Plusvalenza Immobiliare Contestata Su Vendita Entro 5 Anni: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché hai venduto un immobile entro 5 anni dall’acquisto e ti viene richiesto di pagare l’imposta sulla plusvalenza? In questi casi l’Ufficio presume che il guadagno sia imponibile come reddito diverso e può emettere un avviso di accertamento con sanzioni e interessi. Tuttavia, la tassazione non è sempre dovuta: esistono eccezioni e strumenti di difesa che possono evitare pagamenti ingiusti.

Quando la plusvalenza è soggetta a tassazione
– Se l’immobile è stato venduto entro 5 anni dall’acquisto o dalla costruzione
– Se dalla vendita è derivato un guadagno (differenza positiva tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto o costruzione)
– Se l’immobile non è stato adibito ad abitazione principale del venditore o dei suoi familiari per la maggior parte del tempo tra acquisto e vendita
– Se non si tratta di immobile acquisito per successione (esente da imposta sulla plusvalenza)

Conseguenze della contestazione
– Richiesta di pagamento dell’imposta sulla plusvalenza come reddito diverso
– Applicazione di sanzioni per omessa o infedele dichiarazione dei redditi
– Calcolo di interessi di mora dalla data in cui l’imposta sarebbe stata dovuta
– Possibile avvio di procedure esecutive in caso di mancato pagamento

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare che l’immobile è stato adibito ad abitazione principale per la maggior parte del periodo tra acquisto e vendita
– Provare che la vendita è avvenuta dopo più di 5 anni, contestando eventuali errori di calcolo
– Far valere l’esenzione prevista in caso di immobile ricevuto per successione
– Contestare il calcolo della plusvalenza, includendo spese di ristrutturazione, costi notarili e oneri accessori non considerati dall’Agenzia
– Evidenziare vizi di notifica o decadenza dei termini nell’atto di accertamento
– Presentare ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la compravendita e la documentazione fiscale collegata
– Verificare la corretta applicazione delle norme sulla tassazione delle plusvalenze immobiliari
– Redigere un ricorso mirato su vizi formali e sostanziali dell’accertamento
– Contestare le presunzioni dell’Agenzia delle Entrate e dimostrare l’esistenza di esenzioni
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari e proteggere il suo patrimonio da pretese ingiuste

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento del diritto all’esenzione dall’imposta in base ai casi previsti dalla legge
– La sospensione di eventuali procedure esecutive già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto, evitando imposizioni indebite

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce in tempo, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e immobiliare – spiega come difendersi in caso di contestazione sulla plusvalenza immobiliare e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione alla plusvalenza immobiliare infraquinquennale

Quando un privato vende un immobile (casa, terreno, ecc.) a un prezzo superiore a quello di acquisto, realizza una plusvalenza immobiliare. Ai fini fiscali italiani, tale plusvalenza – in determinate circostanze – costituisce un reddito imponibile classificato come “reddito diverso” (art. 67, comma 1, lett. b, del TUIR) . In altre parole, lo Stato considera questo guadagno alla stregua di un reddito non derivante da lavoro o capitale, e quindi lo assoggetta a tassazione .

La normativa vigente (aggiornata ad agosto 2025) prevede che la vendita a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni produca una plusvalenza tassabile come reddito diverso . È importante sottolineare che per le vendite infraquinquennali (cioè entro 5 anni dall’acquisto o costruzione) la legge presuppone in via assoluta un intento speculativo: il legislatore presume che chi rivende un immobile entro un quinquennio lo faccia con finalità di lucro, a prescindere dalle intenzioni soggettive del venditore . La Corte di Cassazione ha confermato nel 2025 che questa è una presunzione legale assoluta, non superabile provando una mancanza di volontà speculativa da parte del cedente . In pratica, non rileva che il contribuente avesse o meno un intento speculativo al momento della vendita: se la cessione avviene entro cinque anni dall’acquisto (e non ricorre alcuna causa di esclusione), la plusvalenza è tassabile per legge .

Dal punto di vista del contribuente-venditore (spesso indicato come “debitore” nel contesto del rapporto col Fisco, poiché debitore d’imposta), ciò significa che una vendita infraquinquennale può essere oggetto di accertamento fiscale. L’Agenzia delle Entrate potrebbe contestare il mancato pagamento dell’imposta sulla plusvalenza se ritiene che il contribuente non abbia dichiarato tale reddito o non abbia rispettato i requisiti per un’esenzione. Questa guida – di taglio avanzato e aggiornata alle più recenti normative e sentenze (fino al 2025) – fornirà un’analisi dettagliata della plusvalenza immobiliare infraquinquennale e soprattutto spiegherà come difendersi in caso di contestazione fiscale, dal punto di vista del contribuente. Verranno esaminati la normativa italiana rilevante, i casi di esclusione (prima casa, successione, ecc.), le modalità di calcolo e tassazione, le ultime novità legislative (come l’estensione decennale per immobili ristrutturati con Superbonus) e la giurisprudenza più autorevole. Inoltre, saranno presentate tabelle riepilogativesimulazioni pratiche di calcolo e una sezione di Domande & Risposte, con esempi di possibili difese e richiami a modelli di atti difensivi in ambito tributario. Il linguaggio sarà tecnico-giuridico ma con intento divulgativo, adatto sia a professionisti (avvocati, commercialisti) sia a privati cittadini e imprenditori che desiderino comprendere a fondo la materia.

In sintesi iniziale, si ricordi che la plusvalenza immobiliare è tassabile solo in determinate condizioni. Non tutte le vendite entro 5 anni generano tasse: la legge esenta infatti alcune situazioni (le vedremo dettagliatamente più avanti). Tuttavia, quando la plusvalenza è “contestata” dal Fisco – ossia quando l’Agenzia notifica un avviso di accertamento ritenendo dovute imposte su quella vendita – occorre saper valutare se l’imposta sia effettivamente dovuta e, in caso contrario, come opporsi. Nei paragrafi successivi partiremo dalle basi (definizione di plusvalenza e relativa tassazione), per poi approfondire i casi pratici di esclusione, le strategie difensive e gli strumenti processuali a disposizione del contribuente.

Riferimenti normativi di base (TUIR art. 67 e 68)

Per inquadrare correttamente l’argomento, è fondamentale partire dai riferimenti normativi cardine nel TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi, D.P.R. 917/1986):

  • Art. 67, comma 1, lett. b) – Include tra i redditi diversi “le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni”. La norma esclude espressamente da tale imposizione (i) gli immobili acquisiti per successione ereditaria e (ii) le unità immobiliari urbane che, per la maggior parte del periodo tra acquisto (o costruzione) e cessione, sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari . Questa disposizione è il fulcro della materia: in assenza di esimenti, la vendita infraquinquennale di un immobile genera plusvalenza imponibile IRPEF. Al contrario, vendite oltre il quinquennio o vendite infraquinquennali di immobili ereditati o adibiti ad abitazione principale rientrano nelle esclusioni (non tassabili). Più avanti analizzeremo nel dettaglio queste eccezioni.
  • Art. 68, comma 1 – Definisce il criterio di calcolo della plusvalenza tassabile, stabilendo che essa è pari alla differenza tra corrispettivo percepito (prezzo di vendita) e costo di acquisto del bene aumentato di ogni altro costo inerente al bene stesso. In pratica: Plusvalenza = Prezzo di vendita – (Prezzo/costo di acquisto + spese incrementative e altri costi inerenti) . La norma consente inoltre di rivalutare il costo di acquisto originario secondo gli indici ISTAT di inflazione, così da tenere conto (in misura limitata) dell’erosione monetaria . Esamineremo in seguito come determinare concretamente il costo fiscalmente riconosciuto includendo ad esempio imposte pagate, oneri notarili, spese di agenzia immobiliare, lavori di ristrutturazione, ecc. .
  • Art. 67, comma 1, lett. b-bis) – (Novità introdotta dal 2024) Questa disposizione, aggiunta con la Legge di Bilancio 2024, riguarda le cosiddette “plusvalenze da Superbonus”. Essa estende l’ambito delle plusvalenze tassabili includendovi le cessioni di immobili sulle quali siano stati effettuati interventi edilizi agevolati con Superbonus, qualora la vendita avvenga entro 10 anni dalla conclusione dei lavori agevolati . Approfondiremo la disciplina specifica più avanti (§ Plusvalenze e Superbonus), ma anticipiamo che la logica del legislatore è di prevenire la rivendita speculativa di immobili ristrutturati con consistenti incentivi fiscali, allungando il periodo di sorveglianza a dieci anni (anziché cinque). Anche in questo caso permangono però cause di esclusione analoghe (abitazione principale e successione, in primis).
  • Art. 67, comma 1, lett. h) – Da citare per completezza: questa lettera comprende tra i redditi diversi i proventi derivanti dalla costituzione di diritti reali di godimento su immobili (es. la concessione di usufrutto, uso, abitazione su un immobile di proprietà). Dal 2024, la legge chiarisce che la costituzione di un diritto reale parziale (come l’usufrutto) è tassabile come reddito diverso indipendentemente dal periodo di possesso dell’immobile . Ciò significa, ad esempio, che se un proprietario concede in usufrutto la propria casa a terzi in cambio di un corrispettivo, tale somma è tassata come reddito diverso (anche se la casa era posseduta da oltre 5 anni). Questa previsione è distinta dalla plusvalenza da cessione integrale dell’immobile (che resta invece soggetta al regime dei 5 o 10 anni a seconda dei casi) . Tale distinzione potrebbe rilevare in alcune operazioni di pianificazione immobiliare; tuttavia, nel prosieguo ci concentreremo sulle cessioni a titolo oneroso di interi immobili o quote di essi (fattispecie rientranti nella lettera b).

Riassumendo le regole generali:

  • Vendita di un immobile da parte di persona fisica entro 5 anni dall’acquisto/costruzione: plusvalenza tassabile (salvo eccezioni di esenzione).
  • Vendita di un immobile dopo 5 anninessuna tassazione sulla plusvalenza (il reddito è esente) .
  • Eccezioni principali che evitano la tassazione, anche se la vendita è infraquinquennale:
  • Immobile acquisito per successione ereditaria (eredità) .
  • Immobile adibito ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari per la maggior parte del periodo di possesso .
  • Caso particolare – Immobili ristrutturati con Superbonus: vendite entro 10 anni dalla fine lavori generano plusvalenza tassabile (salvo abitazione principale o successione), secondo la normativa introdotta nel 2024 (art. 67, co.1, lett. b-bis TUIR).

Nel prossimo capitolo esamineremo in dettaglio come si calcola la plusvalenza e quali costi possono esservi sottratti, prima di affrontare i singoli casi di esenzione e le situazioni particolari (donazione, prima casa, terreni, ecc.). Successivamente, passeremo all’analisi di come difendersi in caso di contestazione: strategie difensive, prove da fornire, giurisprudenza favorevole, aspetti procedurali (termini di accertamento, ricorso tributario, ecc.).

Calcolo della plusvalenza imponibile: prezzo di vendita, costo d’acquisto e costi deducibili

Come determinare l’importo della plusvalenza? In termini generali, lo abbiamo anticipato: la plusvalenza è la differenza tra il prezzo (corrispettivo) di vendita dell’immobile e il costo di acquisto aumentato degli oneri inerenti sostenuti dal venditore . Approfondiamo i singoli elementi di questa formula:

  • Prezzo di vendita: è il corrispettivo a titolo oneroso che il venditore percepisce per la cessione. Può includere somme in denaro e/o il valore di eventuali beni ricevuti in permuta. È fondamentale che in sede di atto notarile il prezzo sia dichiarato correttamente; ricordiamo infatti che, per legge, negli atti immobiliari va indicato l’effettivo importo pattuito, pena pesanti sanzioni e nullità relative (misure anti-evasione introdotte già dal 2006). In caso di contestazioni, l’Amministrazione finanziaria può ritenere che il prezzo effettivo sia stato superiore a quello dichiarato e accertare una plusvalenza maggiore, ma – come vedremo in seguito – non può basarsi su semplici valori statistici di mercato per rettificare il prezzo: servono prove concrete (ad esempio differenze ingiustificate tra importo del mutuo ottenuto e prezzo dichiarato, pagamenti non giustificati, ecc.). Numerose sentenze di Cassazione hanno infatti stabilito che i cosiddetti valori OMI (valori immobiliari medi di zona) hanno solo carattere di presunzione semplice e, da soli, non legittimano un accertamento di maggior valore senza ulteriori riscontri . Su questo punto torneremo nella sezione dedicata alla difesa contro gli accertamenti.
  • Costo di acquisto: comprende l’esborso originario sostenuto dal contribuente per acquisire l’immobile. Se l’immobile è stato comprato a titolo oneroso, il costo è tipicamente il prezzo di acquisto risultante dall’atto notarile di compravendita originaria. Se invece l’immobile è stato costruito dal contribuente, il costo consisterà nelle spese di costruzione (costo del terreno – se acquistato – più costi di costruzione, appalti, materiali, progettazione, concessioni edilizie, etc.). In caso di acquisto a titolo diverso (es. acquisizione gratuita), vanno fatte delle precisazioni che tratteremo in seguito (ad esempio, per immobili ricevuti in donazione il costo iniziale è quello che era stato sostenuto dal donante ). Per immobili acquisiti per usucapione, come vedremo, in realtà non c’è alcun costo di acquisto e la prassi fiscale li esclude dal campo di tassazione (manca un acquisto oneroso). In ogni caso, al costo base vanno aggiunti i cosiddetti costi inerenti.
  • Costi inerenti il bene: l’art. 68 TUIR consente di sommare al costo di acquisto “ogni altro costo inerente al bene” prima di calcolare la plusvalenza . Ciò significa che il contribuente può (e deve) tener conto di tutte le spese che hanno incrementato il valore dell’immobile o che sono state necessarie per il suo acquisto. Alcuni esempi di costi inerenti deducibili:
  • le imposte pagate in sede di acquisto (imposta di registro, IVA, imposta ipotecaria e catastale) ;
  • l’onorario notarile dell’atto di acquisto e le eventuali spese di agenzia immobiliare o intermediazione ;
  • le spese di manutenzione straordinaria e ristrutturazione documentate, che abbiano aumentato il valore dell’immobile . Su questo punto occorre che siano spese capitalizzabili (es. rifacimento del tetto, installazione di impianti nuovi, ampliamenti, ecc.), mentre la manutenzione ordinaria di solito non è considerata incremento di costo ai fini del calcolo della plusvalenza;
  • altri oneri connessi all’acquisizione o vendita se rimasti a carico del venditore (es. penali pagate per estinzione anticipata di mutuo ipotecario sull’immobile, se contrattualmente a carico del venditore).

Nota: Spese che hanno già goduto di una detrazione fiscale (es. detrazioni per ristrutturazione edilizia al 50% o ecobonus) in linea di principio possono comunque essere sommate al costo ai fini del calcolo della plusvalenza (non vi è una norma che lo impedisca, in quanto la detrazione fiscale è un beneficio separato). Invece, non sono deducibili eventuali oneri non inerenti al bene (es. interessi passivi del mutuo prima casa, che sono oneri detraibili a parte ma non incrementano il valore dell’immobile). Conviene sempre, in sede di determinazione della plusvalenza, consultare un fiscalista per individuare tutti i costi incrementativi documentabili al fine di ridurre il reddito tassabile.

  • Indicizzazione ISTAT: come accennato, la normativa consente di rivalutare il costo di acquisto e i costi inerenti in base agli indici ISTAT dei prezzi al consumo, calcolando il coefficiente dal mese di acquisto al mese di vendita. Questo meccanismo (residuale, introdotto in passato in epoche d’inflazione più significativa) aumenta leggermente il valore del costo fiscalmente riconosciuto, riducendo la plusvalenza nominale per tenere conto dell’inflazione. Ad esempio, se un immobile fu acquistato 4 anni fa a 100.000 € e in tal periodo l’indice ISTAT è cresciuto del, poniamo, 8%, il costo indicizzato diventa 108.000 € ai fini del calcolo della plusvalenza. Di conseguenza, se rivendo a 130.000 €, la plusvalenza imponibile sarà 130.000 – 108.000 = 22.000 € anziché 130.000 – 100.000 = 30.000 €. È comunque un beneficio parziale. (Da notare che spesso, per vendite a breve distanza di tempo, l’effetto è minimo; mentre per vendite oltre i 4-5 anni l’indicizzazione può essere più incisiva, ma oltre i 5 anni di regola la plusvalenza non sarebbe tassata, quindi l’indicizzazione rileva soprattutto in quei casi particolari – es. vendite infraquinquennali di terreni edificabili, o nell’ambito del regime decennale post-Superbonus, ecc.).

Vediamo dunque un semplice esempio numerico di calcolo per chiarire:

Esempio di calcolo della plusvalenzaImporti (€)
Prezzo di acquisto (2019)150.000
Spese notarili acquisto4.000
Imposte acquisto (registro, ipotecaria, catastale)6.000
Totale costo di acquisto (sommando oneri)160.000
Lavori di ristrutturazione (2020-2021)15.000
Costo totale rivalutato (ipotizzando indice +5% in 4 anni sul totale costi €175.000)183.750
Prezzo di vendita (2023)180.000
Plusvalenza nominale (vendita – costo totale non indicizzato: 180.000 – (160.000+15.000) = 5.000)5.000
Plusvalenza imponibile indicizzata (vendita – costo indicizzato: 180.000 – 183.750) = negativa → zero imponibile0

Nell’esempio, un immobile acquistato a 150.000 € + spese (totale costo 160.000 €) e rivenduto a 180.000 € genera una plusvalenza nominale di 20.000 €. Se però il venditore ha effettuato 15.000 € di ristrutturazioni, la plusvalenza si riduce a 5.000 € . Tenendo conto anche dell’inflazione (ipotesi 5% in 4 anni), il costo rivalutato (183.750 €) supera lievemente il prezzo di vendita, azzerando di fatto la plusvalenza imponibile.

Come si evince, documentare tutti i costi sostenuti è fondamentale: nel nostro esempio, senza considerare i lavori di ristrutturazione, la plusvalenza tassabile sarebbe stata 20.000 €; includendoli, scende a 5.000 € . Questa riduzione può significare un notevole risparmio d’imposta. Inoltre, l’indicizzazione ISTAT (quando applicabile) fornisce un ulteriore alleggerimento, sebbene spesso limitato.

Calcolo nelle fattispecie particolari: per completezza va detto che in casi particolari il calcolo del costo può richiedere adattamenti: – In caso di acquisto dell’immobile in valuta estera, i valori vanno convertiti in euro ai cambi dell’epoca di acquisto e vendita. – In caso di acquisizione per donazione o altri atti a titolo gratuito, il costo si “eredita” dal dante causa (come approfondiremo, es.: per un immobile donato, si usa il costo storico che aveva sostenuto il donante) . – In caso di acquisizione per successione ereditaria, generalmente non c’è un costo di acquisto rilevante ai fini IRPEF (l’acquisizione è a titolo gratuito originario), dunque per prassi l’Amministrazione esclude tali vendite dal campo di applicazione della plusvalenza tassabile . Se però l’erede ha sostenuto spese (ad es. debiti ereditari, o quote versate ad altri coeredi per ottenere l’immobile), quelle potrebbero costituire di fatto un costo d’acquisto, ma rientriamo in situazioni particolari. – In caso di usucapione, come vedremo, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che non c’è plusvalenza tassabile perché manca un acquisto a titolo oneroso . – In caso di consolidamento di usufrutto (nuda proprietà che si consolida in piena proprietà per decesso dell’usufruttuario), la Cassazione ha stabilito criteri ad hoc per determinare il valore iniziale: sostanzialmente, non si aggiunge alcun costo per l’usufrutto “riscattato” gratuitamente, ma si considera solo il costo originario d’acquisto della nuda proprietà (eventualmente riferito ai valori catastali) . Ciò comporta che tutta la differenza di valore emersa alla vendita sarà tassata come plusvalenza, senza riconoscere un “credito” per il valore dell’usufrutto che si è acquisito per evento naturale. Questo aspetto di nicchia rileva per chi, ad esempio, ha acquistato una nuda proprietà e, una volta divenuto pieno proprietario, rivende entro 5 anni dall’acquisto originario: il fisco considererà il suo costo di acquisto pari al prezzo pagato per la nuda proprietà (senza aumenti per l’usufrutto maturato) . Approfondiremo più avanti il tema con riferimento alle pronunce recenti.

Regimi di tassazione della plusvalenza: IRPEF ordinaria vs imposta sostitutiva

Una volta determinata l’eventuale plusvalenza imponibile, il contribuente deve capire come verrà tassata. La normativa offre due possibili regimi alternativi: 1. Tassazione ordinaria IRPEF – la plusvalenza viene sommata agli altri redditi del contribuente nell’anno (come “reddito diverso”) e tassata secondo gli scaglioni IRPEF progressivi . Attualmente (dal 2022) gli scaglioni IRPEF per le persone fisiche sono: 23% fino a 15.000 €; 25% da 15.001 a 28.000; 35% da 28.001 a 50.000; 43% oltre 50.000 (per il 2024 in avanti alcune aliquote sono state leggermente modificate, es. 23% fino a 28.000 €, 33% oltre 50.000 € – le fasce possono cambiare, ma i principi restano analoghi). La plusvalenza così tassata segue le regole IRPEF: può godere di detrazioni per carichi di famiglia, deduzioni, ecc., e l’eventuale imposta va liquidata in dichiarazione dei redditi (pagamento a giugno-luglio dell’anno seguente, con possibilità di rateizzare) .

  1. Tassazione separata con imposta sostitutiva – il contribuente può optare, al momento del rogito notarile, per pagare un’imposta sostitutiva fissa sulla plusvalenza, con aliquota 26% (dal 2019 in poi; in passato era 20%, ma attualmente è stata uniformata al 26%) . Questa scelta va comunicata al notaio al momento della vendita, il quale funge da sostituto d’imposta: calcola la plusvalenza su dichiarazioni del venditore circa i costi, incassa il 26% relativo e lo versa al Fisco entro 30 giorni dalla stipula . Optando per l’imposta sostitutiva, la plusvalenza non andrà indicata in dichiarazione e non sconterà gli scaglioni IRPEF. È una tassazione cedolare, definitiva.

Quale regime conviene? Dipende dalla situazione personale del contribuente e dall’ammontare della plusvalenza: – Il vantaggio dell’IRPEF ordinaria è che, se il contribuente ha redditi molto bassi o ha molte deduzioni/detrazioni, l’aliquota effettiva sulla plusvalenza potrebbe essere inferiore al 26%. Ad esempio, se un contribuente è nel primo scaglione IRPEF al 23% e la plusvalenza non lo fa salire di scaglione (caso di contribuente con reddito imponibile basso), pagherebbe il 23% su quella plusvalenza invece del 26%, con un risparmio. Anche chi riesce a far rientrare la plusvalenza all’interno di scaglioni medi potrebbe avere aliquota inferiore al 26%. – Il vantaggio dell’imposta sostitutiva 26% è la certezza e spesso la convenienza per i redditi medio-alti. Se il contribuente ha già altri redditi che lo collocano in scaglioni IRPEF elevati (35% o 43%), tassare la plusvalenza con l’IRPEF significherebbe pagarla a quelle aliquote marginali. Invece, col 26% fisso c’è un risparmio. Inoltre la sostitutiva consente di pagare subito al rogito evitando rischi di successive contestazioni (il Fisco di norma non effettua controlli successivi sul calcolo, dato che l’imposta è stata versata a monte).

Esempi concreti di confronto : – Contribuente con redditi da lavoro per 50.000 € annui realizza una plusvalenza di 10.000 €: in IRPEF ordinaria i 10.000 si collocherebbero oltre i 50k e verrebbero tassati al 43%, generando 4.300 € di imposta. Con la cedolare 26%, pagherebbe 2.600 €. Risparmio: 1.700 € scegliendo la sostitutiva . – Contribuente con redditi da lavoro per 20.000 € e plusvalenza 10.000 €: il suo reddito totale sarebbe 30.000 €, che (secondo gli scaglioni 2024) gli darebbe un’aliquota marginale del 25% sui redditi sopra 28.000 €. Quindi i 10.000 € di plusvalenza pagherebbero circa il 25% (2.500 €) in IRPEF. Con la cedolare 26% pagherebbe 2.600 €. In questo caso conviene di poco l’IRPEF ordinaria (risparmio ~100 €) . Con redditi ancora più bassi, il risparmio con IRPEF potrebbe essere maggiore (immaginiamo un pensionato con 15.000 € di reddito e 5.000 € di plusvalenza: i 5.000 sarebbero tassati al 23%, ossia 1.150 €, contro l’eventuale 1.300 € del 26% fisso).

In generale, possiamo dire: – Se il contribuente, aggiungendo la plusvalenza, resta in fascia IRPEF bassa (fino al 23-25%), la tassazione ordinaria può essere più conveniente del 26%. – Se il contribuente supera la fascia del 26% o comunque ha altri redditi consistenti, la tassazione separata conviene in termini di aliquota effettiva. – Altri fattori: scegliendo l’IRPEF ordinaria, la plusvalenza concorre al reddito complessivo e potrebbe far scattare aliquote più alte sugli ultimi euro guadagnati; inoltre può incidere su detrazioni decrescenti con il reddito (ad es. quella per lavoro dipendente o per pensione). Con la cedolare 26% invece la plusvalenza resta “fuori” dal reddito complessivo e non influenza queste grandezze. Dal lato opposto, però, versare subito la cedolare al rogito significa anticipare l’esborso (mentre con IRPEF si paga l’anno dopo). – Importante: la scelta della cedolare va fatta in sede di atto notarile. Se non si effettua l’opzione al momento del rogito, poi non è più possibile applicarla. In caso di dubbio, è preferibile decidere prima con consulenza di un esperto. È anche possibile che, in comproprietà, un venditore opti per la cedolare e un altro no, in base alle rispettive situazioni fiscali: la legge infatti consente che ciascun comproprietario scelga autonomamente il regime per la propria quota di plusvalenza .

Come si paga l’imposta?
– Se si è optato per l’imposta sostitutiva 26%, al momento del rogito il notaio calcolerà l’importo dovuto (26% sulla plusvalenza dichiarata dal venditore) e provvederà a versarlo all’Erario entro 30 giorni dall’atto . Il contribuente versa quindi tale somma al notaio (di solito viene trattenuta dal prezzo incassato o richiesta contestualmente). Il notaio invia un apposito modello all’Agenzia per dichiarare l’opzione esercitata . Non servirà indicare nulla nella dichiarazione dei redditi dell’anno. – Se si procede con tassazione IRPEF, il contribuente dovrà includere la plusvalenza nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno di vendita, compilando il Quadro D “Redditi diversi” (se Modello 730 o Redditi PF) . L’imposta sarà liquidata in sede di conguaglio dichiarativo. È consentito rateizzare l’importo dovuto (come per le altre imposte sui redditi). Conviene conservare tutta la documentazione dei costi inerenti dichiarati, in caso di future verifiche.

Attenzione alle sanzioni: se il contribuente non dichiara affatto una plusvalenza dovuta in dichiarazione (né ha pagato la cedolare), l’Agenzia potrà contestare l’omessa indicazione e chiedere l’IRPEF evasa più una sanzione per infedele dichiarazione (generalmente pari al 90% dell’imposta non versata, riducibile se si aderisce o ci sono attenuanti) oltre interessi. Se invece il contribuente ha dubbi sulla tassabilità (ad esempio ritiene che l’immobile fosse esente perché prima casa) e decide di non dichiarare nulla, ma il Fisco dovesse ritenere imponibile la plusvalenza, si ricadrebbe comunque in queste sanzioni. È pertanto importante, in caso di incertezza, valutare attentamente la situazione o eventualmente presentare un’istanza di interpello per sicurezza. Nel prosieguo parleremo di come difendersi in sede di accertamento, ma prevenire errori dichiarativi è sempre la miglior strategia.

Casi di esclusione dalla tassazione: quando la plusvalenza non è dovuta

La normativa italiana prevede alcune importanti eccezioni per le quali, pur vendendo un immobile entro 5 anni dall’acquisto, la plusvalenza non è imponibile. Tali esclusioni, già accennate, riguardano: – la vendita di immobili acquisiti per successione ereditaria; – la vendita di immobili adibiti ad abitazione principale per la maggior parte del periodo di possesso (del cedente o dei suoi familiari stretti); – la vendita (dal 2024) di immobili che hanno fruito del Superbonus, se l’immobile è stato adibito ad abitazione principale dopo i lavori (anche qui, quindi, l’abitazione principale funge da causa di esclusione) o se l’immobile perveniva da eredità; – la vendita di immobili acquisiti per usucapione (in base a prassi interpretativa); – la vendita di terreni non edificabili oltre 5 anni (in realtà rientra nella regola generale, ma si ricorda che i terreni edificabili fanno storia a sé, come vedremo).

Esaminiamo separatamente questi casi.

Immobili acquisiti per successione ereditaria (eredità)

Le plusvalenze realizzate con la vendita di beni immobili pervenuti per successione non sono soggette a tassazione, indipendentemente dal momento della rivendita . Questa esclusione è espressamente sancita dall’art. 67 del TUIR e riflette la logica che l’erede non ha “acquistato” l’immobile a titolo oneroso ma lo ha ricevuto mortis causa. Manca dunque quell’elemento speculativo (investimento e successiva rivendita) che la norma intende tassare .

In pratica: – Se Tizio eredita un appartamento dallo zio nel 2024 e lo rivende nel 2025 a 200.000 €, non deve alcuna imposta sulla plusvalenza (anche se tra acquisizione e vendita è passato solo 1 anno). Ciò a prescindere dall’uso che Tizio ha fatto dell’immobile (anche se l’ha tenuto sfitto o come seconda casa, non rileva: l’esenzione opera per il solo fatto che l’acquisizione è avvenuta per successione). – Se Caia eredita un terreno agricolo o edificabile e lo rivende dopo pochi mesi a un prezzo maggiore, non vi è tassazione (benché come vedremo, per i terreni edificabili normalmente non vi è scadenza quinquennale: ma l’eredità comunque la esclude, quindi anche se quell’area era edificabile, la vendita dall’erede non genera reddito diverso tassabile).

Va però chiarito un punto: l’esenzione riguarda la plusvalenza IRPEF nell’ambito redditi diversi. Ciò non significa che nell’eredità non ci siano altre imposte da considerare (es. imposta di successione, se dovuta, o imposte ipocatastali) né altre conseguenze fiscali. Ma ai fini IRPEF sulla rivendita, nessuna plusvalenza. L’Agenzia delle Entrate ha confermato più volte questa interpretazione. Ad esempio, in un caso particolare di immobile ereditato su cui erano stati realizzati lavori di Superbonus, è stato ribadito che la plusvalenza “da Superbonus” non scatta se l’immobile è stato acquisito per successione, anche qualora la vendita avvenga entro 10 anni (la norma b-bis esclude espressamente i beni acquisiti per successione) .

Difendersi in caso di accertamento: può succedere raramente che il Fisco, per errore o mancanza di informazioni, tenti di tassare una vendita ereditaria come plusvalenza. In tal caso, la difesa è semplice e “documentale”: sarà sufficiente dimostrare (con la dichiarazione di successione, l’atto di provenienza, ecc.) che il venditore aveva acquisito l’immobile per successione ereditaria. L’atto di acquisto infatti sarà una voltura ereditaria e non un rogito di compravendita. Già solo questo è sufficiente: l’operazione non rientra nel perimetro di legge. A supporto, si può citare l’art. 67 TUIR e magari qualche documento di prassi: ad esempio la Risoluzione AE n. 78/E/2003 ha chiarito che il caso di acquisto per usucapione (titolo originario, assimilabile sotto certi aspetti a una successione) non genera plusvalenza proprio perché manca un atto a titolo oneroso . Identico ragionamento vale per la successione mortis causa. In sede contenziosa, la controversia dovrebbe risolversi a favore del contribuente senza difficoltà.

Immobile adibito ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari

Questa è forse l’esenzione più rilevante in termini pratici: l’utilizzo abitativo principale. La norma esclude dalla tassazione le plusvalenze su immobili che, per la maggior parte del periodo tra l’acquisto (o costruzione) e la rivendita, siano stati adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari (rientranti nella nozione fiscale di familiare) .

Cosa si intende per abitazione principale ai fini fiscali? L’Amministrazione finanziaria la definisce come “quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente” , definizione in linea con quella di altre disposizioni fiscali (ad esempio per l’IMU o per la detrazione interessi mutuo). Non coincide necessariamente con la residenza anagrafica, anche se spesso quest’ultima è un indizio importante. Conta la dimora effettiva, continuativa.

In particolare, la Cassazione ha chiarito autorevolmente che ai fini dell’esenzione plusvalenza occorre guardare alla situazione di fatto, ossia all’effettiva destinazione dell’immobile ad uso abitativo principale, a prescindere dalle risultanze anagrafiche . Ciò significa che: – Il contribuente può avere diritto all’esenzione anche se non aveva spostato formalmente la residenza anagrafica nell’immobile, purché sia in grado di provare che di fatto vi abitava stabilmente . Ad esempio, Caio acquista casa in un Comune diverso da quello di residenza, senza trasferire la residenza anagrafica, ma vive prevalentemente lì (utenze attive, consumi, ecc.): se rivende entro 5 anni, potrà comunque rivendicare l’esenzione dimostrando che era la sua dimora principale . – Viceversa, non basta aver trasferito la residenza anagrafica nell’immobile per garantire l’esenzione, se poi emerga che non vi abitava realmente. La Cassazione ha affermato, ad esempio, che consumi modesti di utenze (luce, acqua, gas) costituiscono presunzione che l’immobile non fosse realmente abitato come principale, anche se la residenza vi risultava . L’Agenzia delle Entrate stessa, con Risoluzione n. 218/E/2008, ha elencato possibili prove a favore del contribuente: intestazione delle utenze domestiche a suo nome, consumi effettivi, utilizzo come domicilio per la corrispondenza, etc., come elementi oggettivi per dimostrare la dimora abituale . – “Maggior parte del periodo”: va calcolata in giorni (o mesi) la frazione di tempo in cui l’immobile è stato abitazione principale rispetto all’intero periodo tra acquisto e vendita. Se supera il 50%, la condizione è soddisfatta . Ad esempio: immobile posseduto per 4 anni (1460 giorni) – se vi ho abitato stabilmente per almeno 731 giorni (2 anni + 1 giorno), rientro nell’esenzione. Se solo per 1 anno, no. Se acquistato e rivenduto nel giro di 1 anno, avrei dovuto abitarvi almeno >6 mesi. – Familiari: l’abitazione può essere principale anche dei familiari del proprietario. La legge rinvia all’art. 5 TUIR per la definizione, che include coniuge (anche separato), figli (anche adottivi), genitori, generi/nuore, suoceri, fratelli e sorelle, nonni e nipoti (intesi come figli dei figli) . Quindi, se Tizio compra una casa dove va a vivere stabilmente suo figlio (o un genitore), quell’immobile è considerato abitazione principale del familiare e gode dell’esenzione fiscale sulla plusvalenza comunque. Attenzione: cugini, zii, ecc. non rientrano (parenti oltre il 3° grado esclusi). È irrilevante il regime patrimoniale: anche se coniuge separato vi abita, vale comunque .

Prova dell’utilizzo abitativo: in caso di contestazione con il Fisco, sarà cruciale per il contribuente poter dimostrare l’effettivo utilizzo. Come suggerito: – Bollette e consumi elevati di utenze (luce, gas, acqua, internet) intestate al contribuente e riferite a quell’immobile . – Documenti di corrispondenza inviati a quell’indirizzo (banca, assicurazioni, bollo auto, ecc.). – Iscrizione nelle liste elettorali o mediche di zona, scelta del medico di base nella ASL locale. – Testimonianze di vicini o portiere, se del caso (anche se le prove documentali sono preferibili). – Eventuale contratto di lavoro vicino a tale residenza (perché magari il soggetto ha cambiato casa per lavoro). – Se l’immobile era inizialmente locato a terzi e poi liberato per andarci ad abitare, provare la data di cessazione della locazione e l’immediata occupazione da parte del proprietario.

Attenzione ai casi particolari: – Se l’immobile era stato acquistato con le agevolazioni “prima casa” (imposta di registro ridotta) ma poi non è stato effettivamente adibito ad abitazione principale, la plusvalenza non beneficia di esenzione solo per il fatto di aver dichiarato l’intento “prima casa”. Ciò che conta è l’uso reale. Spesso c’è confusione su questo: l’agevolazione fiscale all’acquisto richiede di prendere la residenza nel Comune entro 18 mesi, ma la plusvalenza esente richiede l’abitazione principale effettiva. Si può avere il caso di chi acquista come prima casa (pagando imposte ridotte) e poi rivende entro 5 anni senza aver mai vissuto lì: in tal caso pagherà sia la differenza di imposta di registro (per decadenza dall’agevolazione se non ricompra un’altra prima casa entro il termine di legge) sia la plusvalenza tassata, perché non c’è abitazione principale. È quindi importante non confondere i due piani. – Se l’immobile è parzialmente utilizzato come abitazione principale (es. bifamiliare in parte abitata e in parte data in affitto), o se solo per una quota di proprietà è adibito a casa del proprietario (es. un comproprietario ci vive e l’altro no), la questione si complica. In genere si può sostenere l’esenzione pro-quota o pro-rata, ma non è esplicitamente normato. Una circolare ministeriale del 1986 ammetteva l’esenzione totale anche se l’utilizzo come abitazione principale era parziale (ad esempio per un immobile ad uso promiscuo abitazione/ufficio), purché prevalente. Ma serve cautela: prudenzialmente, in situazioni miste conviene consultarsi col Fisco tramite interpello.

Difendersi in caso di contestazione sulla abitazione principale: molti contenziosi tributari sulla plusvalenza riguardano proprio l’esenzione prima casa, negata dall’ufficio magari per mancanza di residenza anagrafica o per brevi periodi di effettiva occupazione. La strategia difensiva tipica consiste nel: – Produrre tutte le prove oggettive della dimora abituale, come discusso sopra. – Contestare l’eventuale impostazione dell’Ufficio che si basi solo sull’anagrafe: richiamare la giurisprudenza di Cassazione (es. Ord. Cass. n. 11786/2025 e n. 30180/2021) che dà prevalenza alla situazione di fatto . Ad esempio citare: “Ai fini dell’art. 67, co.1, lett. b) TUIR, rileva la situazione di fatto, anche prescindendo dalle risultanze anagrafiche” . – Se l’Ufficio porta indizi contrari (utenze basse, ecc.), fornire spiegazioni: es. consumi bassi perché l’immobile è piccolo e il contribuente single consumava poco, oppure perché trascorreva qualche weekend fuori ma restava la sua dimora principale. – Richiamare eventuali Risoluzioni dell’Agenzia che possano aiutare. La già citata Ris. 218/E/2008 affermava chiaramente che la residenza anagrafica diversa non preclude l’esenzione se c’è dimora abituale comprovata . Anche una Risoluzione più recente (153/2021, vedremo dopo) ribadisce l’importanza della destinazione di fatto. – Se la contestazione nasce da un periodo temporale di poco inferiore al 50%, valutare se vi siano margini per discutere il calcolo (ma su questo la legge è rigida: maggior parte significa >50%, non ammette interpretazioni elastiche). – In ultima analisi, se le prove oggettive non sono forti, si può valutare un accordo con l’ufficio (accertamento con adesione) riducendo sanzioni, ma se si è convinti del proprio diritto è meglio far decidere al giudice tributario. La giurisprudenza recente tende a guardare con favore i casi in cui risulta che il contribuente ha davvero abitato nell’immobile: ad esempio, Commissioni Tributarie hanno annullato avvisi basati solo sul fatto che la residenza era altrove, davanti a evidenze di utilizzo effettivo .

Immobili posseduti da più di cinque anni

Questo non è tanto un “caso di esclusione” quanto la regola generale opposta all’imposizione: decorso il quinquennio, la cessione non genera plusvalenza tassabile .

È utile ribadire come conteggiare i 5 anni: – Si calcolano generalmente in base alle date di stipula degli atti notarili (acquisto e successiva rivendita). Il periodo parte dal giorno successivo all’acquisto e termina alla data del rogito di vendita. Esempio: acquisto avvenuto il 10 marzo 2020 – la vendita sarà esente se stipulata a partire dal 11 marzo 2025 in poi (perché dal 11/03/2020 al 11/03/2025 sono passati 5 anni interi). Se vendessi il 10 marzo 2025, sarebbero tecnicamente 5 anni esatti ma non compiuti oltre, quindi si considera infraquinquennale ancora. Dunque meglio attendere il giorno dopo per sicurezza. – L’Agenzia delle Entrate ha specificato che eventuali atti come la ristrutturazione edilizia o ampliamenti dell’immobile non fanno “ripartire” il conteggio quinquennale: ciò che conta è la data di acquisto originaria . Anche se l’immobile viene modificato o frazionato, salvo casi estremi di trasformazione in nuova costruzione (vedi oltre), il quinquennio decorre dall’inizio del possesso originario. – Caso di costruzione su terreno proprio: qui la legge parla di “acquistati o costruiti”. Per gli immobili costruiti, il quinquennio decorre dalla fine dei lavori (o dal momento in cui l’immobile diviene agibile e censito). Esempio: Tizio compra un terreno nel 2015 e ci costruisce casa completandola nel 2021; se vende nel 2024, saranno passati solo 3 anni dalla costruzione -> plusvalenza tassabile. Il costo di acquisto includerà terreno+costruzione. Se vende nel 2027, saranno passati 6 anni dalla fine lavori -> plusvalenza non tassata.

Ricapitolando: se al momento della vendita sono già trascorsi più di 5 anni dal precedente atto di acquisto (o fine costruzione), non bisogna dichiarare alcuna plusvalenza nella dichiarazione dei redditi, e il notaio non applicherà alcuna imposta sostitutiva. Si è completamente fuori dall’ambito impositivo (eccetto caso Superbonus di cui diremo dopo). In caso di contestazione erronea (ad esempio un avviso perché il Fisco ritiene 5 anni non decorsi mentre lo erano), è sufficiente esibire gli atti con le date: quell’accertamento verrebbe annullato per insussistenza del presupposto temporale. Attenzione però ai terreni edificabili: come vedremo subito, per essi la regola dei 5 anni non vale, essendo sempre tassabili se plusvalenti.

Vendita di terreni: edificabili vs agricoli

Terreni non edificabili (agricoli): vengono trattati come gli immobili “normali”. Dunque, la vendita di un terreno agricolo (o comunqe non suscettibile di edificazione) genera plusvalenza tassabile solo se avviene entro 5 anni dall’acquisto . Oltre i 5 anni, nessuna tassazione. Inoltre, spesso i terreni agricoli non aumentano di valore rapidamente, per cui anche entro 5 anni potrebbe non esservi plusvalenza o essere modesta (salvo casi di valorizzazione agronomica).

Terreni edificabili: qui la legge fiscale li considera sempre potenzialmente speculativi. L’art. 67, comma 1, lett. b) TUIR specifica infatti che sono sempre redditi diversi imponibili le plusvalenze da cessione di aree fabbricabili, a prescindere dal periodo di possesso . Ciò significa che: – Se compro un terreno edificabile e lo rivendo, non importa quanti anni sono passati, la plusvalenza è tassabile. Anche dopo 10, 20 anni. (In realtà, se passassero decenni, potrebbe valere l’indicizzazione ISTAT e i costi nel frattempo sostenuti – es. oneri urbanizzazione – riducendo la plusvalenza imponibile, ma il principio è che non si estingue col tempo l’imponibilità). – Se eredito un terreno edificabile, attenzione: l’eredità esclude la plusvalenza per il principio generale di esclusione successione , e questo vale anche per terreni edificabili. Quindi l’erede che vende un terreno edificabile non paga IRPEF sulla plusvalenza (anche se magari potrebbe dover pagare imposta di successione se di valore elevato, ma questa è un’altra imposta). – Per terreni acquistati per donazione, vale la regola generale: se il donante lo aveva comprato edificabile a sua volta, la plusvalenza è sempre tassabile. Se il donante lo aveva comprato agricolo e poi è divenuto edificabile, si entra in questioni complesse di determinazione del costo (oltre lo scopo di questa guida).

Un tema importante è la definizione di area edificabile ai fini fiscali. La giurisprudenza ha stabilito che rileva la qualificazione urbanistica risultante dagli strumenti pianificatori comunali, anche se il processo di approvazione non è completato o mancano piani attuativi . Ad esempio, la Cassazione n. 17198/2025 ha affermato che se un Piano Regolatore Generale (anche solo adottato dal Comune, sebbene non definitivamente approvato) classifica il terreno come edificabile, esso va considerato tale indipendentemente dalla mancanza di piani di lottizzazione o concessioni edilizie . Ciò significa che il Fisco considererà “edificabile” un’area già in base al PRG adottato, anche se di fatto ancora non si può costruire in concreto per iter non conclusi. Dunque il contribuente non può difendersi sostenendo che “sì, il PRG prevede edificabilità ma non è attuato”: ai fini fiscali prevale la previsione di edificabilità. In caso di contestazione, questo orientamento giurisprudenziale rende difficile far valere il contrario. L’unica difesa in tali casi può essere dimostrare che il terreno era sottoposto a vincoli assoluti che escludevano la edificabilità nonostante il PRG (ad esempio vincoli ambientali o idrogeologici che di fatto rendono inedificabile l’appezzamento nonostante la zonizzazione). In assenza di ciò, la tassazione è legittima.

Come si calcola la plusvalenza di un terreno edificabile?
– Spesso i terreni edificabili vengono rivalutati fiscalmente tramite le periodiche norme di “rideterminazione del valore” (pagando un’imposta sostitutiva – ad esempio del 14% – sul valore periziato). Se il contribuente ha effettuato tale rivalutazione (molto comune in Italia per i terreni), allora ai fini della plusvalenza si assume come costo il valore rivalutato (certificato da perizia giurata) . Ciò può ridurre notevolmente o annullare la plusvalenza imponibile. Ad esempio: terreno acquistato a 50.000 €, periziato e rivalutato nel 2022 a 120.000 € pagando il 14% (16.800 €) di imposta sostitutiva; rivenduto nel 2025 a 130.000 € → plusvalenza fiscale = 130.000 – 120.000 = 10.000 €, su cui pagare IRPEF o cedolare 26%. In pratica, pagando la sostitutiva, si “sterilizza” gran parte del guadagno ai fini IRPEF. Se la rivalutazione non fosse stata fatta, la plusvalenza sarebbe 80.000 €. – Se il terreno edificabile è stato acquisito molti anni prima (specie se per successione ereditaria, come detto esente) o era un terreno agricolo diventato edificabile durante il possesso, occorre determinare il costo: in assenza di rivalutazione, il costo è quello originario d’acquisto, aumentato eventualmente di spese (es. oneri pagati, frazionamenti, parcelle tecnici) e indicizzato. – Un caso interessante: terreno agricolo divenuto edificabile prima della vendita. Qui la plusvalenza c’è ed è tassabile se venduto entro 5 anni dall’acquisto. Se venduto oltre 5 anni dall’acquisto, tecnicamente la vendita di un terreno non è tassata (perché la norma letterale esclude solo le aree edificabili, e il terreno era stato acquistato come agricolo). Tuttavia, attenzione: la Cassazione ha talora considerato plusvalenza imponibile anche la vendita di un terreno acquistato come non edificabile ma divenuto edificabile entro 5 anni, sul presupposto che ciò configuri un arricchimento reddituale. La lettera della legge però parla di immobili acquistati da non oltre 5 anni: se l’acquisto fu oltre 5 anni fa, anche se nel frattempo il piano regolatore lo trasforma, letteralmente la plusvalenza non rientra nella lettera b) (acquistato oltre 5 anni → non tassabile) . Su questo punto c’è una zona grigia interpretativa: l’Agenzia potrebbe sostenere che l’“intento speculativo” si manifesta nel vendere subito dopo la variante PRG. Ad ogni modo, se l’acquisto fu ultraquinquennale, si ha un argomento testuale forte per l’esenzione. È invece certo che se l’acquisto fu infraquinquennale e nel frattempo è intervenuto un cambio di destinazione edificatoria, la plusvalenza è tassabile in pieno.

In caso di contestazione su terreni: – Se l’oggetto è edificabile e il contribuente aveva creduto erroneamente di non dover pagare (magari perché passati 5 anni): la difesa basata sul quinquennio non regge, occorre eventualmente puntare su errori di calcolo (costi non considerati) o contestare il maggior valore accertato se l’AE ne ha stimato uno superiore. Ma la legittimità della tassazione è solida in diritto. – Se l’oggetto è agricolo e si discute se erano passati i 5 anni o no: difesa sui giorni (dimostrare la data esatta di acquisto e vendita). Se appena sotto i 5 anni e c’è buona fede, magari si può ottenere almeno la non applicazione di sanzioni per incertezza su norma, ma è difficile: la legge è chiara sul conteggio. – Valori OMI: spesso l’Agenzia, per i terreni, può far riferimento a valori di mercato (ad es. in assenza di un prezzo chiaro, o se ritiene sia stato sottodichiarato). Come già detto, la Cassazione ritiene che i valori OMI siano indicativi ma non sufficienti da soli per pretendere una plusvalenza maggiore . Quindi anche per i terreni vale: se la contestazione si basa solo su “il valore al mq in zona è più alto”, senza prove di pagamento extra, il contribuente può far leva su tale giurisprudenza per annullare o ridurre l’accertamento .

Immobile ricevuto in donazione e rivendita infraquinquennale

La donazione di immobili è un acquisto a titolo gratuito, ma a differenza della successione la legge non la esenta automaticamente dalla plusvalenza. Infatti l’art.67 TUIR non menziona le donazioni tra le esclusioni (cita solo successione e abitazione principale). Pertanto, se un immobile viene donato e poi rivenduto entro 5 anni, potenzialmente la plusvalenza è tassabile. Tuttavia, il legislatore – e la prassi dell’Agenzia – trattano la donazione con una logica di continuità col donante: – Decorrenza del quinquennio: per le donazioni, il periodo dei 5 anni si calcola a partire dalla data di acquisto originaria in capo al donante, non dalla data di donazione . Ciò significa che la donazione non “azzera” il contatore del quinquennio. Se Tizio acquista un immobile nel 2020 e nel 2023 lo dona al figlio, il figlio rivendendo nel 2024 dovrà considerare la data 2020 come inizio periodo: essendo passati solo 4 anni, la plusvalenza è tassabile. Viceversa, se Tizio aveva acquistato nel 2010 e dona nel 2023, il figlio che vende nel 2024 vedrà che dal 2010 al 2024 sono 14 anni: niente imposizione perché >5 anni (anche se lui l’ha posseduto solo 1 anno, conta il periodo del donante) . L’Agenzia lo chiarì già con Risoluzione 20/E del 14.02.2014 e altre, e la logica è stata recepita anche in pubblicazioni ufficiali. – Determinazione del costo: il costo d’acquisto del donatario ai fini della plusvalenza è pari al costo (storico) che era stato sostenuto dal donante, aumentato di eventuali costi inerenti trasferiti . In pratica c’è una continuità nel trattamento fiscale. Ad esempio: una zia acquista una casa a 100.000 €, poi la dona alla nipote; la nipote rivende a 150.000 € entro 5 anni dall’acquisto originario della zia: plusvalenza = 150.000 – 100.000 = 50.000 € tassabile . – Se il donante aveva a sua volta acquisito l’immobile per successione ereditaria o lo aveva come abitazione principale, si può argomentare che tali cause di esclusione transitano? In linea di principio, no: se l’aveva per successione, comunque dal punto di vista del donante era esente; ma per il donatario non è successione, è donazione, quindi la lettera di legge non lo esenta. Tuttavia, qui subentra la regola generale: se il donante l’aveva da più di 5 anni, il problema non si pone (escluso per decorrenza tempo). Se il donante l’aveva abitazione principale ma per meno di 5 anni, e dona, il donante non aveva generato plusvalenza (non vendendo); il donatario poi vende, ma per lui quell’immobile non era sua abitazione principale. Quindi paradossalmente la donazione può “sporcare” un’esenzione che sarebbe valsa se il donante avesse venduto direttamente. Bisogna fare attenzione a questi passaggi: spesso se si intende trasferire un immobile entro 5 anni, è preferibile farlo via donazione a un familiare che magari la utilizza come sua abitazione principale prima di rivendere? C’è stato chi ha tentato questi schemi. Il Fisco li guarda con sospetto e tramite la regola del quinquennio dal donante e l’analisi dell’uso fattone dal donatario potrebbe comunque tassare.

In pratica: – Donazione da genitore a figlio: molto comune. Se il genitore possedeva da poco tempo l’immobile, conviene sapere che il figlio eredità anche l’“anzianità” di possesso fiscale. Ereditare una casa via donazione non protegge dalla plusvalenza come farebbe un’eredità. – Donazione indiretta o a terzi: se c’è uno scambio a titolo gratuito seguito da vendita, non c’è differenza sul principio.

Difendersi in caso di plusvalenza da donazione contestata: – L’Agenzia potrebbe contestare al donatario che non ha dichiarato la plusvalenza. In tal caso questi, se pensava erroneamente di essere esente, magari perché non sapeva della regola, dovrà verificare il calcolo da fare: data di acquisto originaria del donante e costo del donante. – Se per caso il donante aveva l’immobile da oltre 5 anni, si contesta l’accertamento con la prova della data originaria: esibendo l’atto di provenienza del donante. Esempio: Avviso dice “hai venduto dopo 2 anni che avevi la casa e non hai pagato imposta”; ci si difende mostrando che la casa era stata acquistata dal padre 10 anni prima, dunque ex lege non c’è plusvalenza tassabile perché l’art.67 richiede “acquistati da non più di 5 anni” – qui sono 10 anni, anche includendo il possesso del donante . – Se il periodo dal donante è <5, c’è poco da fare sulla legittimità dell’imposta: va semmai ricalcolata correttamente col costo del donante. Un’eventuale difesa potrebbe essere contestare l’importo imponibile se l’ufficio non avesse considerato tutti i costi del donante (es. se il donante aveva spese di ristrutturazione non note). – Si può inoltre verificare se il donante avesse per caso adibito l’immobile a propria abitazione principale in quel periodo: purtroppo però, la lettera della legge richiede che il cedente (quindi il donatario, colui che vende) lo abbia adibito ad abitazione principale . Quindi l’uso abitativo fatto dal donante non rileva ai fini dell’esenzione in capo al donatario. Questo può sembrare ingiusto in alcuni casi, ma è l’interpretazione prevalente. C’è dibattito dottrinale se l’esenzione possa valere anche se a vivere nell’immobile prima era stato il donante (specie se parente), ma formalmente non è previsto. Una soluzione pianificativa può essere: se ad esempio un genitore regala casa al figlio ma lui non ci vivrà, la rivendita entro 5 anni sconta plusvalenza; se invece il genitore avesse venduto direttamente, sarebbe stata esente perché era sua abitazione principale -> conviene allora far vendere il genitore e regalare al figlio il ricavato, piuttosto che donare la casa e far vendere il figlio. Insomma, queste finezze a volte sfuggono e portano a imposte inattese.

In sintesi, donazione non equivale a esenzione (diversamente dall’eredità). Chi riceve un immobile in donazione deve fare molta attenzione se intende rivenderlo presto: il Fisco considererà la plusvalenza (calcolata sui dati storici del donante) e pretenderà l’imposta se il donante lo possedeva da meno di 5 anni.

Tabella riepilogativa sui casi comuni di cessione immobiliare e plusvalenza:

Caso di cessione (persona fisica)Trattamento fiscale plusvalenza
Vendita di abitazione principale entro 5 anniEsente da IRPEF (nessuna tassazione)
Vendita di immobile (non abitazione principale) dopo 5 anni dall’acquistoEsente (nessuna tassazione)
Vendita di immobile ricevuto per successione ereditaria (entro o oltre 5 anni)Esente (nessuna tassazione)
Vendita infraquinquennale di seconda casa (o immobile non abitativo)Tassabile come reddito diverso (plusvalenza imponibile a IRPEF)
Vendita di immobile ricevuto per donazione – Donante lo aveva acquistato <5 anni faTassabile – quinquennio calcolato da acquisto del donante
Vendita di immobile ricevuto per donazione – Donante lo possedeva da >5 anniEsente – decorso quinquennio già in capo al donante
Vendita infraquinquennale di immobile acquistato a titolo oneroso ma usucapito prima (sentenza usucapione)Esente – usucapione non è acquisto oneroso (Risoluzione AE 78/2003)
Vendita di terreno agricolo non edificabile dopo 5 anniEsente (come regola generale)
Vendita di terreno agricolo entro 5 anniTassabile (plusvalenza redditi diversi)
Vendita di terreno edificabile (in qualsiasi momento)Tassabile – plusvalenza sempre rilevante (art.67 TUIR)
Cessione (costituzione) di usufrutto o altro diritto reale (non cessione integrale della proprietà)Tassabile sempre come reddito diverso (dal 2024, art.67 lett.h)
Vendita di immobile effettuata dal proprietario entro 10 anni da lavori Superbonus (non abitazione principale)Tassabile – plusvalenza “da Superbonus” imponibile (novità 2024, art.67 lett.b-bis)
Vendita di immobile con Superbonus ma adibito ad abitazione principale dopo i lavoriEsente – la norma b-bis esclude immobili abitaz. principale (anche per familiari)
Trasferimento di immobile tra ex coniugi in sede di separazione/divorzio, poi rivenduto entro 5 anni dall’assegnazioneTassabile – l’assegnatario viene considerato acquirente a titolo oneroso alla data della sentenza, quindi rivendita infra 5 anni genera plusvalenza tassabile

(Legenda: per “tassabile” si intende che l’eventuale plusvalenza è soggetta a IRPEF o imposta sostitutiva; per “esente” si intende che la plusvalenza non è considerata reddito imponibile.)

Si noti, nell’ultima riga, un caso peculiare: la trasferimento immobiliare tra coniugi in sede di separazione o divorzio. Spesso, nelle separazioni, uno dei coniugi cede all’altro la sua quota di casa coniugale. L’Agenzia Entrate (Risposta a interpello n. 153/2025) ha chiarito che tale trasferimento, se inserito negli accordi omologati, è considerato a titolo oneroso (perché avviene in attuazione di un regolamento patrimoniale) . Dunque, l’ex coniuge che “acquista” la metà dell’altro nel 2023, se rivende l’intera casa prima del 2028, su quella quota maturerà plusvalenza tassabile . Nel caso specifico esaminato, l’istante pensava di non dover pagare per mancanza di speculazione, ma l’AE ha risposto che la norma non fa eccezioni: anche in contesti di separazione, la cessione infraquinquennale è tassabile . Pertanto, chi riceve immobili dall’ex coniuge dovrebbe cercare (se possibile) di mantenerli per almeno 5 anni prima di venderli, per evitare problemi fiscali.

Novità 2024-2025: plusvalenze “da Superbonus” e altre evoluzioni normative

Come accennato, dal 2024 è in vigore una nuova disciplina per le plusvalenze su immobili oggetto di Superbonus 110% (o 90% ecc.). Il legislatore, preoccupato di evitare operazioni speculative in cui si ristruttura con soldi pubblici e si rivende lucrando, ha introdotto l’art. 67, comma 1, lett. b-bis) del TUIR. Questa norma prevede che sono imponibili come redditi diversi IRPEF le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di immobili sui quali “sono stati realizzati interventi di recupero del patrimonio edilizio di cui all’art.119 del DL 34/2020 (Superbonus) conclusi da non più di dieci anni”. In sostanza: – Se il proprietario ha effettuato lavori agevolati dal Superbonus (quindi con detrazione potenziata o cessione del credito) sull’immobile, e rivende entro 10 anni dalla fine di tali lavori, l’eventuale plusvalenza è tassabile come reddito diverso . – Ciò vale anche se tra acquisto e vendita sono trascorsi più di 5 anni. La norma b-bis è aggiuntiva rispetto alla b: allunga il periodo di “speculatività” a dieci anni ma solo per immobili ristrutturati con Superbonus. – Restano ferme le esclusioni analoghe: non sono tassate queste plusvalenze se l’immobile è stato acquisito per successione o se è stato adibito ad abitazione principale per la maggior parte del periodo dalla fine lavori alla vendita . Dunque, ad esempio, se Tizio fa il 110% sulla seconda casa al mare e vende dopo 6 anni dalla fine lavori, paga la plusvalenza; se invece quei 6 anni l’immobile è stato la sua abitazione principale, non paga. – Importante: la norma prende di mira il soggetto che ha beneficiato del Superbonus vendendo l’immobile. Se l’immobile è stato comprato già ristrutturato con Superbonus da un altro (es. acquisto da impresa con Sismabonus acquisti), la plusvalenza da Superbonus non si applica alla successiva rivendita da parte dell’acquirente, ma solo le regole ordinarie . L’Agenzia Entrate, in una risposta del 2025, ha chiarito proprio che chi rivende un immobile acquistato (già ristrutturato) con Supersismabonus non ricade nella fattispecie decennale, ma in quella quinquennale standard .

Esempio: Sempronio fa Superbonus 110% su una casa nel 2021 (fine lavori dicembre 2021). Rivende la casa nell’estate 2028. Sono passati ~6,5 anni dai lavori, quindi in base alla norma b-bis la plusvalenza è tassabile anche se Sempronio l’aveva comprata magari nel 2015 (>5 anni da acquisto). Se Sempronio l’avesse adibita ad abitazione principale dal 2022 al 2028, sarebbe esente (causa esclusione abitazione principale) . Se Sempronio l’aveva ricevuta per successione, esente (esclusione successione) . Se Sempronio l’aveva comprata già ristrutturata da un altro e poi rivende, la norma non colpisce lui ma colpiva l’eventuale primo proprietario (che però avendo venduto subito, e non essendo legge retroattiva per il passato, potrebbe non aver pagato nulla se vendita ante 2024). In pratica la regola si applica per vendite dal 1/1/2024 in poi.

Come difendersi se contestano plusvalenza da Superbonus:
Questa è materia nuova e complicata, per cui la difesa verte sui seguenti punti: – Verificare se effettivamente i lavori rientravano nell’art.119 DL 34/2020 (Superbonus) e la data di fine lavori. Se i 10 anni erano già trascorsi, la norma non si applica (es. lavori finiti a gennaio 2024 e vendita a febbraio 2034 – decennio trascorso – non tassabile). – Verificare se l’immobile rientrava in esclusioni: ad esempio se il contribuente lo aveva ereditato (situazione che esonera anche se fu lui a fare i lavori da erede: l’AE ha accettato che anche se l’erede realizza i lavori, rimane escluso perché conta l’acquisto per successione) . O se era abitazione principale (vale quanto detto per la regola quinquennale). – Attenzione ai casi complessi di consolidazione usufrutto anche col Superbonus: come visto, se la nuda proprietà fu acquistata, niente esclusione successione perché la piena proprietà per morte usufruttuario non è successione (lo conferma la Cassazione e anche l’AE per plusvalenza superbonus: la quota consolidata non gode di esenzione) . – Se l’Agenzia calcola la plusvalenza, come sempre controllare che abbia incluso tutti i costi: qui un punto specifico è che gli oneri per i lavori agevolati Superbonus sono in parte coperti da detrazione, ma la parte effettivamente spesa dal contribuente (ad esempio il 10% residuo, o l’intero 100% se ha anticipato e poi recuperato) è un costo inerente. L’Agenzia in recenti documenti ha chiarito che i costi coperti da bonus diversi (bonus casa, ecobonus) vanno comunque nel costo di acquisto deducibile , mentre quelli coperti da Superbonus vanno trattati diversamente a seconda del momento (c’è un complesso dettaglio: se vendi entro 5 anni, non puoi sommare i costi superbonus perché hai già avuto la detrazione, se vendi dopo 5 ma entro 10, la quota non detratta forse sì – la questione va oltre questa guida, ma è bene farla valutare a esperti). In contenzioso si dovrà calcolare bene l’ammontare plusvalenza. – Giocare eventualmente sulla non retroattività se ci fossero spazi (la norma è entrata in vigore nel 2024, vendite prima non colpite; ma se contestano vendite 2024 successive, la legge c’è e va applicata).

In definitiva, la novità del Superbonus richiede allarme in più: vendite che prima sarebbero state esenti dopo 5 anni ora possono essere tassate fino a 10 anni. Il contribuente debitore che si vede recapitare un avviso su plusvalenza da Superbonus dovrà attentamente verificare i requisiti sopra e, se ha un qualche esimente (successione, abitazione principale), farla valere con decisione.

Accertamenti fiscali sulla plusvalenza: come avvengono e strategie di difesa

Passiamo ora al cuore del “come difendersi”: cosa fare quando l’Agenzia delle Entrate contesta una plusvalenza immobiliare non dichiarata o ricalcola in aumento l’imponibile. Comprendere le modalità di accertamento è utile per predisporre una difesa efficace.

Come il Fisco individua plusvalenze non dichiarate

L’Agenzia delle Entrate ha vari strumenti per intercettare vendite di immobili che possono generare plusvalenze: – Anagrafe Tributaria e atti notarili: ogni compravendita immobiliare viene registrata telematicamente dal notaio. L’Agenzia vede quindi i dati dell’atto (parti, data, prezzo, eventuale opzione per imposta sostitutiva). Se un atto riporta che il venditore non ha optato per la sostitutiva, l’Agenzia può verificare se quel venditore ha poi inserito qualcosa in dichiarazione. Un incrocio automatizzato segnala vendite infraquinquennali (basandosi su data di acquisto pregressa) e controlla se nella dichiarazione dei redditi corrispondente c’è il reddito dichiarato. In caso negativo, scatta un alert. – Registro delle successioni: se l’immobile proviene da eredità, spesso l’Agenzia lo sa (perché c’è la dichiarazione di successione). Potrebbe comunque erroneamente fare un controllo automatico su vendite infraquinquennali e, non vedendo acquisto oneroso, non distinguere subito il caso. In genere però gli accertamenti automatici su plusvalenze escludono i casi evidenti di successione (dovrebbero). – Archivio rapporti finanziari e mutui: se un contribuente riceve un accredito ingente sul conto per una vendita e quell’anno non dichiara nulla, l’AE può insospettirsi. Inoltre, come detto, se il prezzo dichiarato era anomalo rispetto al mutuo (es: vendi a 100k ma l’acquirente ha acceso mutuo da 150k), questi dati potrebbero portare a indagini (anche se la Cassazione non consente di fondare l’accertamento solo su questo scostamento) . – Controlli “a tavolino”: l’ufficio, vedendo un atto di vendita, verifica la visura catastale per l’anno di acquisto e se appare inferiore a 5. Se sì e nessuna dichiarazione o cedolare, prepara un avviso di accertamento per redditi diversi omessi. – Segnalazioni in caso di recesso agevolazioni prima casa: se uno rivende prima casa entro 5 anni senza ricomprare entro 12/24 mesi, gli uffici registro comunicano il caso per recuperare le imposte di registro. Lo stesso scenario spesso coincide con plusvalenza tassabile (se non era abitazione principale) – quindi attenzione, una pratica di decadenza da agevolazione può attivare parallelamente un controllo sulla plusvalenza.

Termini di accertamento e notifiche

L’avviso di accertamento per redditi diversi (plusvalenza) deve rispettare i termini ordinari: – Se il contribuente ha presentato la dichiarazione dei redditi (anche omettendo la plusvalenza), il termine ordinario per accertare è entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione. Esempio: plusvalenza realizzata nel 2020, la dichiarazione Redditi 2021 omette il dato; l’AE può notificare accertamento fino al 31/12/2026. – Se il contribuente non ha presentato affatto la dichiarazione per quell’anno (omessa dichiarazione), il termine si estende al 31 dicembre del settimo anno successivo. Esempio: vendita 2020 e il contribuente non ha presentato il Modello Redditi 2021 pur dovendolo, l’accertamento può arrivare fino al 31/12/2028. – Questi termini sono stati uniformati e prorogati dal D.Lgs. 128/2015, e valgono per i periodi dal 2016 in poi. Per periodi più vecchi (non credo rilevi ormai, dato che un accertamento 2015 sarebbe prescritto già), c’erano 4 e 5 anni rispettivamente. – Notifica dell’avviso: l’atto deve essere notificato al contribuente (anche via PEC). Spesso viene preceduto da una comunicazione bonaria o invito, ma non è obbligatorio per redditi diversi. Se vi è stato un pvc della Guardia di Finanza può scattare contraddittorio. Comunque, quando il contribuente riceve l’avviso, tipicamente include: il calcolo della plusvalenza fatta dall’ufficio, l’imposta evasa, le sanzioni e interessi, e le motivazioni (es: “ha venduto immobile a data X, acquistato a data Y, plusvalenza € tot non dichiarata – imponibile accertato pari a…”). – Da quel momento, il contribuente ha 60 giorni per presentare ricorso alla Commissione Tributaria (ora denominata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado). Entro lo stesso termine può presentare istanza di accertamento con adesione per tentare una conciliazione in ufficio: ciò sospende i termini per 90 giorni e consente eventualmente di definire l’atto con sanzioni ridotte 1/3.

Tipologie di contestazione e relative difese

  1. Omissione totale di dichiarazione della plusvalenza: è il caso più frequente. Il contribuente magari ignorava la norma, o riteneva di non dover pagare (a torto), e non ha indicato nulla né pagato cedolare. L’AE allora notifica il recupero integrale dell’IRPEF (o 26% se volesse, ma di solito applica IRPEF) + sanzione 90% imposta + interessi.
    Difesa: verificare se per caso la plusvalenza non era dovuta (applicare tutto quanto detto sopra: era abitazione principale? Era successione? Era usucapione? etc.). Se si individua che era esente, bisogna impugnare l’avviso e far valere l’esenzione con prove. Spesso l’ufficio potrebbe aver trascurato elementi – ad es. l’avviso non menziona che l’immobile era ricevuto per successione. In tal caso allegare atto di successione e chiedere l’annullamento totale. Oppure l’avviso dice “non abitava lì” basandosi su residenza: contestare con prove contrarie.
    Se invece la plusvalenza era effettivamente dovuta (es. seconda casa venduta presto), la difesa può puntare solo su riduzione sanzioni (invocare buona fede, mancanza di dolo, magari chiedere in sede di adesione l’applicazione della sanzione minima). In giudizio, raramente il giudice può annullare sanzioni per incertezza normativa se la regola era chiara; potrebbe accoglierlo solo in casi limite (es. caso di forza maggiore come l’occupazione abusiva che impediva di usarla – ma Cass. ha detto che neanche quella è esimente per non pagare ).
    Una strategia possibile se l’imposta è corretta ma la sanzione piena è gravosa: presentare ricorso limitato alle sanzioni, chiedendo la disapplicazione per obiettiva incertezza o l’annullamento per tenuità. Ad esempio, se c’era qualche motivo di confusione (magari un ufficio locale in passato aveva detto altro), si può provare a far leva su art. 6 D.Lgs.472/97. Non garantito ma tentabile.
    Inoltre, se importo non enorme, valutare le definizioni agevolate se esistenti (nel 2023-24 c’era la “tregua fiscale”: definizione agevolata liti pendenti, ravvedimento speciale, etc.). Tenere d’occhio normative simili: il 2023 ha offerto chance uniche, ma al 2025 non è detto si ripetano.
  2. Riqualificazione del valore di vendita: qui il Fisco non contesta l’omessa dichiarazione (magari il contribuente l’aveva pure dichiarata la plusvalenza), ma sostiene che il corrispettivo effettivo della vendita fosse più alto di quanto dichiarato, quindi la plusvalenza reale è maggiore. In sostanza, un accertamento di maggior valore (ex art. 38 DPR 600/73 analogico).
    Di solito, come già detto, per le vendite dal 2007 in poi l’AE non può usare come unica base i valori OMI o il fatto che l’acquirente abbia pagato più registro su valore catastale. Serve qualcosa come: “abbiamo trovato una scrittura privata con prezzo maggiore”, oppure “il mutuo acceso è molto superiore al prezzo, e in più l’acquirente ha ammesso di aver pagato extra in nero”, oppure “dalle indagini bancarie risultano bonifici ulteriori”. In mancanza di questi, la Cassazione boccerebbe l’accertamento se basato sul solo valore normale di mercato .
    Difesa: contestare la fondatezza delle prove. Se l’ufficio cita solo perizia o OMI: evidenziare giurisprudenza per cui è presunzione semplice insufficiente . Se cita movimenti bancari: spiegare la provenienza alternativa di quei fondi (es. erano per altra transazione). Se c’è una confessione della controparte (non comune, ma potrebbe capitare in verifiche IVA su costruttori): qui diventa dura negare, ma uno potrebbe dire che quell’extra non era prezzo immobile ma arredi o altro (escamotage a volte usato: far risultare parte del prezzo come pagamento mobili usati ecc., se documentato). Comunque, la difesa punta a smontare la ricostruzione del “maggior corrispettivo occulto”.
    In parallelo, nel ricorso conviene sempre riproporre il calcolo plusvalenza includendo tutti i costi (magari l’ufficio avendo puntato su valore non si è curato dei costi). Chiedere al giudice in subordine di rideterminare l’imponibile tenendo conto di costi ignorati, se proprio ritiene provato un maggior prezzo.
  3. Errori di calcolo dell’ufficio: a volte l’AE può sbagliare a determinare la plusvalenza. Esempi: non considera la data giusta di acquisto (magari considera la data del preliminare e non del rogito – in genere no, ma se c’era un’acquisizione per usucapione o donazione, potrebbero errare); oppure dimentica l’indicizzazione ISTAT; o non include un costo di acquisto (succede se l’atto di acquisto originario aveva prezzo e l’ufficio ignora che c’erano anche imposte).
    Difesa: tecnica e documentale, far valere l’errore. Questo se la plusvalenza è comunque tassabile: si riduce l’importo e quindi anche sanzioni proporzionali. Ad esempio, caso reale: l’Agenzia tassò per intero la plusvalenza di un immobile concesso in donazione, non considerando la data e costo del donante. Il contribuente in ricorso ha mostrato l’errore e l’avviso è stato annullato (o ridotto).
  4. Contestazione qualificazione del bene: se c’è dubbio se fosse area edificabile o agricola, o se fosse abitazione o ufficio ecc. L’AE potrebbe considerare edificabile e il contribuente sostiene di no.
    Difesa: qui servono competenze tecniche, magari una perizia urbanistica da allegare che spieghi che il terreno non era edificabile (ad es. PRG non approvato definitivamente? Vincoli di inedificabilità? ecc.). Oppure se l’immobile era A/10 (ufficio) e il contribuente dice “ci vivevo lo stesso come abitazione principale”, far notare che la norma parla di unità immobiliari urbane senza escludere categorie catastali “di lusso” (infatti esclude solo quelle non adibite ad abitazione principale, a prescindere dalla categoria; c’è però un cenno in Altroconsumo che dice l’immobile deve essere cat. A1-A9 per la maggior parte del tempo, escludendo uffici , ma in realtà quella è probabilmente una semplificazione: se uno vive in un immobile accatastato A10, formalmente non è abitazione, quindi forse non gliela riconoscono come abitazione principale… caso limite, difficile).
    Comunque, difendersi sul “bene non edificabile” può salvare l’intera imposta, perché se il terreno era realmente agricolo, venduto oltre 5 anni, niente plusvalenza. Diversamente se l’ufficio dimostra che era edificabile (con PRG adottato ecc.), nulla da fare.

Esempi di motivi di ricorso in sintesi

Quando si redige un ricorso tributario contro un avviso di accertamento per plusvalenza, i motivi di impugnazione comuni (da adattare al caso) possono essere:

  • Insussistenza del presupposto impositivo“Violazione e falsa applicazione dell’art. 67, co.1, lett. b), TUIR – Erronea qualificazione della cessione come plusvalente”. Si argomenta che l’ufficio ha tassato una plusvalenza che per legge non andava tassata. Ad esempio: immobile acquisito per successione, oppure immobile adibito ad abitazione principale del contribuente per oltre metà del periodo di possesso. Si citano prove: certificati, documenti, giurisprudenza (Cassazione, risoluzioni AE) a sostegno . Si chiede quindi l’annullamento totale dell’avviso per mancanza del presupposto (reddito non imponibile ex lege).
  • Errata determinazione della plusvalenza“Violazione dell’art. 68 TUIR – Erroneo calcolo della plusvalenza imponibile”. In subordine al punto sopra (o in via principale se non si contesta l’an ma solo il quantum), si lamenta che l’ufficio ha calcolato male l’importo. Esempi: non ha considerato i costi inerenti (€ X di spese straordinarie, € Y di notaio ecc.), in ciò violando la norma che impone di sottrarli . Oppure ha considerato come prezzo di vendita un importo maggiore senza adeguata prova. Si allegano ricevute, fatture, perizie. Si chiede la riduzione dell’imponibile e del conseguente tributo.
  • Illegittimo ricorso a presunzioni semplici non qualificate“Violazione artt. 2727-2729 c.c. e principi in tema di accertamento – Infondatezza della rettifica del corrispettivo di vendita”. Se l’accertamento si basa su indizi poco solidi (es. valori OMI), si eccepisce che la giurisprudenza tributaria richiede “prove gravi, precise e concordanti” per rettificare i ricavi immobiliari, e che i soli valori medi di mercato non lo sono . Si cita Cass. n. 32206/2019, Cass. 23605/2021 o altre che affermano tali principi . Questo motivo mira a far annullare o almeno ridurre la pretesa sull’eccedenza.
  • Sanzioni improprie o non dovute“In subordine, illegittimità della sanzione per obiettiva incertezza normativa (art. 6 co.2 D.Lgs.472/97)”. Ad esempio, se c’era davvero margine di dubbio (casi borderline di abitazione principale, o normative nuove come superbonus decennale ancora poco chiare), si chiede di non applicare la sanzione. Non sempre accolto, ma tentare può portare almeno a riduzione sanzione. Si può anche far presente l’adesione eventuale, se si è fatta, per chiedere riduzione a 1/3 se l’ufficio non l’ha concessa.
  • Errori procedurali: raramente, ma se l’avviso non è stato preceduto da un contraddittorio obbligatorio (in materia di redditi diversi non vige obbligo di contraddittorio preventivo tranne per i tributi armonizzati), o se notificato fuori termine, si possono eccepire nullità procedurali. Spesso però questi aspetti sono a posto.

Nella redazione, è utile allegare documenti chiave: atti di acquisto e vendita, visure catastali storiche (per provare data acquisto, eventuale successione, ecc.), certificati di residenza o utenze per abitazione principale, perizie se contestiamo valori, copia di ricevute spese incrementative, ecc. In udienza, testi eventualmente se servono (es. vicini per abitazione, ma scritta è più forte se c’è).

Possibili esiti e soluzioni alternative

  • Annulamento totale: se il contribuente ha ragione sull’esenzione (successione, abitazione principale ben provata, ecc.), l’atto verrà annullato in toto dal giudice tributario, eliminando imposta e sanzioni. L’Agenzia di solito in questi casi, se vede prove nette, potrebbe anche rinunciare in autotutela prima del giudizio.
  • Riduzione parziale: se si discute sul quantum (es. riconosciuti costi ulteriori), il giudice può ridurre l’imponibile e ricalcolare l’imposta. In appello eventualmente si definisce meglio. Le sanzioni in proporzione verranno ricalcolate, e se il ricorrente è parzialmente vittorioso forse potrà evitare il pagamento delle spese di giudizio (ognuno le proprie).
  • Conciliazione: spesso, soprattutto quando non ci sono esoneri netti, è opportuno cercare una conciliazione con l’ufficio. Ad esempio, se un contribuente effettivamente aveva la plusvalenza ma ha elementi per abbattere l’importo, può proporre un accordo in cui riconosce l’imposta su un imponibile minore, con sanzioni ridotte del 50% (la conciliazione in corso di causa consente sanzione dimezzata). Anche l’adesione pre-ricorso dà sanzione ridotta 1/3. Questo può risparmiare soldi e chiudere presto la vertenza, evitando spese legali prolungate.
  • Rottamazione liti e definizioni agevolate: come accennato, negli ultimi anni il legislatore ha talvolta aperto finestre per definire le liti fiscali pendenti con pagamento ridotto (ad es. rottamazione-quater: stralcio interessi e sanzioni per carichi affidati, oppure definizione liti in Cassazione con 5%). Se il nostro caso rientra e conviene, è da valutare aderire, specie se la causa è incerta. Ad agosto 2025 è in corso la “rottamazione-quater” per cartelle fino 2022, ma per un avviso 2025 ancora non ci sono misure – salvo futuri provvedimenti.
  • Prescrizione della riscossione: non dimentichiamo un aspetto finale. Se l’accertamento diventa definitivo (perché non impugnato, o dopo sentenza passata in giudicato), l’importo viene iscritto a ruolo e l’Agenzia Riscossione chiederà il pagamento. Qui i termini di prescrizione sono altri (in genere 10 anni per IRPEF). Non pagare porterebbe a cartelle e possibili ipoteche/pignoramenti. Dal punto di vista del debitore, conviene eventualmente attivare dilazioni con Agenzia Riscossione (piani rateali fino a 72 o 120 rate) se la somma è alta, per evitare azioni esecutive. Ma questa è l’ultima spiaggia, quando proprio si deve pagare.

Domande frequenti (FAQ) sulla plusvalenza immobiliare e le difese del contribuente

D: Cos’è esattamente la plusvalenza immobiliare e quando è dovuta?
R: La plusvalenza immobiliare è il guadagno (utile) che si realizza vendendo un immobile a un prezzo superiore a quello di acquisto. Fiscalmente è rilevante solo per le vendite effettuate entro 5 anni dall’acquisto (o dalla costruzione) dell’immobile . Se vendi dopo oltre 5 anni, non devi pagare alcuna imposta sulla plusvalenza in Italia (eccezione: terreni edificabili, tassabili comunque). La plusvalenza, quando dovuta, viene tassata come “reddito diverso” IRPEF , con possibilità di scegliere la tassazione separata al 26%. In sintesi: vendite infraquinquennali = potenzialmente imponibili; vendite ultraquinquennali = fuori tassazione (salvo casi particolari introdotti di recente, come immobili da Superbonus venduti entro 10 anni).

D: La plusvalenza si calcola su tutto il prezzo di vendita della casa?
R: No. Si calcola sulla differenza tra il prezzo di vendita e il costo di acquisto (comprensivo di oneri accessori) . In pratica, dal prezzo ricavato vanno sottratti: il prezzo (o costo) che avevi pagato tu quando acquistasti, le imposte e il notaio di quel acquisto, le provvigioni dell’agenzia immobiliare, le eventuali spese di ristrutturazione straordinaria che hai sostenuto, ecc. . Solo se rimane un importo positivo, quello è la plusvalenza. E su quello pagherai le imposte (o inserendolo in dichiarazione IRPEF o pagando il 26% al rogito). Esempio: compri a 100, rivendi a 130, spendendo 5 di notaio e 10 di lavori = guadagno 130 – (100+5+10) = 15 → tassabile su 15 . Se invece compri a 100 e rivendi a 90 (perdi) non c’è plusvalenza e nulla è dovuto. Attenzione che non puoi dedurre spese di manutenzione ordinaria né interessi di mutuo dal calcolo.

D: Se vendo la prima casa (abitazione principale) entro 5 anni devo pagare la plusvalenza?
R: No, se realmente l’hai adibita ad abitazione principale per la maggior parte del tempo in cui l’hai posseduta . La legge esenta questi casi proprio perché non li considera speculativi. Ad esempio: compro casa e ci vivo stabilmente per 3 anni su 4 di possesso, poi vendo -> nessuna plusvalenza tassata. Dovrai eventualmente restituire le agevolazioni prima casa all’acquisto se non riacquisti un’altra casa entro 24 mesi (aspetto differente), ma sul guadagno della vendita niente imposte IRPEF. Ricorda: abitazione principale vuol dire residenza e dimora abituale tua o dei tuoi familiari . Se avevi solo trasferito la residenza sulla carta ma non ci vivevi (es. casa vuota), il Fisco potrebbe non riconoscerla come “abitazione principale” e allora pretendere la tassa. Occorrerà in quel caso dimostrare il contrario (utenze attive, consumi, ecc.) . In sintesi: prima casa effettivamente abitata → plusvalenza non tassata; prima casa solo “sulla carta” → rischio di tassazione.

D: Ho venduto prima dei 5 anni una casa ereditata da mio padre: devo pagare la plusvalenza?
R: No. Gli immobili ricevuti per successione ereditaria sono esclusi da tassazione, indipendentemente da quando li vendi . L’erede non paga IRPEF sul valore che realizza vendendo i beni ereditati (perché non c’è acquisto a titolo oneroso). Fai attenzione però: questo vale per l’IRPEF sulla plusvalenza. Restano naturalmente dovute le imposte successorie (se l’asse ereditario superava certe soglie) e le imposte ipotecarie/catastali in successione, ma queste riguardano l’acquisizione, non la rivendita. Se ti arrivasse un avviso di plusvalenza, basterà ricordare all’Agenzia (con documenti) che si trattava di un bene ereditato: l’avviso andrebbe annullato.

D: Ho ricevuto in donazione un immobile da un parente e l’ho rivenduto dopo 2 anni: la plusvalenza è tassabile?
R: Sì, è possibile sia dovuta. La donazione non gode dell’esenzione automatica come l’eredità. Nel tuo caso, per capire, devi considerare quando il donante aveva acquistato originariamente l’immobile. Se il donante (es. tuo zio) lo aveva comprato da meno di 5 anni prima di donartelo, la vendita da parte tua entro il quinquennio originale genera plusvalenza tassabile . Il Fisco infatti conta i 5 anni a partire dall’acquisto del donante. Inoltre, il tuo “costo di acquisto” sarà quello che aveva sostenuto il donante (probabilmente il prezzo che pagò lui) . Esempio: zio compra nel 2021 a 80, ti dona nel 2023, tu vendi nel 2024 a 100 -> plusvalenza 100 – 80 = 20 tassabile. Invece, se il donante possedeva l’immobile da oltre 5 anni (o lo aveva ereditato), niente tassa perché il periodo si considera ampiamente trascorso . Quindi la donazione non “resetta” il timer, ma lo trasferisce. Conosci la data di acquisto del donante: questo è decisivo. Se non devi pagare (caso >5 anni), potresti doverlo spiegare al Fisco esibendo l’atto di provenienza del donante, perché a volte presumono erroneamente 5 anni dalla donazione.

D: Come dimostro che l’immobile era la mia abitazione principale se l’Agenzia contesta?
R: Dovrai raccogliere prove oggettive della tua dimora abituale lì. Alcune delle migliori: bollette di luce/gas/acqua che mostrino consumi elevati compatibili con un’abitazione lived-in (non minimi da casa vuota) ; documenti di residenza o stato di famiglia indicanti quell’indirizzo; eventuale contratto di lavoro vicino o trasferimento che giustificava il cambio casa; ricevute di spese fatte per quella casa (arredamento, riparazioni) col tuo nome e indirizzo; eventuali testimonianze di vicini, portiere, amministratore di condominio che confermino che abitavi stabilmente lì. Anche corrispondenza: ad esempio, se hai trasferito lì la ricezione di estratti conto bancari, comunicazioni, etc., è un indizio di effettiva domiciliazione . In pratica devi convincere che non era una “finta” prima casa, ma lo era davvero. Se avevi mantenuto la vecchia residenza anagrafica altrove per distrazione o altro, spiega il perché, ma punta tutto sulle prove fattuali (la Cassazione ti dà ragione se dimostri la dimora di fatto) . In futuro è sempre meglio spostare anche la residenza anagrafica, comunque.

D: Ho venduto un terreno. Come sapere se è tassabile?
R: Dipende dal tipo di terreno: – Se era un terreno edificabile, ogni plusvalenza è tassata sempre, indipendentemente dagli anni di possesso . Quindi quasi certamente dovevi dichiararla (salvo lotti ereditati: erede esente come detto). – Se era un terreno agricolo/non edificabile: valgono le regole generali, quindi tassabile solo se venduto entro 5 anni dall’acquisto . Oltre 5 anni, niente. Attenzione: la definizione di “edificabile” è data dalla pianificazione urbanistica. Anche se tu non hai costruito niente, se dal PRG risultava area fabbricabile, fiscalmente è considerata edificabile anche se non l’hai utilizzata così . Verifica la classificazione urbanistica al momento della vendita (certificato di destinazione urbanistica): se risultava edificabile (anche solo in piano adottato), l’Agenzia potrebbe trattarlo come tale. Se invece era agricolo (e niente varianti nei 5 anni), ed erano passati >5 anni dall’acquisto, allora non c’è plusvalenza. In sintesi: verifica data acquisto, data vendita, e se nel frattempo il comune ha reso edificabile il terreno. Con queste info sai se dovevi pagare oppure no.

D: Ho optato per l’imposta sostitutiva al 26% al rogito, posso pentirmene e portarla in dichiarazione se mi conveniva?
R: No, l’opzione per la tassazione separata è irreversibile dopo l’atto. Una volta pagata l’imposta sostitutiva, il capitolo è chiuso: non devi dichiarare nulla nei redditi, ma neppure puoi chiedere rimborsi se ex post scopri che avevi aliquota IRPEF inferiore. L’unica eccezione sarebbe se per errore di calcolo hai pagato sostitutiva in eccesso (es. hai dichiarato una plusvalenza più alta di quella reale): in tal caso potresti chiedere rimborso dimostrando l’errore, ma è una procedura non semplice e con tempi lunghi. In generale, valuta bene prima col tuo consulente se conviene il 26% o l’IRPEF ordinaria . Se sei in dubbio e la plusvalenza non è enorme, molti consigliano di pagare il 26% per stare tranquilli (evitando futuri controlli), ma se sei in no tax area o bassa aliquota forse no. Ricorda anche che con l’IRPEF ordinaria potresti rateizzare in dichiarazione, mentre il 26% va versato immediatamente al rogito.

D: Cosa rischio se non dichiaro una plusvalenza dovuta e l’Agenzia se ne accorge?
R: Rischi un accertamento con richiesta dell’imposta evasa più una sanzione per dichiarazione infedele pari al 90% dell’imposta , più gli interessi (calcolati al tasso legale per gli anni di ritardo). Ad esempio: avevi 10.000 € di plusvalenza tassabile al 26% (2.600 € di imposta) e non l’hai dichiarata: l’AE può chiederti quei 2.600 € + ~2.340 € di sanzione (90%) + interessi maturati (diciamo qualche centinaio di euro). La sanzione può essere ridotta se aderisci subito (a un terzo, cioè 30% circa) o se definisci in acquiescenza. Ma comunque è un esborso sensibile. Inoltre, se non paghi volontariamente, seguiranno cartelle esattoriali con aggravio di spese. Quindi è bene dichiarare sempre quando dovuto, anche per evitare la sanzione. Nota: se ti accorgi prima tu dell’errore (entro 90 giorni dalla scadenza dichiarazione puoi rettificarla con sanzione minima; oltre, puoi fare ravvedimento operoso pagando spontaneamente imposta+interessi+sanzione ridotta). Il ravvedimento è consigliato se ti sei reso conto prima di eventuali controlli, perché abbatte molto le sanzioni (ad esempio pochi punti percentuali invece del 90%).

D: L’Agenzia può accorgersi se dichiaro un prezzo di vendita più basso e incasso una parte in nero?
R: Può non essere semplice, ma ci sono diversi indizi che potrebbero tradirti: – Se l’acquirente ha stipulato un mutuo di importo maggiore del prezzo dichiarato, questo è un segnale. In passato si usava per evadere registro, ma oggi il prezzo va dichiarato per legge e l’Agenzia può notare la discrepanza . – Possono esserci denunce o ammissioni (raro, ma se l’acquirente un domani ammette “ho pagato di più” per qualche contenzioso, i dati arrivano al fisco). – Durante verifiche bancarie, movimenti di denaro extra potrebbero emergere. – L’Agenzia utilizza i valori medi OMI: se tu hai venduto a metà del valore di mercato senza giustificazione (immobile non fatiscente, parti correlate, ecc.), è probabile che un controllo scatti. Di per sé non basta a farti pagare (devono provare l’occultamento), ma potresti ricevere una richiesta di chiarimenti. In generale, dopo il 2006 gli atti riportano sempre il prezzo reale (prezzo-valore per registro non implica occultamento del prezzo). Quindi dichiarare meno del reale è illegale e rischioso (nullità dell’atto e sanzioni penali se scoperto). Se è successo, il Fisco potrà ricalcolare la plusvalenza sul prezzo vero. In giudizio, se hanno anche solo una prova debole, tu saresti in difficoltà a contrastarla perché avresti compiuto un illecito civile. Quindi, il consiglio è: sempre dichiarare il prezzo integrale e pagare le giuste imposte; dormi più sereno ed eviti eventuali grane sia su registro sia su plusvalenza.

D: Ho venduto casa entro 5 anni perché costretto da cause di forza maggiore (es. lavoro trasferito, gravi motivi familiari). Posso evitar la tassazione perché non era mia intenzione speculare?
R: Purtroppo, no. La legge non prevede esimenti soggettive del tipo “vendita necessitata”. La Cassazione ha ribadito che la speculazione è presunta iure et de iure (in modo assoluto) per le vendite infraquinquennali non prima casa . Quindi, anche se hai venduto perché costretto (ad es. trasloco per lavoro, problemi economici, separazione), l’imposta è dovuta lo stesso. Un caso affrontato: un contribuente non era riuscito ad abitare la casa perché occupata abusivamente da un terzo, l’ha rivenduta entro 5 anni e ha chiesto di non tassare per “forza maggiore”; ebbene, la Cassazione ha negato l’esimente, dicendo che ciò non rientra nelle cause di esclusione di legge . Quindi niente da fare. Al massimo, in sede di richiesta riduzione sanzioni, si può far presente la situazione per chiedere clemenza sull’aspetto punitivo, ma legalmente l’imposta base rimane dovuta.

D: La plusvalenza va indicata anche se ho venduto in perdita?
R: No, se il calcolo della plusvalenza dà risultato negativo (cioè hai venduto a meno del costo d’acquisto + spese), non hai un reddito tassabile, bensì una minusvalenza. Le minusvalenze su immobili privati non sono però deducibili da altri redditi (a differenza di quelle su azioni o simili). Quindi semplicemente non devi dichiarare nulla. Ad esempio, compri a 200, vendi a 180 entro 5 anni: hai perso 20, niente plusvalenza da dichiarare. Potresti eventualmente segnalare nel Quadro D una nota “vendita infrannuale in perdita”, ma non è obbligatorio. Diverso se è impresa che vende merci, ma parliamo di privati qui.

D: Sono un piccolo imprenditore edile: se compro, ristrutturo e vendo case, valgono i 5 anni o pago sempre?
R: In quel caso non sei tassato come redditi diversi, ma come attività d’impresa. Se fai quello di mestiere (anche senza una società, come ditta individuale), il Fisco potrebbe inquadrarti come “costruttore/venditore abituale” e allora i guadagni sulle vendite di immobili sarebbero considerati reddito d’impresa (senza esenzione 5 anni, quindi sempre tassabili, ma con regole IRES/IRPEF d’impresa). Attento quindi: se effettui compravendite frequenti, l’Agenzia potrebbe contestarti che stai svolgendo un’attività commerciale di trading immobiliare. Questo ha implicazioni più vaste (richiesta di aprire P.IVA, versare IVA sulle vendite se dovuta, ecc.). Se sei un imprenditore edile in regola, già saprai che vendendo case ristrutturate le plusvalenze confluiscono nel reddito d’impresa (quindi niente regole del quinquennio). La nostra guida si è focalizzata sui privati “non imprenditori” che vendono saltuariamente. Per un imprenditore, la difesa è su altre linee (es. dimostrare che non si trattava di beni d’impresa se il Fisco sostiene il contrario). In sintesi: per privati occasionali valgono i 5 anni; per chi di fatto fa business immobiliare, il Fisco non concede l’esenzione temporale.

D: In sede di separazione ho ricevuto la casa coniugale dall’ex coniuge e l’ho venduta subito: devo pagare plusvalenza?
R: Sì, per l’Agenzia sì. Anche se tu l’hai ricevuta senza comprarla ma come accordo di separazione, viene considerato come acquisto a titolo oneroso (perché c’era un “corrispettivo” sotto forma di rinuncia ad altri diritti) . Quindi la data di decorrenza è quando l’hai avuta (sentenza omologazione) e se rivendi prima di 5 anni scatta la plusvalenza su quella quota . L’AE lo ha espresso chiaramente nella Risposta 153/2025: non conta che fosse per sistemazione patrimoniale familiare, per il Fisco è come se avessi comprato metà casa dal coniuge a valore di perizia, e rivendendola presto paghi. Quindi presta attenzione: quell’operazione tra coniugi non è esente come successione (purtroppo). Avresti dovuto attendere 5 anni per sicurezza, se possibile. Se l’atto è già fatto e venduto, l’unica difesa potrebbe essere appellarsi a equità, ma dubito funzioni. Al più potresti valutare se la metà l’avevi già da prima (es. casa cointestata 50/50 da >5 anni, poi hai ricevuto l’altro 50% in separazione e vendi tutto: allora su tuo 50 iniziale niente tassa, sull’altro 50 sì). In questi casi l’imponibile si può almeno dimezzare in proporzione ai tempi di possesso .

D: Cos’è la plusvalenza “da Superbonus” di cui ho sentito parlare?
R: È una nuova fattispecie introdotta nel 2024. In pratica, se hai usufruito del Superbonus per ristrutturare casa (o altro intervento agevolato al 110%, 90%, ecc.), e poi vendi l’immobile entro 10 anni dalla fine dei lavori, il guadagno che realizzi è tassabile, anche se erano trascorsi più di 5 anni dall’acquisto . È un’estensione decennale della tassazione per evitare che uno migliori casa con la super-detrazione e venda lucrando. Restano comunque escluse le vendite se l’immobile era ereditato o se lo hai adibito ad abitazione principale dopo i lavori . Quindi, se vendi casa ristrutturata col 110% entro 10 anni devi valutarne la plusvalenza. E la tassa è al solito (puoi fare 26% al rogito). Questa norma vale per vendite dal 1° gennaio 2024 in avanti. Esempio: lavori fatti nel 2020-21 e vendi nel 2025 -> plusvalenza tassata (anche se magari avevi la casa dal 2015). Se però, poniamo, tuo padre aveva una casa, ha fatto superbonus e te l’ha lasciata in eredità, e tu vendi entro 10 anni: tu non paghi perché l’hai avuta per successione . Oppure, se dopo i lavori l’hai affittata come abitazione a terzi? Purtroppo l’esclusione vale solo se era abitazione principale tua o familiare , se l’hai affittata è investimento, quindi tassano. È una materia un po’ complessa, ma in breve: la soglia per stare tranquilli con immobili post-superbonus è diventata 10 anni, non più 5, salvo se ci vivi stabilmente tu.

D: Ho un accertamento per plusvalenza: posso evitare il processo trovando un accordo?
R: Sì. Puoi utilizzare l’Accertamento con adesione: entro 60 giorni dal ricevimento dell’avviso, presenti istanza di adesione all’Ufficio. Ti convocheranno (o oggi anche via telematica) e potrai discutere con i funzionari. Se ci sono margini (ad es. fornendo nuovi documenti di costi, o discutendo sul valore), potrete accordarvi su un importo inferiore. In caso di accordo, la sanzione viene ridotta a 1/3 del minimo (quindi al 30% circa). Poi paghi il dovuto (anche rateizzabile). Se invece non ti trovi d’accordo, puoi comunque fare ricorso dopo (l’istanza di adesione estende i termini di ricorso di 90 giorni). Alternativamente, se hai fatto ricorso, potrai ancora tentare una conciliazione giudiziale col supporto del giudice, ottenendo sanzioni ridotte al 50%. Spesso conviene aderire/conciliare se la violazione c’è e il contenzioso verte solo sull’ammontare: ti eviti anni di causa e tagli sanzioni. Se invece hai solide ragioni di esenzione totale, di solito l’ufficio in adesione non annulla tutto – in quel caso, meglio proseguire in giudizio per annullamento.

D: Se l’accertamento ha ragione e pago, poi posso rateizzare?
R: Sì. Dopo un avviso bonariamente puoi chiedere un piano di rate (max 8 rate trimestrali se importo <50k, fino a 16 rate se >50k). Se va in cartella, anche lì puoi avere fino a 72 rate mensili standard, o 120 in casi difficili. L’importante è chiedere la dilazione prima che decadano i termini. Questo per evitare misure esecutive. La rateazione comporta però interesse di dilazione. Ad esempio su 10.000 € potresti fare 8 rate da ~1.300 € l’una. Valuta che se hai vinto anche parzialmente il ricorso, non pagare finché non è definito, altrimenti rischi poi di dover chiedere rimborsi.

Conclusione: La tassazione della plusvalenza immobiliare infraquinquennale, dal punto di vista del contribuente-debitore d’imposta, richiede attenzione a dettagli fattuali e normativi. Conoscere le eccezioni di legge (successione, abitazione principale, ecc.) è fondamentale per non pagare indebitamente tasse non dovute, e saper leggere un atto di accertamento individuando eventuali errori è cruciale per imbastire una difesa efficace. Le recenti evoluzioni – come l’estensione a dieci anni per immobili ristrutturati con Superbonus – aggiungono ulteriore complessità, rendendo necessaria un’analisi caso per caso con supporto di professionisti. In ogni caso, l’ordinamento offre sia strumenti preventivi (interpello sui dubbi, ravvedimento operoso) sia strumenti di tutela successiva (ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria, adesione, mediazione) per far valere le proprie ragioni. Una guida avanzata come questa serve a orientare il contribuente e i suoi consulenti nel labirinto normativo e giurisprudenziale, ricordando sempre che una buona preparazione documentale e la conoscenza dei propri diritti sono le armi migliori per difendersi dal Fisco in modo legittimo e fondato.

Fonti utilizzate: Normativa di riferimento (artt. 67 e 68 TUIR) ; prassi Agenzia Entrate (Risoluzioni 78/E/2003 , 218/E/2008 , Risposta 153/2025 , ecc.); giurisprudenza di Cassazione (sent. n. 11786/2025 , ord. n. 30180/2021 , ord. n. 18963/2019 , sent. n. 17198/2025 , sent. n. 3614/2025 , etc.); articoli di approfondimento e guide fiscali aggiornate .

  • Legge n.108 del 30 luglio 2025 di conversione del D.L. n. 84/2025 cd. Dl Fiscale – Misure fiscali d’interesse per il settore
  • Cassazione, sentenza 12 febbraio 2025, n. 3614, sez. V
  • Sentenza Cassazione 17198/2025 – Plusvalenza immobiliare e area edificabile
  • CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 dicembre 2019, n. 32206

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ti contesta una plusvalenza immobiliare sulla vendita di un immobile avvenuta entro 5 anni dall’acquisto? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ti contesta una plusvalenza immobiliare sulla vendita di un immobile avvenuta entro 5 anni dall’acquisto?
Vuoi capire quando l’imposta è davvero dovuta e quali strumenti hai per difenderti da contestazioni ingiuste?

Non tutte le vendite effettuate entro 5 anni generano plusvalenza tassabile. Spesso l’Agenzia notifica accertamenti standardizzati che non tengono conto delle eccezioni previste dalla legge.

👉 Prima regola: verifica se la plusvalenza è davvero imponibile. In molti casi l’accertamento può essere annullato.


⚖️ Quando la plusvalenza è imponibile

  • Vendita entro 5 anni dall’acquisto di un immobile che non è stato abitazione principale;
  • Immobili acquistati per donazione: rileva la data di acquisto del donante, non del donatario;
  • Immobili ricevuti per successione: la plusvalenza non è mai tassata;
  • Abitazione principale (residenza tua o dei tuoi familiari): esclusa dalla tassazione, anche se venduta entro 5 anni;
  • Terreni edificabili: tassati sempre, indipendentemente dal periodo di possesso.

📌 Cosa comporta la contestazione

  • Richiesta di pagamento dell’IRPEF sulla plusvalenza (prezzo di vendita – prezzo di acquisto + oneri deducibili);
  • Sanzioni per omessa/tardiva dichiarazione della plusvalenza;
  • Interessi di mora;
  • Rischio di iscrizione a ruolo, cartelle e procedure esecutive se non si impugna.

🔍 Punti da controllare subito

  • Titolo di provenienza: acquisto, donazione, successione;
  • Decorrenza del termine dei 5 anni: calcola esattamente le date di rogito;
  • Uso dell’immobile: era la tua abitazione principale? Ci risiedevano familiari?
  • Calcolo della plusvalenza: hai incluso spese notarili, imposte d’acquisto, ristrutturazioni documentate?
  • Motivazione dell’atto: l’Agenzia ha fornito prove concrete o solo presunzioni?
  • Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.

🧾 Documenti fondamentali per la difesa

  • Rogito di acquisto e atto di vendita;
  • Certificato storico di residenza (per dimostrare l’uso come abitazione principale);
  • Fatture e bonifici per lavori di ristrutturazione e spese incrementative;
  • Atti di successione o donazione;
  • Dichiarazioni dei redditi e ricevute di versamento imposte.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare l’esenzione (abitazione principale, successione, decorrenza quinquennio);
  • Correggere il calcolo della plusvalenza includendo tutte le spese deducibili;
  • Eccepire vizi formali: notifica irregolare, motivazione insufficiente, decadenza dei termini;
  • Chiedere autotutela se l’errore dell’Agenzia è evidente;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni, con possibilità di sospensione della riscossione;
  • Mediazione tributaria (quando prevista) per ridurre sanzioni e interessi.

🛡️ Come può assisterti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza atti e calcoli dell’Agenzia delle Entrate;
📌 Verifica se la plusvalenza è davvero imponibile o se ricorrono cause di esenzione;
✍️ Predispone ricorsi e memorie difensive per annullare o ridurre la pretesa fiscale;
⚖️ Ti rappresenta in mediazione, contraddittorio e giudizi tributari;
🔁 Fornisce consulenza preventiva per gestire in sicurezza future vendite immobiliari.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in plusvalenze immobiliari e contenzioso tributario;
✔️ Specializzato in difesa di privati e imprese nelle operazioni immobiliari;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

La contestazione di una plusvalenza immobiliare su vendita entro 5 anni non è sempre legittima.
Con un’analisi tecnica e una difesa mirata puoi far valere le cause di esclusione, correggere errori di calcolo e annullare pretese indebite.

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  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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