Contestazioni Agenzia Delle Entrate Su Compensi A Soci Amministratori: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate sui compensi erogati a soci amministratori della tua società? In questi casi, l’Ufficio può ritenere che i compensi siano sproporzionati, non inerenti o non correttamente deliberati, e pretendere il recupero a tassazione con applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre le contestazioni sono legittime: vi sono strategie difensive per dimostrare la correttezza dei compensi e tutelare la società e gli amministratori.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i compensi ai soci amministratori
– Se i compensi non risultano da delibere valide dell’assemblea o del consiglio di amministrazione
– Se l’importo è ritenuto eccessivo e non proporzionato all’attività svolta
– Se manca l’effettiva erogazione (assenza di pagamenti tracciabili)
– Se i compensi sono considerati distribuzione occulta di utili
– Se vi sono difformità tra quanto dichiarato e quanto effettivamente corrisposto

Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione dei compensi considerati indeducibili per la società
– Maggiori imposte a carico della società e degli amministratori percettori
– Applicazione di sanzioni per infedele dichiarazione dei redditi
– Interessi di mora sulle somme ritenute non legittimamente dedotte
– Rischio di ulteriori verifiche fiscali su bilanci e rapporti societari

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la regolare deliberazione dei compensi da parte degli organi societari
– Provare l’effettiva erogazione e la tracciabilità dei pagamenti
– Evidenziare la proporzionalità e l’inerenza dei compensi rispetto alle mansioni svolte
– Contestare la qualificazione dei compensi come distribuzione occulta di utili
– Far valere vizi formali, errori di calcolo o decadenza dei termini nell’atto di accertamento
– Impugnare la contestazione davanti alla Corte di Giustizia Tributaria

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione societaria (verbali, bilanci, delibere) e fiscale
– Verificare la correttezza delle procedure di determinazione e corresponsione dei compensi
– Redigere un ricorso fondato su vizi formali e sostanziali dell’accertamento
– Difendere la società e gli amministratori in giudizio contro pretese indebite
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da possibili azioni esecutive

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– Il riconoscimento della legittimità dei compensi deliberati e corrisposti
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– La riduzione del debito fiscale contestato
– La certezza di preservare la corretta gestione societaria e fiscale

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non agisci nei termini, l’accertamento diventa definitivo e non sarà più possibile difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sui compensi ai soci amministratori e come tutelare la tua società.

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Introduzione

soci amministratori (ossia i soci di società che ricoprono anche la carica di amministratore) spesso percepiscono compensi per l’attività di gestione svolta. Tuttavia, la normativa italiana prevede regole rigorose sulla determinazione e deducibilità fiscale di tali compensi, la cui violazione può portare l’Agenzia delle Entrate a contestazioni in sede di accertamento. In questa guida avanzata esamineremo la disciplina civilistica e tributaria relativa ai compensi degli amministratori soci, le contestazioni tipiche mosse dall’Amministrazione finanziaria e le strategie difensive che il debitore (il contribuente destinatario dell’accertamento) può adottare . Verranno analizzate le norme applicabili a tutti i tipi di società di capitali – S.r.l.S.p.A. e società cooperative – con particolare attenzione ai casi di compensi non formalizzati con apposita delibera (come l’assenza di deliberazione assembleare) e ai compensi ritenuti antieconomici o percepiti in regime di doppio ruolo (amministratore e lavoratore dipendente). Il taglio è difensivo-tributario: l’obiettivo è fornire a professionisti (avvocati, consulenti fiscali) e a imprenditori-soci gli strumenti avanzati per comprendere come difendersi efficacemente dalle contestazioni dell’Agenzia delle Entrate in materia di compensi agli amministratori soci.

Quadro normativo: determinazione dei compensi e rilevanza fiscale

Disciplina civilistica – La determinazione del compenso agli amministratori è regolata dal Codice Civile e varia a seconda del tipo sociale: nelle società di capitali (S.p.A., S.r.l., cooperative) vige il principio che il compenso è fissato dai soci, salvo diversa previsione nello statuto. In particolare, per le S.p.A. l’art. 2364, comma 1, n. 3) c.c. stabilisce che l’assemblea ordinaria dei soci determina il compenso degli amministratori (salvo che sia stabilito dallo statuto) . L’art. 2389 c.c. conferma che la remunerazione dei membri del consiglio di amministrazione dev’essere fissata dall’assemblea (o nello statuto); eventuali compensi aggiuntivi per consiglieri delegati con particolari incarichi possono essere decisi dal consiglio di amministrazione con l’approvazione del collegio sindacale (art. 2389, comma 3 c.c.). Per le S.r.l., pur non essendoci un articolo ad hoc del Codice Civile analogo all’art. 2364, si applica un principio analogo in virtù dell’art. 2479 c.c.: la decisione circa i compensi degli amministratori rientra nelle competenze dei soci, attuata tramite decisione assembleare (anche non in forma di assemblea tradizionale, data la flessibilità delle S.r.l.), a meno che lo statuto preveda espressamente altro (ad esempio, che l’amministratore unico svolga l’incarico gratuitamente o a determinate condizioni). Nelle cooperative, in assenza di norme speciali, trovano applicazione le stesse regole delle società per azioni o a responsabilità limitata (in base alla forma adottata): di regola è l’assemblea dei soci cooperatori a stabilire i compensi per gli amministratori, con eventuali limiti aggiuntivi previsti per le cooperative a mutualità prevalente (ad esempio, limiti alla remunerazione degli amministratori al fine di non eludere i divieti di distribuzione indiretta di utili imposti dall’art. 2514 c.c.). In ogni caso, qualsiasi compenso destinato agli amministratori deve risultare da una decisione formale dei soci o da una previsione statutaria per essere valido civilisticamente.

Disciplina fiscale – Sul piano tributario, i compensi agli amministratori assumono rilievo sia per la società (che li deduce come costo) sia per l’amministratore persona fisica (che li dichiara come reddito). Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (D.P.R. 917/1986, TUIR) contiene alcune regole peculiari: l’art. 95, comma 5 TUIR dispone che i compensi spettanti agli amministratori sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti (principio di cassa) . Si tratta di una deroga al normale criterio di competenza: l’intento del legislatore è di far coincidere il periodo d’imposta in cui il compenso è tassato in capo all’amministratore con quello in cui è dedotto dalla società , evitando arbitraggi fiscali (come la deduzione anticipata di costi a fronte di una tassazione del percettore differita). In pratica, la società può dedurre il costo nell’anno in cui effettivamente paga il compenso (o, in caso di compensi erogati entro il 12 gennaio dell’anno successivo, può facoltativamente imputarli all’anno precedente secondo il principio di cassa “allargata” ). Dal lato dell’amministratore, il compenso percepito rientra di norma nei redditi assimilati al lavoro dipendente (se l’attività di amministratore è svolta in forma di co.co.co.) ed è assoggettato a ritenuta d’acconto IRPEF da parte della società erogante. In alternativa, se l’amministratore svolge la prestazione in forma professionale con partita IVA (caso meno comune, ma possibile ad esempio se l’amministratore è anche un consulente esterno), il compenso è dichiarato come reddito di lavoro autonomo ed è assoggettato a ritenuta d’acconto del 20% e IVA; in tal caso, per la società il costo è deducibile comunque per cassa (ma l’IVA sul compenso è detraibile solo se rispettate le condizioni di inerenza e regolarità della fattura).

Principio di certezza del costo e inerenza – Oltre al criterio temporale di deduzione, la normativa fiscale richiede che i costi siano certi e determinati nonché inerenti all’attività d’impresa (art. 109 TUIR). Nel caso dei compensi agli amministratori, ciò significa che per poter dedurre il costo: (a) il compenso deve essere effettivamente spettante e definito nell’ammontare (certezza/determinabilità), e (b) deve essere correlato all’attività societaria (inerenza). Il requisito della certezza si collega strettamente alla formale attribuzione del compenso: se non c’è stata una regolare delibera o previsione statutaria che stabilisca il diritto dell’amministratore a un certo importo, il Fisco potrebbe eccepire che il costo non era giuridicamente dovuto né certo nell’esercizio di competenza, precludendone la deducibilità. Parimenti, l’Amministrazione finanziaria potrebbe sindacare l’inerenza quantitativa del compenso, ossia valutare se l’importo corrisposto sia ragionevole rispetto ai ricavi e alle dimensioni dell’impresa. Questi aspetti sono al centro delle contestazioni trattate nei paragrafi seguenti.

Di seguito analizziamo dettagliatamente le contestazioni tipiche sollevate dall’Agenzia delle Entrate in materia di compensi ai soci amministratori e come strutturare una difesa efficace, citando la normativa e la più recente giurisprudenza (sentenze di legittimità e di merito aggiornate ad agosto 2025) . Troverete anche tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione di Domande & Risposte per chiarire i dubbi più frequenti. Il tutto dal punto di vista del contribuente, evidenziando i profili su cui far leva in sede di accertamento o contenzioso tributario.

Delibera assembleare obbligatoria: nullità civile e indeducibilità fiscale dei compensi non deliberati

Uno dei pilastri della disciplina è che i compensi spettanti agli amministratori devono risultare da una specifica decisione dei soci (assemblea o decisione unanime scritta) oppure da una clausola statutaria. In mancanza di ciò, sia il diritto civile sia il diritto tributario ne fanno derivare conseguenze sfavorevoli per amministratori e società.

Violazione delle norme societarie e nullità del compenso

Dal punto di vista civilistico, l’art. 2389 c.c. e le norme collegate (2364 c.c. per S.p.A., 2479 c.c. per S.r.l.) hanno natura di norme imperative volte a garantire trasparenza e correttezza nella gestione societaria . La ratio è evitare che gli amministratori – specie se sono anche soci di controllo – possano autodeterminarsi il compenso eludendo il controllo dei soci e a scapito della corretta rappresentazione del risultato d’impresa . Pertanto, la giurisprudenza considera nullo per illiceità della causa (art. 1418 c.c.) qualsiasi atto dispositivo di un compenso agli amministratori in violazione di tali norme. In pratica, se un amministratore si fa attribuire compensi senza che vi sia stata una delibera assembleare che li approvi (o una previsione nello statuto che li quantifichi), quel pagamento è civilmente nullo: la società potrebbe perfino pretenderne la restituzione dall’amministratore beneficiario, poiché versato in assenza di valida causa contrattuale. Questa nullità è stata sottolineata, tra le altre, dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 20613/2025 : la violazione delle norme imperative sulla determinazione dei compensi comporta nullità ex art. 1418 c.c., trattandosi di regole poste a tutela sia dell’interesse dei soci sia di un interesse pubblico al regolare funzionamento delle società di capitali (affidabilità dei bilanci, tutela dei creditori e del fisco) . Dunque, nessun compenso “sottratto” al controllo assembleare può considerarsi validamente pattuito.

Va osservato che questa impostazione ha conosciuto, in passato, qualche voce discordante in dottrina e giurisprudenza di merito. Ad esempio, una Commissione Tributaria Provinciale (CTP di Lucca, sent. n. 64/2006) ritenne che l’assenza di una delibera specifica non rendesse di per sé indeterminato il compenso, qualora lo stesso fosse comunque indicato nelle scritture contabili e risultasse dal bilancio approvato dai soci . In altre parole, secondo tale orientamento, l’approvazione del bilancio da parte dell’assemblea che evidenzi un certo costo come “compenso amministratore” potrebbe sanare la mancanza di una delibera ad hoc. Tuttavia, questa tesi è oggi nettamente minoritaria e superata dalla posizione della Cassazione, come vedremo nel prossimo paragrafo: per la Suprema Corte la semplice approvazione del bilancio non equivale ad autorizzazione del compenso, salvo il caso (del tutto particolare) in cui l’assemblea riunita per il bilancio – con la totalità dei soci presenti – abbia espressamente discusso e approvato anche la proposta di compenso in quella sede .

Indeducibilità fiscale in caso di mancata delibera

Dal lato fiscale, la mancanza di una deliberazione assembleare preventiva che determini l’ammontare del compenso ha come conseguenza la non deducibilità del relativo costo per la società. La ragione è duplice: da un lato, un compenso non validamente deliberato non è giuridicamente dovuto (quindi la società lo ha erogato volontariamente, quasi fosse un’erogazione liberale o una distribuzione di utili mascherata), difettando così il requisito della certezza e definitività del costo richiesto dall’art. 109 TUIR . Dall’altro, riconoscere comunque la deducibilità significherebbe vanificare l’impianto normativo imperativo sopra descritto, favorendo opacità nei rapporti soci-amministratori. Non sorprende quindi che la Cassazione abbia adottato una linea dura su questo punto fin da tempo: già le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 21933 del 29/08/2008, affermarono il principio per cui “la mancanza di una specifica delibera assembleare interdice alla società il diritto di deduzione fiscale del compenso erogato, non potendosi considerare implicito il consenso sociale nella delibera di approvazione del bilancio” . Tale principio è stato ribadito più volte negli anni successivi, consolidandosi come orientamento granitico. Ad esempio:

  • Cass. ord. n. 24471 del 09/08/2022 ha affermato che la disciplina sul funzionamento delle società contiene una distinta previsione per l’approvazione del bilancio e per la determinazione dei compensi agli amministratori, con natura imperativa, e che ai fini della deducibilità fiscale del compenso è necessaria una quantificazione nello statuto o in apposita delibera assembleare, non potendo quest’ultima mai ritenersi implicita nell’approvazione del bilancio . L’unica eccezione ammessa è il caso di assemblea totalitaria convocata solo per il bilancio in cui però i soci abbiano anche deliberato espressamente il compenso in quella sede .
  • Cass. ord. n. 8005 del 25/03/2024 ha nuovamente sottolineato che serve una “specifica decisione dei soci” per dedurre il compenso spettante agli amministratori, richiamando proprio la sentenza n. 24471/2022 e i principi ivi affermati . La Corte evidenzia che il quadro normativo impone la delibera separata, e quindi l’assenza di essa comporta indeducibilità.
  • Da ultimo, Cass. ord. n. 20613 del 24/06/2025 (Sez. Trib.) ha riaffermato “con fermezza” che i compensi corrisposti agli amministratori di una S.r.l. non sono deducibili dal reddito d’impresa in assenza di formale delibera assembleare preventiva che li abbia determinati . Nell’ordinanza si evidenzia come questa non sia una mera formalità, bensì un presidio di legalità a tutela anche dell’“affidabilità fiscale” delle imprese .

In concreto, quindi, se l’Agenzia delle Entrate scopre che una società ha dedotto come spesa un importo versato all’amministratore senza che vi sia traccia di una delibera o decisione dei soci che lo autorizzi, contesterà tale costo come indeducibile. Ciò avviene tramite un avviso di accertamento che rettifica il reddito d’impresa, stornando il costo e calcolando maggiori imposte (IRES e spesso IRAP) su quell’importo. Ad esempio, se una S.r.l. ha portato a riduzione dell’utile €50.000 pagati all’amministratore senza delibera, l’Ufficio riprenderà a tassazione quei €50.000 come reddito imponibile in capo alla società.

Nota: La non deducibilità fiscale non dipende dal fatto che il compenso sia stato effettivamente pagato o tassato in capo all’amministratore; dipende unicamente dall’assenza di validità civilistica del costo. In altre parole, anche se l’amministratore ha dichiarato e pagato l’IRPEF su quel compenso (magari credendo fosse legittimo), la società comunque perderà il diritto a dedurlo se non c’era delibera . Ciò genera un effetto di doppia tassazione economica: l’importo viene tassato una prima volta come reddito dell’amministratore e una seconda volta (indirettamente) perché non dedotto dal reddito della società. La dottrina ha criticato questo esito, ritenendo che se il Fisco nega la deduzione dovrebbe quantomeno riqualificare la somma come utili distribuiti (soggetti a tassazione diversa) o evitare la doppia imposizione . La Cassazione, tuttavia, non ha sinora accolto appieno queste istanze di equità, limitandosi a osservare che la simmetria imposta dall’art. 95 TUIR (deducibilità per cassa contro tassazione per cassa) è voluta dal legislatore proprio per impedire arbitraggi, e che il costo privo di delibera è, in fondo, assimilabile a un esborso privo di causa inerente all’attività (dunque come un utile occulto ai soci). In un caso, la Suprema Corte ha definito tali esborsi “espedienti elusivi posti in essere al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte”, specie quando mediante essi l’utile di esercizio veniva azzerato .

Inoltre, l’indeducibilità comporta anche che l’eventuale IVA addebitata su tali compensi non possa essere detratta dalla società. Questo rileva quando l’amministratore emette fattura con IVA (ad esempio per consulenze, caso di cui diremo oltre): la Cassazione ha chiarito che se la prestazione è in realtà resa dall’amministratore in assenza di una delibera che ne autorizzi il compenso, l’operazione è contraria a norme imperative, quindi l’IVA sull’“finta” consulenza non è detraibile . In sintesi, dal punto di vista fiscale compenso non deliberato = costo indeducibile e IVA indetraibile (se presente).

Riassumendo i punti chiave sul compenso non deliberato:

  • Nullità civilistica: il compenso corrisposto senza autorizzazione assembleare è nullo ex art. 1418 c.c., come atto contrario a norma imperativa . La società potrebbe chiederne la restituzione all’amministratore. In caso di fallimento della società, il curatore spesso agisce contro l’amministratore per fargli restituire i compensi “indebitamente” percepiti.
  • Ripresa fiscale a tassazione: l’Ufficio considera il costo privo di delibera non deducibile per difetto dei requisiti di legge (certezza, inerenza) . L’accertamento aumenterà il reddito imponibile di quell’importo, con relative imposte e sanzioni.
  • Onere della prova: la prova dell’esistenza di una delibera spetta alla società. In giudizio, il contribuente potrebbe esibire una delibera assembleare che inizialmente non era stata considerata dal Fisco (ad esempio, un verbale che l’Ufficio non aveva visto). Se esiste ed è valida, ciò ribalta la situazione rendendo il costo deducibile. Se invece la delibera non esiste, difficilmente il giudice potrà dare ragione alla società, data la chiarezza del requisito. Tentare di far valere un consenso “tacito” dei soci non trova sponda in Cassazione , sebbene si sia visto che a livello di commissione tributaria qualcuno abbia sostenuto il contrario .
  • Eccezione della “totalitaria deliberante”: come accennato, l’unica attenuante ammessa dalla Cassazione è se tutti i soci erano presenti e consenzienti e, pur in mancanza di formale convocazione per decidere il compenso, hanno effettivamente discusso e approvato l’importo. In pratica, un verbale di assemblea totalitaria che, nell’ambito dell’approvazione di bilancio, riporti specificamente anche la decisione sul compenso, può valere come delibera valida . Ciò potrebbe applicarsi ad esempio nelle S.r.l. unipersonali: il socio unico può mettere a verbale la determinazione del proprio compenso di amministratore in concomitanza col bilancio. È comunque buona prassi redigere una decisione separata per i compensi, onde evitare qualunque contestazione.

Suggerimento pratico: Per prevenire problemi, ogni società farebbe bene a formalizzare in modo rigoroso i compensi agli amministratori. Ciò significa: adottare una delibera assembleare (ordinaria) ogni volta che si nomina l’organo amministrativo o quando si modifica il compenso, specificando l’importo (o i criteri di calcolo, ad es. una percentuale sugli utili) dovuto a ciascun amministratore. La delibera va verbalizzata e conservata nel libro delle decisioni dei soci . Nel caso di socio unico, occorre una dichiarazione scritta dell’unico quotista che stabilisca il compenso annuale (da custodire nel libro delle decisioni del socio unico, come prescritto dall’art. 2475, comma 4 c.c.). Inoltre, è importante che il compenso stabilito sia poi rispettato: se l’amministratore preleva somme eccedenti quanto deliberato, quelle eccedenze saranno fuori regola. Viceversa, se non viene corrisposto nulla, ma era stato deliberato un compenso, è possibile decidere di rinunciarvi formalmente (rinuncia dell’amministratore), oppure deliberare che l’amministratore lasci il compenso in tutto o in parte alla società (in tal caso però la quota non riscossa potrebbe configurare un apporto capitalizzante, tema differente). In ogni caso, documentazione e trasparenza mettono al riparo da molte contestazioni fiscali.

Compensi mascherati da consulenze o altre forme: divieto di aggiramento delle norme

Alcune società hanno tentato di aggirare l’obbligo di delibera ricorrendo a stratagemmi: ad esempio facendo stipulare all’amministratore un contratto di consulenza professionale con la società, così da pagarlo con regolari fatture come fosse un fornitore esterno, anziché come amministratore. Oppure attribuendo compensi indiretti sotto forma di rimborsi spese esagerati, premi, ecc., senza chiamarli formalmente “compenso amministratore”. L’intento è chiaro: evitare la necessità di una delibera assembleare (nel caso del consulente esterno) o sfuggire ai riflettori del controllo fiscale presentando il costo con un’altra etichetta.

Le consulenze degli amministratori a “se stessi”

Il caso più frequente è quello del amministratore-consulente: immaginiamo una S.r.l. in cui l’amministratore unico (magari socio di maggioranza) sia anche un professionista (commercialista, ingegnere, etc.). La società invece di deliberargli un compenso, gli fa un contratto di consulenza per specifici servizi (es. consulenza aziendale, progettazione tecnica) e gli paga fatture con IVA. Formalmente sembrerebbe tutto regolare (prestazione di servizi tra soggetto IVA e società), ma dal punto di vista sostanziale spesso queste consulenze coprono attività che rientrano comunque nel ruolo gestorio dell’amministratore.

La Cassazione inizialmente non aveva fornito indicazioni univoche su tali situazioni, ma la tendenza attuale è di smascherare questi artifici. In due recentissime ordinanze del 24 luglio 2024 (Cass. nn. 20591 e 20613) la Suprema Corte ha segnato una stretta significativa: ha affermato che in assenza di delibera o previsione statutaria del compenso, non vi è possibilità di aggirare la norma ricorrendo a contratti di consulenza professionale tra la società e il suo amministratore . In tali pronunce, i giudici hanno rilevato che i contratti apparentemente leciti (con oggetto definito e tariffa dettagliata) erano in realtà un meccanismo per corrispondere compensi agli amministratori senza passare per l’approvazione assembleare . Di conseguenza, hanno disconosciuto la deducibilità di quei costi di consulenza. Conta la funzione economica, non la forma giuridica: se la prestazione resa dall’amministratore rientra, anche solo in parte, nell’attività che egli svolge come organo sociale, il compenso dev’essere deliberato secondo le regole societarie e non può essere liberamente pattuito con un contratto separato .

Questa posizione ha suscitato dibattito, perché in passato c’era almeno una sentenza di Cassazione (Cass. n. 15822/2016) di segno diverso . Nel 2016, infatti, la Corte aveva ritenuto che la remunerazione di una specifica attività inerente all’oggetto sociale fosse cosa diversa dal compenso generico ex art. 2389 c.c., e che pertanto i relativi costi potessero essere dedotti secondo il principio di competenza, senza bisogno di delibera assembleare. In altre parole, per quella pronuncia, se un amministratore svolge un lavoro ulteriore (es. una progettazione ingegneristica) estraneo ai compiti ordinari di amministratore, il pagamento di tale lavoro poteva essere inquadrato come prestazione professionale autonoma e dedotto come tale, anche se reso dalla stessa persona che ricopre la carica sociale. Oggi, però, questa linea interpretativa appare superata. Le ordinanze del 2024 marcano un netto ritorno all’ortodossia: l’amministratore non può auto-eludere la regola imponendo la propria remunerazione sotto mentite spoglie contrattuali.

Dal punto di vista difensivo, chi si trovi in una contestazione di questo tipo deve valutare attentamente i fatti: non tutte le consulenze rese da amministratori sono artificiali, ma ammettiamo che sia un terreno scivoloso. Se, ad esempio, l’amministratore possiede competenze tecniche specifiche e la società gli ha affidato un progetto straordinario dietro compenso, in aggiunta al suo ruolo gestorio, si può cercare di sostenere la legittimità della consulenza autonoma. In sede di contenzioso, si dovrà provare che: (a) la prestazione era ulteriore e diversa dalle normali funzioni amministrative, (b) il compenso pattuito era a prezzo di mercato (lo stesso che si sarebbe pagato a un esterno qualificato) , (c) non c’era intento di elusione ma effettiva esigenza aziendale. Si potrà citare la Cass. 15822/2016 a supporto di questa tesi minoritaria. Occorre però essere consapevoli che se la causa arriva in Cassazione oggi, con ogni probabilità prevale l’orientamento più recente e restrittivo.

Un altro esempio: un membro del CdA è anche avvocato e rappresenta la società in giudizio. Deve la società deliberare il suo onorario in anticipo? Secondo la logica delle ordinanze 20591 e 20613/2024, parrebbe di sì (la Corte stessa ironizza che, spingendo alle estreme conseguenze questo indirizzo, si creerebbe un’inutile complicazione gestionale) . È auspicabile – come notato da commentatori – che questi arresti del 2024 vengano magari rivisti o circoscritti, poiché effettivamente possono risultare eccessivamente rigidi nell’operatività aziendale . Nel frattempo, è prudente evitare di usare contratti di consulenza con gli amministratori come surrogato della delibera: meglio fare approvare ai soci anche quei compensi “straordinari” (magari specificando nella delibera che si tratta di compenso per uno specifico progetto). In alternativa, se si vuole incaricare formalmente l’amministratore di un lavoro extra, lo si potrebbe fare rinunciando alla deduzione del costo (trattandolo come non inerente), ma questo ovviamente non è nell’interesse della società.

Altre forme di remunerazione occulta

Oltre alle consulenze fittizie, l’Agenzia delle Entrate è attenta ad individuare eventuali benefíci o spese a favore dell’amministratore-socio che possano celare una distribuzione di utili. Esempi: rimborsi spese non giustificati o forfettarispese personali messe a carico della società (auto di lusso ad uso privato, viaggi familiari spacciati per trasferte, ecc.), premi o bonus atipici erogati senza delibera, utilizzo dei beni sociali (immobili, barche, ecc.) da parte del socio amministratore senza corrispettivo. Tutte queste situazioni possono portare il Fisco a considerare che vi sia stata una remunerazione extra non dichiarata e non deliberata.

La difesa in tali casi richiede di dimostrare che le spese in questione sono in realtà inerenti all’attività (ad esempio, l’auto aziendale effettivamente usata per lavoro, le trasferte con adeguata documentazione di missione, ecc.) e che non costituiscono un vantaggio occulto al socio. Un accertamento tipico riguarda i prelievi o versamenti dai conti personali dell’amministratore: se un socio-amministratore preleva soldi dal conto sociale o riceve bonifici dalla società senza giustificazione contabile, il Fisco può contestare una ripresa a tassazione come dividendo non dichiarato o come ricavo distratto. La Cassazione, specie quando c’è identità tra socio unico e amministratore, consente una forte presunzione legale: ogni movimento finanziario anomalo tra società e amministratore unico si presume riferibile all’attività d’impresa, salvo prova contraria rigorosa . Ad esempio, nell’ordinanza n. 17108/2025, la presenza di operazioni su conti esteri intestati al socio-amministratore unico ha fatto scattare la presunzione di ricavi non dichiarati per la società, invertendo l’onere della prova a carico del contribuente .

Se la società sostiene che quelle somme erano in realtà compensi all’amministratore (e magari li iscrive a posteriori a costo), senza però averli deliberati né assoggettati a ritenuta, la sua posizione è debolissima: rischia di subire sia la tassazione come utili occulti, sia le sanzioni per omessa applicazione di ritenute (se interpretate come redditi di lavoro corrisposti in nero). È fondamentale in queste situazioni trovare documenti o elementi che spieghino i movimenti contestati con cause estranee (es. restituzione di finanziamenti, operazioni con altre società, etc.), piuttosto che appellarsi tardivamente a “compensi di fatto” mai formalizzati – giacché, come abbiamo visto, la Cassazione li ha definiti indeducibili in modo manifestamente infondato ogni qualvolta è stato sollevato il motivo .

In conclusione su questo tema: la sostanza economica prevale sulla forma. Se un pagamento a favore di un amministratore socio non ha una giustificazione ordinaria e appare come un vantaggio per il socio stesso, l’Agenzia delle Entrate tenderà a qualificarlo come componente negativo indeducibile (o addirittura come distribuzione di utili non tassata correttamente). Per difendersi, bisogna fornire una controprova robusta dell’inerenza e legittimità di ogni uscita di denaro verso l’amministratore: delibere, contratti autentici, documentazione di spesa, tutto deve essere in ordine. Viceversa, tentare scorciatoie può portare più problemi che benefici fiscali.

Compensi “antieconomici” o sproporzionati: controllo di congruità e abuso del diritto

Un altro profilo di contestazione riguarda l’ammontare dei compensi agli amministratori. Anche quando un compenso è stato regolarmente deliberato, l’Agenzia delle Entrate potrebbe contestarne la deducibilità (in tutto o in parte) qualora ritenga che sia eccessivamente elevato rispetto alla realtà economica dell’azienda. Si parla in questi casi di costi “non congrui” o di comportamento “antieconomico” dell’impresa. Il concetto di fondo è che, se un’impresa sostiene un costo straordinariamente alto senza una valida ragione aziendale, potrebbe celarsi un intento elusivo (ad esempio, ridurre l’utile tassabile distribuendo di fatto utili ai soci con la veste di compensi).

Potere del Fisco di sindacare l’inerenza quantitativa

In linea generale, il Fisco non può ingerirsi nelle scelte imprenditoriali né stabilire quanto un’azienda “dovrebbe” pagare i propri dipendenti o amministratori. Tuttavia, c’è un limite implicito: quando il costo appare manifestamente abnorme e privo di giustificazione, l’Amministrazione finanziaria può attivare il sindacato di inerenza su base quantitativa . Questo potere è stato più volte riconosciuto dalla Cassazione: ad esempio, la sentenza n. 3243/2013 ha ribadito che la deducibilità dei compensi agli amministratori “non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti”, rientrando nei poteri dell’Ufficio “la verifica dell’attendibilità economica di tali dati” . In altre parole, una delibera assembleare non è un assegno in bianco che il Fisco deve accettare passivamente se l’importo deliberato risulta palesemente inattendibile rispetto alla situazione della società.

Un principio spesso citato è quello enunciato da Cass. n. 24379/2016: “Ai fini della generale deducibilità dei costi non è sufficiente che il contribuente fornisca la prova dell’effettività dei componenti negativi, dovendo anche fornire la prova della loro inerenza, anche in senso quantitativo, alla produzione dei ricavi (…); anche sotto tale profilo l’Amministrazione finanziaria è legittimata a negare la deducibilità parziale di un costo ritenuto sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa e rispetto al quale la società non fornisca plausibili ragioni a giustificazione dell’ammontare” . Dunque, se un compenso amministratore è di entità inusuale (ad esempio, un piccolo srl famigliare con fatturato modesto che remunera l’amministratore con centinaia di migliaia di euro), il Fisco può dubitare della genuinità di tale operazione e richiedere al contribuente di motivare l’operazione sotto il profilo economico.

La prassi dell’Agenzia si era già espressa in tal senso con la Risoluzione n. 113/E/2012“in sede di controllo, l’Amministrazione finanziaria può disconoscere totalmente o parzialmente la deducibilità [dei compensi agli amministratori] in tutte le ipotesi in cui i compensi appaiano insoliti, sproporzionati ovvero strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi” . Questo include sia i casi in cui il compenso è troppo alto in assoluto, sia quelli in cui, pur non essendo enorme, appare antieconomico (ad esempio, una società in perdita che remunera riccamente i soci amministratori potrebbe far pensare a una ripartizione occulta di utili pregressi o a benefici extra-fiscali come il riassorbimento di perdite).

Naturalmente, esistono anche pronunce favorevoli al contribuente, che limitano il potere di sindacato del Fisco. Un orientamento (minoritario) sostiene che l’inerenza è concetto qualitativo (attinenza all’attività) e non quantitativo: finché il costo è effettivo e relativo all’impresa, il Fisco non dovrebbe potersi sostituire all’imprenditore nel valutarne la convenienza. Ad esempio, alcune sentenze di merito hanno ritenuto non legittimo contestare la congruità dei compensi deliberati dai soci, in assenza di prove di frode o distrazione (sostanzialmente sposando l’idea che i soci possono liberamente decidere quanto pagare il proprio management). Tuttavia, come rileva la dottrina, questo filone difforme è oggi minoritario , mentre prevale l’indirizzo che ammette il sindacato di antieconomicità quando ricorrono elementi gravi, precisi e concordanti di anomalia.

Difendersi da una contestazione di compenso eccessivo

Se l’Agenzia delle Entrate contesta che il compenso deliberato (e dedotto) sia eccessivo, il carico argomentativo si sposta in buona parte sul contribuente. Occorre predisporre una difesa documentale e logica per dimostrare che l’importo è giustificato. Le possibili linee di difesa includono:

  • Prova dell’attività e del valore apportato dall’amministratore: Bisogna evidenziare cosa ha fatto l’amministratore per meritare quel compenso. Ad esempio, se ha particolari competenze o responsabilità (ha curato personalmente un progetto di rilevanza eccezionale, ha ristrutturato l’azienda portandola da perdita a utile, ecc.). In sostanza, fornire una narrazione economica coerente: “Abbiamo pagato molto il nostro amministratore perché senza di lui l’azienda non avrebbe ottenuto XY risultati”. Se vi sono relazioni, report, delibere che attestano risultati raggiunti, vanno prodotti.
  • Comparazione di mercato: Un ottimo argomento può essere dimostrare che il compenso, ancorché alto, è in linea con i livelli di mercato per ruoli analoghi. Ad esempio, se un amministratore delegato di una società di quel settore/dimensione mediamente percepisce €200.000 annui, e la nostra società ne ha pagati €220.000, si può sostenere che non è così “sproporzionato”. Si possono utilizzare studi di settore, indagini retributive, pareri di esperti in organizzazione aziendale. La Cassazione non vincola l’Ufficio ai contratti sociali interni, ma nulla vieta di portare evidenza esterna per convincere che la spesa è giustificata.
  • Situazioni contingenti o straordinarie: Spiegare se il compenso elevato ha natura straordinaria (es. “bonus una tantum” legato a un evento irripetibile, come la quotazione in borsa, la vendita di un ramo d’azienda, ecc.) e non rappresenta un esborso ricorrente. Un bonus eccezionale può essere più difendibile se legato a uno specifico risultato e deliberato con quella motivazione, rispetto a un aumento immotivato della retribuzione fissa. Anche documentare l’approvazione da parte dei soci di minoranza (se ce ne sono) aiuta a dimostrare la buona fede e correttezza (perché se anche i soci non amministratori erano d’accordo, è meno probabile che fosse un travestimento di utili distribuiti).
  • Dimostrare l’assenza di intento evasivo: se la società aveva perdite pregresse o utili bassi, pagare un grande compenso può sembrare un modo per ridurre ancora di più le imposte. Ma se, ad esempio, quell’importo è stato interamente tassato in capo all’amministratore a un’aliquota IRPEF uguale o superiore all’IRES evitata, si può argomentare che non c’era un significativo vantaggio fiscale netto. In effetti, talvolta i soci amministratori si attribuiscono compensi elevati anche per ragioni extra-fiscali (ad es. per coprire esigenze personali di cassa, o per accumulare contributi previdenziali). È utile evidenziare che l’operazione non ha creato “indebiti vantaggi” in termini di minor tassazione complessiva . Ad esempio, se senza il compenso la società avrebbe pagato il 24% IRES sull’utile e poi i soci il 26% sugli utili distribuiti, mentre col compenso l’amministratore ha pagato il 43% IRPEF, si può sostenere che non c’è stata una convenienza fiscale, anzi. Questo discorso può impressionare favorevolmente un giudice, perché mostra che l’operazione non era finalizzata all’evasione ma dettata da altre logiche (ciò non rende automaticamente deducibile il costo, ma indebolisce l’ipotesi di abuso del diritto).
  • Parziale ridimensionamento in sede di accertamento con adesione: in alcuni casi, se le argomentazioni sopra non sono solide, può convenire cercare un accordo con l’Ufficio in sede di accertamento con adesione (strumento deflattivo). L’ufficio potrebbe proporre di ammettere parzialmente il costo come deducibile e disconoscerne una quota come “eccedente”. Ad esempio, se sono stati dedotti €300.000 ma secondo il Fisco ne sarebbero congrui €150.000, si potrebbe trovare un compromesso (deducibilità riconosciuta fino a 200k, il resto tassato) con sanzioni ridotte. Questa soluzione evita il rischio di un giudizio dall’esito incerto e dimezza le sanzioni. Va ponderata caso per caso, magari supportata da un consulente tecnico che aiuti a negoziare la soglia di congruità.

La contestazione su compensi sproporzionati può anche intrecciarsi con la tematica dell’abuso del diritto (ex art. 10-bis Statuto del Contribuente, D.Lgs. 128/2015): se l’operazione di attribuire un certo compenso ai soci amministratori è considerata priva di sostanza economica e volta solo a ottenere un vantaggio fiscale, l’Agenzia potrebbe qualificarla come abuso. L’abuso presuppone però un vantaggio fiscale indebito come elemento principale e l’assenza di sostanze economiche diverse. Nel caso dei compensi, non è semplice per il Fisco spingersi fino a sanzionare come abuso, perché comunque c’è un rapporto di lavoro (organico) sottostante e una prestazione di attività. Più realisticamente, la strada seguita è quella ordinaria: negare la deduzione (senza sanzioni specifiche per abuso, ma con le sanzioni tributarie per infedele dichiarazione). Comunque, nella difesa è utile evidenziare le ragioni extra-fiscali e la sostanza economica reale dell’operazione per escludere la connotazione abusiva.

Jurisprudence recente: La Cassazione ha prodotto alcune sentenze degne di nota sul punto. Oltre a quelle già citate (2013, 2016), segnaliamo Cass. n. 32437/2018 e Cass. n. 31607/2018 che confermano la piena legittimità del sindacato di congruità da parte del Fisco, anche in assenza di violazioni formali della contabilità . In particolare, Cass. 31607/2018 afferma che l’Amministrazione finanziaria può valutare la congruità dei costi esposti in bilancio anche se non vi sono irregolarità contabili, e da ciò conseguire la parziale indeducibilità di un costo sproporzionato, indipendentemente dalla regolarità civilistica . Questo mette in guardia: anche un compenso deliberato secondo le regole societarie può essere ridotto dal Fisco se appare irragionevole.

Best practice: Evitare di fissare compensi manifestamente scollegati dall’andamento aziendale. Se la società ha utili modesti o perdite, attribuire compensi altissimi ai soci amministratori è quasi certo che attirerà accertamenti . Meglio in tal caso valutare distribuzioni di utili (che però se la società è in perdita non può fare) o attendere tempi migliori. In effetti, un’osservazione pratica è che l’Agenzia delle Entrate può essere insospettita da situazioni in cui l’impresa “lavora in perdita sistemica ma continua a pagare molto i soci amministratori”. Questo scenario si presta a ipotesi di utili occultati o di erosione della base imponibile. Pagare se stessi troppo può quindi risultare controproducente, oltre che rischiare di indebolire finanziariamente l’azienda. Conviene mantenere i compensi su livelli in linea con l’andamento aziendale, modulandoli di anno in anno (il che è legittimo: l’assemblea può variare il compenso annualmente, anche a consuntivo purché con delibera specifica). Se per qualche ragione è necessario riconoscere importi ingenti (es. buonuscita o TFM – trattamento di fine mandato – ad un amministratore uscente), assicurarsi che tali previsioni siano contrattualizzate e deliberate in anticipo, per poterne poi dedurre correttamente la quota maturata.

Cumulo di cariche: socio amministratore e lavoratore dipendente della stessa società

Un tema peculiare, molto dibattuto in passato e tuttora fonte di contenzioso, è la compatibilità tra il ruolo di amministratore e quello di lavoratore subordinato all’interno della medesima società. In altre parole: un socio (magari anche amministratore) può avere contemporaneamente un contratto di lavoro dipendente con la società e percepire quindi uno stipendio oltre al compenso di amministratore? E, dal punto di vista fiscale, i relativi costi (stipendio e oneri) sono deducibili?

Inquadramento giuridico: incompatibilità sostanziale

Giuridicamente, la questione è complessa. Il rapporto di amministrazione è un rapporto organico, non c’è subordinazione gerarchica: l’amministratore agisce in nome e per conto della società. Un rapporto di lavoro subordinato richiede invece che il lavoratore sia assoggettato al potere direttivo, di controllo e disciplinare di un datore di lavoro. Se la stessa persona è al vertice della società (ad es. amministratore unico o presidente del CdA), appare logicamente impossibile che sia anche subordinata a sé stessa o comunque alla società che egli rappresenta. Per questo, la giurisprudenza ha tradizionalmente escluso la validità di un rapporto di lavoro dipendente in capo a un amministratore unico o presidente di CdA: manca il requisito fondamentale della subordinazione, trattandosi di “una diversificazione delle parti del rapporto di lavoro impossibile” quando una persona cumula tutti i poteri (rappresentanza, direzione e controllo) . Così, il costo da lavoro dipendente relativo a tale figura viene considerato indeducibile, in quanto il contratto di lavoro è simulato o comunque invalido civilmente .

La Cassazione è intervenuta più volte sul punto. Nella sentenza n. 36362 del 23/11/2021 (riguardante il caso di una società cooperativa, con due soci di cui uno presidente CdA e l’altro direttore dipendente) ha ribadito che c’è “assoluta incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidente del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa”, poiché il cumulo di poteri in capo a una persona impedisce quella diversificazione di ruoli necessaria a configurare la subordinazione . In tale occasione la Corte ha confermato che i costi contabilizzati come “stipendi” al presidente erano indeducibili dal reddito d’impresa (oltre a essere stati ritenuti indebiti anche contributivamente, ma questo esula dall’ambito fiscale stretto). Più di recente, con l’ordinanza n. 5318 del 28/02/2025, la Cassazione ha confermato il principio, aggiungendo che ciò “complica enormemente la possibilità di dedurre lo stesso costo quale compenso di amministratore” . In pratica: se un presidente di CdA si fa assumere come direttore generale, quel costo non è deducibile né come costo del personale (perché manca vero lavoro dipendente) né lo si può poi trasformare in un compenso amministratore deducibile (perché, come visto, se non c’è delibera assembleare preventiva anche come compenso amministratore verrebbe contestato). Questa duplice tagliola evidenzia come l’operazione sia fiscalmente molto rischiosa.

Attenzione però: la Cassazione ammette che in alcuni casi un amministratore possa anche essere lavoratore subordinato, ma solo se in concreto c’è prova rigorosa della subordinazione gerarchica e di mansioni diverse dalle funzioni amministrative . Ad esempio, in una grande società per azioni con un consiglio di amministrazione ampio, un consigliere (magari privo di deleghe operative) potrebbe essere assunto come direttore di stabilimento e, in tale veste, essere sottoposto alle direttive del direttore generale o dell’intero CdA. In tal caso non c’è coincidenza di persona tra datore e prestatore di lavoro: il datore è la società, ma le direttive pratiche gli vengono da altri organi (il CdA collegiale o l’amministratore delegato). Situazioni di questo genere sono possibili soprattutto in imprese di dimensioni medio-grandi e a compagine non ristretta. La Cassazione stessa, nella citata pronuncia del 2021, ha premesso che “il rapporto organico […] può essere compatibile con un rapporto di lavoro subordinato, anche di natura dirigenziale, purché in concreto sia accertata la sussistenza di un vincolo di subordinazione gerarchica (…) nonché lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale” . Quindi non c’è un divieto assoluto in astratto, ma l’asticella della prova è altissima. Nel caso di specie (presidente di coop), la Corte ha detto che tale subordinazione non poteva logicamente sussistere e dunque ha applicato la regola di incompatibilità assoluta .

Conseguenze fiscali e difesa in caso di contestazione

Quando l’Agenzia delle Entrate riscontra che un amministratore (specie se socio di controllo) è anche inquadrato come dipendente, tipicamente contesta la deducibilità dei costi di lavoro riferiti a quel ruolo dipendente. Ciò comprende: stipendi lordi, contributi previdenziali e oneri affini. L’idea è che trattandosi in realtà di un compenso all’amministratore, privo di una reale controprestazione subordinata, esso vada escluso dai costi deducibili. Ad esempio, nella sentenza n. 36362/2021, a una cooperativa erano stati contestati circa €195.000 di “stipendi e contributi” dedotti, relativi al presidente e all’altro socio, in quanto considerati costi non inerenti . La CTR in quel caso aveva dato ragione (erroneamente) alla società ritenendo quei costi inerenti in quanto compensi per l’attività svolta a favore della società . La Cassazione ha invece cassato la decisione, ritenendo indetraibile il costo relativo al presidente e in generale affermando il principio sopra esposto .

Dal punto di vista difensivo, le strade sono limitate:

  • Dimostrare la reale subordinazione: Se esiste una struttura societaria che lo consenta, occorre portare prove concrete: ad esempio organigrammi aziendali, ordini di servizio firmati da superiori gerarchici, valutazioni disciplinari. Inoltre, provare che le mansioni svolte come dipendente sono diverse da quelle consiliari. Un caso difendibile potrebbe essere, ad esempio, quello di un amministratore non unico, magari un consigliere delegato a funzioni tecniche, che però formalmente risponde al CEO o al CdA. Oppure di un socio di minoranza che, pur essendo in CdA, fa il dipendente sotto il controllo di un direttore generale. In tali ipotesi, si può tentare di persuadere che il doppio ruolo è stato tenuto nettamente separato. Bisogna aspettarsi però un forte scetticismo da parte del Fisco e dei giudici, quindi le prove devono essere solide e preferibilmente terze (es. testimonianze di dirigenti, verbali di CdA che mostrano che quell’amministratore era soggetto a direttive altrui, ecc.).
  • Se il doppio ruolo è indifendibile: Nel caso classico di amministratore unico o presidente con “auto-assunzione”, la difesa sul merito del rapporto di lavoro è praticamente persa in partenza dopo gli ultimi sviluppi giurisprudenziali . L’unica leva potrebbe essere provare che comunque l’attività lavorativa c’è stata (anche se non subordinata) e cercare di ricondurre il costo alla categoria dei compensi amministratore (ma qui si torna al problema della mancanza di delibera specifica se non era stato formalizzato come tale!). Talvolta in giudizio si prova a invocare l’affidamento: società di piccole dimensioni potrebbero aver instaurato un finto rapporto di lavoro confidando su orientamenti passati (anni fa, alcuni tribunali del lavoro avevano riconosciuto posizioni contributive come valide a certi amministratori, creando confusione). Si può quindi chiedere la non applicazione di sanzioni amministrative per obiettiva incertezza normativa. Tuttavia, sul piano della sostanza delle imposte, difficilmente si evita la ripresa a tassazione.
  • Regolarizzazione a posteriori: Se si è in tempo (ad esempio durante una verifica prima della conclusione dell’accertamento), una strategia potrebbe essere quella di far deliberare ai soci l’attribuzione di un compenso amministratore straordinario in misura pari agli importi percepiti come finto stipendio, “a sanatoria” del passato. Ma attenzione: questo risolve poco ai fini fiscali retroattivi, perché la delibera tardiva non può avere efficacia retroattiva piena. Al più si potrebbe sostenere che la società intende riqualificare quei pagamenti come compensi amministratore (tardivamente deliberati): il Fisco potrebbe allora contestare che non erano di competenza dell’anno giusto o, se l’anno è lo stesso, eccepire il mancato rispetto del principio di cassa allargata. Insomma, è una manovra di emergenza che raramente viene accettata dall’Agenzia, ma può essere tentata in extremis per mostrare buona fede e ottenere un trattamento sanzionatorio più mite.

Infine, occorre tener presente che qui non c’è neanche il “consolo” che intanto l’amministratore ha pagato IRPEF su tali somme come lavoro dipendente, perché se il Fisco le riqualifica come utili o come compensi amministratore non deliberati, potrebbe richiedere l’applicazione della tassazione corretta. Però, in genere, l’approccio pratico è: la società perde la deduzione, mentre il reddito rimane tassato in capo al percettore così com’era (a meno che non si apra un parallelo contenzioso sul suo trattamento fiscale personale). In alcuni casi, l’Agenzia ha assoggettato a doppia contribuzione quelle somme (chiedendo i contributi previdenziali sia come lavoro dipendente che come gestione separata per amministratore), ma si entra nel campo del diritto del lavoro/previdenza. Da un punto di vista strettamente fiscale, la questione si chiude con la ripresa a tassazione del costo indeducibile.

Esempio pratico: Una S.r.l. con socio unico-amministratore lo inquadra come direttore tecnico dipendente con stipendio annuo di €60.000. Dopo una verifica, l’Agenzia notifica un avviso di accertamento rilevando che il soggetto è amministratore unico e quindi non può essere al contempo dipendente: di conseguenza, i €60.000 di costo del personale (più i contributi INPS) vengono esclusi dal conto economico fiscale, generando un maggior reddito imponibile. Inoltre la società viene sanzionata per infedele dichiarazione (generalmente con sanzione del 90% dell’imposta evasa, salvo riduzioni per adesione o conciliazione). In questo scenario, l’unica difesa per la società sarebbe appellarsi ai principi esposti ed eventualmente contestare la natura “evasa” dell’imposta (magari sostenendo che c’era incertezza e che si configurerebbe al più un errore scusabile). L’esito molto probabile, in base alla giurisprudenza attuale, è la conferma dell’indeducibilità e la necessità per il socio di scegliere: o rinunciare a percepire futuri stipendi e regolarizzare la propria posizione come puro amministratore (facendo deliberare un compenso da amministratore d’ora in avanti), oppure creare una struttura societaria diversa che consenta il doppio ruolo (es. nominare un altro amministratore delegato sopra di sé, se la governance lo permette, cosa spesso impraticabile nelle piccole imprese).

La situazione è diversa se l’amministratore-socio è minoranza e riveste ruoli tecnici: in tal caso l’INPS spesso riconosce la validità del doppio rapporto (perché c’è effettivamente qualcuno sopra di lui che può dargli ordini), e di riflesso anche fiscalmente la deducibilità può essere difesa. Ad esempio, Cassazione n. 10416/2018 ha ammesso la compatibilità tra carica di consigliere delegato e lavoro subordinato ove vi sia concreta autonomia dei ruoli. Ma resta un argomento da maneggiare con cura e ben supportato da prove.

Tabella riepilogativa: società, normative e implicazioni sui compensi

Per ricapitolare, presentiamo una tabella che confronta i vari tipi di società di capitali quanto a normativa sulla fissazione dei compensi agli amministratori e conseguenze fiscali principali in caso di irregolarità:

Tipo di societàDeterminazione del compenso (norme civilistiche)Chi decide il compensoNote e particolarità fiscali
Società per azioni (S.p.A.)Art. 2364, co.1, n.3 c.c.: assemblea ordinaria fissa il compenso, salvo previsione nello statuto. Art. 2389 c.c.: compenso approvato dall’assemblea; eventuali compensi a consiglieri delegati decisi dal CdA con ok del collegio sindacale.Assemblea dei soci (di regola ordinaria annuale). Il CdA può attribuire compensi supplementari ai delegati per incarichi speciali (con parere del collegio sindacale).– Obbligo di delibera assembleare a pena di nullità e indeducibilità . <br> – Compenso deducibile per cassa (art. 95 TUIR). <br> – Se presidente/AD si autoconferisce stipendio da dipendente, costo indeducibile (incompatibilità ruolo) .
Società a responsabilità limitata (S.r.l.)Art. 2479 c.c.: decisioni dei soci sulle materie riservate dalla legge o dallo statuto. In assenza di diversa previsione, il compenso amministratore rientra tra le decisioni dei soci (analogia con S.p.A.). Spesso l’atto costitutivo disciplina la materia (ad es. amministratore unico compensato annualmente in cifra fissa).Soci mediante decisione assembleare (anche mediante consultazione scritta o consenso espresso per iscritto, per flessibilità S.r.l.). Può essere previsto in statuto un importo fisso o criteri (p.es. percentuale utili).– Obbligo di delibera dei soci; se manca, costo nullo e indeducibile . Valido anche per S.r.l. unipersonali (decisione del socio unico va verbalizzata). <br> – Deduzione per cassa (art. 95 TUIR). <br> – Possibilità di instaurare lavoro dipendente per amministratore solo se effettiva subordinazione (casi rari); altrimenti costi da lavoro indeducibili. <br> – Nelle S.r.l. piccole, attenzione a compensi troppo alti: fisco sindaca la congruità .
Società cooperativaNorme generali di S.p.A. salvo disposizioni speciali (artt. 2516 e 2521 c.c. rinviano alle norme delle S.p.A. se compatibili). L’assemblea dei soci cooperatori determina i compensi degli amministratori. Per cooperative a mutualità prevalente, statuto deve prevedere limiti alla remunerazione di soci e amministratori ex art. 2514 c.c. (divieto di dividendi oltre limite, ecc.).Assemblea dei soci (di regola ordinaria). Possibili tetti statutari ai compensi in funzione della natura mutualistica.– Stesse regole fiscali delle altre società di capitali: delibera obbligatoria per deducibilità . <br> – Cooperative a mutualità prevalente: se compensi amministratori eccedono i limiti mutualistici (p.es. superando certi parametri rispetto ai dipendenti), si rischia la perdita dei benefici fiscali da “prevalente”. <br> – Caso tipico: coop di lavoro dove presidente si mette dipendente → indeducibilità costi (Cass. 36362/2021) . <br> – Compensi deducibili per cassa; se erogati sotto forma di ristorno ai soci possono seguire regole particolari (ma in quel caso non sono compensi amministratore).

Legenda: co. = comma; CdA = Consiglio di Amministrazione; AD = Amministratore Delegato; mutualità prevalente = cooperative che rispettano requisiti di prevalenza degli scambi con soci, con vantaggi fiscali ma obblighi di limiti alle retribuzioni di soci e amministratori.

Questa tabella evidenzia come il denominatore comune sia la necessità di un atto sociale formale (assemblea o statuto) che legittimi il compenso. Le differenze attengono più che altro a chi compie la delibera e a eventuali vincoli di settore (ad es. le cooperative con limiti mutualistici). In ogni caso, fiscalmente l’Agenzia delle Entrate adotta un approccio uniforme: deduzione negata se manca la delibera; controllo di congruità se il compenso appare incongruo rispetto ai parametri aziendali; diniego di deduzione per stipendi fittizi di amministratori apicali; e applicazione del principio di cassa per imputazione temporale.

Casi pratici e simulazioni (scenario italiano)

Vediamo ora alcuni casi pratici ipotetici (ma ispirati a situazioni realmente accadute nelle decisioni giurisprudenziali), per capire come si possono presentare le contestazioni e quale potrebbe essere l’esito, dal punto di vista del contribuente che deve difendersi.

Caso 1: Compenso non deliberato in S.r.l. unipersonale

Scenario: La Alfa S.r.l. è a socio unico (Mario Rossi) che è anche amministratore unico. Nel 2023 la società paga a Mario €40.000 come “compenso amministratore”, registrandolo a conto economico come costo del personale. Tuttavia, Mario – essendo unico socio – non ha redatto alcuna decisione formale che stabilisca tale compenso. In sede di approvazione del bilancio 2023 (avvenuta con decisione del socio unico), la nota integrativa riporta la voce “compenso amministratore €40.000”, ma non c’è un documento separato di determinazione.

Contestazione: Nel 2025, l’Agenzia delle Entrate effettua un controllo sul periodo d’imposta 2023 e rileva l’assenza di una delibera specifica. Emana avviso di accertamento dove disconosce i €40.000 dal reddito dedotto, ricalcolando maggior IRES (24% di 40.000 = €9.600) più interessi e sanzione 90% (€8.640). Motiva che “il costo relativo ai compensi amministratore è indeducibile poiché non risulta deliberato dai soci (artt. 2364 e 2389 c.c.; Cass. 21933/2008 e succ.)”. Inoltre riqualifica la natura di quel pagamento come utili distribuiti a socio unico, affermando che trattandosi di utili occultamente distribuiti dovrebbe applicarsi la tassazione da dividendi.

Difesa del contribuente: Mario Rossi, tramite il suo avvocato, impugna l’accertamento davanti alla Commissione Tributaria. Sostiene che: (a) essendo socio unico, la sua decisione di pagarsi €40.000 era comunque implicita nell’approvazione del bilancio che menzionava il costo; (b) la somma è stata regolarmente assoggettata a ritenute IRPEF come reddito assimilato al lavoro dipendente e dichiarata, per cui non c’è intento evasivo né duplicità di vantaggi; (c) invoca la sentenza della CTP Lucca 64/2006 secondo cui l’approvazione del bilancio può sanare la mancanza di delibera ; (d) in subordine, chiede di riqualificare il pagamento come distribuzione di utili netti, su cui l’imposta sarebbe eventualmente il 26% a titolo di imposta sostitutiva (e chiede quindi di eliminare la pretesa IRES).

Esito probabile: La Commissione Tributaria, vincolata dall’orientamento univoco di Cassazione, con ogni probabilità respingerà la tesi del contribuente in merito alla deducibilità. Rileverà che la normativa è chiara: senza delibera espressa, il costo non è ammesso . Argomenti come la CTP 2006 saranno liquidati come isolati e superati. Quanto alla riqualificazione come utili, la Commissione potrebbe non avere titolo per modificarla d’ufficio se l’Agenzia non l’ha formalmente fatto (nell’accertamento l’Ufficio ha solo “accennato” alla distribuzione utili, ma ha concretamente recuperato IRES, non chiesto ritenute da dividendi). Dunque, la società rimane con la maggiore IRES da pagare. Sul piano pratico, Mario si troverebbe ad aver pagato IRPEF su 40k (diciamo circa €15k se al 38% medio) più la società paga altri €9.6k di IRES: una doppia tassazione. La sanzione 90% (€8.640) potrebbe essere ridotta se la società aderisce in adesione o conciliazione, ma la sostanza non cambia.

Morale: In una S.r.l. unipersonale è facilissimo incorrere in questa svista credendo che tanto “decide tutto lui”. Rimedio: predisporre sempre un atto scritto del socio unico (datato e firmato) con cui “il socio unico determina in €X il compenso annuo spettante all’amministratore unico per l’anno 20XX”. Bastano poche righe, ma possono risparmiare migliaia di euro tra imposte e sanzioni.

(Nota: questo caso è ispirato a numerose vicende analoghe, ad esempio Cass. 24471/2022 e Cass. 8005/2024 in cui la difesa tentava di far valere l’approvazione del bilancio come implicita approvazione del compenso, tesi rigettata dalla Corte .)

Caso 2: Compenso eccessivo in una società a ristretta base

Scenario: La Beta S.n.c. (società di persone a base familiare) nel 2020 si trasforma in Beta S.r.l., con due soci fratelli (50% ciascuno), amministratori congiunti. L’azienda va abbastanza bene ma con utili modesti (circa €30.000 l’anno). Nel 2022 però i soci deliberano di attribuirsi un compenso straordinario di €100.000 ciascuno, motivandolo a verbale come “indennità per il lungo servizio prestato e per incentivazione futura”. Di fatto, tale decisione è mossa dall’esigenza dei soci di prelevare liquidità accumulata negli anni (infatti la S.r.l. aveva riserve di utili non distribuiti di circa €200.000). Fiscalmente, la società nel 2022 dichiara una perdita di -€170.000 causata appunto da €200.000 di costi per compensi amministratori (dedotti per cassa) a fronte di un Margine Operativo Lordo modesto.

Contestazione: Nel 2024 l’Agenzia notifica un accertamento relativo al 2022, non contestando la delibera (che c’è ed è valida), ma sostenendo che i compensi sono antieconomici e in parte indeducibili. In particolare, indica che a fronte di ricavi di €500.000 e organico di 5 dipendenti a salari modesti, pagare €200.000 ai due amministratori (soci al 100%) è sproporzionato e configura un’attribuzione di utili mascherata. L’Ufficio ricalcola come deducibili solo €60.000 totali (ritenendo congruo €30.000 a testa, in linea con l’utile medio storico) e riprende a tassazione €140.000, eliminando la perdita dichiarata. Conseguentemente liquida IRES su €140.000 (24% = €33.600) più addizionali e sanzioni.

Difesa del contribuente: La Beta S.r.l. (ora assistita da un tributarista) impugna sostenendo che: (a) la delibera era legittima e presa da entrambi i soci all’unanimità (nessun conflitto, nessun terzo leso); (b) la scelta di remunerare loro stessi era motivata dalla volontà di retribuire anni di lavoro sottopagato (infatti negli anni precedenti non avevano mai preso compensi rilevanti); (c) che non vi è norma che ponga un tetto ai compensi degli amministratori e ciò rientra nell’autonomia decisionale dei soci (libertà d’impresa, art. 41 Cost.); (d) i compensi sono stati regolarmente soggetti a ritenute IRPEF (aliquota massima) e dunque l’erario non ha subito danno perché anzi ha incassato più IRPEF di quanto avrebbe incassato su eventuali utili (aliquota dividendi 26%); (e) producono un parere di un consulente del lavoro che attesta come in aziende di pari dimensione il costo amministratori può arrivare anche al 20% del fatturato se i soci lavorano attivamente (quindi secondo loro 200k su 500k ricavi è alto ma non inconcepibile).

Esito probabile: La Commissione potrebbe avere un orientamento intermedio. Riconoscerà che in linea di principio il Fisco può sindacare la congruità , ma valuterà le circostanze specifiche. Se i ricavi erano 500k e negli anni i soci avevano accumulato riserve (quindi utili tassati al 24% in azienda), il prelievo via compensi nel 2022 può apparire come un modo per evitare il 26% sui dividendi (perché pagando compensi deduci e quindi non paghi il 24% societario e sposti tutto a IRPEF socio). D’altro canto, i soci hanno ragione nel dire che l’IRPEF al 43% è più alta del 24%+26% combinati (che sarebbe circa 45.7% totale, poco di differenza). La CT potrebbe ragionare che l’operazione aveva sì una finalità di cash-out dei soci, ma non è scandalosamente priva di sostanza (i soci effettivamente lavoravano nell’azienda, non erano passivi). Potrebbe quindi ridurre parzialmente la ripresa. Ad esempio, giudicare deducibili €100k in totale e indeducibili gli altri €100k. Oppure, se ritiene convincenti le ragioni del contribuente, anche annullare totalmente la ripresa (soprattutto se sposa l’idea che la maggiore IRPEF pagata compensa l’elusione IRES). Tuttavia, basandoci sulla giurisprudenza prevalente, è più probabile una soluzione di compromesso: conciliazione giudiziale in cui la società accetta la ripresa su una parte e il Fisco riduce sanzioni.

Morale: le società a ristretta base sociale che distribuiscono utili travestiti da compensi rischiano accertamenti. Una via più sicura sarebbe stata deliberare i compensi anno per anno in misura ragionevole e magari distribuire ufficialmente utili (pagando il 26%). Oppure, se volevano liquidare riserve pregresse sotto forma di compenso, avrebbero potuto adottare un Trattamento di Fine Mandato (TFM), che è una sorta di liquidazione posticipata per gli amministratori: questo istituto, se deliberato all’inizio del mandato e accantonato a bilancio ogni anno, consente di dedurre annualmente una quota e tassare il TFM al socio con tassazione separata (aliquota media degli ultimi anni). Però serviva pianificazione. Farlo ex post, come in Beta S.r.l., appare come espediente elusivo (come infatti sottolineato in casi simili dalla Cassazione ). Dunque, anche qui la lezione è: pianificare in anticipo le modalità di remunerazione evitando interventi estemporanei e sproporzionati.

Caso 3: Amministratore unico e finto lavoro dipendente

Scenario: La Gamma S.p.A. è una piccola società di capitali posseduta al 60% da un individuo (che è presidente del CdA e AD) e al 40% da un socio di minoranza estraneo alla gestione. Il presidente (Sig. Bianchi) fin dall’assunzione della carica ha anche stipulato un contratto di lavoro come direttore commerciale della società, con stipendio annuo €80.000. In CdA ci sono anche il socio di minoranza (come consigliere senza deleghe) e un altro consigliere tecnico. Formalmente, Bianchi come AD ha poteri di gestione generale, ma sostiene di poter essere al contempo dipendente perché come direttore commerciale riferisce al CdA e può essere revocato dallo stesso. Nel 2021-2022 la società ha dedotto regolarmente gli €80.000 annui come costo del personale, oltre a corrispondere a Bianchi un ulteriore compenso amministratore di €20.000 (questo deliberato dall’assemblea).

Contestazione: Nel 2025, su segnalazione del socio di minoranza (che ha litigato con Bianchi), l’Agenzia avvia un accertamento. Il socio minoranza denuncia che Bianchi ha percepito in due anni €160.000 come stipendio “fittizio”, utilizzando la società come bancomat. L’Ufficio analizza la situazione: rileva che Bianchi come AD aveva pieni poteri di gestione e rappresentanza, ergo ritiene incompatibile il suo rapporto di lavoro. Notifica avviso di accertamento per 2021 e 2022 disconoscendo €80.000 + €80.000 di costo del personale (più relativi oneri sociali) dedotti. Inoltre, segnala la questione all’INPS per eventuali contributi non dovuti.

Difesa del contribuente: La Gamma S.p.A. ricorre eccependo che: (a) la presenza nel CdA del socio di minoranza e di un terzo consigliere crea comunque un organo collegiale che sovrasta il direttore commerciale, quindi Bianchi in teoria risponde al CdA (di cui però è presidente, il che non aiuta la tesi…); (b) porta verbali di CdA dove, per forma, compaiono delibere su linee commerciali come se Bianchi le proponesse e il CdA le approvasse (tentativo di inscenare una catena di comando); (c) invoca alcune pronunce di Cassazione (datate) che in casi di amministratori delegati senza totale autonomia hanno ammesso la coesistenza del rapporto di lavoro subordinato; (d) in via subordinata, chiede che almeno i contributi INPS versati (diverse decine di migliaia di euro) vengano riconosciuti come deducibili ex art. 64 del TUIR (sostanzialmente, sebbene lo stipendio non sia deducibile, i contributi obbligatori versati lo dovrebbero essere per legge, essendo oneri del datore di lavoro).

Esito probabile: Alla luce degli orientamenti attuali, è assai probabile che la Commissione confermi la indeducibilità dei €160k. Il ruolo di Bianchi è di fatto apicale e l’escamotage di creare un CdA con minoranza non toglie che lui fosse presidente e detentore della maggioranza. Cassazione (sent. 10684/2017, ordinanza 5318/2025) ribadisce che se la persona cumula poteri di rappresentanza e direzione, non c’è subordinazione reale. Quindi la difesa su quel punto è debole. Sui contributi, potrebbe esserci apertura: i contributi previdenziali obbligatori versati potrebbero essere dedotti in quanto derivanti da un obbligo di legge (anche se il rapporto era simulato, finché non viene disconosciuto dall’INPS formalmente, la società li ha dovuti pagare). Alcune CT riconoscono la deducibilità dei contributi in ogni caso perché l’art. 64 TUIR li considera oneri deducibili per competenza. Dunque la Commissione magari confermerà l’utile maggiorato per €160k – ma permetterà di dedurre ad esempio €30k di contributi su quella somma, riducendo leggermente la base rettificata. In ogni caso, l’esborso per la società sarà significativo.

A margine, potrebbe innescarsi un ulteriore contenzioso: Bianchi, vedendosi disconoscere lo status di dipendente, teme di perdere i contributi pensionistici versati. L’INPS infatti, su impulso del fisco o del socio minoranza, potrebbe a sua volta pronunciarsi (in genere l’INPS non vede di buon occhio amministratori che si fanno assumere, perché preferisce iscriverli alla gestione separata). Ciò esula dal processo tributario ma illustra come situazioni del genere possano generare problematiche a catena (fisco, previdenza, soci di minoranza scontenti, ecc.).

Morale: se un socio-amministratore vuol percepire uno stipendio per il suo lavoro operativo, dovrebbe farlo solo se c’è chiaramente qualcun altro gerarchicamente sopra di lui. In società piccole ciò non accade – è meglio allora limitarsi al compenso amministratore e magari a premi variabili legati ai risultati (sempre deliberati dai soci). La creatività nel forzare un rapporto di lavoro fittizio porta quasi inevitabilmente a perdere la deduzione e pagare di più in caso di controlli.

Questi casi pratici confermano le linee guida già emerse: senza delibera non si deducecompensi troppo alti attirano attenzionedoppio ruolo amministratore-dipendente non funziona se l’amministratore è “padrone” della società.

Nel seguito, passeremo a una sezione Domande e Risposte dove sintetizzeremo i quesiti più frequenti su questo tema, fornendo risposte puntuali e riferimenti alle fonti normative e giurisprudenziali discusse.

Domande Frequenti (FAQ)

Domanda: È vero che senza una delibera assembleare specifica il compenso dell’amministratore non si può dedurre?
Risposta: Sì. La giurisprudenza tributaria è ferma nel richiedere una delibera dei soci o una clausola statutaria che quantifichi il compenso degli amministratori affinché la società possa dedurlo dal reddito d’impresa . In assenza di tale delibera formale, il costo è considerato non conforme a norme imperative e dunque indeducibile . Approvare semplicemente il bilancio che include la voce di costo non basta (la Cassazione esclude che si possa considerare implicita l’autorizzazione) . Occorre proprio un atto specifico: ad esempio, un verbale di assemblea ordinaria che dica “si stabilisce in euro X il compenso annuale dell’amministratore”. L’unica eccezione, molto particolare, è il caso di assemblea totalitaria che durante l’approvazione del bilancio discuta e approvi esplicitamente anche il compenso . Ma per prudenza è sempre consigliabile una delibera ad hoc separata.

Domanda: Nel caso di società con socio unico, serve comunque la delibera visto che decide tutto lui?
Risposta: Sì, anche nelle società unipersonali (S.r.l. o S.p.A.) occorre redigere una decisione del socio unico che determini il compenso. Il socio unico esercita le competenze dell’assemblea (art. 2475 c.3 c.c. per S.r.l.), ma deve comunque cristallizzare per iscritto la sua decisione e conservarla. Se non lo fa, ai fini fiscali vale come mancanza di delibera e quindi il costo è indeducibile . La Cassazione ha espressamente applicato il principio anche alle S.r.l. unipersonali in cui il compenso era stato solo contabilizzato ma non formalizzato: indeducibilità confermata . Dunque, il socio unico deve “dialogare con sé stesso” tramite un atto scritto, altrimenti rischia contestazioni.

Domanda: Si può dedurre un compenso pagato all’amministratore tramite fattura di consulenza con IVA?
Risposta: Dopo le recenti sentenze del 2024, questa strada è estremamente rischiosa. La Cassazione ha chiarito che non è lecito aggirare l’obbligo di delibera stipulando un contratto di consulenza tra la società e il suo amministratore . Se l’amministratore emette fattura con IVA per servizi resi alla “sua” società, il Fisco guarderà alla sostanza: se sono prestazioni che avrebbe dovuto svolgere come amministratore, allora la fattura verrà considerata un modo per eludere la delibera assembleare, e il relativo costo sarà indeducibile . Inoltre, l’IVA su quella fattura non sarà detraibile per la società (operazione contraria a norme imperative) . Casi in cui può essere accettabile: se l’amministratore ha svolto una prestazione completamente estranea al suo ruolo gestorio. Esempio: società edile il cui amministratore (ingegnere) progetta un edificio per la società stessa e fattura come libero professionista. In teoria, la progettazione è un servizio tecnico e non un atto di amministrazione, quindi potrebbe rientrare nell’eccezione ammessa da Cass. 2016 . Ma bisogna stare attenti: l’onere di provare la distinzione tra i due ruoli spetta alla società, e le pronunce più recenti sono contrarie a riconoscere facilmente tale distinzione. In sintesi, sconsigliato pagare amministratori tramite fattura; molto meglio seguire la via ordinaria (delibera e compenso assimilato a lavoro dipendente). Se già avvenuto, prepararsi a difendere la genuinità del contratto con prove forti.

Domanda: L’Agenzia delle Entrate può contestare che il compenso dell’amministratore è “troppo alto”?
Risposta: Sì, può farlo. Anche se non c’è un limite quantitativo fissato dalla legge, il Fisco ha il potere di sindacare l’inerenza e congruità di qualsiasi costo, compensi compresi . Se un compenso appare macroscopicamente sproporzionato rispetto ai ricavi, all’utile o alle mansioni svolte, l’Ufficio può considerare che in parte non sia inerente all’attività d’impresa. In pratica, può rendere indeducibile la parte eccedente una soglia considerata congrua. Cassazione ha confermato che la deducibilità dei compensi non vincola il Fisco alla cifra decisa dai soci e che può negarne una quota ritenuta eccessiva . Un esempio classico: società che chiude in pareggio perché paga tutto l’utile come compenso al socio amministratore. Se il compenso risulta anomalo (ad es. remunerazione altissima in rapporto al fatturato), il Fisco può recuperare a tassazione una parte sostenendo che è utili mascherati. Come difendersi? Dimostrando che il compenso, pur alto, è giustificato da reali esigenze aziendali (magari l’amministratore ha apportato un valore straordinario, o la cifra include arretrati, ecc.), e che non c’era finalità evasiva. In mancanza di giustificazioni, la contestazione ha buone chance di tenere . Vale la pena notare che contestazioni di questo tipo richiedono una valutazione caso per caso e spesso si risolvono con un accordo in adesione (riducendo parzialmente il costo dedotto). Non c’è un tariffario ufficiale, ma orientativamente l’Ufficio guarda agli utili: se per più anni l’impresa non ha mostrato utili perché paga tutto ai soci, potrebbe intervenire.

Domanda: Un amministratore può essere assunto come dipendente nella stessa società?
Risposta: Solo in casi molto limitati. Se parliamo di un amministratore unico o presidente di CdA, la risposta è no: non può esserci simultaneamente un vero rapporto di subordinazione, quindi un eventuale contratto di lavoro è considerato simulato o nullo. La Cassazione ha ribadito l’assoluta incompatibilità tra la carica di presidente/amm. unico e lo status di dipendente . I costi relativi a tale finto rapporto di lavoro (stipendi, contributi) non sono deducibili . Invece, se l’amministratore è parte di un CdA più ampio o non ha poteri individuali di gestione, è teoricamente possibile instaurare un rapporto di lavoro vero, ma bisogna provare che c’è un superiore gerarchico e che le mansioni da dipendente sono diverse da quelle amministrative . Ad esempio, un consigliere senza deleghe che lavora come direttore tecnico e dipende dal direttore generale (che magari non è lui): in tal caso ci sono pronunce che l’hanno ammesso. Però è una situazione eccezionale. Nelle PMI familiari, dove socio e amministratore coincidono, la pretesa di farlo risultare dipendente non regge quasi mai. Sul piano operativo, molte società evitano il problema nominando amministratore una persona e assumendo come direttore un parente: questa è un’altra storia (e di per sé lecita, purché quel parente lavori davvero). Ma lo stesso soggetto con due cappelli è ammesso solo se l’organigramma lo consente nettamente. In sintesi: amministratore di vertice, no dipendente; amministratore marginale, forse sì, ma onere della prova in capo all’azienda.

Domanda: Cosa succede se la società paga compensi agli amministratori senza applicare ritenute IRPEF?
Risposta: Se il compenso è formalizzato (quindi deliberato) ma la società non ha effettuato le ritenute d’acconto IRPEF (o addizionali) al momento del pagamento, incorre in violazione dell’obbligo di sostituto d’imposta. L’Agenzia Entrate in sede di controllo contesterà il mancato versamento delle ritenute, con richiesta del tributo non versato e sanzioni specifiche (30% di ogni importo non trattenuto, ridotto se la società paga entro termini). Questa è una problematica diversa dalla deducibilità: il costo può anche essere deducibile se deliberato, ma la società comunque doveva fungere da sostituto d’imposta. Capita nelle realtà minori che si dimentichi di operare le ritenute su compensi amministratori (i quali sono redditi assimilati al lavoro dipendente, soggetti a ritenute progressive). In caso di omissione, l’Erario può esigere il pagamento dell’IRPEF non ritenuta direttamente dalla società, la quale poi potrà eventualmente rivalersi sugli amministratori percettori. Se invece i compensi erano “nascosti” (non deliberati né dichiarati dagli amministratori nei loro redditi), allora la situazione è più grave: il Fisco potrebbe riqualificare le somme come utili netti ai soci, applicando la relativa tassazione (26%) a titolo di imposta, oppure come redditi da lavoro dipendente in nero imputandoli all’amministratore (con ricalcolo IRPEF, sanzioni e contributi). In ogni caso, è fondamentale regolarizzare: se ci si accorge prima del Fisco, conviene fare un ravvedimento operoso per versare le ritenute dovute e limitare le sanzioni.

Domanda: I compensi agli amministratori sono soggetti a contributi previdenziali?
Risposta: Sì, nella generalità dei casi i compensi percepiti come amministratore (redditi assimilati a lavoro dipendente) sono soggetti a contribuzione presso la Gestione Separata INPS (aliquota attualmente intorno al 25-27%) a carico dell’amministratore, con una ripartizione 1/3 a carico dell’amministratore e 2/3 a carico della società (che funge da sostituto di contributi). La società versa materialmente tutto e poi trattiene la quota a carico dell’amministratore dal compenso. Questi contributi sono deducibili dal reddito dell’amministratore (quando egli fa la dichiarazione IRPEF) e la quota a carico della società è deducibile per l’azienda come costo del personale (essendo contributo obbligatorio). Se però l’amministratore è anche iscritto ad altra gestione (es. ha una sua partita IVA professionale con cassa, oppure è commerciante e iscritto alla gestione commercianti per la quota di maggioranza in S.r.l.), la situazione può variare: a volte c’è esenzione dalla Gestione Separata in presenza di altre coperture. In sintesi: non c’è una cassa pensionistica dedicata solo agli amministratori, confluiscono nella Gestione Separata INPS come collaboratori. Attenzione che questo è un tema previdenziale: in caso di compensi non deliberati e riqualificati come utili, l’INPS potrebbe richiedere contributi non sulla gestione separata ma sulla gestione commercianti (se socio di maggioranza S.r.l.) con esiti intricati. Ma in situazioni ordinarie e regolari, l’azienda deve fare anche quest’adempimento contributivo.

Domanda: Come posso evitare le contestazioni del Fisco sui compensi agli amministratori?
Risposta: Ecco alcune best practices per evitare problemi:

  • Formalizzare sempre i compensi: assicurarsi che vi sia una delibera dei soci o una previsione statutaria chiara per ogni compenso corrisposto. Ogni anno, o al momento della nomina degli amministratori, mettere nero su bianco l’importo (o la modalità di calcolo) spettante . Non dare nulla per implicito.
  • Documentazione fiscale in ordine: erogare i compensi in modo tracciabile (bonifico, assegno) e applicare le dovute ritenute IRPEF e contributi. Tenere copia delle buste paga o CU rilasciate agli amministratori. Questo dimostra trasparenza.
  • Evitare contratti atipici con l’amministratore: meglio non far stipulare alla stessa persona contratti di consulenza, locazioni di immobili sociali a suo favore a prezzi simbolici, ecc., senza analisi approfondita. Ogni transazione economica con l’amministratore va vista con l’ottica del terzo: è a condizioni di mercato? È deliberata dai soci (se necessario)? Ha un senso economico?
  • Congruità dei compensi: calibrare i compensi sullo stato dell’impresa. Se l’azienda è appena in grado di coprire i costi e l’amministratore si attribuisce un compenso enorme, è quasi certo che suonerà un campanello d’allarme. Meglio magari distribuire utili (che hanno un’altra tassazione ma non toccano il conto economico) piuttosto che azzerare l’utile con compensi sproporzionati. Se per ragioni gestionali serve remunerare molto un amministratore (ad es. perché altrimenti andrebbe via, o perché svolge mansioni eccezionali), preparare una relazione per gli atti interni che ne spieghi i motivi. Potrà servire in caso di verifica per giustificare la scelta.
  • Evitare doppi ruoli inconciliabili: se l’amministratore vuole avere uno stipendio fisso come dipendente, valutare di nominare un soggetto terzo come amministratore e lasciare lui come direttore generale dipendente. Così il rapporto di lavoro è genuino. Spesso però ciò non è fattibile per ragioni di controllo societario. In tal caso, rassegnarsi: l’amministratore prenderà il compenso solo come tale, e non come stipendio. Considerare strumenti alternativi per dargli stabilità: ad esempio un trattamento di fine mandato (TFM) che funge un po’ da liquidazione, oppure dei bonus legati a obiettivi.
  • Tenere separate le casse: non fare mai prelievi personali dalla tesoreria aziendale senza giustificazione. Qualunque utilizzo di fondi sociali da parte dell’amministratore deve essere motivato (nota spese, anticipo per spese aziendali, ecc.). I conti correnti personali dell’amministratore non dovrebbero mischiarsi con quelli aziendali. Se emergono movimenti sospetti in un’indagine bancaria, il Fisco li attribuirà alla società con presunzione legale (specie se amministratore unico) e li considererà compensi occulti con tutti i guai del caso.
  • Consultare un fiscalista prima di operazioni straordinarie: se si pensa di liquidare riserve attraverso compensi o di cambiare la politica retributiva dei soci, meglio farsi assistere ex ante per valutare il modo più efficiente e sicuro. A volte distribuire utili e pagarci il 26% può essere più tranquillo che sfidare l’Agenzia con mosse aggressive per risparmiare qualche punto d’imposta.

Seguendo queste linee, un’impresa si mette in buona posizione per non subire contestazioni o, se proprio dovessero arrivare, per difendersi con successo mostrando di aver agito correttamente e in buona fede.

Domanda: In caso di accertamento su compensi amministratore, quali sono le opzioni di definizione?
Risposta: Quando si riceve un avviso di accertamento su queste materie, ci sono alcune opzioni:

  • Accertamento con adesione: prima di fare ricorso, si può tentare la via dell’adesione, che comporta un contraddittorio con l’ufficio. Qui si può cercare un compromesso (es. riconoscimento parziale del costo). Vantaggi: sanzioni ridotte a 1/3 e si evita il contenzioso. Se l’ufficio mostra apertura (ad esempio su entità del compenso congrua vs eccedente), può essere conveniente.
  • Ricorso in Commissione Tributaria: se si ritiene di avere buone ragioni o se la proposta di adesione è insoddisfacente, si può fare ricorso. Nel ricorso è fondamentale portare prove documentali (verbali, contratti, perizie) e giurisprudenza a favore. Bisogna essere consapevoli che la CT è vincolata dalla Cassazione: se la questione è sul principio di delibera obbligatoria, non c’è spazio di manovra, il contribuente soccomberà. Se invece è questione di congruità, c’è margine di convincimento. Se è doppio ruolo, qui pure la Cassazione è molto restrittiva, quindi in CTR raramente si ribalta la situazione a favore del contribuente, a meno di situazioni peculiari.
  • Definizione agevolata o conciliazione: in corso di giudizio si può optare per la conciliazione (anche fuori udienza), ottenendo sanzioni ridotte al 50% in caso di accordo. Nel 2023-2024, con la pace fiscale, c’erano possibilità di definizioni agevolate (ad esempio, rinunciando al ricorso con pagamento imposte senza sanzioni). È utile informarsi se la legge di Bilancio o altre normative offrono strumenti di sanatoria (ad agosto 2025 non risultano condoni specifici per questo, ma è sempre possibile in futuro).
  • Pagamento e ravvedimento: se l’azienda riconosce l’errore (ad esempio si accorge di non aver deliberato il compenso), può cercare di limitare i danni: pagare subito le maggiori imposte per fermare interessi e sanzioni, ed eventualmente tentare un ravvedimento operoso sprint (se l’avviso non è ancora notificato ma si sa della violazione). In caso di avviso già emesso, pagando entro 60 giorni si evita l’aggravio del 10% sul ruolo.

Ogni opzione va valutata con un professionista, tenendo conto dell’importo in gioco e della solidità della posizione difensiva. Spesso, se la questione è prettamente di diritto (es. mancanza delibera) e l’importo non è enorme, conviene definire in adesione risparmiando sulle sanzioni, perché la causa sarebbe persa quasi certamente. Se invece c’è una questione fattuale (quantum congruo, esistenza subordinazione con prove) può valere la pena andare avanti nel contenzioso sperando in un giudice di merito favorevole.

Conclusione: I compensi ai soci amministratori sono un tema delicato, in bilico tra diritto societario e fiscale. L’Agenzia delle Entrate vi presta particolare attenzione, per evitare che possano diventare veicolo di abusi (come utili mascherati o indebite riduzioni della base imponibile). Le ultime sentenze della Cassazione (fino all’estate 2025) confermano un orientamento rigido ma chiaro: rispetto formale delle regole (delibera assembleare esplicita) e sostanziale correttezza economica (niente compensi illogici né doppi ruoli artefatti). Dal lato del contribuente, conoscere queste regole consente di strutturare correttamente la propria governance e politica retributiva, prevenendo gran parte dei problemi. In caso di contestazione, bisogna giocare di anticipo raccogliendo prove e argomenti per dimostrare la legittimità e l’inerenza di quanto corrisposto. Laddove l’errore c’è stato, è spesso preferibile ammetterlo e trovare un accordo col Fisco, limitando le sanzioni. Questa guida, con fonti aggiornate e consigli pratici, mira a fornire un supporto solido a chi (avvocato tributarista, imprenditore o privato) debba affrontare o evitare contestazioni dell’Amministrazione finanziaria sui compensi agli amministratori soci – sempre dal punto di vista del “difensore” del contribuente. In un contesto normativo così complesso, la chiave è agire con trasparenza e prudenza, mantenendo la documentazione in ordine e adeguando le scelte imprenditoriali al duplice controllo: quello dei soci e quello del Fisco.

Riferimenti normativi e giurisprudenziali principali citati: Delibera soci ex art. 2364 c.c. e 2389 c.c.; art. 95 comma 5 TUIR (deducibilità per cassa) ; Cass. SS.UU. 21933/2008 ; Cass. 24471/2022 ; Cass. 8005/2024 ; Cass. 20613/2025 ; Cass. 20591/2024 ; Cass. 15822/2016 ; Cass. 24379/2016 ; Cass. 3243/2013 ; Cass. 36362/2021 ; Cass. 5318/2025 ; Risoluzione AdE 113/E/2012 ; art. 109 TUIR sul principio di inerenza/certezza .

  • Art. 95 testo unico delle imposte sui redditi (TUIR)
  • Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 17108 depositata il 25 giugno 2025 – Ai fini della deducibilità del compenso degli amministratori di società di capitali, è necessario che ne risulti la quantificazione nello statuto, ovvero in una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita nella delibera di approvazione del bilancio contenente la posta relativa al compenso, salvo che l’assemblea, convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia anche discusso ed approvato espressamente la proposta di determinazione dello stesso
  • Sentenza n. 36362 del 23 novembre 2021
  • Sentenza del 23/11/2021 n. 36362 – Corte di Cassazione

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Le remunerazioni agli amministratori, soprattutto quando coincidono con i soci, sono spesso sotto la lente del Fisco. L’Agenzia può ritenere i compensi non congrui, non deducibili o addirittura simulati, generando accertamenti pesanti per società e amministratori.

👉 Prima regola: verifica la corretta delibera e contabilizzazione dei compensi. La forma è tanto importante quanto la sostanza.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Mancanza di delibera assembleare che autorizzi il compenso;
  • Compensi sproporzionati rispetto all’attività svolta o ai risultati della società;
  • Compensi non dedotti correttamente dal reddito d’impresa;
  • Pagamenti non tracciati o privi di effettiva erogazione;
  • Compensi “mascherati” per ridurre l’imponibile societario;
  • Presunta distribuzione occulta di utili sotto forma di compensi.

📌 Conseguenze per società e soci

  • Indeducibilità del costo e recupero a tassazione per la società;
  • Maggiori imposte e sanzioni per i soci/amministratori;
  • Rischio di contestazioni su IRAP, IVA e ritenute d’acconto;
  • Interessi e sanzioni che aggravano il debito fiscale;
  • Possibili profili di abuso del diritto e accertamento induttivo.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Delibere assembleari: esistono verbali regolari che autorizzano i compensi?
  • Congruità dei compensi rispetto al mercato e all’attività svolta;
  • Tracciabilità dei pagamenti (bonifici, buste paga, CU, dichiarazioni fiscali);
  • Contabilizzazione corretta nei bilanci e nelle dichiarazioni;
  • Motivazione dell’atto: l’Agenzia deve spiegare perché considera i compensi indebiti o simulati;
  • Termini di decadenza e regolarità della notifica.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Verbali di assemblea e statuto societario;
  • Bilanci e scritture contabili;
  • Copie di bonifici, quietanze o buste paga degli amministratori;
  • Dichiarazioni dei redditi dei soci e della società;
  • Eventuali perizie o studi di settore sulla congruità dei compensi.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la legittimità dei compensi con delibere e documentazione contabile;
  • Provare la congruità rispetto a parametri di mercato e attività svolta;
  • Eccepire vizi formali: carenza di motivazione, irregolarità di notifica, decadenza dei termini;
  • Richiedere autotutela se l’errore dell’Agenzia è evidente;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni con possibilità di sospensione cautelare;
  • Mediazione tributaria (quando prevista) per ridurre sanzioni e trovare un accordo.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza verbali, bilanci e contratti relativi ai compensi;
📌 Valuta la legittimità della contestazione fiscale e la congruità degli importi;
✍️ Predispone ricorsi e memorie difensive per salvaguardare deducibilità e corretta tassazione;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce soluzioni preventive per strutturare in sicurezza i compensi futuri agli amministratori.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali e diritto societario-tributario;
✔️ Specializzato in difesa di società e soci amministratori contro l’Agenzia delle Entrate;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sui compensi ai soci amministratori non sono sempre fondate.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la correttezza delle delibere e della contabilità, ottenere l’annullamento (totale o parziale) dell’accertamento e proteggere la tua società da richieste indebite.

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  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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