalidare l’atto, indipendentemente dal merito. Quindi fate analizzare a un esperto l’avviso di accertamento alla ricerca di eventuali nullità (omessa motivazione sul perché si considerano redditi certi movimenti, mancata allegazione di estratti conto, ecc.). Sono aspetti tecnici ma a volte risolutivi.
  • Documentare la buona fede e l’assenza di intenti evasivi gravi: ad esempio, se i movimenti contestati derivano da ingenuità o errori e non da un piano sistematico di evasione, far emergere questo può aiutare almeno sul piano sanzionatorio. Fornire tutte le informazioni cooperativamente, magari mostrando anche movimenti non individuati ma attinenti, denota atteggiamento collaborativo che può indurre l’Ufficio a sanzioni nei minimi.
  • Attenzione ai profili penali: se gli importi sono rilevanti, parallelamente all’accertamento fiscale potrebbe profilarsi una segnalazione alla Procura per reati tributari. Lo vedremo in dettaglio più avanti, ma è cruciale sapere che pagare il dovuto prima possibile può in certi casi evitare la punibilità penale (grazie a cause di non punibilità per pagamento integrale del debito tributario, introdotte negli ultimi anni). Quindi, qualora vi rendiate conto che l’accertamento individua una grossa evasione effettiva da parte vostra, considerate di predisporre le risorse per saldare il Fisco: questo potrebbe salvarvi da guai peggiori (oltre a ridurre interessi e sanzioni amministrative col trascorrere del tempo).

In conclusione di questa sezione: difendersi è possibile e spesso fruttuoso, ma richiede un approccio rigoroso e documentato. Laddove la difesa riesca a dimostrare che gli accrediti su carta prepagata erano originati da fonti non imponibili (risparmi, donazioni, prestiti, redditi già tassati, vendite di beni personali, ecc.), l’accertamento fiscale dev’essere annullato in tutto o in parte. Diversamente, se realmente quegli accrediti celavano redditi in nero, il contribuente dovrà negoziare il miglior esito possibile (pagando il giusto, evitando doppi conteggi, ottenendo sconti su sanzioni e prevenendo il penale).

Nei paragrafi successivi affronteremo due aspetti collegati di grande importanza: da un lato le controversie con altri enti, in particolare l’INPS e l’Agente della Riscossione, che possono nascere dagli stessi fatti; dall’altro i risvolti penali in cui si può incorrere quando gli importi non dichiarati su carte prepagate superano certe soglie o si accompagnano ad attività di occultamento.

Rapporti con INPS e altri enti: contributi evasi e sanzioni su lavoro “in nero”

Le contestazioni relative a somme non dichiarate che transitano su carte prepagate non riguardano solo le imposte sui redditi. Spesso, infatti, dietro movimenti finanziari sospetti possono celarsi situazioni di lavoro irregolare o di evasione contributiva di interesse per l’INPS (Istituto Nazionale Previdenza Sociale) o per l’ispettorato del lavoro. Inoltre, se il contribuente ha debiti verso l’erario o altri enti, le somme presenti sulle carte possono essere aggredite in fase di riscossione coattiva da parte dell’Agente della Riscossione (come già accennato). Approfondiamo quindi questi due profili: contributi previdenziali e sanzioni lavoristiche da un lato, riscossione e pignoramenti dall’altro.

Evasione contributiva e lavoro nero scoperti tramite le carte prepagate

Un caso tipico è quello di imprenditori o datori di lavoro che utilizzano carte prepagate intestate ai lavoratori (o a loro familiari) per corrispondere retribuzioni in nero, senza far transitare le somme nei canali ufficiali (conto aziendale, buste paga, bonifici stipendio, ecc.). L’idea alla base di questo stratagemma è che pagando il dipendente su una carta ricaricabile a lui intestata, il flusso di denaro resti occulto: niente bonifico con causale stipendio, niente assegno tracciabile, solo una ricarica assimilabile a un versamento anonimo. Tuttavia, le autorità hanno affinato le tecniche ispettive anche in questo ambito. La Guardia di Finanza incrocia i dati bancari con quelli delle comunicazioni obbligatorie all’INPS; se emergono accrediti ricorrenti su carte di persone formalmente disoccupate o in cassa integrazione, scatta l’allarme.

Emblematico è un caso accaduto a Merano nel 2021: un imprenditore edile pagava decine di operai in nero tramite ricariche su carte prepagate intestate sia ai dipendenti stessi sia a loro parenti (nel tentativo di mascherare i destinatari reali). La Guardia di Finanza di Merano ha scoperto la frode analizzando una segnalazione per operazioni sospette di un intermediario finanziario e confrontando i movimenti delle carte con i dati inviati all’INPS . L’indagine ha portato alla luce 52 lavoratori irregolari, di cui 11 completamente in nero, con retribuzioni occultate per oltre 140.000€ e contributi previdenziali evasi per circa 82.000€ . L’imprenditore è stato multato per 37.000€ (sanzioni amministrative per lavoro nero) e l’INPS ha avviato il recupero dei contributi dovuti . Inoltre, per quanto qui interessa, i lavoratori hanno visto emergere i redditi percepiti in nero, che verranno sottoposti a tassazione dall’Agenzia delle Entrate , e le Fiamme Gialle hanno verificato se avessero indebitamente ricevuto sussidi pubblici nello stesso periodo. Questo caso dimostra come l’utilizzo di carte prepagate per occultare pagamenti non protegge né il datore né i lavoratori: una volta scoperto il meccanismo, tutti subiscono conseguenze (fiscali per i lavoratori, contributive e penali per il datore, eventuali revoche di benefici sociali per chi ne ha usufruito indebitamente).

Dal punto di vista del lavoratore che riceve somme in nero su carta: egli va incontro, oltre alla tassazione retroattiva di quei redditi, anche alla perdita di eventuali benefici assistenziali calcolati sull’ISEE o sullo stato di disoccupazione (es.: Reddito di Cittadinanza, NASpI, esenzioni ticket, ecc.). L’INPS e altri enti incrociando i dati possono richiedere la restituzione di prestazioni indebite percepite mentre il soggetto lavorava non dichiarato. In casi gravi e reiterati, vi possono essere denunce per frode ai danni dello Stato. Ad esempio, chi lavora in nero mentre prende la disoccupazione commette un illecito (art. 7 D.L. 5/2012 convertito in L. 35/2012, se non comunica all’INPS l’inizio dell’attività). Insomma, per il lavoratore dipendente conviene emergere: se si accetta un pagamento su carta pensando di farla franca, si rischia di perdere molto di più.

Dal lato datore di lavoro, l’uso delle carte prepagate come mezzo di pagamento di retribuzioni viola tra l’altro la normativa sulla tracciabilità degli stipendi (L. 205/2017), che obbliga dal 2018 a corrispondere le retribuzioni con strumenti tracciabili intestati al lavoratore (bonifico sul conto, assegno, ecc., ma non semplici ricariche su carta se non riconducibili a un IBAN nominativo del lavoratore) . L’Ispettorato del Lavoro ha chiarito che non basta nemmeno la quietanza firmata dal dipendente: serve prova del pagamento tracciabile . Quindi pagare su una carta ricaricabile in teoria potrebbe essere considerato lecito solo se la carta è dotata di IBAN intestato al lavoratore (allora equivale a un bonifico). Ma se parliamo di escamotage per non fare busta paga, siamo nel campo del nero conclamato.

Difesa in sede INPS/Lavoro: una volta scoperto, c’è poco da difendere nel merito (“il fatto non sussiste” è difficile sostenerlo con quelle evidenze). L’imprenditore potrà semmai tentare di transigere con l’INPS sulle sanzioni civili (spesso vengono annullate o ridotte se paga subito i contributi evasi) e richiedere la regolarizzazione postuma dei lavoratori per almeno avere riconosciuti i periodi contributivi (cosa che alcuni lavoratori possono sollecitare in causa). In ambito penale, il datore rischia incriminazioni per evasione contributiva (reato di cui all’art. 2, comma 1-bis D.L. 463/1983 se supera determinate soglie di omissione) e possibile intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro se le condizioni sono degradanti (art. 603-bis c.p.). Nonché, ovviamente, i reati fiscali per la parte tributaria (dichiarazione fraudolenta omettendo compensi, se configurabile, o infedele, v. infra).

Dal punto di vista del contribuente “debitore” verso l’INPS: l’ente previdenziale ha cinque anni per recuperare i contributi evasi, decorrenti dalla data in cui dovevano essere versati (non dalla scoperta) . La notifica di un verbale ispettivo o di un avviso di addebito interrompe la prescrizione. Se l’INPS ritarda e matura prescrizione quinquennale, potrebbe tentare di invocare l’occultamento doloso per avere prescrizione decennale, ma deve provarlo . In giudizio si discute spesso di ciò: la Cassazione ha stabilito che spetta all’INPS dimostrare l’intento doloso di occultare il credito contributivo per avere 10 anni, altrimenti restano 5 . Nel caso dei pagamenti su carta non dichiarati, l’occultamento c’è eccome (nessuna comunicazione di quei rapporti di lavoro), quindi l’INPS potrebbe sostenere che è doloso e pretendere contributi anche più indietro di 5 anni. Ma sono questioni tecniche.

L’importante è capire che un accertamento fiscale può attivare anche l’INPS. Spesso, anzi, è il percorso inverso: un controllo INPS/lavoro segnala al Fisco i compensi non dichiarati. Ad esempio, Cassazione sent. n. 17222/2006 ha ritenuto legittimo un accertamento IRPEF su un lavoratore dipendente basato su una segnalazione della Gdf che, ispezionando l’azienda, aveva trovato pagamenti extra non registrati verso quel lavoratore . Dunque vige la collaborazione tra enti: chi evade da una parte, viene stanato anche dall’altra. Oggi, con la condivisione delle banche dati, c’è un continuo incrocio: l’Anagrafe dei rapporti finanziari è consultata non solo per fini fiscali ma anche per verificare l’ISEE (Decreto “Salva Italia” 2011 e succ. mod.) . Ad esempio, per l’ISEE 2023 l’INPS riceve direttamente dall’Agenzia Entrate i saldi medi di tutti i conti e carte dichiarati e può scovare incongruenze tra ciò che uno ha dichiarato nel DSU e ciò che risulta dalle comunicazioni bancarie . Quindi omettere nell’ISEE una carta prepagata con un deposito significativo è rischiosissimo: se scoperto, oltre alla revoca del beneficio c’è la segnalazione per false dichiarazioni.

In sintesi, per difendersi su questo fronte, il contribuente deve:

  • regolarizzare il prima possibile eventuali posizioni lavorative irregolari una volta emerse (pagando contributi, magari beneficiando di dilazioni o definizioni agevolate se previste);
  • nel caso di erronea percezione di prestazioni (es. ha preso un bonus disoccupazione mentre lavorava), valutare se rientrare di propria iniziativa (versando il dovuto) per attenuare sanzioni, oppure prepararsi a dimostrare eventuali attenuanti (ad es. che ignorava l’obbligo di comunicazione, anche se non è molto spendibile come scusa);
  • in sede di contenzioso contributivo, eccepire la prescrizione se possibile, oppure contestare il quantum (es. se l’INPS stima contributi su retribuzioni più alte di quelle effettive – a volte, in assenza di documenti, le sedi INPS ricostruiscono il dovuto con calcoli standard che si possono discutere);
  • fare attenzione alle sanzioni civili INPS: queste sono molto onerose (interessi e somme aggiuntive). L’INPS però talora, in caso di pagamento integrale dei contributi evasi, applica la sanzione minima (il 5,5% annuo invece del 9% circa). È un elemento da contrattare o richiedere.

Riscossione coattiva e pignorabilità delle somme su carta prepagata

Quando un contribuente, a seguito di accertamento, diventa debitore verso l’Erario (o verso l’INPS, o altro ente pubblico) per imposte, sanzioni, contributi non pagati, la pratica passa nella fase della riscossione. In Italia la riscossione della maggior parte dei tributi è affidata all’Agenzia delle Entrate – Riscossione (AER), che eredita le funzioni di Equitalia. Questo ente ha il potere di attivare varie procedure esecutive, tra cui il pignoramento presso terzi di crediti del debitore (tipicamente conti correnti, stipendi, pensioni, ecc.). Come già chiarito, il saldo di una carta prepagata nominativa è un credito del titolare verso l’istituto emittente, quindi rientra tra i beni pignorabili ex art. 543 c.p.c. (pignoramento di beni del debitore in possesso di terzi).

Vediamo come avviene in pratica un pignoramento su carta prepagata: l’Agenzia Riscossione, una volta verificato (anche tramite l’Anagrafe dei conti) che il debitore ha una carta presso un certo operatore, notifica a quest’ultimo un atto di pignoramento generico su “tutti i rapporti intestati a X”. L’istituto (banca o Poste) è tenuto a vincolare le somme fino a concorrenza del debito e a comunicare all’AER l’importo disponibile. Il debitore riceve copia dell’atto, spesso con qualche giorno di ritardo. Da quel momento, i soldi sulla carta fino all’ammontare pignorato sono bloccati. Ad esempio, se avevate €5.000 su PostePay e vi pignorano €3.000, quell’importo viene accantonato e non potete utilizzarlo; l’eccedenza (2.000) resta libera. Se invece la carta aveva meno del debito, viene bloccato tutto il saldo. L’istituto poi trasferirà i fondi pignorati al creditore dopo 60 giorni se non c’è opposizione o conciliazione.

Ci sono però delle tutele previste dalla legge che valgono anche per le carte prepagate quando fungono da conto di accredito di stipendi o pensioni. In particolare:

  • Se sulla carta viene accreditato lo stipendio o la pensione del debitore, l’art. 545 c.p.c. pone dei limiti alla pignorabilità. Le somme accreditate a titolo di stipendio/pensione prima della notifica del pignoramento sono pignorabili solo per la parte eccedente il triplo dell’assegno sociale (circa €1.500 nel 2025) . Le somme accreditate dopo la notifica, invece, sono pignorabili nei limiti di 1/5 per stipendi e 1/5 per pensioni (tenendo conto anche della salvaguardia minima per le pensioni). Queste regole, introdotte per conti correnti bancari, si applicano parimenti a conti- carta con IBAN su cui affluiscono retribuzioni. Ad esempio, se la carta prepagata di un pensionato contiene €10.000 derivanti da arretrati pensionistici, al momento del pignoramento Poste potrà renderne disponibili solo la parte oltre €1.500 circa, proteggendo il minimo vitale. Similmente, se su una carta di un dipendente arriva ogni mese lo stipendio di €1.200, in caso di pignoramento l’istituto dovrà lasciare intoccati i futuri stipendi per 4/5 (pignorando solo 1/5 di ciascun bonifico stipendio in arrivo).
  • Se la carta è usata per accreditarvi somme derivanti dal TFR (trattamento di fine rapporto) o da altre indennità particolari, anche qui la legge prevede parziali impignorabilità, ma sono casistiche meno comuni.
  • Le carte cointestate (ipotesi rara, ma possibile se ad esempio due coniugi aprono insieme un conto elettronico con due carte) seguono le regole del conto cointestato: il creditore di uno dei cointestatari può pignorare il saldo fino alla quota di spettanza (presuntivamente il 50%, salvo prova di diverse percentuali di proprietà delle somme).

Il debitore che si vede pignorare la carta prepagata può agire se ritiene che il pignoramento violi le suddette regole. Ad esempio, se hanno pignorato l’intera somma comprensiva di accrediti stipendiali protetti, potrà fare opposizione all’esecuzione davanti al giudice dell’esecuzione, chiedendo di liberare la quota non pignorabile. Oppure, se c’è un errore di persona (pignorata carta di omonimo) o altri vizi (mancata notifica della cartella ecc.), può opporsi. In generale, però, la pignorabilità delle carte è confermata dalla giurisprudenza e difficilmente un’opposizione riuscirà a far dichiarare impignorabile una carta solo perché “prepagata”. Come visto, la legge non fa distinze: «Le prepagate costituiscono a tutti gli effetti un deposito di denaro riconducibile a un soggetto specifico» e sono quindi aggredibili .

Una domanda frequente è: “Ma l’Agenzia delle Entrate-Riscossione come fa a sapere che ho una carta prepagata X?”. La risposta sta nella già citata Anagrafe dei rapporti finanziari: l’ufficiale della riscossione, tramite il sistema informativo, può interrogare per codice fiscale e ottenere l’elenco di tutti i rapporti attivi intestati al debitore presso banche, Poste, istituti di moneta elettronica ecc. . Non serve specificare “carta” o “conto”: esce fuori tutto, compresa la PostePay, la carta PayPal, il conto Satispay, la carta hype/N26, etc., purché intestati con codice fiscale. Pertanto, confidare che una prepagata sfugga perché “non è un conto” è illusorio. Solo patrimoni occultati all’estero o su soggetti terzi difficilmente identificabili possono eludere tale ricerca, ma entrano poi nella sfera di reati ben più gravi (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, ad esempio, se uno sposta beni per non farseli pignorare).

Suggerimenti: se siete debitori e avete anche conti/prepagate, e non potete pagare il debito, è preferibile prevenire il pignoramento magari chiedendo una rateazione. Con la rateazione attiva, l’AER generalmente sospende le azioni esecutive. Una volta pignorato il conto/carta, invece, avrete liquidità bloccata e meno margine di manovra. Inoltre, sappiate che l’AER di recente utilizza lo strumento del pignoramento “diretto” dei conti bancari senza bisogno di autorizzazione giudiziaria, introdotto dal DL 146/2021, che snellisce le procedure. Ciò rende ancor più rapidi i congelamenti di somme. Meglio quindi giocare d’anticipo.

Un’altra notazione: l’atto di pignoramento presso terzi è “generico ed esteso a tutti i rapporti” , quindi non occorre che l’ente conosca esattamente il numero o il tipo di carta. Nel caso delle banche tradizionali, il creditore notifica alla banca e questa blocca qualsiasi conto o deposito a nome del debitore. Nel caso delle carte prepagate, spesso l’emittente è una banca (ad esempio PostePay è Poste Italiane/BancoPosta; Hype fa capo a Banca Sella; N26 è banca; PayPal è istituto di moneta elettronica con succursale in Lussemburgo, ma comunque censito). Quindi la notifica va all’entità giuridica (es. “PayPal (Europe) S.à r.l., succ. italiana”) che dovrà eseguire il blocco se c’è un saldo.

Le uniche prepagate non pignorabili, come già accennato, sono quelle anonime e quelle estere fuori portata . Le anonime però in Italia oggi possono avere al massimo 100€ di caricabilità (nuove norme antiriciclaggio) – praticamente inutili per occultare somme serie. Le carte estere intestate all’interessato possono essere scoperte se c’è cooperazione internazionale, ma per piccoli debiti nessuno andrà a inseguire all’estero. Tuttavia, aprire conti o carte all’estero e non dichiararle al Fisco (in quadro RW) è un altro illecito amministrativo, e se fatto per frodare i creditori può configurare sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.lgs. 74/2000). Ad esempio, se Tizio trasferisce 50.000€ evasi su una carta maltese per evitare il sequestro, può essere accusato di questo reato (punito con la reclusione fino a 4 anni). Insomma, spostare all’estero non è la “soluzione magica” e anzi peggiora la posizione in sede penale.

Con quanto sopra chiudiamo il cerchio sugli aspetti civilistici e amministrativi. Riepilogando in una tabella i diversi tipi di carte prepagate e la loro pignorabilità:

Tipo di carta prepagataIntestazionePignorabilitàNote
Carta prepagata nominativa (IBAN o non IBAN) emessa in ItaliaIntestata al debitore (codice fiscale identificato)SÌ, pignorabileEquiparata a un conto. Se usata per accredito stipendio/pensione, si applicano limiti (impignorabile minimo vitale, 1/5 su futuri accrediti) .
Carta prepagata cointestataIntestata al debitore e altro soggettoSÌ, pro quotaDi regola si presume 50% di spettanza del debitore salvo prova contraria.
Carta prepagata aziendale (intestata a ditta/società)Intestata a soggetto giuridico diverso dal debitore persona fisicaNO (direttamente)Il creditore persona fisica non può farsi pagare da beni di un altro soggetto (salvo confusione patrimoni). Se però il debitore è la società, allora pignorabile perché intestata a società.
Carta prepagata anonima usa e gettaNon intestata (no nominativo)NONon associabile al debitore, ma importi limitatissimi (max €100). Uso per evadere/pagare in nero può configurare violazioni antiriciclaggio.
Carta prepagata nominativa estera (conto estero)Intestata al debitore ma aperta fuori ItaliaDifficilePignorabile solo se il creditore attiva procedura estera o il debitore la dichiara. In genere sfugge al pignoramento ordinario italiano, ma può costituire reato trasferirvi fondi per non pagare i debiti.

(Tabella 2: Pignorabilità delle varie tipologie di carte prepagate)

Profili penali: dichiarazione infedele, omessa dichiarazione, autoriciclaggio e altri reati

Quando le somme occultate al Fisco raggiungono importi rilevanti, la vicenda può travalicare il piano amministrativo e sfociare nel diritto penale tributario. In Italia, i reati in materia di imposte sui redditi sono disciplinati dal D.lgs. 74/2000. Nel contesto che trattiamo – accrediti non dichiarati su carte prepagate – i reati potenzialmente configurabili sono principalmente:

  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.lgs. 74/2000): si realizza quando nella dichiarazione dei redditi si indicano elementi attivi (ricavi, redditi) inferiori a quelli effettivi, oltre una certa soglia. La soglia di punibilità attualmente è: imposta evasa > €100.000, oppure ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione > 10% di quanto dichiarato (e comunque > €2 milioni) . Se tali soglie sono superate, scatta il reato, punito con la reclusione da 2 a 5 anni . Nel caso di accrediti su prepagata non dichiarati, se il contribuente ha comunque presentato la dichiarazione ma ha sottostimato i redditi, questo è il reato ipotizzabile. Esempio: un professionista dichiara €30.000 ma in realtà ha incassato altri €50.000 su prepagata non fatturati. Se l’imposta evasa su quei €50.000 (circa €20.000 di IRPEF) supera 100k? No, magari no. Se i €50.000 > 10% del dichiarato? Sì (50k è >10% di 30k) ed >2 milioni? No, 50k non oltre 2M. Quindi non scatta reato perché manca soglia 2M. Bisogna avere cifre molto alte per l’infedele: per esempio uno dichiara 0 e incassa 3 milioni in nero, lì c’è reato (imposta evasa altissima e importo >2M). Attenzione: la soglia 2 milioni si riferisce agli elementi attivi non dichiarati, non al reddito evaso; quindi in quell’esempio di 3 milioni non dichiarati, scatta (oltre 2M).
  • Omessa dichiarazione (art. 5 D.lgs. 74/2000): è il reato di chi non presenta proprio la dichiarazione annuale pur avendo conseguito redditi. Si configura se l’imposta evasa supera €50.000 . In caso di accrediti su carta, questo si applicherebbe a chi totalmente non dichiara nulla all’Erario ma incassa somme (pensiamo a chi vive interamente di redditi “sommersi” su carte). La pena va da 2 a 6 anni . Esempio: un lavoratore autonomo senza partita IVA incassa 100k su carta in un anno e non fa dichiarazione: imposta evasa diciamo 23k, supera 50k? No, quindi niente reato; ma se ne incassava 250k con 60k di IRPEF evasa, allora sì, omessa dichiarazione punibile.
  • Dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3 D.lgs. 74/2000): riguardano chi pone in essere artifizi per evadere, come fatture false o altri mezzi fraudolenti. Nel caso delle prepagate, non è comune contestare questi articoli a meno che il contribuente non abbia usato documenti falsi per giustificare i mancati ricavi. Ad esempio, se uno cerca di far passare i versamenti su carta come rimborsi fittizi presentando fatture inventate, potrebbe integrare dichiarazione fraudolenta (che ha soglie più basse ma è concetto diverso, volontà di ingannare attivamente). Non approfondiamo qui, perché è meno attinente salvo condotte molto elaborate.
  • Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.lgs. 74/2000): reato che punisce chi, al fine di non pagare imposte dovute (anche dopo accertamento), compie atti simulati o frodi per rendersi insolvibile. Un esempio calzante: spostare il denaro evaso su carte intestate a terzi o all’estero per non farlo trovare può configurare questo reato. La pena massima è 4 anni. È un reato spesso contestato quando, dopo il processo verbale o durante la verifica, il contribuente “svuota” i propri conti. Quindi, se uno venuto a sapere dell’indagine trasferisce tutti i soldi su carte di amici o parenti, attenzione: oltre a non servire (abbiamo visto che l’hanno scoperto a Merano comunque), costituisce aggravante penale.

A fianco di questi reati tributari, c’è la dimensione del riciclaggio/autoriciclaggio: introdotta nel 2015, la figura dell’autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.) mira a colpire chi impiega, trasferisce, reinveste in attività economiche-finanziarie i proventi di un proprio reato, in modo da ostacolarne l’identificazione. In parole semplici: se evado tasse su redditi e poi io stesso cerco di “ripulire” quel denaro (ad esempio facendolo girare su più conti, intestandolo a prestanome, investendolo in attività per farlo apparire legittimo), allora non rispondo solo del reato fiscale presupposto, ma anche di autoriciclaggio. La ratio è punire il passo successivo con cui l’autore del reato sfrutta i proventi illeciti cercando di celarne la provenienza.

Tuttavia, occorre fare dei distinguo fondamentali:

  • Nessun autoriciclaggio senza un reato presupposto. Il reato fiscale da cui derivano i soldi deve essere di rilevanza penale. Se l’evasione fiscale è “sotto soglia” e dunque costituisce solo illecito amministrativo, allora non c’è reato presupposto e non può configurarsi autoriciclaggio . La Cassazione ha più volte ribadito che se, ad esempio, Tizio ha evaso 40k di imposte (sotto le soglie di punibilità penale), quei 40k sono provento di un illecito tributario non costituente reato: di conseguenza, per quanto li nasconda o li trasferisca, non può essere accusato di autoriciclaggio, perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato” (manca il presupposto) . In termini giuridici: la soglia di punibilità fa parte del fatto tipico, sotto soglia il reato neppure esiste, e “il comportamento sotto soglia è ritenuto non lesivo del bene giuridico tutelato” . Quindi l’autoriciclaggio serve per i grandi evasori, non per i piccoli.
  • Non punibilità per utilizzo personale dei proventi. La norma esclude espressamente la punibilità dell’agente per la mera condotta di godimento personale dei proventi del reato presupposto. Ciò significa che se io evado 300k di redditi e poi con quei soldi ci compro casa, auto, vacanze per me e la mia famiglia (quindi li spendo semplicemente per godimento), non commetto autoriciclaggio, restando punito solo per l’evasione. Invece, se li reimpiego in attività volte a nasconderli o moltiplicarli – ad esempio li trasferisco a scatole cinesi all’estero, li infilo nel capitale di una società pulita intestata a un prestanome, ecc. – allora sì. Dove sia il confine tra uso personale e comportamento di occultamento a volte è sottile e oggetto di valutazione caso per caso. Trasferire soldi su una carta prepagata propria per tenerli lì e spenderli pian piano è probabilmente utilizzo personale (ci pago spese, pur staccandoli dal conto principale). Ma se apro 5 carte prepagate intestate a parenti e ci distribuisco i soldi evasi per non farmi rintracciare, questa è un’operazione chiaramente volta a ostacolare l’identificazione della provenienza, e dunque autoriciclaggio. Una sentenza di Cassazione del 2021 ha condannato per riciclaggio un terzo che prestava le proprie carte prepagate per accreditare fondi illeciti altrui : segno che queste manovre di “polverizzazione” su carte sono viste come tecniche di occultamento tipiche del riciclaggio. Dunque, se a farlo è lo stesso autore del reato tributario, scatta l’autoriciclaggio.

In termini di sanzioni: l’autoriciclaggio è punito più severamente del reato fiscale base. Si va da 2 a 8 anni di reclusione (riducibili di 1/3 se il denaro è frutto di un reato punito con pena < 5 anni, come la dichiarazione infedele) . Questo significa che un grande evasore può temere più la condanna per autoriciclaggio che quella per evasione in sé, dato che quest’ultima magari arriva a 3-4 anni, mentre l’autoriciclaggio può portare a 5-6 anni facilmente, oltre a allungare i termini di prescrizione. Nel ragionare su come difendersi, occorre essere consapevoli di questa asimmetria: la giurisprudenza sta usando riciclaggio/autoriciclaggio come strumento aggiuntivo contro l’evasione fiscale grave .

Chiariamo con un esempio: Poniamo Caio, imprenditore, nasconde al Fisco 1 milione di euro di ricavi incassandoli in contanti e caricandoli su carte prepagate intestate ai figli e al coniuge. Reati commessi: – Dichiarazione infedele (1M non dichiarato, soglie ampiamente superate) → 2-5 anni. – Probabile sottrazione fraudolenta (ha spostato i soldi a terzi per non farli trovare) → fino a 6 anni (in realtà 6 anni in caso di particolare gravità). – Autoriciclaggio (ha ostacolato l’identificazione usando carte di terzi) → 2-8 anni. – I familiari che hanno messo a disposizione le carte, pur non avendo partecipato all’evasione, rispondono di riciclaggio in concorso, o di trasferimento fraudolento di valori, a seconda della contestazione.

Come difendersi sui profili penali? Anzitutto, evitando che si aprano: ciò significa mantenere l’evasione sotto soglia, se proprio uno volesse rischiare (il che non è un consiglio, ma una constatazione tecnica: sotto soglia penale non c’è reato). Abbiamo visto i numeri: omessa oltre 50k imposta evasa, infedele oltre 100k imposta o 2M imponibile. Quindi, banalmente, dichiarare qualcosa può tenervi lontani dalle soglie. Un lavoratore autonomo disonesto preferirà dichiarare almeno il 60-70% e occultare il resto; il guaio è se occulta troppo e supera i parametri.

Se comunque vi contestano un reato, il tempismo nel pagamento può salvarvi: il D.lgs. 74/2000 prevede (art. 13) che per alcuni reati (fra cui dichiarazione infedele e omessa dichiarazione) il pagamento integrale del debito tributario, comprensivo di sanzioni e interessi, prima dell’apertura del dibattimento estingue il reato . Quindi, se ricevete un invito a comparire dal PM o sapete di un’indagine in corso per infedele/omessa, pagando tutto il dovuto al Fisco potreste ottenere l’archiviazione per non punibilità. Ovviamente questo richiede liquidità e pentimento, cosa non scontata per chi evase. In più, se l’evasione è altissima, spesso non si ha la somma per saldare. Però va considerato.

Nel caso dell’autoriciclaggio, purtroppo, pagare il debito fiscale non estingue il reato di riciclaggio, che segue il codice penale, non le cause di non punibilità del 74/2000 (valide solo per reati tributari puri). Quindi se arrivati a quel punto, occorre agire diversamente: ad esempio, collaborare con le autorità può mitigare la pena. L’art. 648-ter.1 prevede una circostanza attenuante speciale se l’autore si adopera per evitare che l’attività di autoriciclaggio produca conseguenze ulteriori o aiuta efficacemente gli investigatori a ricostruire i flussi . Nella pratica, ciò potrebbe voler dire confessare, indicare dove sono i soldi, consentire il sequestro di tutti i fondi. Questo può ridurre la pena fino alla metà .

Inoltre, per i reati tributari vi sono i cosiddetti “riti alternativi premiali”: ad esempio il patteggiamento con pena ridotta di un terzo, possibile anche senza aver pagato il debito (la legge 2023 lo ha confermato per infedele e omessa) . Un buon avvocato penalista saprà consigliare se conviene patteggiare magari a 1 anno con sospensione condizionale, piuttosto che andare a dibattimento rischiando di più.

Diamo uno sguardo comparativo ai principali reati e soglie in una tabella:

Reato tributario (D.lgs. 74/2000)Condotta tipicaSoglia di punibilitàPena previstaEstinzione se pagamento integrale?
Dichiarazione infedele (art.4)Dichiarare meno redditi del dovuto (o crediti inesistenti)Imposta evasa > €100.000 o elementi attivi non dichiarati > 10% del dichiarato e > €2.000.000Reclusione 2–5 anniSì, non punibile se paghi tutto prima del dibattimento
Omessa dichiarazione (art.5)Non presentare proprio la dichiarazione annualeImposta evasa > €50.000Reclusione 2–6 anniSì, non punibile se paghi tutto prima del dibattimento
Dichiarazione fraudolenta (art.2/3)Uso di fatture false o altri artifici per evadereImposta evasa > €30.000 (per art.3, soglia di €1.500.000 per attivo sottratto)Reclusione 3–8 anni (art.2), 3–7 anni (art.3)No (richiede condotta fraudolenta)
Emissione di fatture false (art.8)Emettere documenti per operazioni fittizie– (punibile a prescindere da importo)Reclusione 4–8 anniNo
Sottrazione fraudolenta a pagamento imposte (art.11)Compie atti per occultare propri beni al fine di non pagare tasse o sanzioniSomme > €50.000 sottratte al fiscoReclusione 6 mesi – 4 anniNo (non è reato dichiarativo)
Riciclaggio (art.648-bis c.p.)Chi ricicla denaro altrui (non avendo partecipato al reato fonte)Reclusione 4–12 anni
Autoriciclaggio (art.648-ter.1 c.p.)Chi impiega/occulta proventi di un proprio reato (non colposo) in modo da ostacolare accertamentiReato presupposto dev’essere consumato (no contravvenzioni)Reclusione 2–8 anni (rid. da 1/3 a 2/3 in casi meno gravi)No (attenuante se collaborazione)

(Tabella 3: Principali reati tributari e connessi applicabili alle fattispecie di evasione su carte prepagate, con soglie e sanzioni)

Conclusione sulla parte penale: per un contribuente che si trovi invischiato in tali procedimenti, la difesa è materia delicata e da affidare a professionisti penalisti esperti di tributario. Qui abbiamo evidenziato ciò che serve sapere: quando scatta il penale e come evitarlo (soglie, pagamento). La lezione più ovvia è non superare le soglie e non ostacolare le indagini con ulteriori condotte dissimulative: se siete stati scoperti per redditi non dichiarati, la trasparenza e la collaborazione possono evitarvi l’aggravio di un’accusa di riciclaggio. Viceversa, perseverare in atteggiamenti di occultamento o bugie potrebbe trasformare un semplice debito col fisco in una condanna penale con tutti i crismi.

Domande frequenti (FAQ)

D1: Le carte prepagate vanno dichiarate nella dichiarazione dei redditi?
No, non occorre indicare le carte prepagate (né i conti correnti italiani) nella dichiarazione dei redditi annuale. Quello che va dichiarato sono semmai i redditi derivanti dalle somme accreditate su di esse. Ad esempio, se sulla carta ricevo il pagamento di una consulenza, dovrò dichiarare quel compenso nei redditi di lavoro autonomo, ma non devo segnalare il fatto di aver aperto o posseduto una carta prepagata in sé. Diverso il caso di conti o carte estere: quelli vanno indicati nel Quadro RW ai fini del monitoraggio fiscale se superano certe soglie, ma parliamo di estero. Per le prepagate italiane, nessuna indicazione nel 730/Unico, fatta salva la compilazione dell’ISEE se si richiedono prestazioni sociali (in tal caso sì, vanno inserite con saldo e giacenza media). In sintesi: la carta come rapporto finanziario interno non va in dichiarazione, ma i soldi su di essa seguono le regole ordinarie dei redditi .

D2: L’Agenzia delle Entrate può controllare le mie carte prepagate senza avvisarmi?
Sì. L’Agenzia delle Entrate ha accesso diretto ai dati dell’Archivio dei Rapporti Finanziari, e può quindi conoscere saldo e movimenti aggregati della tua carta senza necessità di avviso o autorizzazione dell’Autorità giudiziaria . Per ottenere i dettagli analitici (lista movimenti), in sede di accertamento formale deve esserci un’autorizzazione interna (del direttore) all’indagine finanziaria, ma non serve informare preventivamente il contribuente. In pratica, il Fisco può “sbirciare” i conti e le carte se vi sono motivi di indagine, e solo successivamente, quando eventualmente ti contesta qualcosa, tu ne verrai a conoscenza. Non immaginiamoci però un controllo generalizzato su tutti: di norma questi accessi avvengono quando c’è già un’attività di accertamento in corso (ad esempio sei selezionato perché risulti incongruente, o sei coinvolto in verifiche su un’azienda, ecc.). In ogni caso, non hai un diritto a essere avvisato prima; potrai semmai esercitare il diritto di difesa dopo, chiedendo di vedere gli atti e contestando eventuali irregolarità (come l’assenza di autorizzazione, ma sono casi rari).

D3: Ho fatto un bonifico dal mio conto corrente alla mia carta prepagata: rischia di essere tassato di nuovo?
No, se si tratta di un trasferimento di fondi tra rapporti intestati allo stesso soggetto, non costituisce nuovo reddito imponibile . Questo è un punto chiarito espressamente: il passaggio di denaro da un tuo conto A a un tuo conto B (o carta) è una mera traslazione patrimoniale interna, quindi il Fisco non la considera un ricavo. In sede di controllo può capitare che l’ispettore chieda comunque spiegazioni se vede un versamento su una carta, ma è sufficiente mostrare che proviene da un tuo altro conto. Una volta appurato, la presunzione legale di cui all’art. 32 cessa di operare . Attenzione però: devi essere in grado di dimostrare la provenienza; se ad esempio l’accredito sulla carta appare come “versamento contanti”, non è chiaramente tracciabile a un tuo conto. In tal caso dovresti spiegare che erano contanti prelevati dal conto A e poi versati sulla carta, possibilmente esibendo l’estratto conto A con il prelievo di importo simile. Quindi, meglio usare sempre bonifici o strumenti tracciati per spostare soldi tra i propri conti, così resta prova.

D4: Ricevo spesso soldi da parenti sulla mia prepagata: devo pagarci le tasse?
Le donazioni o regali di denaro non sono reddito imponibile per chi li riceve, secondo il TUIR (non costituiscono “redditi” ai fini IRPEF). Quindi se tua madre, tuo fratello, tuo nonno ti versano periodicamente somme in regalo, non devi pagare imposte su di esse né dichiararle come reddito. Però, in caso di controllo, dovrai provare che erano donazioni. Il Fisco di solito è abbastanza scettico di fronte a giustificazioni di comodo come “me li ha dati papà”: servirebbe almeno una conferma scritta dal familiare. Ancora meglio se si tratta di somme importanti, sarebbe opportuno fare un atto di donazione (oltre 3.000€ teoricamente andrebbe pure registrato per legge, ma tra parenti stretti c’è franchigia alta per imposta donazione). In mancanza, la difesa punterà sulla ovvia natura familiare (es. bonifico con causale “regalo”) e sulla capacità finanziaria del donante (se tuo padre pensionato minimo ti “regala” 10.000€, sarà poco credibile; se è benestante e fa spesso regali ai figli, più credibile). In sintesi: regali e aiuti di famiglia non sono tassati, ma vanno spiegati con trasparenza all’occorrenza.

D5: E se i soldi accreditati su carta derivano da un prestito che mi hanno fatto?
Anche la somma ricevuta a titolo di prestito non è un reddito per chi la riceve (perché dovrà restituirla, non arricchisce il patrimonio in via definitiva). Tuttavia, è fondamentale che il prestito sia documentato. La soluzione ideale è stipulare una scrittura privata di prestito tra le parti, con data certa (registro mail PEC o scrittura registrata all’Agenzia Entrate con imposta di registro fissa 200€ se l’importo è rilevante). Se al momento non l’avevate, cercate di procurarvi almeno una dichiarazione del soggetto finanziatore in cui conferma l’avvenuto prestito, e magari prova del trasferimento originario di denaro da lui a voi. Il Fisco tende a vedere di cattivo occhio la giustificazione “era un prestito” se non c’è traccia di successiva restituzione. Quindi tenete presente: se difendete un accredito dicendo che era un prestito da Tizio, l’ufficio potrebbe chiedere “ok, ma poi l’hai restituito?”. Se non c’è alcuna restituzione, potrebbe insinuare che non fosse prestito ma ricavo. Nulla vieta i prestiti infruttiferi a tempo indeterminato (tra privati ci si presta soldi anche restituibili dopo anni), ma per risultare credibili dovreste almeno avere qualche riscontro, tipo: in seguito avete restituito una parte, oppure avete una promessa scritta di restituzione futura. In tribunale, testimonianze e documenti dovrebbero corroborare che quell’accredito non era un corrispettivo per servizi ma un mutuo.

D6: Ho venduto il mio scooter usato e mi hanno pagato su carta: quell’importo è tassabile?
La vendita occasionale di un bene personale usato non genera reddito imponibile, poiché si presume che avvenga normalmente a valore inferiore al prezzo d’acquisto (quindi senza plusvalore). Anche se ci fosse un piccolo guadagno, la legge esenta le plusvalenze su beni mobili detenuti da oltre 5 anni (e comunque la vendita di beni d’uso non è un’attività reddituale tassabile). Pertanto, se hai venduto il tuo veicolo, smartphone, mobili di casa, collezioni ecc., gli accrediti relativi non costituiscono reddito. Naturalmente, in caso di controllo devi spiegare la natura: se risulta un bonifico di 2.000€ da un estraneo, potrai dire che era il prezzo di vendita del tuo scooter, magari esibendo il passaggio di proprietà e il relativo prezzo. Finché queste vendite sono occasionali, non c’è problema. Se però uno compra e rivende oggetti abitualmente per lucro (es. compri rottami, li ripari e li vendi su eBay in modo seriale), quello diventa commercio abituale e andrebbe dichiarato come reddito d’impresa. Ma il semplice privato che dismette i propri beni no, non deve nulla.

D7: Uso la carta prepagata per la mia attività professionale, anziché un conto business: posso farlo e cosa rischio?
In linea di principio, un lavoratore autonomo o imprenditore dovrebbe separare i conti personali da quelli dell’attività. Non c’è un obbligo di legge stringente (a parte società e ditte con contabilità ordinaria che devono tenere conti dedicati), ma mescolare le finanze complica sia a te la gestione sia al fisco i controlli. Usare una carta prepagata personale per incassare compensi professionali non è vietato, ma comporta che tutti quei movimenti verranno analizzati in caso di verifica. Rischi in sé non ce ne sono, purché dichiari ogni entrata. Se lo fai per nascondere parte dei ricavi (come certi casi detti sopra), rischi gli accertamenti e le sanzioni relative all’evasione. Legalmente, l’Agenzia Entrate non può contestarti solo il fatto di usare una carta personale: contesterà il non aver dichiarato i redditi transitati lì sopra. Tieni a mente che i controlli in caso di verifica sono anche più scomodi: se su quella carta hai pure spese personali, prelievi, ecc., potrebbero chiederti conto di tutto. Ad esempio, molti professionisti forfettari incassano su prepagata e prelevano contanti per pagare spese: se arriva un controllo anti-evasione, possono guardare anche i prelievi e chiederti perché hai prelevato tot – non per tassarlo, ma per vedere se stai pagando costi in nero (nel caso di imprese). Quindi, meglio trasparenza: se usi la prepagata, scarica sempre l’estratto e riconcilia ogni entrata con fatture o causali note. Così, alla domanda del Fisco saprai rispondere prontamente.

D8: Una carta prepagata estera (tipo Revolut con IBAN LT) è più sicura da controlli/pignoramenti?
Alcuni cercano di aprire conti o carte all’estero pensando di sfuggire al radar. Revolut, N26, TransferWise: oggi molte di queste fintech hanno però sede in UE e accordi di cooperazione con l’Italia. Ad esempio N26 ha anche filiale italiana e comunica i rapporti all’anagrafe; Revolut e Wise forniscono dati aggregati alle autorità su richiesta. Non è garantito che il Fisco vi scopra, ma nemmeno da escludere. Ai fini fiscali, poi, se porti capitali all’estero devi dichiararli in RW se superi €15.000. Se non lo fai, commetti violazione. Quanto ai pignoramenti, l’AER normalmente non arriva a notificare all’estero per piccoli importi. Ma per grandi crediti può attivare procedura europea di congelamento conti (regolamento UE n.655/2014) o rogatorie. Insomma, non è un porto sicuro come si pensa. Inoltre, in caso di autoriciclaggio, movimentare capitali evasi oltreconfine è un’aggravante ovvia. Quindi, non fate affidamento sull’estero come scudo. Può dare un vantaggio temporale (più difficile e costoso per i creditori agire fuori), ma la posizione fiscale e legale si aggrava.

D9: Ho ricevuto una cartella esattoriale per imposte su redditi in nero calcolati dall’Agenzia tramite controlli sui conti. Posso oppormi?
Sì, se ritieni che l’accertamento originario fosse errato e non sei riuscito a contestarlo in tempo (magari per vizi di notifica), puoi fare opposizione alla cartella eccependo la nullità dell’atto presupposto. Attenzione: la cartella è titolo esecutivo, va impugnata entro 60 giorni dalla notifica dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria contestando i motivi di merito (il fatto che quei redditi non c’erano, che la presunzione è stata usata male, ecc.). Se il termine è scaduto, la cartella diventa definitiva e resta solo la via dell’autotutela (chiedere all’Agenzia di annullare se errore palese) o della rateazione per diluire. In alcuni casi estremi, se non hai impugnato perché non sapevi (vizi di notifica), puoi tentare un ricorso tardivo o un’annullamento per nullità radicale, ma sono eccezioni. Quindi, appena ricevi cartella su materia del genere, corri dal tributarista per valutare l’impugnazione. Non è consigliabile aspettare il pignoramento e poi opporsi all’esecuzione: in materia tributaria, l’opposizione esecuzione è molto limitata (non puoi rimettere in discussione il merito se gli atti sono definitivi). Quindi agisci prima.

D10: Cosa succede se non pago quanto accertato e tengo i soldi sulla prepagata?
Come già spiegato, se non paghi volontariamente, scatta la riscossione coattiva. Le somme sulla prepagata verranno verosimilmente pignorate . Inoltre, se l’importo è rilevante e sembra che tu volutamente non paghi pur avendo le disponibilità, potresti incorrere nel reato di sottrazione fraudolenta (ad esempio se tenti di spostare quei soldi altrove per non farli prendere). Quindi, non pagare e lasciare i soldi lì è una strategia perdente: tanto vale usarli per rateizzare o soddisfare il debito in parte, piuttosto che farteli bloccare tutti insieme. Aggiungo: durante il contenzioso col fisco, se tieni molti soldi su conti e carte, l’Agenzia può chiedere al giudice tributario misure cautelari (fermi, ipoteche) o il sequestro preventivo per equivalente (in sede penale). Dunque avere liquidità “visibile” e non ottemperare espone ad azioni aggressive. Valuta seriamente un accordo di pagamento.

Abbiamo affrontato molte questioni, ma è normale che ogni caso concreto possa presentare ulteriori dubbi. In generale, informarsi e agire per tempo è la miglior difesa: appena sorgono contestazioni, muoversi con un professionista, non aspettare passivamente.

Conclusioni

Gli accrediti su carte prepagate contestati come redditi rappresentano una frontiera attuale dell’attività di controllo fiscale. Quello che un tempo era visto come un espediente per eludere il fisco (far transitare incassi “opachi” su strumenti alternativi al conto bancario) oggi è in gran parte neutralizzato dagli strumenti normativi e tecnologici a disposizione dell’Amministrazione finanziaria . Dal punto di vista del contribuente, la difesa è possibile e sono stati delineati vari strumenti: dalle eccezioni giuridiche (come la non tassabilità dei trasferimenti interni o il riconoscimento dei costi impliciti ), alla produzione di prove documentali per giustificare la natura non reddituale di certi movimenti, fino agli istituti deflattivi e alle attenuanti in sede penale.

Per avvocati e consulenti che assistono i contribuenti, è importante conoscere le più recenti pronunce (Cass. 2025 n.23741 sul principio di capacità contributiva , Corte Cost. 2023 n.10 sulla presunzione di prelevamenti , Cass. 2017 n.9657 sul valore neutro dei giroconti , ecc.) e saperle utilizzare a fondamento delle tesi difensive. Allo stesso tempo, occorre una comprensione trasversale: le questioni fiscali possono intrecciarsi a quelle contributive (INPS) e a quelle penali, e una soluzione negoziale complessiva talvolta è preferibile (es. transazione fiscale, definizione delle sanzioni lavoro e oblazione dei reati minori, ecc.).

Per privati e imprenditori che si trovino dall’altra parte del tavolo – ovvero sotto verifica – il messaggio che emerge è duplice: da un lato conviene prevenire queste situazioni (dichiarando correttamente i redditi, mantenendo tracciabilità, evitando di ingenerare sospetti con movimenti anomali); dall’altro, se la contestazione arriva, non disperare ma attivarsi con competenza. Molti accertamenti bancari “a tavolino” dell’Agenzia delle Entrate possono essere ridimensionati o annullati in contenzioso quando il contribuente fornisce spiegazioni valide e supportate da prove . Le presunzioni fiscali, per quanto stringenti, non sono assolute: il contribuente conservi documenti, mantenga memorie dei propri affari, così da poterle vincere se necessario.

Infine, un’ultima riflessione sul punto di vista del debitore. Chi si vede etichettare come “evasore” per somme transitate su una carta prepagata potrebbe sentirsi vittima di un equivoco (es. “ma erano soldi di famiglia, non un reddito!”). È compito del suo difensore far emergere la verità sostanziale, perché l’Amministrazione spesso parte da un semplice assunto numerico (entrate=ricavi) che va calato nel contesto. La legge e la giurisprudenza offrono gli strumenti per farlo valere, come abbiamo visto ampiamente. Conoscere i propri diritti – il diritto di prova contraria, il diritto al contraddittorio, il diritto alla proporzionalità delle sanzioni – è fondamentale tanto quanto adempiere ai propri doveri fiscali. Questa guida, con oltre 10.000 parole di approfondimento, mira proprio a fornire quella conoscenza integrata che consenta a ciascuno (professionista o contribuente) di orientarsi e difendersi adeguatamente in materia di accrediti su carte prepagate contestati come redditi.

Fonti: Corte di Cassazione, sent. civ. n. 9657/2017 ; Corte di Cassazione, ord. civ. n. 23741/2025 ; Corte Costituzionale, sent. n. 10/2023 ; Banka Digitale, “Le carte prepagate vanno dichiarate al Fisco?” ; Rexpira, “Le carte prepagate sono pignorabili?” ; GdF Merano, operazione 2021 (fonte Alto Adige) ; Cass. pen. sez. II, 22/01/2021 n.2715 (riciclaggio tramite carte prepagate) ; Cass. pen. sez. III, 25/03/2021 n.11986 (autoriciclaggio e soglia evasione) ; D.Lgs. 74/2000 artt.4-5 (come modificati da DL 138/2011 e DL 124/2019) . (Tutti i riferimenti normativi e giurisprudenziali sono aggiornati ad agosto 2025.)

  • CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 aprile 2017, n. 9657 – Verifica fiscale – Professionista – Accertamento bancario – Giroconti bancari effettuati da un conto corrente del contribuente, cointestato alla convivente, ad altro conto dal medesimo utilizzato a fini professionali – Operazioni neutre
  • Cassazione penale Sez. II sentenza n. 2715 del 22 gennaio 2021

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati gli accrediti su carte prepagate (es. PostePay, carte ricaricabili bancarie) come se fossero redditi non dichiarati?
Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati gli accrediti su carte prepagate (es. PostePay, carte ricaricabili bancarie) come se fossero redditi non dichiarati?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

Il Fisco può accedere ai dati bancari e considerare gli accrediti sulle carte prepagate come redditi imponibili, se non sei in grado di dimostrarne la reale provenienza. Tuttavia, non sempre gli accrediti sono redditi: spesso si tratta di trasferimenti familiari, rimborsi, prestiti o risparmi già tassati.

👉 Prima regola: dimostra sempre l’origine delle somme accreditate, con documenti chiari e tracciabili.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Accrediti regolari su carte prepagate senza giustificazione apparente;
  • Movimenti considerati incoerenti con il reddito dichiarato;
  • Versamenti in contanti di cui non è provata la provenienza;
  • Accrediti da terzi (amici, parenti, società) privi di giustificativo;
  • Sospetto di redditi da lavoro in nero o da attività non dichiarate.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Recupero delle imposte su somme qualificate come redditi;
  • Applicazione di sanzioni per evasione o infedele dichiarazione;
  • Interessi di mora;
  • Rischio di ulteriori indagini patrimoniali e fiscali (conti correnti, investimenti, immobili).

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Origine delle somme: prestiti, donazioni, rimborsi spese, risparmi personali già tassati?
  • Documentazione bancaria: esistono bonifici, assegni, ricevute che provano la provenienza?
  • Congruità con il reddito dichiarato: le somme sono coerenti con la tua situazione economica?
  • Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia deve spiegare su quali elementi si fonda la presunta evasione;
  • Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Estratti conto della carta prepagata;
  • Bonifici e ricevute di versamento con indicazione della causale;
  • Contratti di prestito o dichiarazioni di donazione;
  • Documenti che provano rimborsi o trasferimenti familiari;
  • Dichiarazioni dei redditi e buste paga che dimostrino risparmi accumulati.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare che gli accrediti non sono redditi, ma somme già tassate o non imponibili (es. donazioni, prestiti, risparmi);
  • Contestare errori dell’Agenzia nell’interpretazione dei movimenti bancari;
  • Eccepire vizi dell’atto: notifica irregolare, carenza di motivazione, decadenza dei termini;
  • Richiedere autotutela se la contestazione è palesemente infondata;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni, con richiesta di sospensione cautelare;
  • Mediazione tributaria (quando prevista) per ridurre sanzioni e interessi.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza i movimenti contestati e la documentazione disponibile;
📌 Verifica la legittimità della qualificazione fiscale degli accrediti;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per evitare che vengano tassate somme non imponibili;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce strategie preventive per gestire in sicurezza i flussi su carte e conti.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in accertamenti bancari e contestazioni su movimenti finanziari;
✔️ Specializzato in difesa dei contribuenti contro presunti redditi non dichiarati;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sugli accrediti su carte prepagate non sempre sono fondate: non ogni versamento costituisce reddito imponibile.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la vera natura delle somme, evitare la tassazione indebita e proteggere il tuo patrimonio.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sugli accrediti su carte prepagate inizia qui.

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Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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