Omissione Redditi Da Collaborazioni Coordinate E Continuative: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per l’omessa dichiarazione di redditi da collaborazioni coordinate e continuative? In questi casi, l’Ufficio presume che il contribuente abbia nascosto compensi percepiti e può emettere un accertamento con imposte, sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è corretta: ci sono situazioni in cui i redditi sono stati già tassati, dichiarati o non soggetti a imposizione.

Quando l’Agenzia contesta l’omissione di redditi da co.co.co.
– Se il contribuente non ha indicato nella dichiarazione i compensi risultanti dalle Certificazioni Uniche (CU) trasmesse dai committenti
– Se i redditi non sono stati inseriti correttamente nei quadri della dichiarazione dei redditi
– Se vi sono difformità tra quanto dichiarato e i dati in possesso dell’Agenzia tramite l’Anagrafe Tributaria
– Se i compensi sono stati dichiarati in modo parziale o con errori formali
– Se i redditi sono stati percepiti da più committenti e non interamente riportati in dichiarazione

Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione dei redditi omessi con applicazione dell’aliquota marginale più alta
– Sanzioni amministrative per infedele dichiarazione o omessa dichiarazione
– Interessi di mora calcolati dalla data in cui l’imposta sarebbe stata dovuta
– Possibili accertamenti a catena su altri redditi o annualità

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare che i redditi sono già stati tassati alla fonte (ritenute IRPEF correttamente operate dal committente)
– Correggere eventuali errori formali tramite dichiarazioni integrative o ravvedimento operoso
– Contestare errori dell’Agenzia nel riportare i dati delle Certificazioni Uniche
– Dimostrare la non imponibilità di somme erroneamente considerate reddito (rimborsi spese, indennità particolari)
– Evidenziare vizi formali, irregolarità di notifica o decadenza dei termini nell’atto di accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare le certificazioni dei redditi e i dati utilizzati dall’Agenzia delle Entrate
– Verificare la corretta applicazione delle ritenute e dei criteri di tassazione
– Redigere un ricorso mirato fondato su prove documentali e vizi di forma dell’accertamento
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari e contrastare pretese illegittime
– Tutelare il patrimonio personale da aggravi fiscali e procedure esecutive

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della corretta tassazione dei redditi percepiti
– La sospensione di eventuali procedure esecutive già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto, senza duplicazioni d’imposta

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Trascorso questo termine, l’accertamento diventa definitivo e non potrà più essere impugnato.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e del lavoro – spiega come difendersi dalle contestazioni per omissione di redditi da collaborazioni coordinate e continuative e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

L’omissione dei redditi derivanti da collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.) nelle dichiarazioni fiscali rappresenta una violazione grave della normativa tributaria italiana. Si tratta di una fattispecie in cui il contribuente – spesso un lavoratore autonomo parasubordinato o un collaboratore a progetto – non dichiara al Fisco i compensi percepiti per la propria attività continuativa e coordinata, eludendo così (in tutto o in parte) le imposte dovute su tali somme. Dal punto di vista del debitore (ovvero del contribuente inadempiente), questa situazione può comportare conseguenze molto serie, sia sotto il profilo fiscale (accertamenti d’ufficio, sanzioni amministrative pecuniarie, e nei casi più gravi anche imputazioni penali per reati tributari) che sotto il profilo previdenziale (omesso versamento dei contributi INPS con relative sanzioni e perdita di benefici pensionistici).

In questa guida di approfondimento avanzato – aggiornata ad agosto 2025 – forniremo un’analisi dettagliata della normativa italiana vigente in materia, arricchita da fonti autorevoli (normative, prassi ufficiali e giurisprudenza recente, inclusi i più rilevanti orientamenti di Corte di Cassazione e Corte Costituzionale). Adotteremo un linguaggio tecnico-giuridico ma con taglio divulgativo, in modo da risultare utile sia a professionisti legali (avvocati e consulenti), sia a privati cittadini e imprenditori che si trovino ad affrontare contestazioni relative a redditi da co.co.co. non dichiarati.

Esamineremo innanzitutto cosa sono i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e come i loro redditi sono inquadrati a fini fiscali e contributivi. Quindi analizzeremo gli obblighi dichiarativi e contributivi gravanti sul collaboratore (e sul committente), evidenziando le differenze tra dichiarazione infedele (dichiarazione presentata ma con redditi omessi o falsati) e omessa dichiarazione (dichiarazione annuale del tutto non presentata). Verranno poi illustrati i regimi sanzionatori amministrativi e penali applicabili in caso di omissione, compresi gli ultimi aggiornamenti normativi (come la riforma delle sanzioni tributarie nel 2024) e le più recenti sentenze.

Dal punto di vista del debitore, il cuore della guida riguarderà le strategie difensive e gli strumenti di tutela: come sanare spontaneamente la violazione (ad esempio con ravvedimento operoso) per ridurre le sanzioni, come contestare un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate o un avviso di addebito INPS, quali argomentazioni giuridiche sollevare in ricorso (anche alla luce della giurisprudenza favorevole), nonché come comportarsi in sede penale se si è imputati per reato tributario di omessa dichiarazione. Dedicheremo inoltre spazio ai profili previdenziali INPS, poiché l’omissione di redditi co.co.co. spesso si accompagna all’omissione contributiva: spiegheremo gli effetti sul diritto alle prestazioni pensionistiche e le sanzioni contributive (amministrative e penali) a carico del datore di lavoro/committente, tenendo conto anche qui delle pronunce più autorevoli (come la Cassazione Sez. Lavoro e la Corte Costituzionale in materia di omesso versamento di contributi).

Per facilitare la comprensione, includeremo esempi pratici e simulazioni (riferite al contesto italiano) su casi tipici – ad esempio un collaboratore che non ha dichiarato un compenso e riceve un accertamento IRPEF, oppure un’azienda committente che non ha versato i contributi per il collaboratore – illustrando passo passo possibili soluzioni. In fondo troverete anche una sezione di Domande e Risposte comuni (FAQ) e alcune tabelle riepilogative che sintetizzano i punti chiave: soglie, sanzioni, termini di prescrizione, rimedi disponibili, ecc. L’obiettivo è fornire al lettore una visione completa e aggiornata del problema e degli strumenti di difesa, così da potersi orientare consapevolmente in una materia complessa con il supporto di riferimenti normativi e giurisprudenziali solidi.

Le collaborazioni coordinate e continuative (Co.co.co.): inquadramento generale

Le collaborazioni coordinate e continuative, comunemente dette co.co.co., sono rapporti di lavoro di tipo parasubordinato, introdotti e regolamentati nell’ordinamento italiano a partire dagli anni ’90. Si tratta di forme contrattuali in cui il collaboratore presta un’attività lavorativa continuativa nel tempo e coordinata con il committente (ossia svolta secondo le indicazioni e le esigenze di quest’ultimo), ma senza i vincoli della subordinazione tipica del lavoro dipendente. In altre parole, il collaboratore co.co.co. non è un dipendente, mantiene una certa autonomia organizzativa e manca di un orario predeterminato o di un’assoggettamento gerarchico pieno, tuttavia la sua attività non è nemmeno occasionale: viene svolta in maniera protratta e in coordinamento con l’attività del committente, spesso dietro pagamento di un compenso periodico.

Dal punto di vista civilistico, i co.co.co. originariamente rientravano nella categoria del lavoro autonomo (art. 2222 c.c.), ma con il D.lgs. 276/2003 (c.d. Legge Biagi) fu introdotta una particolare sottospecie denominata lavoro a progetto, poi in gran parte superata dalla riforma del Jobs Act 2015. Attualmente, la figura del co.co.co. sopravvive per collaborazioni che presentino requisiti specifici (ad es. collaborazione coordinata etero-organizzata ex D.Lgs. 81/2015, collaborazioni in favore di associazioni sportive dilettantistiche, amministratori di società, ecc.), mentre molte situazioni precedentemente inquadrate come co.co.co. sono state trasformate in rapporti di lavoro subordinato salvo eccezioni. Nonostante ciò, a fini fiscali e contributivi le regole generali dei redditi da co.co.co. restano applicabili a tutti i compensi derivanti da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa in essere.

Fiscalmente, i compensi percepiti dai collaboratori coordinati e continuativi sono classificati tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente (art. 50 del TUIR, DPR 917/1986). Ciò significa che, pur non essendo tecnicamente buste paga da lavoro subordinato, questi redditi subiscono un trattamento tributario analogo a quello dello stipendio di un dipendente: il committente (impresa, ente o professionista che si avvale del collaboratore) agisce come sostituto d’imposta, applicando le ritenute d’acconto IRPEF sul compenso corrisposto al collaboratore, normalmente secondo le aliquote Irpef progressive come avviene per i dipendenti (salvo particolari regimi agevolati). Il collaboratore riceve dunque un compenso al netto delle ritenute fiscali e delle trattenute contributive, di cui il committente fornisce certificazione annuale (Certificazione Unica, ex CUD). Le collaborazioni coordinate sono espressamente equiparate ai fini IRPEF ai redditi da lavoro dipendente anche per quanto riguarda le detrazioni d’imposta spettanti (ad esempio, detrazione per lavoro dipendente in misura rapportata al reddito e al periodo di lavoro). Lo confermano le fonti fiscali: “i collaboratori coordinati e continuativi sono, quindi, assimilati al lavoro dipendente” . In pratica, ai fini della dichiarazione dei redditi, i compensi da co.co.co. vanno indicati nel quadro relativo ai redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente.

Dal punto di vista previdenziale, i collaboratori coordinati e continuativi – non essendo iscritti ad altre gestioni obbligatorie o casse professionali (salvo che rivestano un’ulteriore qualifica, come un ingegnere iscritto a Inarcassa, situazione in parte diversa) – sono tenuti all’iscrizione presso la Gestione Separata INPS (art. 2, comma 26, L. 335/1995). Su ciascun compenso da co.co.co. devono essere versati i contributi previdenziali alla Gestione Separata, in parte a carico del collaboratore e in parte a carico del committente, secondo un’aliquota complessiva stabilita annualmente (negli ultimi anni intorno al 34-35%, di cui generalmente 1/3 a carico collaboratore e 2/3 a carico committente). Importante: a differenza del lavoro dipendente, nel quale l’obbligo contributivo verso l’INPS grava interamente sul datore di lavoro (che poi trattiene la quota a carico lavoratore), per i co.co.co. la legge considera il collaboratore stesso come soggetto passivo dell’obbligazione contributiva, sebbene il committente sia tenuto per legge a versare materialmente i contributi (trattenendo la quota a carico del collaboratore). Lo ha ribadito la Cassazione, spiegando che ai sensi dell’art. 2 L. 335/95 “i soggetti titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa sono i soggetti passivi dell’obbligazione contributiva nei confronti della Gestione Separata INPS”, e l’onere posto a carico dei committenti (nella misura dei 2/3, ex DM 281/1996) costituisce solo “una forma di delegazione legale di pagamento” volta a semplificare la riscossione . In altre parole, il committente è un mero delegato di pagamento, mentre “il collaboratore coordinato e continuativo rimane l’unico vero titolare dell’obbligazione contributiva” verso l’INPS . Questo principio ha conseguenze importanti in caso di omissione del versamento contributivo, come vedremo, poiché implica che il mancato pagamento dei contributi obbligatori generalmente impedisce al collaboratore di maturare i corrispondenti diritti previdenziali, non operando il principio di automaticità delle prestazioni (valido invece per i dipendenti) .

Riassumendo:

  • I compensi da co.co.co. sono redditi imponibili IRPEF (categoria redditi assimilati al lavoro dipendente). Il collaboratore è soggetto all’IRPEF e relative addizionali su tali somme, con il committente che effettua le relative ritenute e certifica gli importi lordi e trattenuti.
  • Su detti compensi vanno versati i contributi INPS Gestione Separata, con ripartizione 1/3 – 2/3 tra collaboratore e committente, ma con responsabilità finale in capo al collaboratore per assicurare il pagamento. L’aliquota contributiva è percentuale sul reddito lordo e include l’assicurazione per invalidità, vecchiaia e superstiti (e dal 2015 vi è anche, per molti collaboratori, l’obbligo assicurativo DIS-COLL contro la disoccupazione involontaria).
  • Il collaboratore parasubordinato non gode di tutela automatica in caso di omissione contributiva: se il committente non versa i contributi, salvo poche eccezioni normative, il periodo non coperto non darà luogo a copertura pensionistica finché i contributi non vengano recuperati (dall’INPS o dal lavoratore stesso). Come affermato dalla Cassazione, nel rapporto di collaborazione il mancato versamento “impedisce […] la stessa costituzione del rapporto previdenziale e comunque la maturazione del diritto alle prestazioni, dal momento che […] l’obbligazione contributiva grava sullo stesso lavoratore […] il quale, coerentemente, non può che subire le conseguenze pregiudizievoli del proprio inadempimento” . Il collaboratore, dunque, se vuole tutelare la propria posizione previdenziale, dovrebbe attivarsi per versare egli stesso i contributi omessi dal committente (entro i termini di prescrizione), eventualmente rivalendosi poi sul committente per il recupero delle somme – soluzione prospettata esplicitamente dalla giurisprudenza .

Obblighi fiscali di dichiarazione dei redditi da co.co.co.

Quando e come vanno dichiarati i compensi da collaborazione coordinata e continuativa? La regola generale è che tali redditi, essendo imponibili IRPEF, vanno indicati nella dichiarazione annuale dei redditi del percipiente (Modello 730 o Redditi PF, a seconda dei casi) riferita all’anno in cui sono stati percepiti (principio di cassa). Il collaboratore riceve entro marzo/aprile dell’anno successivo una Certificazione Unica (CU) dal committente, che riepiloga l’ammontare lordo dei compensi pagati e delle ritenute fiscali operate, nonché dei contributi versati all’INPS. Questi dati confluiscono – anche automaticamente nel modello precompilato disponibile sul sito dell’Agenzia delle Entrate – nella dichiarazione dei redditi del collaboratore.

Va però evidenziato che non in tutti i casi vi è obbligo di presentare la dichiarazione. L’ordinamento prevede infatti ipotesi di esonero dalla dichiarazione dei redditi per i contribuenti che hanno soltanto determinati tipi di reddito e si trovano in specifiche condizioni, in particolare quando tutte le imposte dovute risultano già trattenute a monte dal sostituto d’imposta. Ad esempio, se un contribuente percepisce esclusivamente redditi da lavoro dipendente o assimilati (come appunto i compensi da co.co.co.) da un unico sostituto d’imposta per tutto l’anno, e non ha altri redditi o detrazioni/deduzioni da far valere, egli è normalmente esonerato dall’obbligo di presentare il modello 730 o Redditi, in quanto le ritenute effettuate dal datore di lavoro/committente a fine anno hanno già assolto interamente l’IRPEF dovuta . Ciò vale anche nel caso di più rapporti avuti durante l’anno ma con conguaglio effettuato dall’ultimo sostituto (ad esempio, se il collaboratore ha cambiato committente e l’ultimo datore ha conguagliato i redditi precedenti, o in caso di percezione di pensione dopo un periodo di lavoro, ecc.) . Al contrario, se il contribuente ha percepito redditi da più sostituti d’imposta senza conguaglio finale, oppure possiede anche altri redditi (es. redditi di fabbricati, oppure un secondo lavoro autonomo con partita IVA, ecc.), allora l’obbligo dichiarativo sussiste. Inoltre, l’esonero non si applica se il contribuente vuole comunque presentare la dichiarazione per ottenere un rimborso o per utilizzare detrazioni/deduzioni non applicate dal sostituto (ad esempio spese mediche da detrarre): in tali casi è facoltà del contribuente presentare il 730 anche se non obbligato, al fine di beneficiare di crediti d’imposta o rimborsi.

Riassumendo i principali casi di esonero rilevanti per i collaboratori co.co.co.: – Unico sostituto per tutto l’anno: Se il collaboratore ha avuto un solo rapporto di collaborazione (o comunque un unico sostituto d’imposta) e non deve versare imposte ulteriori, può essere esonerato. In particolare, è esonerato chi ha percepito solo redditi di lavoro dipendente o assimilati (inclusi rapporti a progetto e collaborazioni) da un unico sostituto, oppure da più sostituti ma con avvenuto conguaglio fiscale da parte dell’ultimo . In tali casi l’IRPEF dovuta risulta già interamente trattenuta (e versata dal sostituto) e non ci sono differenziali d’imposta. – Reddito basso sotto soglia: Indipendentemente dal numero di sostituti, esistono soglie di reddito al di sotto delle quali si è esonerati. Per i redditi assimilati a lavoro dipendente (categoria che include i co.co.co.) la soglia generale è di €5.500 annui (se il soggetto non ha altri redditi) . Dunque, se ad esempio un collaboratore occasionale avesse percepito in totale 5.000 euro lordi con ritenute, potrebbe rientrare nell’esonero per limite di reddito. – Imposta IRPEF risultante minima: vige la regola generale che se l’IRPEF dovuta (al netto di detrazioni) non supera €10,33, non vi è obbligo di dichiarazione (caso poco frequente, è un residuo tecnico dovuto all’arrotondamento imposte zero).

Va prestata attenzione: molti contribuenti, confidando in tali esoneri, potrebbero non presentare dichiarazione credendo di essere in regola, mentre in realtà potrebbero non rientrare nelle condizioni richieste. Un caso tipico è il collaboratore che nel corso dello stesso anno ha più contratti di collaborazione con diversi committenti, senza conguaglio: ogni committente applica le ritenute IRPEF come se lui fosse l’unico datore (applicando magari aliquote basse sui primi scaglioni), ma considerando il reddito complessivo il collaboratore potrebbe risultare debitore di un’imposta aggiuntiva. Ebbene, chi ha percepito redditi da più sostituti senza conguaglio deve presentare la dichiarazione, perché c’è l’obbligo di dichiarare tutti i redditi e determinare l’imposta complessiva. L’omessa dichiarazione in questo caso comporterà verosimilmente un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate non appena questa incroci i dati delle Certificazioni Uniche: infatti, il Fisco dispone delle comunicazioni dei sostituti (CU) e riesce a rilevare se un contribuente non ha presentato dichiarazione pur avendo percepito redditi.

Altro caso: se il collaboratore ha ulteriori redditi (es. un reddito da fabbricato per un immobile affittato, oppure redditi di capitale) che comportino un’imposta aggiuntiva, l’obbligo di dichiarazione scatta comunque, anche se il reddito da co.co.co. in sé fosse coperto da ritenute. Dunque è sempre opportuno verificare la propria situazione complessiva e consultare un esperto, perché fare affidamento sul solo esonero può rivelarsi un errore.

In conclusione, non presentare la dichiarazione dei redditi è lecito solo in specifiche situazioni previste dalla norma. Fuori da tali ipotesi, il collaboratore che non dichiara i compensi commette una violazione. Anche presentare la dichiarazione omettendo intenzionalmente di indicare uno o più compensi da co.co.co. (magari pensando che, essendo già tassati alla fonte, “non serva dichiararli”) costituisce violazione (dichiarazione infedele). Vediamo quindi nel dettaglio le diverse fattispecie di violazione dichiarativa e le relative conseguenze.

Dichiarazione infedele vs omessa dichiarazione: definizioni e differenze

Nel diritto tributario italiano, occorre distinguere tra: – Dichiarazione infedele: il contribuente presenta sì la dichiarazione annuale, ma indica redditi inferiori al reale (oppure indebite detrazioni/deduzioni, ecc.), in modo da dichiarare un’imposta minore del dovuto. Nel nostro caso, si avrebbe dichiarazione infedele se, ad esempio, il collaboratore presenta il Modello Redditi o 730 ma “dimentica” di inserire il reddito di una collaborazione svolta, oppure lo indica per un importo inferiore al percepito. La dichiarazione infedele è una violazione formale che comporta sanzioni amministrative (in base all’imposta evasa) e, solo se superano certe soglie di gravità, può integrare un reato. – Omessa dichiarazione: il contribuente non presenta affatto la dichiarazione dei redditi entro i termini di legge (né nei 90 giorni di ritardo consentiti per considerarla valida). Ai sensi dell’art. 2, co.7 DPR 322/1998, la dichiarazione presentata con oltre 90 giorni di ritardo è considerata omessa (anche se eventualmente verrà acquisita agli atti). Quindi, se il collaboratore non invia proprio la dichiarazione, e aveva l’obbligo di farlo, si ricade nella fattispecie di omessa dichiarazione. Questa è considerata la violazione più grave, perché implica che l’Amministrazione finanziaria non dispone di alcun riscontro dei redditi percepiti in quell’anno dal contribuente.

Nel concreto, prendendo ad esempio l’anno d’imposta 2024 (dichiarazione da presentarsi nel 2025): – se il collaboratore non trasmette il Modello Redditi PF 2025 entro il termine ordinario (es. 30 novembre 2025) né nei 90 giorni successivi (entro fine febbraio 2026), la dichiarazione si considera omessa. – Se trasmette la dichiarazione entro quei 90 giorni di ritardo (ad esempio a gennaio 2026), la dichiarazione è tardiva ma valida (si applica solo una sanzione fissa per ritardo). Oltre i 90 giorni, anche se inviasse tardivamente il modello, verrebbe comunque qualificato come omesso (pur costituendo la dichiarazione tardiva un elemento che permette al Fisco di incassare l’imposta indicata).

Rilevanza penale: La differenza tra infedele e omessa dichiarazione è importante anche perché la legge penale tributaria (D.Lgs. 74/2000) prevede due distinti reati: – l’infedele dichiarazione (art. 4 D.Lgs. 74/2000) punisce chi indica elementi attivi (redditi) per un ammontare inferiore a quello effettivo quando l’imposta evasa supera determinate soglie (attualmente €100.000 di imposta evasa e contemporaneamente €2 milioni di redditi non dichiarati, soglie elevate introdotte dalla riforma del 2015). È un reato di pericolo che scatta solo se c’è una certa consistenza dell’evasione, ed è punito con la reclusione fino a 3 anni. – l’omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000) punisce invece chi omette del tutto la presentazione, sempreché l’imposta evasa superi €50.000. È considerato reato più grave (punito con reclusione da 2 a 5 anni ) perché potenzialmente nasconde al Fisco l’intero reddito. La soglia di punibilità è più bassa (€50.000 per periodo d’imposta) e non vi è una soglia assoluta sui redditi non dichiarati ma solo sul tributo evaso. La presentazione della dichiarazione oltre il 90° giorno dalla scadenza integra già questo reato (se supera soglia), poiché è equiparata all’omissione.

Nel contesto che stiamo trattando – omissione di redditi da co.co.co. – possono presentarsi entrambe le situazioni: – Contribuente che presenta la dichiarazione ma omette quel reddito (magari dichiara altri redditi, es. reddito da pensione, ma non il compenso da collaborazione). Tecnicamente è una dichiarazione infedele. Se l’imposta evasa collegata a tale omissione supera le soglie penali, potrebbe configurarsi il reato ex art.4 (anche se, dati i limiti elevati di quest’ultimo, non è molto comune incorrervi con redditi da collaborazione salvo importi ingenti). In ogni caso scatteranno sanzioni amministrative e un accertamento per maggior imposta. – Contribuente che non presenta affatto la dichiarazione, pur avendo percepito compensi da co.co.co. (ed eventualmente altri redditi). È l’ipotesi dell’omessa dichiarazione, passibile di sanzione amministrativa dal 120% in su dell’imposta dovuta, e di sanzione penale se l’imposta evasa eccede €50.000.

Va chiarito che “imposta evasa” non significa l’intero importo delle imposte dovute sul reddito omesso, indipendentemente da acconti o ritenute. La normativa definisce l’“imposta evasa” in termini sostanziali, ossia tenendo conto di quanto è stato eventualmente già pagato o trattenuto: per imposta evasa s’intende l’imposta complessiva dovuta sul reddito effettivo, al netto di quanto il contribuente (o un terzo per suo conto) abbia già versato a titolo di acconto o ritenuta prima della scadenza della dichiarazione . Ad esempio, se un collaboratore ha percepito €10.000 lordi e il committente ha operato €2.000 di ritenute, l’imposta evasa in caso di omessa dichiarazione non sarebbe calcolata sull’intero importo lordo come se nulla fosse stato pagato, ma si dovrà detrarre quella ritenuta già versata dal committente. In tal senso la Cassazione penale ha chiarito che, nel determinare l’ammontare dell’imposta evasa, “si debba tener conto anche delle somme versate da terzi a titolo di ritenuta” nonché degli oneri deducibili spettanti . Ad esempio, nel caso di un professionista che aveva omesso di dichiarare compensi derivanti da co.co.co., la Cassazione ha ritenuto che gli spettasse comunque la deduzione forfettaria del 10% prevista per quel tipo di reddito, pur se non dichiarato, proprio perché necessaria a calcolare correttamente la base imponibile reale su cui commisurare l’imposta . Questo principio – confermato dalla storica sentenza Cass. n. 4643/2011 – significa che, anche in sede di accertamento, l’Agenzia delle Entrate non può tassare il 100% del compenso omesso ignorando costi o deduzioni di legge: deve applicare la normativa come se il contribuente avesse dichiarato correttamente (ad esempio, applicando l’abbattimento forfettario previsto), senza poter imporre un’imposta maggiore come sorta di “punizione” .

Pertanto, ai fini penali la soglia dei 50.000 euro di imposta evasa va valutata dopo aver considerato ritenute e acconti già versati e gli oneri deducibili spettanti . Nel caso di redditi da co.co.co., spesso il committente ha già versato ritenute anche consistenti; ciò può significare che la differenza d’imposta residua sia inferiore al limite penale, evitando conseguenze penali pur essendovi la violazione amministrativa. Ad esempio, se Tizio ha percepito €40.000 lordi da co.co.co. con ritenute operate per €12.000 e non dichiara nulla: l’IRPEF totale dovuta magari sarebbe €13.000, a fronte di €12.000 già pagati con ritenute, quindi l’“imposta evasa” è solo €1.000 – ben sotto soglia penale, anche se Tizio dovrà pagare sanzioni e differenze. Viceversa, se l’omesso è molto grande e le ritenute insufficienti, la parte di imposta non versata potrebbe superare 50.000 euro e quindi rilevare penalmente.

In sintesi, la dichiarazione infedele si configura quando c’è una dichiarazione presentata ma incompleta, mentre l’omessa dichiarazione quando proprio non c’è dichiarazione (o è così tardiva/nulla da equivalere a omessa). Entrambe sono violazioni amministrative; l’omessa è considerata più grave (anche per l’ordinamento, come vedremo dalle sanzioni). Dal punto di vista del contribuente-difensore, sarà importante capire in quale casistica si ricade, perché le strategie difensive e le sanzioni applicabili differiscono. Nei paragrafi che seguono analizzeremo dunque separatamente le sanzioni tributarie (amministrative e penali) e poi passeremo ai possibili mezzi di difesa in sede fiscale e contributiva.

Sanzioni fiscali per omessa o infedele dichiarazione di redditi co.co.co.

Sanzioni amministrative tributarie

In caso di violazioni dichiarative, il D.Lgs. 471/1997 (che disciplina le sanzioni amministrative tributarie non penali) prevede sanzioni pecuniarie proporzionali, commisurate all’imposta evasa. Occorre distinguere:

  • Dichiarazione infedele (art. 1, comma 2, D.Lgs. 471/97): la sanzione ordinaria consiste in una somma dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta o della differenza di credito utilizzato. (Tale misura è frutto della riduzione operata dal D.Lgs. 158/2015; in precedenza era 100-200%). Ad esempio, se omettendo €5.000 di reddito il contribuente ha versato €1.000 in meno di IRPEF, la sanzione base sarà tra €900 e €1.800, oltre interessi. Sono previste attenuanti qualora l’infedeltà derivi da valutazioni estimative controverse, ecc., ma nel caso di redditi omessi si tratta in genere di sanzione piena. Non approfondiamo oltre questo aspetto poiché il focus qui è sul caso più grave di omissione totale.
  • Omessa dichiarazione (art. 1, comma 1, D.Lgs. 471/97): la sanzione è più aspra. Fino al 31/08/2024 era prevista una forbice dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di €250 . Era quindi molto elevata (fino a quasi due volte e mezzo il tributo evaso). La Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità da una Commissione tributaria, non ha dichiarato incostituzionale tale regime ma ha sottolineato la necessità di applicarlo con criteri di proporzionalità, sfruttando gli strumenti di riduzione offerti dall’ordinamento (ad es. considerare attenuanti e comportamenti post-violazione per ridurre fino alla metà la sanzione) . Di fatto, il legislatore è intervenuto di recente: con il D.Lgs. 87/2024 (attuativo della Delega Fiscale), in vigore dal 1° settembre 2024, la sanzione per omessa dichiarazione è stata fissata nella misura fissa del 120% dell’imposta evasa (sempre con minimo €250), eliminando il tetto massimo del 240% . Inoltre, è stata introdotta una riduzione al 75% (dell’imposta) se il contribuente presenta spontaneamente la dichiarazione omessa prima di qualsiasi attività di controllo . In pratica, se ci si pente e si presenta la dichiarazione tardivamente (comunque oltre i 90 giorni, quindi tecnicamente omessa, ma prima che il Fisco contesti l’evasione), la sanzione scende dal 120% al 75% dell’imposta. Resta ferma la sanzione minima di €250.

Se invece dall’omissione non risulta alcuna imposta dovuta (caso possibile ad esempio se le ritenute subite coprono interamente il debito, o se il reddito era sotto no tax area ma andava dichiarato), la legge prevede una sanzione fissa compresa tra €250 e €1.000 (raddoppiabile se il contribuente era tenuto a scritture contabili) . Questa è la situazione di chi, pur dovendo fare la dichiarazione, non la fa ma non avrebbe avuto tasse da pagare – non c’è evasione d’imposta, ma viene comunque punita la mancata collaborazione col Fisco.

Base di calcolo delle sanzioni: è importante notare che, come detto prima, la base su cui si calcola la sanzione per omessa dichiarazione è l’ammontare delle imposte sui redditi accertati“al netto delle ritenute alla fonte operate sui redditi accertati e delle detrazioni spettanti” . Ciò significa che, ad esempio, se Tizio non dichiara un reddito co.co.co. di €10.000 su cui il sostituto ha già trattenuto €2.000 di IRPEF, e senza quell’omissione Tizio avrebbe dovuto versare altri €200, la sanzione verrà calcolata sul tributo effettivamente non versato (€200), non sull’intero importo. Questa disposizione (ribadita anche in circolari ufficiali) evita che la sanzione risulti sproporzionata rispetto al reale disvalore dell’illecito . In pratica, per quanto riguarda i redditi da co.co.co., spesso una parte consistente dell’IRPEF è già stata assolta tramite ritenuta: l’omessa dichiarazione in tali casi è certamente una violazione (perché il Fisco è stato privato dei controlli formali e il contribuente può aver evitato di versare eventuali conguagli o addizionali), però la sanzione sarà in percentuale sull’eventuale parte di imposta non pagata (oltre al fatto che, come visto, la legge ora consente di scendere al 75% se ci si ravvede prima del controllo).

Come si applicano in concreto le sanzioni amministrative? L’Agenzia delle Entrate, quando scopre l’omissione, emette un avviso di accertamento in cui liquida le imposte dovute sui redditi non dichiarati (più interessi) e contestualmente irroga la sanzione (oggi tipicamente il 120% dell’imposta evasa, riducibile a metà se si chiude in acquiescenza o conciliazione, etc.). Se il contribuente non impugna o definisce l’atto, la sanzione diventa definitiva e viene riscossa tramite cartella o ingiunzione. È importante sapere che l’Agenzia ha la possibilità, già in sede di irrogazione, di tenere conto di eventuali circostanze attenuanti e applicare l’art. 7 D.Lgs. 472/97 che consente la riduzione fino al 50% in presenza di circostanze eccezionali . A seguito della sentenza costituzionale n. 46/2023, è stato chiarito che elementi come il comportamento del contribuente e l’assenza di effettivo intento fraudolento possano (anzi, debbano) essere considerati per mitigare la sanzione . Quindi, un contribuente che – ad esempio – ha omesso la dichiarazione per mera negligenza, ma ha di fatto versato quasi tutte le imposte dovute tramite ritenute, potrebbe ottenere in giudizio una significativa riduzione della sanzione rispetto al 120% pieno, in ossequio al principio di proporzionalità della pena amministrativa .

Da ultimo, ricordiamo che esistono strumenti premiali di tipo amministrativo: il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/97) consente al contribuente che si autodenuncia di beneficiare di riduzioni delle sanzioni. Nel caso di omessa dichiarazione, il ravvedimento consiste nel presentare spontaneamente la dichiarazione omessa e pagare l’imposta dovuta con interessi e sanzione ridotta. Se ciò avviene entro 90 giorni dal termine (dichiarazione tardiva), la sanzione formale per tardività è minima (€25); se avviene oltre i 90 giorni (quindi dichiarazione considerata omessa), la sanzione è quella per omessa dichiarazione ma ridotta in misura differenziata a seconda del momento del ravvedimento (ad esempio entro il primo anno, riduzione a 1/8, poi 1/7, 1/6, ecc. man mano che passa il tempo). Considerando che ora la sanzione di base è 120%, ravvedersi entro un anno comporterebbe pagare il 15% dell’imposta (120%/8), oltre all’imposta e interessi. Inoltre, come visto, la normativa dal 2024 ha introdotto un’ulteriore riduzione legale al 75% se ci si autodenuncia prima di controlli; questa pare cumulabile con le riduzioni da ravvedimento, nei limiti fissati (la materia è un po’ complessa ma in sostanza: ravvedersi conviene sempre perché abbatte drasticamente le sanzioni). Naturalmente il ravvedimento è possibile solo prima che l’Agenzia delle Entrate contesti formalmente la violazione (prima della notifica di un avviso di accertamento o di una comunicazione di irregolarità).

Sanzioni penali tributarie

Sul piano penale, come accennato, l’omessa dichiarazione può configurare un reato ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. 74/2000. I punti chiave di questa fattispecie sono: – Soglia di punibilità: il reato sussiste solo se l’ammontare dell’imposta evasa supera €50.000 per ciascun periodo d’imposta . Occorre riferirsi a ciascuna imposta: nel caso di un collaboratore persona fisica, le imposte rilevanti potrebbero essere IRPEF e addizionali (regionale e comunale) sommate, oppure l’IVA se fosse dovuta (ma nelle co.co.co. tipicamente l’IVA non si applica). In genere, si guarda all’IRPEF evasa; se supera 50k, scatta il reato (non si sommano IRPEF e IVA tra loro, ma ciascuna imposta fa caso a sé). – Definizione di “imposta evasa”: come già spiegato, la legge definisce l’imposta evasa in maniera sostanziale: è “l’intera imposta dovuta, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta” entro la scadenza . Inoltre, la Cassazione ha chiarito che vanno considerati anche i costi deducibili afferenti ai redditi non dichiarati, perché incidono sulla base imponibile (nel caso di lavoro autonomo imprenditoriale si deducono le spese, nel caso di co.co.co. si potrebbe considerare la deduzione forfettaria se applicabile) . In breve, per calcolare se la soglia di 50k è superata, si determina il reddito effettivo non dichiarato, si applicano deduzioni/detrazioni spettanti e si calcola l’imposta netta dovuta, quindi si sottraggono eventuali acconti/ritenute già pagati. Il risultato è l’imposta evasa. Solo se questa eccede 50.000 euro c’è reato. – Elemento soggettivo: il reato di omessa dichiarazione richiede il dolo specifico di evasione, cioè la volontà di evadere le imposte mediante la mancata presentazione della dichiarazione. Non è punibile penalmente la condotta omissiva colposa o dovuta a mera negligenza senza volontà di evasione . Ad esempio, se il contribuente era convinto in buona fede che qualcun altro avesse presentato la dichiarazione per lui, o ignorava per errore di doverla presentare, potrebbe mancare l’intento fraudolento. Tuttavia, attenzione: la giurisprudenza è severa nel valutare queste situazioni. Affidarsi a un commercialista che poi non invia la dichiarazione non esclude di per sé la responsabilità penale dell’assistito, se emerge che questi è stato quantomeno consapevole e ha accettato il rischio dell’omissione. La Cassazione penale ha affermato che “il contribuente rimane responsabile in prima persona per l’omessa dichiarazione anche se delega a un professionista […]; può essere delegata la predisposizione e presentazione dell’atto, ma non la responsabilità penale!” . Solo un comportamento fraudolento del professionista, tale da impedire al contribuente di accorgersi dell’omissione, può eventualmente escludere il dolo di quest’ultimo. In pratica, se il commercialista inganna il cliente facendogli credere di aver inviato tutto mentre non lo fa, e il cliente prova questa frode, allora difetta il dolo del contribuente (che non aveva volontà di evadere) . Ma se il contribuente si è limitato a una delega “fiduciaria” senza controllare nulla, potrebbe essergli contestata una culpa in vigilando che, in ambito penale, non basta a condannarlo (la negligenza non è punibile penalmente qui), ma può essere indizio della volontarietà se accompagnata da altri elementi (es. mancati pagamenti successivi, etc.). Ad ogni modo, la Cassazione richiede una “attenta verifica” del dolo, soprattutto quando l’imputato si schermisce dietro l’errore altrui; ha precisato che “non basta che [il contribuente] sia stato negligente nell’affidare la gestione fiscale… la prova del dolo può essere desunta anche dal comportamento successivo, come il mancato pagamento delle imposte non dichiarate” . Quindi, se uno non dichiara e poi, pur sapendo dell’errore, non versa spontaneamente, ciò è indice che in realtà intendeva evadere. In sintesi: l’ignoranza o l’affidamento malriposto non sono scusanti automatiche, benché in teoria l’assenza di dolo escluda il reato. Sta al contribuente dimostrare l’eventuale totale buona fede. – Pena prevista: come detto, reclusione da 2 a 5 anni . Non sono previste pene pecuniarie alternative se non come multa congiunta (fino a 2 anni di reclusione possono essere convertiti in pena pecuniaria, ma trattandosi di delitto la conversione non è automatica). Inoltre scatta l’applicazione delle pene accessorie tributarie (interdizione dagli uffici direttivi di imprese, etc. ex art.12 D.Lgs.74/2000) in caso di condanna.

La procedura penale si muove su binari separati da quella tributaria. In genere, se l’Agenzia delle Entrate rileva un’omessa dichiarazione con imposta evasa sopra soglia, trasmette notizia alla Procura competente. Il processo penale può sfociare in patteggiamento o giudizio. Una particolarità è che per il reato di omessa dichiarazione non è ammesso il patteggiamento (applicazione pena su richiesta) se l’imputato non ha prima estinto il debito tributario, cioè pagato tutte le imposte evase, sanzioni e interessi . La Cassazione ha chiarito infatti che per i reati di infedele ed omessa dichiarazione non è possibile accedere al patteggiamento senza integrale pagamento del debito tributario, trattandosi di reati con questa esplicita condizione di punibilità . Dunque, chi volesse patteggiare dovrà necessariamente saldare il dovuto al Fisco (eventualmente anche mediante ravvedimento operoso o definizioni agevolate) prima o durante il procedimento. In alcuni casi, l’integrale pagamento del debito prima del dibattimento può addirittura portare a una causa di non punibilità: l’art. 13 D.Lgs. 74/2000, come modificato, prevede che per alcuni reati (tra cui l’omessa dichiarazione) il pagamento del debito tributario, comprensivo di sanzioni amministrative, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado estingue il reato. In sostanza, se l’imputato versa tutto all’Erario tempestivamente, il reato viene dichiarato estinto e non si procede oltre . Questa norma ha lo scopo di incentivare il ravvedimento anche in extremis. Attenzione però: bisogna che il pagamento sia completo e tempestivo; diversamente, il processo proseguirà.

Per completezza, segnaliamo che omessa dichiarazione può riguardare non solo IRPEF ma anche IVA. Se un collaboratore fosse titolare di partita IVA e omettesse la dichiarazione IVA annuale superando la soglia (€50k di IVA non versata), incorrerebbe in analogo reato (art.5 vale anche per IVA). Nel caso delle co.co.co. normalmente il collaboratore non ha autonoma posizione IVA (trattandosi di redditi assimilati a dipendenti), quindi questo aspetto non li tocca direttamente, salvo casi anomali.

In sintesi sulle sanzioni: – Amministrative: per omessa dichiarazione oggi 120% fisso (riducibile se ravvedimento), min €250, oppure €250-1000 se niente imposta dovuta. Per infedele 90-180% differenza d’imposta. – Penali: solo se imposta evasa > 50k, reclusione 2-5 anni. Il contribuente è perseguibile solo se agito con dolo di evasione (intento fraudolento). L’affidamento al commercialista non lo solleva dalla responsabilità se non prova di essere stato da questi ingannato in modo tale da non potersi accorgere dell’omissione . Rimedi: pagamento integrale prima possibile per evitare/estinguere il reato; cooperazione con indagine per attenuanti.

Dopo aver delineato questo quadro sanzionatorio alquanto severo, passiamo a vedere come difendersi concretamente qualora un contribuente (collaboratore) si trovi accusato di aver omesso di dichiarare redditi da co.co.co., sia in sede tributaria (contenzioso con Agenzia Entrate) sia in sede penale (processo per reato tributario). Successivamente affronteremo anche la difesa sul fronte previdenziale (omesso versamento contributi INPS).

Difendersi da un accertamento per redditi da co.co.co. omessi (profilo tributario)

Poniamoci nella situazione in cui un collaboratore abbia omesso di dichiarare uno o più compensi da co.co.co. e che l’Agenzia delle Entrate se ne sia accorta, avviando la procedura di accertamento. Dal punto di vista del contribuente (debitore verso il Fisco), come ci si può difendere e quali sono le strategie da adottare?

Fase pre-accertamento: ravvedimento operoso e compliance

Prima di tutto, se il contribuente non è stato ancora formalmente raggiunto da alcuna contestazione, egli ha la facoltà di rimediare spontaneamente. Come spiegato, il ravvedimento operoso consente di presentare la dichiarazione omessa e pagare il dovuto con sanzioni ridotte. Questo non solo evita più pesanti sanzioni, ma potrebbe anche evitare il procedimento penale (grazie all’integrale pagamento del debito prima del dibattimento, ex art.13 D.Lgs.74/2000, il reato verrebbe meno). Quindi, la primissima “linea di difesa” è in realtà un’attività di auto-correzione: appena ci si rende conto della mancata dichiarazione, conviene attivarsi e “giocare d’anticipo” sul Fisco. Pagare spontaneamente riduce la sanzione amministrativa al 5% (se entro 1 anno) o percentuali via via crescenti, invece di incorrere nel 120%. Inoltre, a partire dal 2023 l’Agenzia delle Entrate adotta sempre più spesso strumenti di compliance preventiva: ad esempio l’invio di lettere di compliance in cui segnala al contribuente di aver rilevato redditi non dichiarati (da CU o altre fonti) e lo invita a mettersi in regola prima di emettere un avviso di accertamento. Se si riceve una simile comunicazione (ad esempio una PEC dall’Agenzia che segnala “omessa dichiarazione per l’anno X, redditi risultanti €Y”), è altamente consigliabile aderire alla segnalazione ed effettuare la dichiarazione tardiva con pagamento. In tal caso spesso l’Agenzia non applica la sanzione piena, ma permette il ravvedimento (a volte con sanzioni già calcolate ridotte a 1/6). Ignorare tali avvisi porterà quasi certamente a un accertamento formale.

Avviso di accertamento per omessa dichiarazione: come contestarlo

Se ormai l’Agenzia ha emesso un avviso di accertamento (che è l’atto impositivo con cui vengono richieste le imposte evase e irrogate le sanzioni), il contribuente ha due strade: 1. Definire l’accertamento in via amministrativa, ad esempio presentando domanda di accertamento con adesione (se l’atto non è preceduto da PVC) o aderendo alla proposta in esso contenuta (talvolta l’Agenzia può proporre sanzioni ridotte se si paga subito). Nel caso di omessa dichiarazione, di solito l’accertamento è “parziale” basato su dati certi (le CU dei sostituti) e c’è poco margine negoziale sul merito – l’importo omesso è quello e quello rimane. Però l’adesione può essere utile per ottenere una riduzione delle sanzioni del 1/3 (si passa ad esempio dal 120% all’80%). Anche la definizione agevolata delle controversie (se prevista da norme temporanee, come “tregua fiscale” ecc.) potrebbe permettere di chiudere pagando solo il tributo e interessi, risparmiando la sanzione. 2. Impugnare l’avviso di accertamento davanti al giudice tributario (Commissione Tributaria Provinciale, ora rinominata Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado).

La difesa in giudizio può puntare su vari profili: – Vizi formali o procedurali dell’atto: ad esempio, si può verificare se l’accertamento è stato notificato entro i termini di decadenza previsti. In caso di omessa dichiarazione, l’Agenzia ha più tempo del normale: può notificare l’accertamento entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata (termine pari a 7 anni dopo l’anno d’imposta) . Ad esempio, per redditi 2018 (dich. 2019 omessa) c’era tempo fino al 31/12/2025 per accertare (poi proroghe Covid hanno esteso di 85 gg). Se l’Agenzia sbaglia i termini, l’atto è nullo per decadenza. Altri vizi possono riguardare la carenza di motivazione, la mancata indicazione del responsabile del procedimento, ecc., ma sono meno frequenti. – Nel merito, contestazione della pretesa tributaria: qui il contribuente potrebbe: – Contestare l’importo del reddito accertato. Se l’Agenzia si basa su certificazioni uniche, di solito l’importo è difficilmente contestabile perché è quello comunicato dal sostituto. Tuttavia, può darsi che il contribuente abbia elementi per rettificare: ad es. se parte di quel compenso non era imponibile per legge (caso raro, ma ad esempio rimborsi spese documentati esclusi da tassazione) o se vi è un errore nella CU. In sede di accertamento d’ufficio per omessa dichiarazione, l’amministrazione può basarsi su presunzioni semplici anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza . Il che significa che è ammessa una certa approssimazione (Cass. n. 4785/2017 ha coniato il termine “presunzioni super-semplici” in tali casi) . Spetterà al contribuente l’onere di provare eventuali fatti che riducano la pretesa (es. dimostrare che quel reddito era inferiore, o che talune somme erano esenti) . Nel caso tipico in cui c’è una CU, però, l’accertamento non è presuntivo ma basato su dati certi forniti dal datore di lavoro: difficilmente contestabile a meno di contestare la CU stessa in sede civile contro il datore (ipotesi estrema). – Contestare l’imposta calcolata: qui invece il contribuente può ottenere risultati facendo valere eventuali oneri deducibili o detraibili a cui avrebbe avuto diritto. La giurisprudenza, come visto, permette di considerare costi forfettari o deduzioni anche se non dichiarati . Dunque, se il Fisco accertasse €10.000 di reddito co.co.co. tassandolo per intero, il contribuente può eccepire che su quel reddito gli spettava, ad esempio, la deduzione previdenziale dei contributi trattenuti o la detrazione lavoro dipendente, e quindi l’imposta da lui dovuta andrebbe ricalcolata tenendone conto. L’avviso di accertamento dovrebbe già farlo, ma se non lo facesse, è un punto da sollevare in ricorso. (Notare: contributi INPS a carico collaboratore sono deducibili dal reddito, e il Fisco dovrebbe considerarli). – Contestare le sanzioni irrogate: in ambito tributario, il giudice può riesaminare la sanzione e, se ritenuta sproporzionata nel caso concreto, ridurla. La Corte Costituzionale ha indicato che va sempre garantita una valutazione di proporzionalità . Ad esempio, se dal fatto emerge che l’omissione è stata dovuta a un errore scusabile o che l’imposta evasa è minima rispetto al dichiarato, il difensore può chiedere l’applicazione della sanzione nel minimo o addirittura la disapplicazione per obiettiva incertezza (raramente accolta, ma tentabile). Inoltre, potrebbe invocare l’applicazione dell’art. 7 D.Lgs.472/97 comma 4 per la riduzione fino alla metà valorizzando la condotta successiva del contribuente – come appunto suggerito dalla Consulta . Nel nostro caso: se il contribuente, ancorché omissivo, ha poi pagato spontaneamente il dovuto appena ricevuto l’accertamento, ciò andrebbe considerato per ridurre la sanzione. – Contestare il dolo e la non punibilità: attenzione, qui si entra nel penale. Davanti al giudice tributario non si discute del reato, ma si potrebbe far presente, ad esempio, che il contribuente era convinto di essere esonerato (es. perché unico reddito con ritenuta) e che quindi non v’è stata volontà di evadere: questo però non annulla l’avviso (l’obbligo dichiarativo c’era lo stesso se le condizioni di esonero non erano soddisfatte). Tuttavia, in alcuni casi se si dimostrasse che l’omissione fu dovuta a forza maggiore o errore scusabile, in teoria potrebbe esserci esimente sanzionatoria (ma sono ipotesi molto ristrette).

Un altro aspetto difensivo da considerare è il contraddittorio endoprocedimentale: per gli accertamenti sui redditi, a differenza di IVA, non vi è una regola generale che impone all’Agenzia di invitare il contribuente a fornire chiarimenti prima di emettere l’atto (salvo in alcuni casi specifici, es. studi di settore, ora ISA). Nel caso di omessa dichiarazione basata su dati certi, di solito il Fisco notifica direttamente l’avviso (magari con sanzioni). La Cassazione ha stabilito che per alcune azioni esecutive (es. ipoteca) il contraddittorio è necessario , ma per l’accertamento in sé su dati certi non è obbligatorio il previo avviso. Quindi non è facile eccepire un vizio per mancato contraddittorio, a meno che si tratti di un accertamento basato su presunzioni dove vige l’art. 12 L.212/2000 (ad esempio se l’omessa dichiarazione viene scoperta a seguito di verifica fiscale con PVC, lì sì dovevano farle controdedurre). In genere, però, i redditi da co.co.co. omessi emergono da controlli incrociati automatici, non da verifiche in loco.

Esempio pratico di difesa in sede tributaria

Caso: Il sig. Rossi nel 2023 ha lavorato con due contratti di co.co.co.: ha percepito €20.000 da Alfa Srl (ritenute €3.000) e €15.000 da Beta Spa (ritenute €2.000). Pensava di essere esonerato dal dichiarare (errore, perché aveva due CU e senza conguaglio). Non presenta la dichiarazione 2024. Nel 2025 riceve un Avviso di Accertamento dall’Agenzia Entrate che gli contesta omessa dichiarazione per il 2023, con imponibile non dichiarato €35.000 e IRPEF evasa € circa 2.500 (perché sommando i redditi sale di scaglione, ipotizziamo). Sanzione applicata: 120% di €2.500 = €3.000, più interessi. Totale richiesto: imposta €2.500 + sanzione €3.000 + interessi €100 circa.

Difesa: Il sig. Rossi, tramite il suo avvocato tributarista, verifica che l’accertamento è stato notificato entro i termini (sì, era nei 5 anni perché qui c’era comunque una mini-dichiarazione precompilata inviata entro 90gg? – vabbè ipotizziamo omessa, termine 7 anni, è a posto). Non ci sono vizi formali evidenti. Il reddito accertato €35.000 corrisponde esattamente alla somma delle CU (infatti Alfa e Beta hanno inviato i dati, che coincidono). Non ci sono basi per negare di averli percepiti. Tuttavia, l’avvocato nota che l’Agenzia ha calcolato l’IRPEF evasa come se Rossi non avesse versato alcunché, mentre in realtà lui ha subito €5.000 di ritenute (3k+2k). In effetti l’imposta teorica su 35k (ipotizziamo €7.500) meno ritenute 5k = €2.500 evasa – ok su questo sono giunti. Ma la sanzione è €3.000 (120%). Siccome Rossi entro 30 giorni dall’avviso paga le imposte e non fa ricorso, potrebbe ottenere la riduzione sanzione ad €2.000 (adesione con 1/3 sconto). L’avvocato consiglia di definire in acquiescenza l’accertamento, perché la pretesa è corretta e in giudizio difficilmente vincerebbe; definendo, paga 1/3 in meno di sanzione. Rossi paga dunque €2.500 + €2.000 + interessi, e firma la rinuncia al ricorso. In tal modo evita anche l’instaurarsi del contenzioso e (vista la cifra modesta e la condotta collaborativa) probabilmente la vicenda si chiude qui anche sul fronte penale, perché l’imposta evasa è sotto soglia e l’Agenzia vedendo il pagamento potrebbe neppure segnalare (o se segnalato, archivieranno per tenuità del fatto).

Caso alternativo: se invece la somma omessa fosse stata molto alta e sopra soglia penale, la difesa tributaria resterebbe simile (difficile farla franca sul dovuto), ma si integrerebbe con la difesa penale. Vediamo allora anche quest’ultimo profilo.

Difendersi dall’accusa penale di omessa dichiarazione (profilo penale)

Dal punto di vista del contribuente imputato, la difesa penale nel reato di omessa dichiarazione segue linee analoghe a quelle di altri reati tributari: – Negare/attenuare l’elemento soggettivo: se ci sono appigli per sostenere che mancava il dolo specifico di evasione, la difesa li userà. Ad esempio, se il contribuente può dimostrare di aver fornito al suo commercialista tutti i documenti e di essere stato indotto in errore da quest’ultimo (magari con false assicurazioni che “tutto era a posto”), potrà sostenere che non aveva intenzione di evadere. La Cassazione, come visto, non esclude questa possibilità ma la circoscrive a casi di vera frode del professionista ai danni del cliente . Se l’imputato riesce a provare un inganno subito (esibendo magari email falsificate del commercialista, o testimonianze che attestano che lui era convinto della presentazione), allora potrebbe ottenere un’assoluzione per difetto di dolo. Diversamente, la semplice negligenza (es. “non sapevo di dover presentare perché avevo solo CU con ritenute”) è difficilmente scusabile penalmente, perché la legge penale tributaria presuppone che il contribuente conosca i propri obblighi. Però, come riportato, l’assenza di “finalità di evasione” esclude il reato . Dunque un avvocato penalista cercherà di mostrare che l’omissione è stata frutto di leggerezza, non di volontà: ad esempio, evidenzierà se l’imputato ha comunque versato altri tributi correttamente, se la sua evasione è stata minimale, se immediatamente dopo aver scoperto l’errore ha pagato il dovuto (quest’ultimo comportamento è anzi consigliato – come detto, oltre ad estinguere il reato ex lege, è un chiaro segno di mancanza di dolo). – Questioni soglia e calcolo imposta: la difesa verificherà attentamente il calcolo dell’imposta evasa. Spesso, portando perizia di parte, si può discutere sulla quantificazione. Se escludendo alcune poste (che magari non erano reddito) l’imposta scende sotto 50k, il reato non sussiste. Ad esempio, se parte dei compensi erano rimborsi spese non imponibili ma l’accusa li ha contati, si possono togliere e magari la soglia non è più superata. Oppure se erano stati versati acconti poi non computati. Un caso giurisprudenziale: Cass. 3733/2025 ha trattato proprio di soglia, dove l’imputato sosteneva che detraendo certi utili l’imposta evasa scendeva sotto soglia . La Cassazione valuta questi argomenti con rigore: come detto, se i pagamenti (acconti/ritenute) erano fatti prima del termine dichiarativo, vanno scomputati , altrimenti no; se i costi sono documentati, vanno considerati . Dunque il difensore può giocare su questo terreno tecnico. – Cause di non punibilità sopravvenute: se il contribuente paga tutto il debito tributario (imposte + sanzioni amministrative) prima dell’apertura del dibattimento, chiederà l’applicazione dell’art. 13 D.Lgs.74/2000 che comporta la non punibilità. È una via maestra di uscita: bisogna ovviamente avere le risorse per pagare. Qualora il pagamento integrale avvenga dopo tale momento, non dà automatica non punibilità, ma sicuramente incide sulla pena (può essere considerato attenuante speciale). E inoltre consente di accedere al patteggiamento (che prima era precluso). – Patteggiamento o rito abbreviato: spesso, se le prove del reato ci sono (difficile negare l’omissione se documentata) e se il dolo è presumibile, può convenire chiedere un patteggiamento. Col patteggiamento, specie se il debito è estinto, si può ottenere una pena ridotta (anche inferiore a 2 anni, quindi con sospensione condizionale) evitando le pene accessorie pesanti. Idem il rito abbreviato, se ci sono margini, per ridurre di un terzo la pena. – Aspetti procedurali: un penalista controllerà anche la regolarità del decreto di citazione, l’eventuale prescrizione (il reato di omessa dich. si prescrive in 6 anni + eventuali sospensioni, quindi non rapidissima ma neppure lunghissima – potrebbe maturare se il processo penale inizia tardi), ecc. In alcune circostanze (casi complessi o con incertezze normative) potrebbe persino prospettare questioni di legittimità costituzionale, ma nel reato di omessa dich. la Consulta si è già espressa nel senso di salvaguardare la proporzionalità via interpretazione (v. sent. 46/2023 sulla sanzione amministrativa, che indirettamente incide poco sul penale).

Un elemento spesso invocato in difesa (soprattutto in passato) era lo stato di difficoltà economica: “non ho pagato/non ho dichiarato perché ero in crisi, non avevo liquidità”. Tuttavia, la giurisprudenza ha costantemente escluso che la crisi di impresa o la mancanza di fondi possa scriminare l’omesso versamento di imposte o contributi. Ad esempio, per l’omesso versamento di ritenute previdenziali all’INPS (reato affine, art. 2 co.1-bis L.638/1983), la Cassazione ha statuito che “integra reato anche se l’imprenditore versa in grave crisi”, non essendo lo stato di insolvenza una giustificazione . Analogamente per i reati tributari: la difficoltà finanziaria non esclude di norma il dolo, se non in casi estremi di forza maggiore (ad esempio un impedimento oggettivo a provvedere). Quindi questa linea difensiva raramente porta all’assoluzione, al più può indurre il giudice alla clemenza nel quantificare la pena.

In definitiva, dal punto di vista del debitore-contribuente, la miglior difesa penale è prevenire il reato: presentare la dichiarazione (anche tardiva) e pagare il dovuto prima che la soglia sia oltrepassata e la situazione degeneri. Se il danno è fatto, occorre poi collaborare (pagare, regolarizzare) per beneficiare delle cause di non punibilità o attenuanti. In tribunale, puntare su eventuali zone d’ombra (errore del commercialista, mancanza di consapevolezza) e su ridimensionamento del quantum.

Esempio pratico penale: riprendiamo il sig. Rossi, ma supponiamo numeri diversi: redditi omessi €300.000, ritenute subite €20.000, imposta netta evasa ~ €70.000. Qui c’è reato (soglia 50k superata). Rossi, quando viene a sapere dell’indagine (magari gli notificano un decreto di sequestro preventivo sui beni pari a €70.000 come garanzia), decide di vendere un immobile e pagare tutto all’Erario. Il suo avvocato porta in Procura le quietanze di versamento di €70.000 + sanzioni e chiede l’archiviazione per intervenuto pagamento. In mancanza, chiederà almeno di derubricare o patteggiare. Visto che Rossi ha pagato prima del dibattimento, il giudice potrebbe dichiarare non doversi procedere per intervenuta causa estintiva del reato (art.13). Rossi così evita condanna. Se non fosse riuscito a pagare tutto, avrebbe puntato sul patteggiamento con pena sospesa, evidenziando che non c’era scopo di arricchimento illecito ma era confuso sui suoi obblighi (difesa difficile, ma in combinazione con parziale pagamento e incensuratezza, magari ottiene 1 anno e 8 mesi con sospensione condizionale).

Chiudiamo questo capitolo ribadendo: se siete un collaboratore che ha omesso redditi, consultate prima possibile un esperto, esaminate la possibilità di ravvedimento e, se c’è un procedimento penale, affidatevi a un avvocato penalista esperto di tributario. La legge italiana offre spazi di difesa, ma occorre muoversi con tempestività e cognizione di causa.

Profili previdenziali: omissione contributiva su redditi da co.co.co. e difesa del debitore

Finora ci siamo concentrati sugli aspetti fiscali (IRPEF). Tuttavia, l’omissione di redditi da co.co.co. spesso si accompagna all’omissione di versamenti contributivi all’INPS relativi a quei redditi. Questo può accadere in vari scenari: – Il committente non ha versato i contributi dovuti sulla collaborazione (ad esempio, un’azienda che impiega un co.co.co. “in nero”, oppure che pur avendo pagato il compenso lordo al collaboratore omette di versare all’INPS i contributi, trattenendo indebitamente anche la quota a carico del collaboratore). – Il collaboratore stesso non è in regola con l’iscrizione o i versamenti in Gestione Separata (ad esempio, un professionista che erroneamente non si iscrive alla Gestione Separata credendo di non doverlo fare, oppure un collaboratore che riceve il compenso senza alcuna ritenuta e non versa la propria quota). – Casi di riqualificazione del rapporto: se un rapporto di lavoro viene riqualificato come subordinato (anziché co.co.co.), l’INPS potrebbe richiedere contributi ulteriori. Ma qui restiamo sul caso co.co.co. genuino.

Dal punto di vista del debitore previdenziale, occorre distinguere se parliamo del datore di lavoro/committente o del collaboratore: – Il committente è obbligato per legge a versare all’INPS l’intera contribuzione (2/3 a suo carico, 1/3 trattenuto al collaboratore). Se non lo fa, l’INPS può agire per recuperare i contributi omessi. Le somme dovute includeranno i contributi base, le sanzioni civili e, in certi casi, una sanzione amministrativa o penale a seconda della gravità (penale se la quota trattenuta e non versata eccede 10k annui, come vedremo). – Il collaboratore formalmente è debitore anch’egli dell’obbligazione contributiva (come spiegato dalla Cassazione ). Ciò significa che se il committente non versa, il collaboratore ne subisce le conseguenze. Tuttavia, nella prassi l’INPS normalmente indirizza le sue richieste al committente (che è il soggetto tenuto al pagamento diretto). Il collaboratore non viene sanzionato per l’omissione commessa dal committente, ma subisce l’effetto di non vedersi accreditati i contributi per la pensione. Egli ha però il diritto di chiedere quei contributi (ad esempio in un’azione giudiziaria contro il committente o segnalando all’INPS l’omissione affinché la recuperi). L’INPS, dal canto suo, può in alcuni casi chiedere conto al collaboratore per la sua parte: come ha detto la Cassazione, il collaboratore “resta personalmente obbligato… quantomeno nella misura di un terzo” . Questo principio implica che, volendo, l’INPS potrebbe pretendere almeno la quota lavoratore dal collaboratore, se questa non è stata neppure trattenuta (es. in un pagamento lordo integrale). Nella pratica però, spesso il collaboratore viene più che altro invitato a regolarizzare la propria posizione dichiarativa (iscrizione gestione separata) mentre l’azienda viene perseguita per i contributi.

Vediamo il quadro normativo delle sanzioni contributive: – Ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, D.L. 463/1983 (conv. in L. 638/1983 e s.m.i.), il datore di lavoro che omette di versare le ritenute previdenziali trattenute ai lavoratori entro il termine previsto è soggetto: – se l’importo annuo omesso eccede €10.000, a sanzione penale: reato contravvenzionale punito con la reclusione fino a 3 anni e multa fino a €1.032. – se l’importo annuo omesso è pari o inferiore a €10.000, a una sanzione amministrativa pecuniaria. Fino a metà 2023, tale sanzione era da €10.000 a €50.000 (fissa minima altissima); il DL 48/2023 (c.d. “Decreto Lavoro” 2023) ha riformato la norma prevedendo invece una sanzione proporzionale da 1,5 a 4 volte l’importo omesso . Dunque adesso c’è maggiore proporzionalità: ad esempio, se omessi €6.000, la sanzione potrà andare da €9.000 a €24.000 (prima sarebbe stata minimo €10k, massimo 50k a prescindere). – La Corte Costituzionale nel 2025 (sent. n. 103/2025) è stata chiamata a giudicare la legittimità proprio di questa sanzione amministrativa in rapporto ai principi di uguaglianza e proporzionalità. Il caso riguardava un datore che aveva omesso versamenti per €7.153 in tre anni e si era visto comminare dall’INPS la maxi-sanzione di circa €73.000 (sotto il vecchio regime) poi ridotta a ~€13.714 col DL 48/2023 . Il giudice a quo dubitava ancora della proporzionalità (minimo edittale elevato, trattamento paradossalmente più severo a volte dell’ipotesi penale). Ebbene, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni, sostenendo che la severità della risposta sanzionatoria è giustificata dall’esigenza di contrastare l’evasione contributiva su somme destinate a tutele essenziali dei lavoratori, e che nel complesso il nuovo impianto sanzionatorio amministrativo (1,5-4x) non è sproporzionato . Ha aggiunto che l’eventuale confronto con la sanzione penale convertita in multa (che talvolta potrebbe risultare inferiore) è fuorviante, dato che la responsabilità penale comporta comunque conseguenze afflittive ulteriori (carico di procedura penale, pene accessorie, ecc.) . In sostanza, la Consulta ha salvato la nuova norma, riconoscendo come legittimo anche un minimo pari a 1,5 volte l’omesso, data la finalità di tutela previdenziale forte.

Cosa significa questo per un datore di lavoro committente che abbia omesso di versare contributi per un collaboratore? Significa che: – Se la somma non versata in un anno supera €10.000 (non frequentissimo per un singolo co.co.co., ma possibile se compensi alti), egli risponde del reato di cui sopra. Basterebbe anche la somma delle omissioni di più lavoratori? In realtà la soglia è per “importo omesso” riferito al totale delle ritenute non versate per anno, quindi sì, se il datore ha più omissioni si cumulano. – Se è sotto 10k, niente penale ma scatta la sanzione amministrativa (l’INPS emetterà un’ordinanza-ingiunzione con l’importo dovuto e la sanzione). – In entrambi i casi, restano dovuti i contributi omessi e le sanzioni civili.

Le sanzioni civili contributive sono somme aggiuntive dovute all’INPS che fungono da interessi/penali per il ritardato pagamento dei contributi. La misura varia a seconda che sia omissione (contributi denunciati ma non pagati) o evasione (contributi non denunciati, occultati). Nel caso di un co.co.co. non dichiarato affatto all’INPS, l’INPS potrebbe qualificare come evasione (sanzione civile del 30% annuo fino al 60% del dovuto) . Se invece era denunciato l’obbligo ma non pagato, sarebbe omissione con sanzione civile ridotta (oggi circa 6% annuo). Ad ogni modo, queste sanzioni civili si sommano al recupero. Da notare: la Cassazione ha affermato che le sanzioni civili hanno natura accessoria rispetto ai contributi e che l’INPS può pretenderle solidalmente da appaltatore e subappaltatore in caso di omessa contribuzione di questi ultimi, in virtù della responsabilità solidale negli appalti . Questo evidenzia come siano considerate strumenti di rafforzamento della pretesa contributiva .

Difesa del debitore committente: Se l’INPS richiede i contributi omessi (tramite Avviso di Addebito immediatamente esecutivo, che ha sostituito la cartella esattoriale dal 2011), il datore di lavoro può contestare l’ingiunzione presentando opposizione al giudice del lavoro entro 40 giorni. Le linee difensive possono essere: – Contestare la debenza: ad esempio, sostenere che quel rapporto non era di lavoro subordinato né co.co.co. ma altra natura (se l’INPS ha riqualificato d’ufficio può sbagliare). Oppure che i contributi sono prescritti (la prescrizione contributi è 5 anni). O ancora che c’è un errore nel calcolo (aliquote errate, importi già versati in parte ecc.). – Contestare le sanzioni civili: talora è possibile farle ridurre se si prova che il mancato pagamento non fu doloso (in casi di omissione non dolosa l’INPS può ridurre dal 30% al tasso legale dopo che il contribuente paga il dovuto). Se il giudice rileva che l’INPS ha applicato sanzioni civili senza considerare eventuali cause di non dolo, può chiedere la rideterminazione. – Contestare la procedura sanzionatoria amministrativa: se c’è un’ordinanza-ingiunzione (ad es. per importi <10k), va impugnata anche quella per eccepire eventuali vizi (es. notifica oltre 90 giorni dalla contestazione: la L.689/81 prevede che la sanzione amministrativa debba essere irrogata entro 90 gg dalla segnalazione/contestazione, e Cassazione ha confermato che l’ordinanza INPS va notificata entro 90 gg dalla contestazione ex art.14 L.689) . Se l’INPS è in ritardo, la sanzione amministrativa potrebbe essere annullata dal giudice. – Chiedere dilazioni o invocare cause di forza maggiore: difficilmente esonerano, ma magari può ottenere una rateazione evitando misure esecutive immediate.

Difesa del collaboratore: Il collaboratore, più che come “debitore” (salvo ipotesi in cui l’INPS gli chieda i contributi), è parte lesa dall’omissione contributiva. La sua difesa consisterà nel tutelare i propri diritti previdenziali. In base alla regola della non automaticità delle prestazioni per lavoratori autonomi, se i contributi non vengono versati il collaboratore rischia di perdere copertura. Tuttavia, la Cassazione (sent. n. 11430/2021) ha indicato una strada: il collaboratore può rinunciare all’accollo legale dei 2/3 a carico del committente e versare lui stesso l’intero contributo, assumendo su di sé il debito anche per la parte omessa dal committente, per poi agire contro il committente per il risarcimento . In pratica, se Tizio collaboratore scopre che Caio srl non gli ha versato €1.000 di contributi (di cui 333 sarebbe stato suo e 667 di Caio), Tizio può comunicare all’INPS che vuol pagare lui quei €1.000 (così avrà pieno accredito dei contributi), e successivamente chiedere i danni a Caio srl (per riavere almeno i 667 che spettavano a Caio). Questa procedura è onerosa per il collaboratore, ma è un mezzo di autotutela dei propri diritti pensionistici, specie se il committente è insolvente o sparito.

Se invece l’INPS dovesse chiedere al collaboratore direttamente la sua quota contributiva non versata (può capitare se ad es. il committente non ha nemmeno trattenuto, pagando tutto lordo, e poi non ha versato niente: l’INPS potrebbe dire al collaboratore “tu dovevi iscriverti e pagare la tua parte”), allora il collaboratore può: – Opporre che il committente aveva l’obbligo di trattenere e versare anche quella (ma secondo Cass. no, l’obbligo finale è suo… situazione intricata). – Cercare un accordo: ad es. pagare lui per avere copertura e poi rivalersi. – In ogni caso, segnalare l’omissione all’Ispettorato del Lavoro o INPS per far sanzionare il committente.

Prescrizione contributi: i contributi si prescrivono in 5 anni. Dunque se l’INPS non li chiede in 5 anni, il collaboratore può stare tranquillo che non li chiederanno più (ma perderà anche la copertura). Comunque, a differenza delle imposte (dove l’omessa dich. dà 7 anni), per contributi la finestra è 5 anni ordinari.

Caso di esempio previdenziale: Alfa Srl ha avuto nel 2019 un co.co.co., pagando compensi ma senza mai versare contributi (omettendo anche le comunicazioni obbligatorie). Nel 2025, l’INPS scopre la cosa tramite un controllo incrociato col Fisco (perché quei compensi figuravano in CU). L’INPS allora emette un Avviso di Addebito ad Alfa Srl chiedendo €X di contributi + €Y di sanzioni civili. Inoltre segnala il fatto alla Procura perché per 3 anni di fila Alfa ha omesso ~€4.000/anno di ritenute (totale >10k). Alfa Srl vuole difendersi: propone ricorso al Tribunale sostenendo che la richiesta INPS è parzialmente prescritta (se include periodi anteriori al 2019, ad es.), e che comunque chiede la riduzione delle sanzioni civili al tasso legale perché l’omissione fu dovuta a crisi aziendale (cerca di dimostrare che non c’era volontà di frode). Nel frattempo, versa i contributi principali per mostrare buona fede. Il Tribunale potrebbe accogliere in parte: se ci sono periodi oltre 5 anni, li annulla; per le sanzioni civili forse no perché la crisi non è scusante formalmente, ma il giudice può invitare l’INPS a ricalcolare se ravvisa requisiti di omissione e non evasione (se Alfa aveva registrato in contabilità quei compensi ma solo non pagato, sarebbe omissione non fraudolenta, e le sanzioni civili sarebbero già al tasso ridotto del 6% annuo circa). Penalmente, Alfa (in persona del legale rappresentante) patteggerà magari la pena per l’omesso versamento contributi (<3 anni, pena sospesa se incensurato, specie se ha pagato i contributi nel frattempo). Il collaboratore in questa storia invece farà causa ad Alfa per vedersi riconoscere quei contributi per la pensione, e avrà successo poiché Alfa nel frattempo li ha versati sotto pressione dell’INPS, quindi l’INPS accrediterà la posizione del collaboratore.

In conclusione, anche sul versante contributivo la miglior difesa per il debitore è regolarizzare prima possibile. Se sei un datore di lavoro che non ha versato contributi di un collaboratore, appena puoi versa (anche prima che te li chiedano) perché eviterai sanzioni enormi e forse pure il penale (il reato ex L.638/83 si estingue se paghi entro 3 mesi dalla contestazione, credo – c’è una causa di non punibilità se paghi subito per gli omessi contributi, introdotta nel 2016). Se sei un collaboratore che scopre omissioni, attivati per farle emergere entro 5 anni (dopo di che prescrivono e perdi i contributi).

Chiudiamo questo capitolo segnalando una rilevante pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 55/2024) in tema contributivo: la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma che aveva imposto retroattivamente l’iscrizione in Gestione Separata per certi professionisti doppiamente iscritti, senza però prevedere l’esonero dalle sanzioni per il periodo pregresso . Ciò a tutela del legittimo affidamento: i professionisti che in buona fede non avevano versato contributi in un periodo in cui la legge era poco chiara non potevano essere colpiti da sanzioni retroattive. Questo esempio, sebbene particolare, mostra come il nostro ordinamento cerchi un equilibrio tra la necessità di recuperare il dovuto e l’equità verso il contribuente/prestatore che potrebbe trovarsi spiazzato da mutamenti normativi. Nel contesto dei co.co.co., fortunatamente, la normativa è abbastanza chiara: i contributi sono dovuti fin dall’inizio e l’obbligo di iscrizione è preciso. Però vale sempre la pena verificare se sanzioni o richieste INPS violino il principio di affidamento o di proporzionalità, perché in tal caso esistono spazi per contestarle.

Domande frequenti (FAQ) su omissione di redditi co.co.co. e difesa del contribuente

D1: Ho un solo reddito da collaborazione coordinata e continuativa con già le ritenute applicate. Devo comunque presentare la dichiarazione dei redditi?
R: Se tutti i tuoi redditi provengono da un unico rapporto di lavoro dipendente o assimilato (quale è la co.co.co.) e le imposte dovute sono già state interamente trattenute dal committente, potresti rientrare nei casi di esonero dalla dichiarazione . Ad esempio, se nel 2024 hai solo il reddito da co.co.co. presso un unico committente, senza altri redditi, e non ti spettano rimborsi particolari, non sei obbligato a presentare il Modello 730/2025. Tuttavia, valuta bene: presentare la dichiarazione potrebbe comunque esserti utile per verificare se ti spetta un rimborso (magari per detrazioni non calcolate in sede di paga) o per dichiarare eventuali piccole spese deducibili. Inoltre, se hai anche solo un altro reddito (es. interessi bancari significativi, un secondo lavoro) oppure due collaborazioni diverse nello stesso anno, diventa obbligatorio dichiarare. In dubbio, chiedi consiglio a un CAF o consulente fiscale per capire se sei esonerato.

D2: Ho scoperto di non aver dichiarato alcuni compensi da collaborazione di due anni fa. Posso rimediare spontaneamente o è troppo tardi?
R: Puoi ancora rimediare tramite ravvedimento operoso finché l’Amministrazione non ti contesta formalmente la violazione. Anche se la dichiarazione è omessa da due anni, puoi presentarla ora (verrà considerata “omessa”, ma servirà a quantificare il dovuto) e pagare le imposte con gli interessi. Le sanzioni saranno ridotte in base a quando ravvedi: se sono trascorsi più di 2 anni, la sanzione base (120%) viene ridotta a 1/6, quindi pagheresti il 20% dell’imposta evasa circa, invece del 120% . Questo è comunque molto più conveniente che attendere l’accertamento, quando sarebbe applicata per intero (o al più ridotta a 1/3 in adesione). Inoltre, il tuo ravvedimento e pagamento integrale possono evitarti guai penali se l’imposta evasa era elevata (in quanto l’adempimento estingue il reato ai sensi dell’art.13 D.Lgs.74/2000). Quindi , ravvediti subito: presenta quella dichiarazione mancante e versa quanto dovuto; l’Agenzia a quel punto potrebbe non applicarti altre sanzioni oltre a quelle che versi col ravvedimento.

D3: Ho delegato il mio commercialista per l’invio telematico della dichiarazione, ma ho scoperto che non l’ha inviata e ora ho un avviso di accertamento per omessa dichiarazione. Posso farmi annullare la sanzione dicendo che è colpa del commercialista?
R: Non automaticamente. In base alla giurisprudenza, il contribuente non è esonerato dai suoi obblighi tributari semplicemente perché si è affidato a un professionista . Devi comunque vigilare e assicurarti che l’incarico sia stato svolto. La tua responsabilità è esclusa solo se dimostri che il professionista ha agito in modo fraudolento per nasconderti la sua omissione . Ad esempio, se puoi provare che il commercialista ti forniva ricevute false o comunicazioni ingannevoli facendoti credere che tutto fosse regolare, allora hai un caso di “causa di forza maggiore” o errore scusabile. Ma se semplicemente il commercialista ha dimenticato o è stato negligente e tu non hai controllato, l’Agenzia delle Entrate e i giudici tributari considereranno comunque te come responsabile e le sanzioni (seppur forse nel minimo) verranno confermate . Potrai rivalerti civilmente sul professionista per il danno (chiedendogli di pagare lui sanzioni e interessi magari), ma intanto devi regolarizzare la tua posizione fiscale. In sintesi: la colpa del commercialista non annulla la sanzione verso il Fisco, salvo casi estremi di truffa documentabile ai tuoi danni.

D4: Ho omesso la dichiarazione dei redditi e ora l’Agenzia mi chiede anche una sanzione del 120% sull’imposta evasa. È legittimo un importo così alto?
R: Purtroppo sì, la sanzione del 120% (in passato fino al 240%) per omessa dichiarazione è prevista espressamente dalla legge (art.1 D.Lgs. 471/97) ed è stata considerata legittima, a patto che possa essere ridotta in presenza di circostanze attenuanti . Dal 2024, la norma fissa la misura proprio al 120% dell’imposta dovuta (min €250) . Tieni conto che se non c’era effettiva imposta da pagare (ad esempio avevi solo redditi con imposta già trattenuta), la sanzione dev’essere compresa tra €250 e €1000 . Inoltre, se prima dell’accertamento presenti la dichiarazione e paghi (ravvedimento), hai diritto a una riduzione al 75% dell’imposta (oltre alle riduzioni da ravvedimento) . In sede contenziosa, puoi chiedere al giudice di valutare la proporzionalità della sanzione: ad esempio se hai omesso per errore un reddito ma hai pagato quasi tutto con ritenute, far presente che la tua condotta non era fraudolenta potrebbe indurre il giudice a ridurre la sanzione verso il minimo edittale (che ora coincide col 120%, quindi non c’è forbice, ma potrebbe applicare l’art.7 D.Lgs.472/97 comma 4 per dimezzarla) . La Corte Costituzionale ha indicato che la sanzione può (e deve) essere mitigata considerando la condotta del contribuente . Quindi se ritieni davvero sproporzionato il 120%, valuta il ricorso evidenziando eventuali elementi di buona fede o di ravvedimento attivo da parte tua.

D5: L’omissione di redditi co.co.co. comporta anche problemi con l’INPS?
R: Sì, può comportarli. Se su quei redditi non sono stati pagati i contributi previdenziali alla Gestione Separata, l’INPS prima o poi potrebbe richiederli. Di norma il committente era tenuto a versarli (compresa la tua quota trattenendola dal tuo compenso). Se né tu né lui avete provveduto, l’INPS può reclamare i contributi omessi per gli ultimi 5 anni. Per te, come collaboratore, la conseguenza principale è che quei periodi senza contributi non ti verranno conteggiati ai fini pensionistici, a meno che i contributi vengano recuperati. Puoi sollecitare l’INPS a recuperare dal committente, oppure versare tu volontariamente (specialmente la tua quota) per ottenere la copertura, rivalendoti poi sul committente . Dal lato sanzionatorio, l’INPS può imporre sanzioni civili (interessi di mora e pene pecuniarie) al datore di lavoro. Se i contributi non versati (specie le trattenute) superano €10.000 l’anno, scatta per il committente anche un reato penale (punito con reclusione fino a 3 anni). In sintesi: la tua pensione potrebbe risentirne se i contributi non vengono sistemati. Quindi verifica la tua situazione contributiva (estratto conto INPS) e, se mancano periodi, contatta il committente o l’INPS. Per evitare la prescrizione (dopo 5 anni non recuperi più nulla), agisci tempestivamente: ad esempio, puoi inviare una diffida al datore di lavoro o chiedere all’Ispettorato del Lavoro un accertamento. Ricorda che per i collaboratori non vale l’automaticità delle prestazioni (INPS non ti copre se datore non paga) , quindi dipende dall’azione di recupero.

D6: Ho ricevuto un avviso di addebito INPS per contributi di un mio ex-collaboratore, ma l’importo include sanzioni enormi. Posso difendermi?
R: Sì, puoi proporre opposizione all’avviso di addebito davanti al Tribunale (sezione Lavoro) entro 40 giorni. In quella sede puoi contestare sia il merito (ad es. i contributi non sarebbero dovuti perché il lavoratore non era un co.co.co. oppure perché hai già pagato parte di essi) sia le sanzioni. Le “sanzioni” in ambito contributivo sono di due tipi: sanzioni civili (interessi/more per il ritardo) e sanzioni amministrative/penali (per l’omissione in sé se rilevante). Le sanzioni civili possono, in alcuni casi, essere ridotte se dimostri che non c’è stata volontà di evadere ma solo impossibilità momentanea (l’INPS in questi casi applica il tasso di interesse legale in luogo del 30%). Verifica se l’INPS ha correttamente qualificato la tua omissione: se tu avevi denunciato il rapporto e magari versato parzialmente, non dovrebbero applicarti la maxisanzione per evasione (30% annuo) ma la meno grave. Riguardo le sanzioni amministrative (quelle da 1,5 a 4 volte l’importo omesso per somme ≤10k annui), vanno contestate secondo la L.689/81: ad esempio, se l’ordinanza-ingiunzione INPS ti è arrivata tardi, potresti eccepirne la decadenza . La Corte Costituzionale nel 2025 ha confermato che la sanzione 1,5-4x è legittima , quindi ridurne l’importo in via giudiziaria non è scontato; però puoi chiedere al giudice di applicarla nel minimo (1,5x) se l’INPS ti ha messo di più senza giustificazione. Nel giudizio dovrai comunque provare le tue ragioni (porta documenti sui pagamenti fatti, sulle tue comunicazioni all’INPS, ecc.). Infine, considera possibilità di definire bonariamente con l’INPS prima del giudizio: a volte pagando i contributi e chiedendo sconti sulle sanzioni civili, si trova un accordo.

D7: La Finanza ha scoperto che svolgevo di fatto un lavoro da dipendente mascherato da co.co.co. non dichiarato né a Fisco né a INPS. Che succede ora?
R: In una situazione del genere, potresti avere conseguenze su più fronti: – Fiscale: ti contesteranno di non aver dichiarato quei compensi, con recupero IRPEF, sanzioni per omessa dichiarazione (come visto, 120% dell’imposta) e interessi. Se l’importo è rilevante, potresti anche rischiare il reato di infedele o omessa dichiarazione (ma se eri “dipendente mascherato”, probabile non superavi tu la soglia di 50k, dipende). Dovrai difenderti eventualmente sostenendo che il reddito va imputato in altro modo, ma in generale dovrai pagare le imposte evase. – Previdenziale: se accerteranno che il rapporto era subordinato, l’azienda dovrà versare i contributi come lavoro dipendente (aliquote più alte di gestione separata) e tu avrai diritto a quelle coperture (e forse differenze retributive). Dal tuo punto di vista, è quasi un bene perché otterrai probabilmente contributi pensionistici più robusti (Fondo lavoratori dipendenti). L’INPS recupererà tutto con sanzioni all’azienda. Tu non sarai chiamato a pagare contributi (se era subordinato, è tutto a carico datore). – Lato azienda: il tuo “finto committente” rischia sanzioni per lavoro nero oltre che per evasione contributiva, e il fatto sarà segnalato all’ispettorato.
Il tuo compito principale sarà regolarizzare la tua posizione fiscale: puoi avvalerti, se del caso, delle tutele del lavoratore subordinato (es. non eri tu il soggetto obbligato a fare le ritenute, ecc.). Ma attenzione: il dovere di dichiarare il reddito annuale era comunque tuo anche se il datore non ti ha fatto CU (dovevi dichiararlo come “reddito di lavoro dipendente” eventualmente). Quindi per il Fisco sei in violazione. Potresti chiedere l’applicazione delle sanzioni in misura minima sostenendo che l’inosservanza è dipesa anche dal datore inadempiente. Una volta accertato il lavoro subordinato vero, difficilmente ti perseguiranno penalmente (di solito perseguono il datore per reati di natura diversa, tipo somministrazione illecita, ecc., non te). Quindi concentra la difesa sull’aspetto tributario (magari col ravvedimento se sei ancora in tempo) e collabora con INPS/ispettori per sanare la posizione contributiva: questo può aiutarti anche ad evitare sanzioni amministrative massime, se vedono che c’è buona fede da parte tua.

D8: Cosa succede se ometto di dichiarare redditi e il Fisco lo scopre molti anni dopo? C’è un limite di tempo oltre cui la violazione cade in prescrizione?
R: Sì, ci sono termini di decadenza per l’accertamento tributario. In caso di omessa dichiarazione dei redditi, l’Agenzia delle Entrate ha tempo fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata (secondo la normativa attuale, introdotta dal DL 193/2016) oppure fino al settimo anno successivo secondo altra interpretazione applicabile per annualità più risalenti . Facciamo un esempio: dichiarazione 2020 omessa (redditi 2019): l’accertamento va notificato entro fine 2025 (5° anno successivo) – con vecchie regole sarebbe stato fine 2026 (il 7°). Per sicurezza, consideriamo 5 anni oggi. Se il Fisco ti scopre dopo questo termine, non può più emettere avvisi validi: la violazione resta ma non può essere sanzionata (si parla di decadenza). Attenzione però: se hai commesso un reato tributario e viene aperto procedimento penale, questo non “salva” l’accertamento fiscale ma potrebbe portare ad altre conseguenze (sequestri, ecc.), e comunque nel penale la prescrizione è diversa (6 anni per omessa dichiarazione). Per i contributi INPS, la prescrizione del diritto al recupero è 5 anni dal giorno di scadenza per il pagamento. Quindi, se l’INPS non ti richiede contributi entro 5 anni, quei contributi non sono più esigibili (ma nemmeno riconosciuti per la pensione, salvo riconoscimenti d’ufficio tardivi in certi casi). In pratica, c’è un tempo di “oblio” oltre il quale lo Stato non può più reclamare. Tuttavia, attento a non fare affidamento su questo: il Fisco e l’INPS oggi hanno sistemi incrociati e difficilmente si lasciano sfuggire omissioni per tanti anni. Inoltre, per le annualità 2020 e seguenti in via amministrativa l’Agenzia ha 5 anni fissi ma se presentavi dichiarazione (infedele) ne aveva 4: quindi omettere dà loro un anno in più di tempo. Perciò l’omissione non conviene sperando nella prescrizione, anzi viene punita con termini più lunghi.

D9: Cosa posso fare se ho perso il diritto ai contributi perché il datore non li ha versati e ormai sono prescritti?
R: In situazioni del genere purtroppo c’è poco da fare, perché la regola dell’assenza di automaticità per i parasubordinati è chiara . Se la prescrizione è maturata, l’INPS non può più riscuotere quei contributi e neppure accreditarli (se li versassi volontariamente non li accetterebbe). Una strada estrema: potresti valutare un’azione di risarcimento danni contro il datore di lavoro, sostenendo che la sua omissione ti ha causato un danno (perdita di contribuzione pensionistica). Qualche Tribunale in passato ha riconosciuto il danno pensionistico ai lavoratori parasubordinati per contributi non versati e ormai prescritti, condannando il datore a pagare una somma equivalente. Tuttavia, non è un percorso semplice né garantito. La miglior cosa è prevenire: se ti accorgi che il datore non versa (es. dal tuo estratto conto contributivo vedi buchi), non aspettare: invia solleciti, ricorri all’ispettorato, insomma fai valere i tuoi diritti prima che scadano i 5 anni. Dopo, potresti solo provare la via giudiziaria del risarcimento, che però non ti restituirà comunque i contributi ai fini previdenziali (ti dà solo soldi, eventualmente). In alternativa, puoi vedere se hai possibilità di riscatto di quei periodi, ma attualmente il riscatto oneroso di periodi di lavoro non coperti non è previsto a meno che il legislatore introduca qualche sanatoria. Nel 2025 alcune norme (es. collegato lavoro 2021 citato in circolari) hanno permesso il riscatto di contributi omessi e prescritti per alcune gestioni , ma di solito a pagamento. Informati presso l’INPS se esistono misure speciali per recuperare periodi prescritti (di solito no per lavoro autonomo, più facile per dipendenti). Quindi, purtroppo, se sei oltre il termine, la lezione è cara ma chiara: non trascurare mai il controllo dei contributi.

D10: Una sanzione tributaria o contributiva così elevata non rischia di rovinarmi finanziariamente. Posso chiedere una rateazione o qualche sconto?
R: Sì, sia in ambito tributario che contributivo esistono strumenti di dilazione e a volte di definizione agevolata: – Per il debito tributario da accertamento (imposte + sanzioni): puoi chiedere all’Agenzia Entrate-Riscossione la rateizzazione del pagamento dopo che l’atto è divenuto definitivo (fino a 72 rate mensili se il debito supera certi importi, o 120 rate in casi eccezionali di comprovata difficoltà). Anche in fase di accertamento con adesione, puoi rateizzare l’importo in 8 rate trimestrali (o 16 se >50k). – Periodicamente, il legislatore approva definizioni agevolate (condoni o “rottamazioni”). Ad esempio nel 2023 c’è stata la Definizione agevolata liti pendenti e la rottamazione delle cartelle: se rientri in quelle situazioni, potevi pagare solo l’imposta senza sanzioni o solo il capitale. Queste misure però sono straordinarie e limitate nel tempo. – Per le sanzioni contributive INPS (ordinanze): anche lì puoi chiedere una rateazione all’INPS del dovuto (di solito concedono fino a 24-36 rate). Se paghi regolarmente le rate, sospendono le azioni esecutive. – In casi di comprovata incapacità, puoi anche presentare istanza di sgravio per indigenti all’Agenzia delle Entrate o all’INPS, ma sono raramente accolte (il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria lo impedisce, salvo casi di inesigibilità per insolvibilità conclamata – procedure da valutare con un esperto). In sintesi, la via più praticabile è chiedere di pagare a rate. Questo ti permette di evitare misure come pignoramenti immediati e di diluire l’impatto. Ricorda di fare la domanda prima che il debito venga iscritto a ruolo o appena avviata la riscossione coattiva, così da bloccare sul nascere le azioni.

Tabelle riepilogative

Di seguito, alcune tabelle riassumono i punti salienti discussi, per una rapida consultazione.

Tabella 1 – Confronto tra dichiarazione infedele e omessa dichiarazione (profilo fiscale)

CaratteristicaDichiarazione infedeleOmessa dichiarazione
DefinizioneDichiarazione presentata ma con redditi omessi o dati falsi (imposta dichiarata < imposta dovuta)Dichiarazione annuale non presentata (oltre 90 gg da scadenza)
Normativa violata (civile)Art. 1, c.2 D.Lgs. 471/97Art. 1, c.1 D.Lgs. 471/97
Sanzione amministrativa base90% – 180% della maggiore imposta o minor credito (minimo €250)120% dell’imposta dovuta (dal 2024) , min €250; se nessuna imposta dovuta: €250–€1000
Riduzioni sanz. in caso di ravvedimentoSì (1/8,1/7,1/6… a seconda del tempo trascorso)Sì, ravvedimento <90gg (dichiarazione tardiva) sanz. fissa €25; >90gg sanz. 120% ridotta (1/8 fino a 1/5 a seconda) + ulteriore riduzione al 75% prevista ex lege se spontaneità
Termini accertamento Agenzia Entrate31/12 del 5° anno successivo (post DL 2016)31/12 del 7° anno successivo (per anni fino al 2015 era 5°+1 raddoppio, ora unificato in 5° o 7° a seconda del periodo)
Reato penale (D.Lgs. 74/2000)Art. 4 – Dichiarazione infedele, soglia €100k imposta evasa e €2 mln elementi attivi non dichiarati; pena reclusione fino a 3 anni.Art. 5 – Omessa dichiarazione, soglia €50k imposta evasa ; pena reclusione 2–5 anni .
Prescrizione reato8 anni (6 base + 2 sosp.) per infedele8 anni (6+2) per omessa (in entrambi i casi, essendo pena max <6, o =5) – att.ne riforme prescriz. possono incidere
Elemento soggettivo richiesto (reato)Dolo specifico di evasione (difficile da provare se omissioni piccole); in genere rileva solo per grandi evasioni.Dolo specifico di evasione (volontà di non dichiarare); escluso se errore scusabile o forza maggiore . Affidamento a terzi non esclude dolo salvo frode subita .
Causa di non punibilità penale– (non prevista per infedele)Pagamento integrale debito tributario prima dibattimento estingue reato . Patteggiamento ammesso solo dopo pagamento .

Tabella 2 – Riepilogo obblighi e rimedi per contributi INPS su co.co.co.

AspettoRegolaFonti e note
Obbligo contributivo Gestione SeparataIscrizione personale del collaboratore; contributi dovuti su compenso lordo (aliquota vigente, es. 34%). Ripartizione: 1/3 a carico collaboratore, 2/3 a carico committente (versamento unificato dal committente) .Art. 2, co.26 e 30 L. 335/1995; DM 242/1996. Collaboratore soggetto passivo dell’obbligo .
Principio di automaticità delle prestazioniNON si applica ai co.co.co.: se contributi non versati, in genere niente copertura previdenziale . (Diverso dal lavoro dipendente, dove il lavoratore ha tutela anche se datore non paga).Cass. SU nn. 3240/2010 e succ.; Cass. 11430/2021 .
Recupero contributi omessi (INPS) – terminiPrescrizione in 5 anni. INPS notifica Avviso di Addebito (titolo esecutivo) per contributi + sanzioni civili.Art. 3, co.9 L. 335/95 (prescriz.). Avviso ex L. 122/2010.
Sanzioni civili (moratorie)– Omissione (contributo denunciato ma non pagato): interesse di mora (5-6% annuo). – Evasione (omesso anche denuncia <-> occultamento): 30% annuo fino al 60% del dovuto, poi interesse legale.Art. 116 L. 388/2000; Circ. INPS 77/2002. Possibile riduzione saggio se no dolo.
Sanzioni amministrative/penali per omesso versamento ritenute previdenziali– Se ≤ €10.000 annui omessi: illecito amministrativo, sanzione pecuniaria da 1,5 a 4 volte l’importo omesso (prima del 2023: da €10k a 50k). – Se > €10.000 annui: reato (art. 2, co.1-bis DL 463/83 conv. L.638/83), penale contravvenzionale con arresto fino 3 anni e multa fino €1.032.DL 463/1983 art.2, L. 638/83, modifiche DL 48/2023 (soglia e sanzione amm. rideterminate) . Cost. 103/2025 conferma legittimità sanzione amm. . Pagamento entro 3 mesi dall’accertamento rende non punibile penalmente (art. 2, c.1-bis ultimo periodo, introdotto da L.67/2014).
Responsabilità solidale committente/collaboratoreCommittente obbligato in via principale al versamento (delegato ex lege) . Collaboratore obbligato in solido per la propria quota e, se vuole copertura, anche per quota datore (rinunciando all’accollo) .Cass. 11430/2021: collab. unico titolare obbligazione contributiva, può assumere su di sé debito anche committente .
Tutele del collaboratore in caso di omissione contributiva– Azione giudiziaria contro il committente per recupero contributi non versati (danno da perdita contribuzione). – Possibilità di versamento volontario (riscatto) di periodi non coperti, se previsto da norme (es. riscatto a titolo oneroso di collaborazione in monocommittenza 2008-2015 previsto all’epoca).Art. 2116 c.c. non applicabile, dunque collab. deve attivarsi. Sent. Cost. 55/2024: tutela affidamento per retroattività norme, esonero sanzioni su contributi pregresse in alcuni casi .

Tabella 3 – Passi consigliati per difendersi da omessa dichiarazione (checklist debitori)

FaseCosa fareNote
1. Prima di ogni contestazione (pre-accertamento)– Verificare se si rientra davvero nell’obbligo dichiarativo o in esonero. <br> – Se accertata omissione, attivare ravvedimento operoso: presentare dichiarazione tardiva, calcolare imposta e sanzioni ridotte, pagare. <br> – Raccogliere documenti (CU, F24, comunicazioni con commercialista) utili a mostrare eventuale buona fede.Ravvedimento riduce sanzioni e blocca escalation penale. Se già partite indagini (es. PVC Gdf) ravvedimento può non evitare denuncia ma è comunque attenuante e condizione non punibilità se completo .
2. Ricezione di lettere di compliance– Rispondere nei termini, correggendo l’irregolarità (tramite dichiarazione integrativa) o spiegando se errore del Fisco. <br> – Pagare quanto indicato se effettivamente dovuto (spesso sanzione ridotta 20% in comunicazioni automatizzate).Ignorare comunicazioni bonarie = quasi certo avviso formale dopo. Meglio aderire e chiudere in questa fase.
3. Avviso di accertamento dell’Agenzia Entrate– Valutare accertamento con adesione: richiedere incontro entro 15 gg dalla notifica per discutere; ottenere eventuale riduzione sanzioni 1/3. <br> – In mancanza di adesione, decidere se fare acquiescenza (pagare con sanzioni ridotte 1/3) entro 30 gg o se proporre ricorso. <br> – Se ricorso: predisporre memoria evidenziando eventuali vizi formali, errori nel calcolo dell’imponibile o imposta (includere ritenute, deduzioni spettanti), e chiedere sanzione proporzionata/minima per buona condotta. <br> – Valutare se rientra in definizione agevolata liti (se pendente) o altre sanatorie.Adesione/acquiescenza convengono se il merito è difficilmente contestabile e si punta solo a ridurre sanzioni. Ricorso conviene se vi sono motivi sostenibili (es: avviso tardivo, importo non dovuto in parte, violazioni diritti difesa). Nel dubbio, adesione blocca anche eventuale querela di reato? (non formalmente, ma pagamento riduce interesse penale).
4. Procedimento penale (notizia reato da omessa dich.)– Nominare un avvocato penalista esperto in reati tributari. <br> – Cooperare alle indagini se strategico: es. presentare memoria al PM spiegando assenza dolo, mostrando prove (es. errori del commercialista). <br> – Utilizzare la causa di non punibilità: pagare il debito tributario prima del dibattimento (se possibile già in fase indagini) ; depositare quietanze a PM/GIP. <br> – Richiedere riti alternativi se opportuno: patteggiamento (dopo pagamento) o abbreviato (se prove chiare, per ridurre pena di 1/3). <br> – In dibattimento, far valere eventuale mancanza di dolo (testimonianze, doc che mostrano buona fede) e/o errori procedurali (errori capo imputazione, prescrizione maturata se oltre 6 anni ecc.).Pagare il dovuto è la mossa più efficace: oltre a estinguere il reato per legge (art.13), dimostra ravvedimento. Se non riesci a pagare tutto, almeno acconti e impegno al pagamento possono essere valutati come attenuanti. L’avvocato potrà trattare con la Procura un patteggiamento ad esito favorevole (pena sospesa se incensurato e cooperativo). Senza patteggiamento, puntare su ragionevole dubbio sul dolo (non facile). Ricorda: il processo penale può durare anni; la prescrizione per omessa dich. è circa 8 anni dal fatto, quindi potrebbe maturare se il procedimento rallenta (possibile strategia attendista in alcuni casi).
5. Contributi INPS omessi– Controllare posizione contributiva personale (estratto INPS). <br> – Se datore: attendere eventuale Avviso Addebito o, se consapevole, valutare autodenuncia ad INPS (es. richiedere dilazione spontanea prima di ispezione, per evitare sanzione penale se paghi subito). <br> – Se collaboratore: sollecitare datore/INPS entro 5 anni. Mettere in mora il datore per versare. Se datore inadempiente, valutare pagamento diretto quota propria e eventualmente anche quota datore (per non perdere contributi), poi agire per rimborso danni . <br> – Opposizione a sanzioni INPS: se ricevi ordinanza ingiunzione, proporre ricorso nei 40 gg, eccependo eventuali vizi (prescrizione, importi errati, mancanza dolo per sanz. civili ridotte). <br> – Piano di rientro: chiedere rateazione INPS (max 24-36 mesi ordinaria). Pagare regolarmente rate per sospendere azioni esecutive.Se versi i contributi prima che intervenga la magistratura, per importi >10k eviti l’azione penale (la norma penale prevede la non punibilità se versi entro 3 mesi da contestazione, e spesso PM attendono esito sollecito prima di procedere). Dunque rapidità nel sanare è cruciale. Per collaboratore, se contributi già prescritti, unica strada è causa civile vs datore per indennizzo (difficile).

Nota: le strategie sopra vanno sempre adattate al caso concreto, possibilmente con l’assistenza di professionisti qualificati (commercialisti, avvocati tributaristi e giuslavoristi). Le normative citate sono aggiornate ad agosto 2025 e soggette a possibili modifiche future.

Conclusioni

L’omissione di redditi derivanti da collaborazioni coordinate e continuative è una violazione che può sembrare a prima vista “minore” (specie se quei redditi hanno già subito ritenute d’acconto), ma che in realtà comporta un’articolata serie di conseguenze legali sul piano fiscale, sanzionatorio e previdenziale. Dal punto di vista del debitore, ossia del contribuente che si trova esposto verso l’Erario o l’INPS a causa di tale omissione, è fondamentale conoscere sia i propri obblighi sia i propri diritti e strumenti di difesa.

Abbiamo visto come la normativa italiana preveda sanzioni severe per chi omette la dichiarazione: sanzioni amministrative pecuniarie fino al 120% dell’imposta evasa (riducibili in presenza di ravvedimento e altre attenuanti) , nonché – oltre certe soglie – sanzioni penali che possono portare anche a pene detentive . Allo stesso tempo, l’ordinamento offre la possibilità di regolarizzare spontaneamente la propria posizione (il ravvedimento operoso) e di beneficiare di cause di non punibilità se si adempie ai propri doveri prima che la giustizia penale faccia il suo corso . La giurisprudenza recente ha inoltre temperato l’applicazione delle sanzioni richiamando i principi di proporzionalità e colpevolezza: sia la Corte Costituzionale che la Corte di Cassazione hanno sottolineato che le sanzioni, pur severe, vanno adattate al caso concreto valorizzando il comportamento del contribuente (ad esempio riducendole se l’omissione non ha arrecato grande danno, perché magari le imposte erano quasi interamente pagate tramite ritenute) . Sul fronte previdenziale, abbiamo appreso che il collaboratore co.co.co. è in una posizione meno tutelata del dipendente: deve vigilare sui contributi e agire attivamente per non perdere il diritto alle prestazioni, poiché l’INPS non può erogare pensioni su periodi scoperti per colpa del datore . Le sentenze più aggiornate – dalla Cassazione Sez. Lavoro 11430/2021 alla recentissima Consulta 103/2025 – delineano un quadro in cui la responsabilità del versamento è sì in capo al committente, ma l’onere ultimo e le ricadute colpiscono il collaboratore se nulla viene fatto. Fortunatamente, oggi anche l’INPS dispone di mezzi più flessibili (come le sanzioni proporzionali 1,5-4x) e strumenti di recupero efficaci (avvisi di addebito immediati), e la Consulta ha confermato tali meccanismi in nome della tutela del lavoratore regolare .

Dal punto di vista pratico, questa guida ha fornito consigli operativi: la tempestività è spesso l’arma migliore. Se sei in ritardo con la dichiarazione, non aspettare di essere scoperto ma gioca d’anticipo con un ravvedimento; se sei sotto accertamento, valuta soluzioni conciliative per ridurre il danno; se sei imputato penalmente, salda il dovuto e il sistema tenderà a “perdonare” o quantomeno a chiudere l’episodio senza pene detentive effettive. Allo stesso modo, se scopri buchi contributivi, muoviti subito: dopo cinque anni ogni sforzo sarà vano per recuperare pensione. E soprattutto, non sottovalutare l’importanza di tenere traccia documentale: ricevute, comunicazioni, tutto ciò che può provare la tua buona fede o che hai cercato di rimediare, può tornare utile davanti a un giudice (sia esso tributario, del lavoro o penale).

In conclusione, “come difendersi” dall’omessa dichiarazione di redditi da co.co.co. significa innanzitutto prevenire la violazione o porvi rimedio prima possibile, e qualora la macchina amministrativa/giudiziaria sia già partita, significa far valere con fermezza i propri diritti: il diritto a una sanzione equa e proporzionata, il diritto a non essere punito penalmente se non c’era dolo effettivo, il diritto a non essere duplice vittima (di un datore inadempiente e di un sistema troppo rigido) in ambito previdenziale. La legge e le corti, come abbiamo visto, offrono appigli e strumenti per chi dimostra impegno nel regolarizzare e agire correttamente. Questa guida, con le sue fonti autorevoli e aggiornate, vuole essere un supporto per orientarsi in questa materia complessa: con essa, il lettore – sia esso un avvocato che assiste un cliente, un imprenditore preoccupato per irregolarità commesse, o un privato cittadino confuso dagli obblighi fiscali – potrà individuare i passi giusti da compiere per difendere i propri interessi, facendo valere ragioni e prove davanti alle autorità competenti.

Fonti: Le informazioni e i principi citati provengono dalla legislazione vigente e da pronunce giurisprudenziali di alto rilievo, quali Cass. n.13358/2025 (responsabilità del contribuente che delega il commercialista) , Cass. n.4643/2011 (deducibilità forfettaria anche su redditi omessi) , Cass. n.11430/2021 (obblighi contributivi dei co.co.co.) , Corte Cost. n.46/2023 (proporzionalità sanzioni omessa dichiarazione) , Corte Cost. n.103/2025 (legittimità sanzioni omesso versamento contributi) , tra le altre, nonché da circolari esplicative dell’Amministrazione finanziaria e prassi INPS. Tutti questi riferimenti convergono nel delineare un approccio equilibrato ma fermo: “rigore con chi evade, ma senza travolgere i diritti di chi vuole ravvedersi”. Conoscendo ciò, il debitore potrà meglio difendersi e – auspicabilmente – risolvere la propria posizione nel modo meno oneroso possibile, ristabilendo la legalità fiscale e contributiva richiesta.

  • Omessa dichiarazione dei redditi – Art 5 dlgs 74 2000

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ti contesta l’omessa dichiarazione di redditi da collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.)? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ti contesta l’omessa dichiarazione di redditi da collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.)?
Vuoi sapere quali conseguenze comporta e come puoi difenderti da queste contestazioni?

Le collaborazioni coordinate e continuative sono rapporti di lavoro che generano redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. Se non vengono dichiarati correttamente, l’Agenzia presume un’evasione d’imposta, applicando sanzioni e interessi. Tuttavia, spesso le contestazioni nascono da errori formali, omissioni del sostituto d’imposta o dati non aggiornati, che possono essere contestati.

👉 Prima regola: verifica se i redditi contestati erano effettivamente percepiti e se sono stati già tassati alla fonte.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Omissione del reddito nella dichiarazione annuale (Modello 730 o Redditi PF);
  • CU (Certificazione Unica) non inserita in dichiarazione;
  • Incongruenze tra quanto dichiarato e i dati presenti nelle banche dati dell’Agenzia;
  • Doppia tassazione se il sostituto non ha correttamente effettuato le ritenute;
  • Errori del sostituto d’imposta (azienda/committente) nella trasmissione dei dati.

📌 Conseguenze dell’omissione

  • Recupero dell’IRPEF non versata;
  • Sanzioni per infedele dichiarazione (dal 90% al 180% dell’imposta non dichiarata);
  • Interessi di mora;
  • Rischio di iscrizione a ruolo e successive procedure esecutive (cartelle, pignoramenti, fermi).

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Effettiva percezione dei compensi: i redditi contestati sono stati realmente incassati?
  • Ritenute alla fonte: sono state già operate dal committente? In tal caso non puoi essere tassato due volte;
  • CU e dichiarazioni: verifica se la Certificazione Unica era stata trasmessa ma non caricata correttamente;
  • Motivazione dell’atto: l’Agenzia deve indicare fonti e dati (es. CU, anagrafe tributaria, INPS);
  • Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • CU (Certificazione Unica) rilasciata dai committenti;
  • Buste paga o prospetti di pagamento delle collaborazioni;
  • Estratti conto bancari con i bonifici ricevuti;
  • Dichiarazioni dei redditi presentate e ricevute di invio;
  • Comunicazioni tra te e il sostituto d’imposta.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la corretta tassazione dei redditi tramite ritenute già operate;
  • Correggere errori formali con dichiarazioni integrative o istanza di autotutela;
  • Eccepire vizi dell’atto: notifica irregolare, decadenza dei termini, carenza di motivazione;
  • Richiedere annullamento parziale se i redditi sono stati dichiarati ma l’Agenzia ha sbagliato i calcoli;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni, con possibilità di sospensione cautelare;
  • Mediazione tributaria per ridurre sanzioni e interessi.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza l’avviso di accertamento e i dati contestati;
📌 Verifica l’effettiva percezione dei redditi e la presenza di ritenute;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per annullare o ridurre la pretesa fiscale;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce strategie preventive per evitare futuri errori dichiarativi.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali e redditi da lavoro;
✔️ Specializzato in difesa dei contribuenti su omissioni dichiarative e co.co.co.;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate su redditi da collaborazioni coordinate e continuative non sempre sono fondate.
Con una difesa adeguata puoi dimostrare l’avvenuta tassazione o correggere eventuali errori formali, evitando il pagamento di imposte e sanzioni indebite.

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La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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