Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per l’emissione o la registrazione di fatture a saldo zero tra società? Il Fisco può sospettare che dietro queste operazioni vi siano pratiche elusive o simulate, finalizzate a generare indebite detrazioni IVA o costi fittizi. In realtà, in alcuni casi le fatture a saldo zero hanno una funzione contabile e gestionale legittima. Sapere come difendersi è fondamentale per evitare accertamenti sproporzionati.
Quando sorgono contestazioni sulle fatture a saldo zero
– Se le fatture non corrispondono a operazioni reali o a rapporti economici documentati
– Se vengono utilizzate per movimentare artificiosamente costi o ricavi
– Se l’IVA detratta non trova corrispondenza in operazioni imponibili effettive
– Se non esiste un contratto o un accordo scritto che giustifichi l’operazione tra le società coinvolte
– Se le operazioni avvengono tra società collegate, con sospetto di elusione o frode
Quando le fatture a saldo zero possono essere legittime
– Nei rapporti di consorzio o reti d’impresa, per la ripartizione di spese comuni
– Nei casi di ri-fatturazione pro-quota senza margini di utile, per spese sostenute da una società per conto di altre
– Nei rapporti di mandato con rappresentanza, dove la fattura serve solo come passaggio contabile
– In operazioni di compensazione interna tra società appartenenti allo stesso gruppo
– Nelle ipotesi di autofatturazione a scopo documentale, previste dalla normativa IVA
Cosa rischi in caso di contestazione
– Recupero dell’IVA considerata indebitamente detratta
– Indeducibilità dei costi iscritti a bilancio
– Applicazione di sanzioni dal 90% al 180% dell’imposta accertata
– Interessi di mora sulle somme richieste
– Possibile contestazione di operazioni inesistenti con conseguenze penali-tributarie
Come difendersi da una contestazione
– Dimostrare la reale esistenza e necessità dell’operazione sottostante
– Presentare contratti, accordi, verbali societari e documentazione che giustifichi la fatturazione a saldo zero
– Evidenziare che non vi è stato alcun vantaggio fiscale indebito né elusione
– Contestare la riqualificazione del Fisco quando si tratta di prassi contabile diffusa e legittima
– Impugnare l’avviso di accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria se fondato solo su presunzioni arbitrarie
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare le fatture contestate e i rapporti societari sottostanti
– Predisporre un dossier difensivo con documentazione contrattuale e contabile
– Contestare la presunzione di operazioni inesistenti quando l’operazione ha una finalità economica concreta
– Difendere la società in sede di contraddittorio e in giudizio
– Negoziare con l’Agenzia delle Entrate per ridurre sanzioni e interessi
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione fiscale
– La conferma della legittimità delle fatture a saldo zero in contesti specifici
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione di eventuali procedure esecutive collegate
– La tutela del patrimonio societario e degli amministratori
⚠️ Attenzione: le fatture a saldo zero non sono automaticamente illegittime. Diventano contestabili solo se utilizzate per finalità elusive o senza adeguata documentazione. Una difesa solida e ben documentata può dimostrare la piena correttezza delle operazioni.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in difesa tributaria e diritto societario – ti spiega come affrontare le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulle fatture a saldo zero tra società e come difenderti in modo efficace.
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Introduzione
Le cosiddette fatture a saldo zero tra società rappresentano un fenomeno particolare nell’ambito fiscale italiano, in cui le operazioni documentate da fatture non generano alcun pagamento effettivo tra le parti (il saldo finale dell’operazione risulta nullo). Tali situazioni si riscontrano, ad esempio, in rapporti infragruppo (controllante-controllata), nei consorzi tra imprese e in scambi reciproci di beni o servizi dove gli addebiti e accrediti si compensano esattamente. Pur non essendovi un esborso di denaro, queste operazioni assumono rilievo fiscale perché possono influire sulla determinazione di imposte (IVA, IRES, IRAP) e sollevare sospetti di elusione o frode da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Dal punto di vista del contribuente (ossia del soggetto debitore d’imposta potenzialmente contestato dal Fisco), è fondamentale comprendere quando le fatture a saldo zero sono legittime – perché sorrette da valide ragioni economiche e da una corretta applicazione della normativa – e quando invece possono essere contestate come operazioni elusive o simulate prive di sostanza economica. Questa guida, aggiornata ad agosto 2025, fornisce un approfondimento avanzato su tale tema, con un linguaggio giuridico ma divulgativo rivolto ad avvocati, imprenditori e privati. Verranno analizzati i riferimenti normativi italiani, illustrate le sentenze più recenti e rilevanti (Corte di Cassazione, Corte di Giustizia UE), presentati esempi pratici e strategie difensive efficaci in caso di accertamento fiscale.
Sono incluse tabelle riepilogative per schematizzare i concetti chiave e una sezione di domande e risposte frequenti per chiarire i dubbi più comuni. L’obiettivo è fornire al contribuente una visione completa dei mezzi di tutela disponibili per difendersi dalle contestazioni dell’Agenzia delle Entrate riguardanti fatture a saldo zero, garantendo il rispetto dei principi di correttezza fiscale e capacità contributiva.
Normativa di riferimento
Per inquadrare correttamente la problematica, occorre partire dal quadro normativo italiano in materia di fatturazione, IVA, elusione fiscale e frodi mediante false fatture. Di seguito riepiloghiamo le disposizioni chiave e i principi giuridici rilevanti.
Obblighi di fatturazione e normativa IVA
Nell’ordinamento italiano l’emissione della fattura è regolata dall’art. 21 del D.P.R. 633/1972 (decreto IVA). Ogni cessione di beni o prestazione di servizi tra soggetti IVA deve essere documentata da fattura contenente l’indicazione dell’ammontare dell’operazione, dell’IVA dovuta e degli altri elementi obbligatori. Una regola fondamentale è prevista dal comma 7 dell’art. 21 DPR 633/72, secondo cui se viene emessa fattura per operazioni inesistenti l’imposta IVA in essa indicata è comunque dovuta dall’emittente, ancorché la transazione non sia reale. Parallelamente, l’art. 19 DPR 633/72 stabilisce che il diritto alla detrazione dell’IVA per l’acquirente sorge solo se l’acquisto è avvenuto nell’esercizio dell’impresa, arti o professioni, e dunque a fronte di un’operazione effettiva. In altre parole, in caso di fatture “false” o meramente cartolari, l’IVA indicata non è detraibile perché manca il presupposto di un effettivo acquisto di beni o servizi .
Queste norme comportano che anche un’operazione fatturata a saldo zero ricade nelle regole IVA generali: se l’operazione è inesistente, l’IVA indicata in fattura non può essere portata in detrazione dal destinatario, mentre l’emittente resta debitore dell’imposta verso l’Erario . Per contro, se l’operazione è reale ma semplicemente non comporta un pagamento (ad esempio perché compensata da controprestazioni), l’IVA va comunque applicata sull’ammontare imponibile e versata al Fisco, salvo specifiche esclusioni o esenzioni. Va ricordato che l’art. 13 del DPR 633/1972 definisce la base imponibile IVA: in generale corrisponde al corrispettivo pattuito per l’operazione, al netto di eventuali somme escluse (ad esempio, nel mandato senza rappresentanza – situazione tipica dei consorzi – l’art. 13, co.2, lett. b) prevede che dalla base imponibile siano escluse le provvigioni spettanti al mandatario). Ciò diventa rilevante nel caso in cui parte dell’importo fatturato non sia girato all’altro soggetto ma trattenuto come commissione o rimborso spese: in tali casi la provvigione non sconta IVA (se formalizzata) .
Documento commerciale e fatture a zero: Una menzione a parte merita l’ipotesi di emissione di fattura con importo totale zero a fini amministrativi (ad esempio per chiudere una pratica dopo un acconto già incassato). In linea di principio, la normativa IVA non vieta di emettere una fattura a importo zero, ma un documento del genere è fiscalmente irrilevante ai fini dell’imposta (non genera debito né credito IVA). Come chiarito in ambito di fatturazione elettronica, se l’intero corrispettivo è già stato assolto con un acconto, il documento finale a saldo zero serve solo come quietanza o riferimento gestionale . Tuttavia, fuori da questi casi particolari, l’emissione di fatture con imponibile e IVA pari a zero è una pratica anomala che “non trova giustificazione nella normativa” – e dunque suscettibile di attenzione da parte del Fisco se utilizzata per alterare i risultati fiscali.
Elusione fiscale e abuso del diritto
Sul versante delle imposte dirette (es. IRES, IRAP), rileva la disciplina dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, oggi codificata nell’art. 10-bis dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000). Questo articolo – introdotto dal d.lgs. 128/2015 – stabilisce che sono considerati abusi/elusivi quegli atti privi di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme, perseguono essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. In presenza di abuso del diritto, l’Amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari ottenuti, facendo riemergere la tassazione che si sarebbe avuta senza l’operazione elusiva, senza però applicare sanzioni amministrative o penali (purché il contribuente abbia rispettato la disciplina formale e l’operazione sia configurabile solo come elusiva e non come frode) .
Nel contesto delle fatture a saldo zero, uno schema elusivo tipico potrebbe consistere nell’utilizzare scambi infragruppo o tra consorziati allo scopo di trasferire utili da un soggetto a un altro con minore pressione fiscale, oppure di gonfiare costi deducibili in assenza di reale movimento economico, il tutto mantenendosi formalmente nei limiti della legge civile e fiscale. Ad esempio, due società potrebbero emettersi fatture incrociate di pari importo per servizi fittizi: ciascuna rileverebbe un costo deducibile e un ricavo tassabile di uguale valore, neutralizzando l’effetto economico (saldo zero), ma spostando imponibile da un soggetto all’altro. Se l’operazione è strutturata senza violare obblighi formali, potrebbe venire in rilievo come abuso del diritto, in quanto la causa economica è solo il risparmio d’imposta. In tali casi l’Agenzia delle Entrate può contestare l’abuso, privando il contribuente del beneficio (ad es. negando la deduzione del costo artificioso), ma dovrà seguire la procedura di cui all’art. 10-bis (contraddittorio obbligatorio, motivazione specifica) e, se confermata la natura elusiva, recuperare le imposte senza applicare sanzioni (dato che il comportamento è formalmente lecito ma sostanzialmente abusivo).
Simulazione e operazioni inesistenti
Diverso è il quadro quando ci si sposta sul terreno delle operazioni simulate o inesistenti, che configurano violazioni tributarie sostanziali e potenzialmente reati. La simulazione contrattuale è disciplinata dal codice civile (artt. 1414 e segg. c.c.) e si ha quando le parti pongono in essere un atto apparente diverso da quello realmente voluto (es. fingono una compravendita mentre in realtà è una donazione, oppure non vi è alcuna operazione reale). In ambito fiscale, l’Agenzia delle Entrate ha il potere di disconoscere gli effetti di atti simulati (art. 37, comma 3, DPR 600/1973) e di riqualificare le operazioni in base alla loro sostanza effettiva. Le fatture per operazioni inesistenti (oggettivamente inesistenti) rientrano in questa categoria: sono documenti emessi a fronte di operazioni mai avvenute, allo scopo di creare costi fittizi, crediti IVA indebiti o altre frodi. L’utilizzo o l’emissione di fatture false è sanzionato penalmente dal d.lgs. 74/2000 (artt. 2 e 8) quando i relativi importi superano determinate soglie, poiché configura il reato di dichiarazione fraudolenta o emissione di fatture per operazioni inesistenti.
Nel contesto che esaminiamo, l’ipotesi patologica è che le fatture a saldo zero siano meri giri di fatture senza contenuto, attuati per falsare le risultanze di bilancio o ottenere indebiti vantaggi (ad esempio, indebitamente dedurre costi o far apparire ricavi per ottenere finanziamenti, come nel caso di cui diremo relativo al trading energetico). La giurisprudenza tributaria è consolidata nel ritenere che, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti, l’Amministrazione possa basarsi su presunzioni gravi, precise e concordanti per dimostrare la fittizietà, mentre spetterà poi al contribuente provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate . Se tale prova non riesce, le fatture vengono disconosciute: i costi relativi diventano indeducibili, l’IVA detratta viene recuperata e in genere si considera la contabilità “inattendibile” con possibilità di ricostruire il reddito in via induttiva (ex art. 39, co.2 DPR 600/73).
Riassumendo, la normativa italiana pone una linea di demarcazione importante: le condotte elusive/abuso del diritto (operazioni reali ma artificiose) vengono sanzionate solo con il ripristino della corretta tassazione (senza pene ulteriori), mentre le operazioni inesistenti/simulate (che implicano violazioni sostanziali) comportano recupero d’imposta e sanzioni, potenzialmente anche penali. Le fatture a saldo zero possono ricadere in entrambe le categorie a seconda dei casi concreti, come vedremo in dettaglio più avanti.
Definizione di “fattura a saldo zero”
Con fattura a saldo zero ci si riferisce comunemente a una fattura il cui totale finale da pagare è pari a zero. Ciò può avvenire in diversi modi e per varie ragioni. Alcuni esempi di situazione che producono fatture a importo zero sono:
- Compensazione integrale tra debiti e crediti reciproci: due società intrattengono rapporti di dare/avere e decidono di compensare l’una con l’altra le rispettive prestazioni. Ciascuna emette fattura all’altra (ad esempio per €10.000 ciascuna) ma invece di effettuare pagamenti incrociano le partite a saldo, risultando che nessuna delle due versa denaro all’altra. Dal punto di vista formale potrebbero risultare due fatture attive e due passive, ma con un accordo di compensazione il pagamento netto è zero. In alternativa, può essere emessa una singola fattura che già evidenzia a compensazione l’importo dovuto e quello in credito, chiudendosi con saldo zero.
- Riaddebito di costi senza margine (operazione in pareggio): una società sostiene un costo per conto di un’altra (es. spese comuni di gruppo) e lo riaddebita integralmente alla consociata. La fattura emessa riporta il rimborso esatto del costo anticipato e quindi, per chi la emette, l’operazione è neutrale economicamente (nessun ricavo netto, solo recupero costi). Dal lato dell’acquirente, il pagamento copre esattamente il costo ricevuto in riaddebito; se il riaddebito è totale, l’utile dell’operazione per il prestatore è zero.
- Fattura con sconto o abbuono pari all’importo: talvolta si emette una fattura indicante un certo importo lordo per beni/servizi, ma applicando contestualmente uno sconto 100% o un abbuono di pari importo, in modo che il netto a pagare sia zero. Ad esempio, fattura di €1.000 con “sconto a valore €1.000”, totale da pagare €0. Pratiche del genere potrebbero usarsi per documentare una prestazione resa a titolo gratuito o come gesto commerciale.
- Operazioni a titolo gratuito o in regime di convenzione interna: è il caso di società consociate che condividono servizi senza addebitarsi corrispettivi, oppure di consorzi che effettuano attività per i consorziati senza remunerazione diretta, limitandosi a coprire i costi. In alcuni casi, ai fini documentali, potrebbe essere emessa ugualmente una fattura (o altro documento) con importo simbolico o nullo, a testimoniare l’avvenuta prestazione senza pretesa di corrispettivo.
- Fattura di chiusura per acconti già versati: come accennato, se un cliente ha pagato anticipi che coprono interamente il prezzo di una fornitura, alla conclusione del servizio l’azienda può emettere una fattura finale indicando il totale dovuto e l’acconto già pagato di pari importo, risultando un saldo 0. Questo è un caso lecito e comune per finalizzare la contabilità, senza impatto fiscale aggiuntivo (l’IVA è già stata liquidata sugli acconti precedenti).
È importante distinguere il documento fiscale a saldo zero (che può essere emesso tecnicamente, specie in ambito di fatturazione elettronica, come visto) dall’operazione a saldo zero in senso economico. Nel primo caso, si tratta spesso di una formalità (il documento di chiusura, la quietanza, il riaddebito puro), mentre nel secondo caso ci si riferisce a operazioni che volontariamente vengono strutturate in modo da non movimentare denaro o utili tra le parti, pur generando fatture. Questa seconda accezione è quella che rileva ai fini della potenziale contestazione fiscale: il Fisco si domanda perché due o più soggetti intraprendano una serie di transazioni che, di fatto, lasciano invariati i rispettivi patrimoni, ipotizzando che lo scopo potrebbe essere di natura elusiva o fraudolenta.
In altre parole, una fattura a saldo zero non è di per sé vietata o illegale – può avere giustificazioni valide – ma costituisce un segnale anomalo. Saranno dunque determinanti le circostanze concrete: chi sono le parti (imprese indipendenti o legate?), qual è la ragione economica dell’operazione, quali effetti fiscali ne conseguono. Nei paragrafi seguenti esamineremo dapprima i contesti leciti in cui può generarsi un saldo zero, e successivamente quelli illeciti contestati dall’Agenzia delle Entrate.
Esempi tipici di fatture a saldo zero tra società
Di seguito presentiamo alcuni scenari ricorrenti in cui si riscontra l’emissione di fatture a saldo zero tra imprese. Ciascuno di essi può avere una declinazione lecita o, al contrario, prestarsi ad abusi a seconda di come viene attuato.
Scambi infragruppo e riaddebiti di costi
Nelle operazioni infragruppo (tra società appartenenti allo stesso gruppo societario, ad esempio controllante e controllate) è frequente la necessità di ripartire costi o fornire servizi interni. Un caso tipico è il cost sharing: la capogruppo sostiene spese centralizzate (es. costi per software, marketing, consulenze, amministrazione) e poi le ripartisce tra le consociate in proporzione all’utilità ricevuta. Ciò avviene spesso tramite fatturazione: la holding emette fattura alle controllate addebitando loro la quota di costo. Idealmente, essa non applica alcun margine (non mira a lucro su queste prestazioni interne), limitandosi a recuperare il suo esborso. Il risultato è che la transazione, per la holding, è in pareggio economico (rimborso puro delle spese); per le controllate è un costo uguale al beneficio ottenuto. Se tutto è fatto correttamente, ogni società avrà contabilizzato il giusto: la holding un ricavo pari al costo riaddebitato, le controllate un costo correlato a un servizio effettivo.
In tal caso, possiamo parlare di fatture a saldo zero per la società che riaddebita, perché il saldo economico per essa è nullo (costo = ricavo). Tuttavia, da un punto di vista fiscale formale, si tratta di fatture a tutti gli effetti, con imponibile e IVA (salvo eccezioni) sul valore del costo rifatturato. Ad esempio, Alfa SpA (controllante) spende €100.000 in ricerca e sviluppo per un progetto che riguarda Beta Srl e Gamma Srl (controllate); Alfa fattura €60.000 a Beta e €40.000 a Gamma (più IVA) come “riporto costi R&D”. Alfa avrà ricavi 100k a fronte di costi 100k (saldo zero), Beta e Gamma deducono i rispettivi costi e detraggono l’IVA.
Rischio fiscale: l’Agenzia delle Entrate può contestare tali operazioni se le ritiene prive di sostanza o non adeguatamente documentate. In particolare, per la deducibilità dei costi infragruppo non basta esibire il contratto di cost sharing e le relative fatture: occorre provare l’effettiva utilità che la consociata ha tratto dal servizio . La Cassazione ha affermato che per dedurre costi da accordi infragruppo occorre una specifica allegazione degli elementi che determinano il beneficio ricevuto, non essendo sufficiente la sola regolarità formale della documentazione . In pratica, il Fisco spesso chiede evidenza che quei costi ripartiti non siano meri artifici per spostare utile: documenti come report sulle attività svolte, risultati ottenuti dalla controllata grazie a quei servizi, corrispondenza, analisi economiche interne sono cruciali. Se tali prove mancano, l’Ufficio potrebbe contestare l’inerenza e la certezza del costo, disconoscendone la deducibilità (come avvenuto ad es. in Cass. 18/01/2022 n.1449, dove furono ripresi costi di “Corporate Know-How Fee” pari allo 0,4% del fatturato, fatturati dalla consolidante alla controllata, per difetto di prova dell’utilità concreta) .
Un altro esempio infragruppo è la gestione accentrata di tesoreria (cash pooling) dove i saldi attivi e passivi delle varie società vengono azzerati verso un conto comune: ciò però attiene più ai movimenti finanziari che alle fatture, e può avere profili differenti (in materia di interessi infragruppo, ecc., non trattati qui). Anche i finanziamenti o prestiti infragruppo infruttiferi possono essere visti come transazioni a saldo economico zero (nessun interesse pagato), ma non implicano emissione di fatture e seguono regole proprie (transfer pricing del tasso di interesse, ecc.).
In sintesi, nei servizi infragruppo: – Se il saldo zero deriva da un legittimo riaddebito costi o da prestazioni gratuite realmente effettuate nell’economia di gruppo, non si è in presenza di frode. Occorre però predisporre un’adeguata documentazione contrattuale e di consuntivazione delle attività, per poterlo dimostrare. – Se invece le fatture infragruppo a saldo zero mascherano operazioni inesistenti (servizi mai resi) o sproporzionate rispetto all’attività svolta, il Fisco potrà contestare i costi come fittizi. Ad esempio, due controllate che si scambino fatture uguali e contrapposte per consulenze generiche mai realmente fornite accenderebbero un campanello d’allarme per l’Amministrazione.
Fatturazioni reciproche compensate (operazioni circolari)
Uno scenario emblematico di fatture a saldo zero è quello delle operazioni circolari con fatturazione reciproca. Questo si verifica quando più società si vendono vicendevolmente beni o servizi in quantità e prezzo equivalenti, in modo tale che ciascuna acquista e vende la stessa cosa allo stesso valore. Alla fine del ciclo, ogni partecipante registra sia un ricavo che un costo di pari importo, e tipicamente anche il flusso finanziario è nullo perché gli importi vengono compensati.
Un caso concreto è emerso nel settore del trading di energia elettrica: alcune società dello stesso gruppo acquistavano e rivendevano tra loro, in modo coordinato, identici quantitativi di energia allo stesso prezzo, creando un “meccanismo circolare” di fatture senza alcun risultato economico netto . In questo modo ciascuna società appariva con un alto volume di affari (ricavi e costi elevati), ma utili nulli. Secondo l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate, lo scopo di tali operazioni era di consentire al gruppo di accedere a finanziamenti bancari presentando fatture e contratti a supporto (scontati presso banche), pur in assenza di un vero scambio di beni . Inoltre, dal lato IVA, ogni società versava l’IVA sulle vendite e detraeva quella sugli acquisti – e poiché vendite e acquisti si equivalevano, l’Erario non subiva un danno (l’IVA versata da una era detratta da un’altra), ma veniva comunque messo in piedi un giro artificioso di fatture. Tali operazioni sono state qualificate come oggettivamente inesistenti sia dalla Guardia di Finanza che dai giudici tributari: mancava una reale consegna di energia (non risultavano scambi fisici registrati presso il Gestore dei Mercati, né consumi finali) e alcune società intermediarie erano “scatole vuote” prive di struttura operativa .
La Cassazione, nel confermare l’impianto dell’accusa, ha evidenziato i molteplici indizi di fittizietà: coincidenza degli importi fatturati (ogni società comprava e vendeva allo stesso prezzo), simultaneità delle operazioni (stesse date o ravvicinate), assenza di finalità economica normale (nessuna speculazione di mercato, ma regia unitaria di un dominus comune), mancanza di tracciabilità nelle piattaforme ufficiali, carenza di personale e mezzi nelle società coinvolte . In sostanza, si trattava di un “giro di fatture a saldo zero” orchestrato ad arte. Da ciò discende – secondo la pronuncia – che siamo di fronte a operazioni inesistenti, con la conseguenza che l’IVA sugli acquisti va recuperata come indebitamente detratta (pur essendo stata versata a monte sulle vendite) e i costi non possono essere riconosciuti fiscalmente . Il fatto che non vi fosse perdita di gettito per l’Erario (perché tutti hanno versato l’IVA sulle vendite) non salva il diritto alla detrazione: la Corte di Giustizia UE ha chiarito che la lotta alle frodi giustifica la negazione della detraibilità quando le operazioni sono fittizie, e che il principio di neutralità IVA è salvo solo se l’emittente della fattura elimina completamente il rischio di perdita erariale correggendo l’operazione in buona fede . Nel caso di specie, essendo le società consapevoli del carattere simulato delle operazioni, non potevano invocare buona fede .
Al di fuori di contesti così estremi, esistono anche fatturazioni reciproche meno complesse: ad esempio due aziende potrebbero scambiarsi servizi equivalenti (io fornisco personale a te per un progetto, tu fornisci personale a me per un altro progetto, valore uguale) e decidere di compensare i reciproci crediti. Oppure in un contratto di permuta potrebbe emergere una fatturazione bilaterale di pari importo (in teoria nella permuta ciascuno fattura il bene ceduto, ma se i valori coincidono, i pagamenti possono compensarsi).
Rischi fiscali: se questi scambi reciproci sono effettivi e hanno ragioni commerciali valide, non vi è illecito (ciascuno presta realmente il servizio all’altro). Si configurerà eventualmente una compensazione finanziaria legittima. Tuttavia, se manca la sostanza – cioè se in realtà ciascuno finge di fornire un servizio all’altro solo per motivi contabili – siamo nell’ambito delle operazioni inesistenti e il Fisco potrà contestare i costi come falsi. Un indice di allerta è l’assenza di documentazione e dettaglio: ad esempio, fatture uguali e opposte per “consulenza generica” tra due società, senza contratti, report, corrispondenza o tracce dell’attività svolta.
Va anche evidenziato che schemi di false fatture incrociate sono talora utilizzati per creare fondi neri: due società compiacenti emettono fatture l’una verso l’altra, pagano le rispettive fatture ma poi restituiscono clandestinamente le somme ai dirigenti/soci, generando costi fittizi in entrambe (il saldo finanziario finale può essere zero considerando le retrocessioni illecite). Questo però esula dal caso di saldo zero “ufficiale” (lì i pagamenti avvengono ma vengono poi distratti) ed entra direttamente nel penale.
In conclusione, la presenza di fatture reciproche con compensazione totale è sempre un elemento che l’Amministrazione esamina con sospetto: è necessario poter dimostrare, in caso di verifica, che ogni fattura corrisponde a una prestazione reale e distinta, anche se di valore pari a un’altra, e che la compensazione è solo una modalità di pagamento.
Consorzi e ribaltamento dei costi ai consorziati
Nel contesto dei consorzi tra imprese (o società consortili) il fenomeno del “saldo zero” assume connotati particolari. Un consorzio tipicamente opera raccogliendo commesse da committenti terzi e affidandone l’esecuzione alle imprese consorziate. Il flusso normale è: il consorzio fattura al cliente finale l’intero corrispettivo dell’opera/servizio, incassa il pagamento e poi gira (ribalta) la gran parte di tale importo alle consorziate che hanno materialmente svolto i lavori, trattenendo solo una parte a copertura delle spese comuni o come eventuale utile. Idealmente, se il consorzio ha scopo mutualistico (come spesso accade, ossia non mira a profitto proprio), esso dovrebbe chiudere in pareggio: ricavi dalle commesse – costi ribaltati alle consorziate – spese di gestione = 0. In pratica, il consorzio usa i ricavi dei clienti per pagare i consorziati e pagare i propri costi generali, senza lucrare.
Questo modello operativo può generare confusione se non correttamente fatturato. L’Agenzia delle Entrate ha contestato in vari casi la mancata fatturazione integrale dei rapporti consorzio-consorziate. Un esempio chiave è offerto dalla Cassazione n.22435/2016 (Sez. Tributaria), dove un consorzio fungeva da mandatario senza rappresentanza delle consorziate: le consorziate emettevano fattura al consorzio per i lavori eseguiti, ma per un importo inferiore a quanto il consorzio fatturava al cliente; la differenza veniva trattenuta dal consorzio per coprire i costi di gestione . In quella vicenda, l’Ufficio contestò che il consorzio avesse operato un’indebita compensazione tra i ricavi da girare alla consorziata e il contributo dovuto dalla consorziata per il funzionamento del consorzio . In pratica, invece di fatturare separatamente alle consorziate le quote di spese generali, il consorzio tratteneva parte dei ricavi delle commesse e li usava per pagare tali spese, senza emettere fattura per questo trattenimento. Il Fisco sostenne che ciò equivaleva a occultare ricavi alle consorziate (che avrebbero dovuto ricevere l’intero importo e contestualmente pagare la loro quota di spese al consorzio). Di conseguenza, si contestò alle consorziate di non aver emesso autofattura per regolarizzare i costi non fatturati dal consorzio (ex art. 6, co.8 D.Lgs. 471/97) .
La diatriba giuridica ruotava attorno alla qualificazione di quelle differenze trattenute: rappresentavano costi/provvigioni dovuti al consorzio (che quindi andavano fatturati) oppure no? Le Sezioni Unite della Cassazione, intervenute nel 2016 su casi analoghi, hanno tracciato principi chiari: – In un consorzio, se questo opera in nome proprio (mandato senza rappresentanza), ai fini IVA ogni rapporto tra consorzio e consorziata è come un normale rapporto prestatore-cliente . Ciò significa che non c’è neutralità interna: il consorzio deve fatturare alle consorziate eventuali servizi resi o costi sostenuti per loro conto, a meno che la differenza sia qualificabile come provvigione contrattualmente pattuita . – È ammesso che un consorzio persegua anche scopo di lucro, ma occorre distinguere se un’operazione rientra nell’attività mutualistica (solo coordinamento per le consorziate) o in una propria attività commerciale autonoma . Solo nel secondo caso potrebbe trattenere utili propri. – Principio chiave: ogni differenza tra quanto il consorzio fattura al cliente e quanto il consorziato fattura al consorzio deve essere giustificata da uno dei seguenti elementi leciti : a) Spese generali del consorzio ripartite ai consorziati (costo gestione); b) Servizi specifici forniti dal consorzio ai consorziati per quella commessa; c) Provvigione dovuta dal consorziato al consorzio (mandatario) – esclusa da IVA ex art. 13 DPR 633/72; d) Servizi aggiuntivi resi dal consorzio al cliente finale (oltre a quanto fanno le consorziate). – Se la differenza rientra nei casi a) o b) e non viene dettagliata e fatturata, allora si configura un occultamento di ricavi per la consorziata . Sarà onere della consorziata provare che quella differenza non è un suo ricavo in più, ma effettivamente copre costi (o altro) legittimamente trattenuti dal consorzio . – Anche nelle ipotesi c) e d) spetta al consorziato provare che la differenza è appunto provvigione (con pattuizione chiara) o corrispettivo per servizi del consorzio .
Applicando tali principi, la Cassazione ha ritenuto errato non fatturare ai soci i costi: in sostanza, non è legittimo alcun saldo attivo non fatturato tra consorzio e consorziata, salvo appunto la provvigione pattuita . Nel caso del 2016, quindi, ha dato ragione al Fisco: la mancata emissione di fattura per ribaltare le spese generali costituiva violazione e andava rettificata imponendo la fatturazione o l’autofattura da parte delle consorziate .
Possiamo interpretare la vicenda così: il consorzio non può chiudere a saldo zero nascondendo margini. Se vuole chiudere a zero, deve farlo in maniera trasparente: far emergere in fattura tutte le componenti (i costi consortili, le provvigioni) cosicché ogni euro ricevuto dal cliente o va alle consorziate come loro ricavo, o va al consorzio come corrispettivo di un servizio (o come provvigione). Qualunque importo tenuto fuori dalla fatturazione viene visto come potenziale ricavo sottratto a tassazione.
Esempio pratico: Consorzio X fattura €1.000.000 al cliente. Le imprese consorziate eseguono i lavori e fatturano €900.000 al Consorzio. Rimangono €100.000 presso il Consorzio. Se questi €100.000 rappresentano spese generali (es. costi sede, amministrazione) sostenute dal Consorzio per il progetto, il Consorzio dovrebbe fatturare a ciascuna consorziata la quota di tali spese (o, in alternativa, inserirle in una provvigione concordata) – ad esempio €10.000 a ciascuna delle 10 consorziate – in modo che ogni consorziata deduca il costo e il Consorzio contabilizzi ricavo zero (perché avrà poi costi pari a 100k). Se invece il Consorzio trattiene i 100k senza fatturarli, e li usa per pagare le sue spese, fiscalmente ha realizzato un ricavo non dichiarato di 100k e le consorziate hanno goduto di un servizio (la gestione consortile) senza fattura, quindi avrebbero dovuto autofatturarsi.
Negli anni recenti la Cassazione ha riesaminato casi di consorzi alla luce di questi principi. Ad esempio, con sentenza 24.06.2024 n. 17388, si è ribadito che il ribaltamento parziale dei ricavi da parte di un consorzio può essere legittimo se motivato (ad esempio, trattenendo una percentuale come compenso per attività di coordinamento effettivamente svolta) e contrattualmente previsto, mentre se il consorzio devia ricavi senza giustificazione cade nell’occultamento . Un’altra sentenza (Cass. 28735/2022) ha rimarcato l’onere del consorziato di provare che l’eventuale differenza non trasferita costituisca provvigione o servizio reso dal consorzio .
In sintesi per i consorzi: le fatture a saldo zero si manifestano quando il consorzio si limita a “passare” i ricavi alle consorziate tenendo per sé solo il necessario. Ciò è lecito se viene fatto correttamente (provvigioni e costi esplicitati) e nel rispetto dello scopo mutualistico. Se invece il consorzio realizza un risultato positivo occultando ricavi oppure le consorziate non ricevono fatture per costi di loro spettanza, l’Agenzia Entrate contesterà l’operazione come illecita (omessa fatturazione di operazioni imponibili, indebita detrazione IVA, dichiarazione infedele, ecc.) . Dal lato difensivo, le imprese coinvolte dovranno dimostrare la regolarità del meccanismo: ad esempio esibendo lo statuto consortile, i contratti interni, le voci di costo coperte dal consorzio e come sono state ripartite. Se riescono a provare che quelle differenze non erano utili ma coperture di spese o compensi leciti, potranno neutralizzare le pretese fiscali; in caso contrario subiranno il recupero d’imposta su quelle somme come fossero ricavi non dichiarati.
Fatture di chiusura a saldo zero (acconti e casi particolari)
Non tutte le fatture a saldo zero nascondono insidie. Come accennato, vi sono casi in cui emettere una fattura senza importo da pagare è una normale prassi amministrativa. Uno di questi è il settore alberghiero/turistico: se un cliente paga anticipatamente l’intero importo del soggiorno, l’hotel emette una fattura di acconto (assoggettando ad IVA l’importo pagato). Al momento della fine del soggiorno, poiché nulla è più dovuto, alcuni gestionali richiedono l’emissione di una “fattura a saldo” per chiudere la pratica. Questa avrà imponibile e IVA zero, menzionando che l’importo è stato interamente assolto con l’acconto precedente . Dal punto di vista fiscale, tale documento non genera alcun effetto ulteriore: serve solo a collegare contabilmente il pagamento già avvenuto con la prestazione conclusa. L’Agenzia delle Entrate stessa ha chiarito che fuori dei casi espressamente previsti, il “documento commerciale” o la fattura a saldo zero non hanno rilevanza ai fini IVA, se non come documentazione per esercitare eventuali diritti (garanzie, deduzioni di spesa da parte del cliente) .
Situazioni analoghe possono verificarsi nel caso di note di accredito integrali: ad esempio, una società emette fattura a un cliente, poi per qualche ragione decide di stornare l’intero importo (reso totale della merce, annullamento contratto, etc.) emettendo una nota di credito di pari importo. Alla fine, il cliente non paga nulla e l’effetto economico è zero. Qui però tecnicamente abbiamo due documenti (fattura e nota di credito) che si compensano; la fattura originaria non era a saldo zero ma è stata azzerata successivamente. Dal punto di vista del Fisco, nulla quaestio se l’operazione è reale (es. merce restituita); se invece la nota di credito fittizia servisse a creare un costo temporaneo poi stornato a piacere, sarebbe vista con sospetto.
Altri contesti legittimi includono le operazioni escluse IVA ai sensi dell’art. 15 DPR 633/72, ad esempio il riaddebito “a piè di lista” di spese anticipate in nome e per conto del cliente. Se Tizio (società di consulenza) paga delle marche da bollo per conto del cliente Caio e poi si fa rimborsare esattamente l’importo, sulla fattura di Tizio verso Caio quella somma figura ma fuori campo IVA (perché spesa riaddebitata ex art.15). Tizio non ha margine su quella spesa, è per lui a saldo zero. Anche qui la normativa consente il passaggio neutro di importi quando c’è documentazione che sono spese sostenute in nome e per conto altrui. L’importante è rispettare le formalità: deve esserci la tracciabilità che quel pagamento l’ha fatto per Caio, allegando ricevute, ecc.
Finalità legittime e utilizzi leciti delle fatture a saldo zero
Esaminate le varie tipologie di situazioni, riepiloghiamo ora quali possono essere le finalità economiche lecite dietro fatture a saldo zero e come distinguerle dalle pratiche contestabili. La presenza di un saldo zero può essere giustificata da esigenze operative o contrattuali genuine, che non hanno nulla a che vedere con il risparmio fiscale illecito. Alcuni esempi di contesti legittimi:
- Riaddebito spese e condivisione costi: come già spiegato, nei gruppi di imprese spesso si ripartiscono costi comuni. Se tutto è documentato (contratto di ripartizione, criteri oggettivi, rendiconti delle spese) il fatto che la capogruppo non ci guadagni nulla non è sintomo di frode ma conseguenza naturale del fare gruppo. La legittimità qui deriva dalla inerenza del costo per le partecipanti e dalla coerenza economica: ciascuna paga la sua parte, la capogruppo funge solo da centro di imputazione dei costi. Non c’è intento di occultare utili, perché il gruppo nel suo insieme non risparmia tasse – anzi, se la capogruppo è in utile e le controllate in perdita potrebbe preferire non allocare costi. L’Agenzia Entrate esige comunque che si provi l’effettività di tali servizi, ma una volta provata, non può disconoscere la deduzione solo perché l’operazione è avvenuta a margine zero . Anzi, va ricordato che anche l’OCSE nei suoi principi sul transfer pricing riconosce i cost contribution arrangements (accordi di ripartizione costi) come leciti se rispettano il valore di mercato (che in certi casi è proprio il costo senza mark-up, specie tra affiliati stretti).
- Prestazioni infragruppo gratuite per ragioni commerciali: in altri casi una società può volontariamente prestare un servizio all’altra senza chiedere pagamento, per esempio una controllante fornisce temporaneamente personale o know-how a una start-up controllata per farla decollare, senza fatturare il servizio. Qui nemmeno compare una fattura (forse un contratto a titolo gratuito), ma ipotizziamo che decidano di fatturare a valore zero per evidenziare la transazione. L’operazione è lecita in sé – regali e comodati d’uso sono ammessi – ma attenzione: dal punto di vista tributario potrebbe emergere un problema di transfer pricing se comporta spostamento di reddito all’estero, o di benefici occulti se i soci sono comuni. Tuttavia, nell’ambito domestico, prestare un servizio gratis significa semplicemente che il costo resta a carico di chi lo eroga senza ricavo corrispondente (in genere non ottimale fiscalmente). L’unico vantaggio potenziale potrebbe essere l’IVA: cedere beni gratuitamente comporta obbligo di fatturazione su valore normale (art. 2 DPR 633/72 per beni, art. 3 per servizi solo se non rientrano nell’attività). Ma per servizi gratuiti tra soggetti passivi, se fuori dall’attività d’impresa, non c’è IVA. Insomma, se due società italiane decidono di scambiarsi favori senza pagarsi, non stanno evadendo nulla (anzi, rinunciano a deduzioni possibili). Quindi non c’è motivo per il Fisco di colpire tali comportamenti, salvo casi in cui celino qualcos’altro (es. remunerazioni in natura non dichiarate).
- Operazioni di netting finanziario: a volte il saldo zero è frutto di compensazioni legittime e trasparenti. Ad esempio, due società hanno rapporti reciproci continuativi; anziché pagarsi ogni singola fattura, decidono di fare mensilmente una compensazione tra crediti e debiti e regolare solo la differenza. In contabilità questo può riflettersi con fatture incrociate e una scrittura di compenso. Tutto ciò è permesso (anche il codice civile consente la compensazione tra obbligazioni reciproche, art. 1241 c.c.), purché ovviamente le operazioni sottostanti siano reali. Il saldo monetario finale è zero se i debiti coincidono con i crediti, ma le fatture restano valide a testimoniare le operazioni effettive. L’Agenzia Entrate qui non ha ragione di intervenire, perché non c’è base imponibile sottratta: entrambe le parti dichiareranno i rispettivi ricavi e costi. Al limite, bisogna fare attenzione ai profili IVA: la compensazione tra due soggetti IVA non esime dal versamento dell’IVA dovuta sulle rispettive fatture (non si può “compensare” l’IVA a meno di utilizzare i meccanismi di liquidazione periodica). Nel caso di compensazione di fatture, ciascuno paga la propria IVA e detrae quella pagata all’altro. Dunque il Fisco incassa e rimborsa in pari misura, risultando neutro. Non c’è perdita erariale né evasione.
- Consorzi con gestione mutualistica corretta: come visto sopra, un consorzio può giungere a un risultato di pareggio (saldo zero) senza violare norme, se ad esempio addebita ai consorziati tutte le componenti dovute. In tal caso la differenza tra fatturato attivo e passivo del consorzio viene formalizzata in provvigioni (escluse IVA) o fatture di servizi. Così facendo, nessuno ottiene un indebito vantaggio: le consorziate avranno costi esattamente pari ai ricavi che hanno ceduto al consorzio (quindi utili invariati, solo passati dal cliente a loro tramite consorzio), e il consorzio non paga IRES su utili perché non ne ha generati (o se li ha, paga su quelli dichiarati). L’Erario incassa l’IVA sui clienti finali e la ottiene o dalle consorziate o dal consorzio a seconda di come strutturano le fatture, ma non la perde. In questi casi, se tutto è rendicontato, non c’è motivo di contestare l’operato: è una scelta organizzativa permessa dalla legge (il consorzio per definizione non deve conseguire profitti per sé, art. 2602 c.c., salvo patto contrario). Anzi, l’ordinamento ha introdotto anche normative di vantaggio per i consorzi, come la possibilità di non applicare ritenute o IVA in certi contributi consortili, proprio per facilitare la mutualità senza aggravi.
- Chiusura di operazioni con acconti: la fattura a saldo zero emessa per chiudere un ciclo di fatturazione (es. contratti di appalto con stati di avanzamento già pagati interamente) è del tutto lecita e non incide sul calcolo delle imposte. Serve solo come documento finale per chiarezza contabile. In ottica difensiva, se un verificatore poco esperto notasse una “fattura a zero” potrebbe chiedere spiegazioni, ma è sufficiente mostrare i documenti collegati (fatture di acconto) per chiarire che non c’è alcuna anomalia. Ad oggi, con l’introduzione della fatturazione elettronica e dei corrispettivi telematici, queste prassi sono note: lo SdI (Sistema di Interscambio) accetta anche fatture a importo zero e non le respinge, purché compilate correttamente (il commercialista dell’hotel nell’esempio iniziale aveva torto a dire che “non si possono trasmettere fatture elettroniche a importo zero”, in quanto tecnicamente lo SDI le accetta eccome, ed è stato confermato dagli aggiornamenti dell’Agenzia Entrate sulle specifiche tecniche) .
Di seguito presentiamo una tabella riepilogativa che distingue alcuni casi di fatture a saldo zero leciti da quelli illeciti/contestati, evidenziandone le caratteristiche e il trattamento fiscale:
Tipo di operazione | Descrizione e finalità | Valutazione fiscale |
---|---|---|
Riaddebito infragruppo di costi (cost sharing) | Una società addebita ad altre del gruppo costi comuni senza margine (solo recupero spese) | Lecito se ben documentato e inerente. IVA applicata sulle fatture; costi deducibili se utili al destinatario . Rischio contestazione se manca prova dell’effettivo beneficio o se i costi sono fittizi. |
Scambio reciproco di servizi reali | Due società si prestano servizi equivalenti compensandone il valore (saldo netto zero) | Lecito se entrambi i servizi sono effettivamente resi. Ciascuno dichiara ricavi e costi uguali. Nessun vantaggio fiscale indebito (utili invariati). Rischio se i servizi sono solo formali. |
Operazione circolare fittizia | Più società si fatturano vendite/acquisti allo stesso importo senza scambi reali (giro artificiale) | Illecito (operazioni inesistenti). IVA detraibile negata e costi indeducibili . Possibili sanzioni per fatture false; contabilità inattendibile. |
Consorzio – provvigione o spese generali dichiarate | Consorzio trattiene parte dei ricavi come compenso di coordinamento o rimborso spese, con fattura o atto provvigione | Lecito. Provvigione esclusa IVA (art.13), spese generali fatturate con IVA. Consorzio dichiara ricavi = costi (utile zero). Consorziate deducono il costo. Nessun occultamento . |
Consorzio – trattenute non fatturate | Consorzio non gira tutti i ricavi alle consorziate e non fattura la differenza (copre costi propri in compensazione) | Illecito. Omessa fatturazione di operazioni ai consorziati; differenza considerata ricavo occulto del consorziato . Recupero IVA e IRES, sanzioni per dichiarazione infedele. |
Fattura finale dopo acconti (saldo 0) | Fattura emessa solo per chiudere contabilità dopo che l’intero importo era già pagato in precedenza | Lecito e privo di effetti fiscali (IVA già assolta sugli acconti). Documento con funzione civile/amministrativa . Nessun rischio se ben riferito ai documenti precedenti. |
Legenda: lecito = operazione con valida ragione economica, conforme a norme; illecito = operazione contestabile come abuso del diritto o inesistente.
Profili di rischio: quando l’Agenzia delle Entrate contesta le fatture a saldo zero
Passando al “lato oscuro” delle fatture a saldo zero, esaminiamo perché e quando l’Amministrazione finanziaria tende a contestarle. In genere, i funzionari del Fisco sono formati per individuare anomalie e possibili indicatori di frode/elusione. Un’operazione che si chiude senza spostamento di denaro né di ricchezza tra le parti fa scattare domande: qual era lo scopo? Perché farla se nessuno ne ha guadagno? La risposta sospettata spesso è: per risparmiare imposte o creare artifici contabili. Vediamo alcuni profili di rischio tipici:
- Costi fittizi per abbattere utili: uno schema abusivo comune è quello delle false fatture di costo. Se due società si accordano, possono emettersi fatture reciproche o unilaterali per servizi mai resi, con l’intesa di non pagarsi realmente (o di restituire il pagamento). La società che registra il costo abbatterà il suo utile e pagherà meno imposte, l’altra che registra un ricavo potrebbe compensarlo con perdite pregresse o altri costi (o essere residente altrove). Facendo il gioco delle compensazioni, il saldo finanziario può essere zero (nessun effettivo esborso definitivo), ma il vantaggio fiscale è conseguito: spostare reddito imponibile da chi avrebbe pagato tasse a chi non le paga. L’Agenzia delle Entrate ricerca attivamente queste situazioni, incrociando i dati delle fatture emesse/ricevute (tramite lo spesometro e ora i dati delle e-fatture) e segnalando incongruenze. Ad esempio, se una piccola società in forte utile riceve molte fatture da una consociata in perdita con descrizioni vaghe (“consulenza amministrativa”) e poi si scopre che i pagamenti non sono avvenuti (o sono stati restituiti sotto banco), è probabile una contestazione per operazioni inesistenti e indebita deduzione di costi.
- IVA indebitamente detratta: se con fatture fittizie a saldo zero si crea un giro di IVA (ognuno versa e detrarrà la stessa IVA), teoricamente il Fisco non ci perde. Tuttavia, potrebbero sorgere situazioni in cui uno dei partecipanti riesca a monetizzare un credito IVA (ad esempio andando a rimborso) mentre l’altro magari non versa effettivamente l’IVA dovuta (se scompare o è insolvente). In certi caroselli fraudolenti complessi, qualcuno rimane debitore IVA insolvente e qualcun altro ottiene crediti. Quindi, l’Agenzia Entrate è vigile anche se le cifre tornano, perché potrebbe esserci un missing trader o un soggetto che sparisce. Nel caso delle operazioni circolari come il trading energia citato, la difesa del contribuente era “nessun danno erariale, abbiamo versato tutta l’IVA”: ma la Cassazione ha risposto che il rischio frode IVA sta proprio nel fatto che se concedessero la detrazione, uno potrebbe strutturare giri fittizi dove a fronte di IVA versata c’è sempre IVA detratta e magari qualcuno prima o poi non versa . La normativa (art. 21, co.7 DPR 633/72) è chiara: se la fattura è per operazione inesistente, l’IVA è dovuta dall’emittente ma non detraibile dal destinatario . Quindi il destinatario viene sanzionato con la perdita della detrazione anche se ha pagato quella fattura.
- Contabilità inattendibile (metodo induttivo): la presenza di numerose fatture a saldo zero, specie se tra parti correlate, può portare l’Agenzia a ritenere l’intera contabilità non attendibile. L’art. 39 DPR 600/73 consente l’accertamento induttivo puro (ignorando i libri contabili) se questi presentano gravi irregolarità o “false risultanze”. La Cassazione ha affermato però che la sola presenza di fatture a saldo zero (senza imponibile) non basta di per sé a dichiarare la contabilità inattendibile . Occorre comunque valutare se vi sono altri elementi gravi. Ad esempio, Cass. 27918/2022 ha ritenuto che fatture a saldo zero da sole fossero insufficienti a dimostrare che i conti erano falsati; servono riscontri ulteriori (come discrepanze nei magazzini, incongruenze nei conti bancari, etc.). Tuttavia, in casi pratici l’Amministrazione spesso contesta non solo la presenza di tali fatture, ma ciò che esse implicano: per esempio, se emergono “saldi di cassa contabili zero” costanti a fronte di movimenti reali, o “compensazioni di crediti” anomale, può presumere che i ricavi non dichiarati siano stati mascherati. Una volta dimostrata l’inattendibilità, il Fisco è legittimato a ricostruire il reddito in via analitico-induttiva o induttiva pura, con margini di discrezionalità molto ampi.
- Schemi elusivi complessi (abuso del diritto): come detto, se le operazioni a saldo zero sono state congegnate rispettando le forme giuridiche ma con il fine di risparmiare tasse, l’Agenzia potrà contestare l’abuso. Un esempio potrebbe essere: Tizio e Caio sono due aziende indipendenti, Tizio ha un enorme utile, Caio ha perdite riportate. Fanno un accordo: Caio fornirà a Tizio un servizio X del valore di 1 milione, Tizio fornirà a Caio un servizio Y del valore di 1 milione. Si fatturano a vicenda tali importi. Tizio così deduce 1 milione di costo (risparmia imposte), Caio ha 1 milione di ricavo che compensa con la perdita (non paga imposte). Nessun pagamento avviene perché si compensano. Formalmente, nulla di vietato se i servizi esistono; materialmente, la convenienza fiscale è l’unica ragione per farlo (altrimenti avrebbero semplicemente fatto un contratto di consulenza per una cifra minore o non avrebbero scambiato servizi di pari importo). In tali situazioni il Fisco può sostenere che l’operazione, pur reale magari (magari due relazioni scritte per giustificare X e Y), era priva di una sostanza economica diversa dal vantaggio fiscale. Si cadrebbe nell’art. 10-bis: l’Ufficio dovrebbe provare che senza il risparmio d’imposta Tizio e Caio non avrebbero ragionevolmente fatto quello scambio costosissimo alla pari. Se regge, disconoscerà il vantaggio (cioè negherà a Tizio la deduzione del milione, tassando quell’importo come se non avesse sostenuto il costo). Non applicherà sanzioni qua tale se riconosce che l’operazione è solo elusiva. Va detto però che spesso in simili casi l’Amministrazione preferisce contestare comunque la frode (operazioni inesistenti), sostenendo che i servizi in realtà non furono mai resi con quella consistenza. Questo perché l’onere probatorio dell’abuso è comunque complesso e, fino al 2015, l’elusione era combattuta usando l’art. 37-bis DPR 600 (con sanzioni). Oggi c’è più chiarezza e tendono a seguire l’art. 10-bis con contraddittorio. Quindi si potrebbe vedere contenzioso su queste basi.
In conclusione, l’Agenzia delle Entrate contesta le fatture a saldo zero quando ravvisa: 1. Mancanza di effettività: l’operazione sembra finta o gonfiata; 2. Assenza di motivazione economica valida: non c’è ragione di business per un simile scambio; 3. Beneficio fiscale rilevante: risparmio di imposte o creazione di crediti/deduzioni indebite; 4. Anomalie contabili: uso di compensazioni per nascondere incassi, margini zero in situazioni non plausibili, ecc.
Il punto di vista del contribuente in tali casi deve essere quello di dimostrare che nessuno di questi elementi patologici sussiste – oppure confutare le presunzioni del Fisco con prove contrarie (lo vedremo nella sezione successiva sull’onere della prova e difese). Ma prima, giova richiamare alcune pronunce giurisprudenziali recenti che forniscono indicazioni utili su come i giudici valutano queste situazioni.
Giurisprudenza recente su fatture a saldo zero
Negli ultimi anni la Corte di Cassazione si è espressa più volte su casi riguardanti fatture a saldo zero o operazioni analoghe, delineando principi di diritto importanti per orientare sia i contribuenti che l’Amministrazione. Esaminiamo sinteticamente alcune delle sentenze e ordinanze più significative (fino al 2025), che abbiamo in parte già menzionato, per estrapolare i punti chiave utili nella difesa da contestazioni.
Trading di energia “a saldo zero” – Cass. 26374/2023
Caso: Una società operante nel mercato telematico dell’energia elettrica era stata accusata dal Fisco di aver partecipato a un meccanismo di vendite e riacquisti circolari di energia con altre società collegate (facenti capo allo stesso gruppo), tali per cui le quantità e i corrispettivi combaciavano perfettamente tra acquisti e vendite (operazioni “chiuse a saldo zero”) . Lo scopo ipotizzato era di consentire al gruppo di ottenere finanziamenti bancari esibendo un consistente volume di fatture e crediti verso altre società (scontati presso banche) senza che vi fosse un reale scambio di energia. Tutta l’IVA sulle vendite veniva versata, e specularmente detratta sugli acquisti, generando formalmente nessuna evasione d’imposta, ma secondo l’Ufficio con indebita detrazione da parte della società poi controllata (alla quale contestava l’indetraibilità dell’IVA su quelle operazioni fittizie).
Decisione: La Cassazione (sentenza n. 26374 del 12/09/2023) ha confermato l’impostazione dell’Ufficio, qualificando le operazioni come oggettivamente inesistenti. Ha sottolineato come la CTR avesse individuato “corposi elementi presuntivi” di fittizietà: coincidenza di importi, regia unitaria, mancanza di scopo di lucro tipico, assenza di consegna fisica di energia (nessuna traccia sui registri ufficiali), alcune società prive di struttura operativa, irrilevanza dell’avvenuto pagamento dell’IVA poiché senza un reale acquisto sottostante non sorge diritto a detrazione . La Cassazione ha richiamato la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza 8 maggio 2019, causa C-712/17) in tema di operazioni inesistenti: da un lato, l’art. 203 della Direttiva IVA legittima lo Stato a esigere comunque l’IVA indicata in fattura anche se non dovuta (per prevenire perdite di gettito); dall’altro, per il principio di proporzionalità, occorre prevedere la possibilità di rettifica/rimborso di tale IVA se l’emittente elimina completamente il rischio di perdita erariale . Però questa chance è negata se l’emittente era consapevole della frode e non in buona fede . Nel caso concreto, poiché le società sapevano di emettere fatture senza operazioni reali, non potevano invocare la neutralità IVA per riavere l’imposta versata; allo stesso tempo, il cessionario non poteva detrarre l’IVA sull’acquisto inesistente . In sintesi, la Cassazione ha ritenuto legittimo il recupero dell’IVA detratta (oltre sanzioni) e la pretesa di indeducibilità dei costi, in quanto mancava il “presupposto di un effettivo acquisto di beni o servizi” . Questa sentenza è importante perché chiarisce che anche senza danno erariale immediato, un giro di fatture compensato può essere sanzionato come frode: la legge tutela la necessità di realtà economica delle operazioni e impedisce l’uso strumentale dell’IVA come “gioco a somma zero” per altri fini.
Utilità difensiva: Dal punto di vista del contribuente, questa pronuncia indica che in presenza di un impianto probatorio robusto (indizi plurimi di artificialità), sarà difficile far valere la tesi “ma l’Erario non ha perso nulla”. Ci si deve concentrare piuttosto nel prevenire tali situazioni – ad esempio evitando di fare operazioni interne al gruppo senza ragione plausibile. Se imputati in un caso simile, l’unica difesa sarebbe dimostrare che le operazioni avevano in realtà una logica di mercato (es. erano transazioni back-to-back normali nel settore energia e non concordate artificiosamente) – nel caso di specie ciò era stato sostenuto dalla società (“operazioni tipiche di trading con netting finale, nessun danno erariale”) , ma non ha convinto i giudici per la mole di evidenze contrarie.
Ribaltamento parziale dei ricavi nei consorzi – Cass. SU 2016 e Cass. 17388/2024
Caso: Come illustrato in precedenza, si discute se un consorzio possa trattenere parte dei ricavi senza redistribuirli interamente alle consorziate, specie quando ciò avviene per coprire costi di gestione o riserve mutualistiche, senza fatturazione specifica. La questione ha generato contenziosi in cui alcune Commissioni avevano dato ragione ai consorzi (ritenendo che se l’operazione è neutra e non crea debito d’imposta, non vi sia violazione), ma l’Agenzia insisteva sull’obbligo di fatturare tutto.
Decisioni: Le Sezioni Unite della Cassazione nel 2016 (sentenze nn. 12190-12194/2016) hanno affrontato la questione di principio, come già detto, affermando che non è ammessa alcuna differenza non fatturata tra l’importo fatturato dal consorzio al cliente e quello fatturato dal consorziato al consorzio, salvo la provvigione se pattuita . Hanno inoltre posto a carico del consorziato l’onere di provare la natura di eventuali differenze (ricavo occulto vs spesa generale vs provvigione) . Facendo applicazione di tali principi, la Cass. 22435/2016 ha cassato una sentenza di merito troppo indulgente col consorzio e ha stabilito che l’omessa autofatturazione da parte delle consorziate per i costi non fatturati dal consorzio non è una violazione meramente formale, ma sostanziale , comportando occultamento di ricavi.
Successivamente, una serie di pronunce (tra cui Cass. 28735/2022 citata, e Cass. 17388/2024) hanno ribadito questi concetti. La sentenza n. 17388/2024 in particolare, pur non essendo disponibile integralmente in fonti pubbliche al momento, secondo un commento di dottrina conferma che il consorzio con rappresentanza esterna può trattenere una parte dei ricavi solo in presenza di motivi specifici (compenso di coordinamento, servizi consortili al terzo, ecc.), e indica i motivi che legittimano un ribaltamento parziale . Se tali motivi mancano, il ribaltamento incompleto viene visto come potenziale occultamento di utili.
Utilità difensiva: Per un consorziato o consorzio coinvolto in accertamento, queste sentenze offrono una guida su come giustificare le proprie operazioni. In sede di difesa, occorrerà: – Dimostrare che ogni euro trattenuto dal consorzio aveva una destinazione lecita: ad esempio, esibendo il contratto consortile in cui è prevista una provvigione del X% per il consorzio, oppure mostrando le spese generali sostenute dal consorzio e calcolando che proprio quell’importo trattenuto serviva a coprirle (meglio ancora se c’è delibera consortile di riparto spese). – In mancanza, prepararsi a riconoscere l’errore formale e magari invocare l’assenza di danno erariale per ridurre sanzioni (in alcune massime si nota il concetto che “la mancata emissione di fatture tra consorziati non genera danno erariale, ma è comunque violazione” , il che può aiutare per l’entità delle multe, ma non evita il recupero d’imposta). – Far valere eventualmente la buona fede se le norme erano poco chiare e si seguiva una prassi (prima delle SU 2016, molti consorzi agivano così). Tuttavia dopo il 2016 la giurisprudenza è univoca, quindi dal 2016 in poi è difficile invocare incertezza normativa su questo punto.
Contabilità inattendibile e fatture a zero – Cass. 27918/2022
Caso: In una verifica fiscale, l’Agenzia aveva rilevato la presenza di numerose fatture con imponibile zero nelle scritture di una società, ritenendole sintomo di possibili irregolarità gravi tali da giustificare un accertamento induttivo puro (ex art. 39, c.2 DPR 600/73). In particolare, sembrerebbe che l’Ufficio sostenesse che la contabilità fosse inattendibile anche alla luce di questi documenti “anomali”.
Decisione: La Cassazione, con la sentenza n. 27918 del 23/09/2022, ha affermato che il semplice fatto che vi siano fatture a saldo zero, senza imponibile, non è di per sé prova sufficiente per dichiarare l’inattendibilità generale della contabilità . In altri termini, quelle fatture possono avere spiegazioni lecite (ad esempio note di storno, riaddebiti particolari) e non costituiscono automaticamente falsità dei libri. Occorre che l’Ufficio dimostri qualcosa in più: ad esempio, che tali fatture celano operazioni inesistenti o che siano parte di un disegno evasivo più ampio. Se non lo fa, non può legittimamente ignorare tutta la contabilità del contribuente solo per quell’aspetto. Purtroppo il testo integrale della sentenza non è pubblico, ma dalla massima disponibile risulta chiaro il principio di diritto: le fatture con saldo zero non bastano a rendere inattendibili le scritture contabili. Nella stessa decisione, pare di capire che la Cassazione abbia quindi rigettato il ricorso del Fisco (che forse chiedeva di usare l’induttivo puro) e abbia dato ragione al contribuente su questo punto.
Utilità difensiva: Questo precedente è prezioso per contrastare accertamenti troppo aggressivi basati su indizi deboli. Se l’Agenzia delle Entrate, in un caso concreto, dovesse sostenere che “siccome avete fatture a zero, allora la contabilità è tutta falsa e rifacciamo i conti d’ufficio”, la difesa potrà citare Cass. 27918/2022 a supporto della tesi che servono prove più solide. Naturalmente, molto dipende dal contesto: solitamente l’Ufficio combina più elementi. Ma qualora alcuni di questi decadano, il contribuente può argomentare che rimangono solo le fatture a zero, insufficienti per presumere evasione. Bisogna comunque essere cauti: è sempre preferibile in giudizio fornire una spiegazione logica di quelle fatture (ad esempio: “erano fatture di storno per resi, ecco la documentazione”), in modo da dissipare i dubbi. La pronuncia in commento rafforza la posizione del contribuente che abbia tenuto regolarmente i libri e vuole evitare che un dettaglio anomalo venga ingigantito per annullare tutto il suo impianto contabile.
Costi infragruppo e prova dell’inerenza – Cass. 1449/2022
Caso: Una società aveva ricevuto dalla propria controllante l’addebito di alcuni costi di gestione (un “Corporate Know-How Fee” pari allo 0,4% del fatturato). In sede di verifica, l’Agenzia delle Entrate aveva disconosciuto la deducibilità di tali costi infragruppo, ritenendo non provati i requisiti di certezza e inerenza, e rilevando che per un anno precedente la stessa società contribuente aveva accettato in adesione la ripresa di costi analoghi (quasi a riconoscerne l’indebita deduzione) . Le Commissioni tributarie avevano in parte confermato la ripresa a tassazione.
Decisione: La Cassazione, con sentenza n. 1449 del 18/01/2022, ha dato torto al giudice di merito ritenendo che avesse fatto un’applicazione errata dell’art. 109 TUIR (ora art. 83 TUIR) in tema di deducibilità dei costi . La Suprema Corte ha ribadito un principio consolidato: per dedurre un costo non basta che esista una fattura o un documento, occorre prova dell’inerenza ossia del nesso con l’attività produttiva di reddito . Ma – ed è qui il punto – tale prova non può consistere nella mera esibizione del contratto infragruppo e della fattura di addebito. Serve una “specifica allegazione” di elementi che facciano comprendere l’utilità effettiva o potenziale ottenuta dalla consociata grazie a quel servizio .
Nel caso concreto, la CTR pugliese aveva bollato il costo come non inerente in modo un po’ superficiale; la Cassazione ha censurato questa valutazione perché, sembra, non erano stati adeguatamente considerati eventuali elementi a favore del contribuente. La causa è stata rinviata per un nuovo esame, ma con l’indicazione che la contribuente doveva poter dimostrare l’inerenza magari fornendo dettagli sul servizio di “corporate know-how” prestato dalla controllante. La Cassazione ha evidenziato inoltre che il fatto di aver accettato un accertamento su un altro anno non costituisce automaticamente confessione per l’anno in contestazione .
Utilità difensiva: Questa sentenza offre una linea guida per difendersi in contesti di cost sharing agreements: il contribuente deve preparare e produrre in giudizio prove concrete del beneficio ricevuto. Ad esempio: – Documenti che descrivano le attività svolte dalla capogruppo per la partecipata (manuali, report, visite, software messi a disposizione, ecc.); – Risultati conseguiti grazie a tali servizi (miglioramenti, risparmi, aumento efficienza); – Criteri di allocazione chiari e non arbitrari (perché 0,4% e non altro? magari è un parametro di mercato o proporzionato a un indice oggettivo).
In assenza di ciò, il rischio è che i giudici confermino la ripresa dell’Ufficio per difetto di inerenza. D’altro canto, la pronuncia rimarca anche che l’onere della prova inizialmente spetta al Fisco: l’Amministrazione deve indicare perché reputa quel costo non inerente. Spesso lo fa evidenziando: sproporzione del costo rispetto al fatturato, duplicazione di funzioni già interne all’azienda, genericità della descrizione in fattura. A quel punto l’onere si sposta sul contribuente di fornire giustificazioni specifiche.
In definitiva, Cass. 1449/2022 istruisce che nel caso di fatture infragruppo (tipicamente a margine zero per il prestatore) è cruciale dimostrare la realtà e la rilevanza economica della prestazione, altrimenti prevale la sfiducia del Fisco. Perciò, in ottica preventiva, ogni accordo infragruppo dovrebbe essere gestito quasi come tra terzi: con contratti dettagliati e service level agreement, documentazione delle attività svolte, e magari pricing coerente con il mercato (se c’è un mark-up). Se il mark-up è zero (costo puro), paradossalmente bisogna lavorare ancor più sulla prova dell’utilità, perché è un elemento che insospettisce (perché offri gratis? Forse perché non hai offerto nulla in realtà). Naturalmente, come spiegato, offrire a costo puro in sé non è illecito, ma comporta quell’onere probatorio in più per vincere lo scetticismo dell’Amministrazione.
Altre pronunce rilevanti
Oltre alle sentenze analizzate, meritano un rapido cenno altre decisioni che, pur non riferendosi esattamente a “fatture a saldo zero”, toccano temi affini di onere della prova e operazioni inesistenti: – Cass. 20744/2025 (ord.) – Questa recentissima ordinanza (agosto 2025) ribadisce i principi sull’onere della prova in materia di fatture per operazioni inesistenti . La Corte conferma che inizialmente è l’Agenzia Entrate a dover fornire elementi anche presuntivi gravi che facciano dubitare dell’esistenza delle operazioni (ad es. fornitori senza struttura, pagamenti anomali, etc.). Una volta fatto ciò, spetta al contribuente dimostrare l’effettività delle prestazioni, e non è sufficiente la regolarità formale di contabilità e documenti . Occorrono prove sostanziali: contratti, DDT, prove di avvenuta esecuzione. Questo principio, già consolidato (v. Cass. SU 17355/2009 e altre), è continuamente riaffermato. Il che significa che in qualunque contestazione di operazioni inesistenti (anche quelle con fatture a zero), il contribuente deve prepararsi a andare oltre le carte contabili e fornire elementi concreti. – Cass. 2160/2024 – In tema di operazioni oggettivamente inesistenti, ha statuito che l’Amministrazione ha l’onere di provare che l’operazione non è mai avvenuta (anche con presunzioni) e il contribuente di dimostrarne semmai la realizzazione effettiva . Questo ricalca quanto sopra, ed è utile tenere a mente che se l’Ufficio non porta nemmeno presunzioni serie (ad esempio si limita a dire “non ci risulta il movimento”), il contribuente può ottenere ragione contestando l’assenza della prova iniziale a carico del Fisco. – Cass. 17388/2018 – Riguardava un caso di presunte fatture soggettivamente inesistenti (frode carosello). La Corte ha affermato che se il cedente è una cartiera, i costi non sono deducibili e l’IVA indetraibile salvo prova contraria del contribuente, anche se la merce c’è effettivamente (perché in tal caso è la frode sull’interposizione fittizia). Non è esattamente il nostro tema, ma sottolinea come in contesti di frodi IVA l’orientamento sia rigido. – Cass. 30057/2008 – (Sez. Unite) anche qui non direttamente su saldo zero, ma fu una delle pronunce che delineò la linea tra consorzi mutualistici ed elusione, citata peraltro nelle cause successive . Stabilì che va verificato se l’organizzazione consortile è usata unicamente per risparmio fiscale indebito; in tal caso, si disconoscono i benefici. È un antesignano del concetto di abuso poi trasfuso in legge.
Per avere una visione d’insieme, la tabella seguente elenca alcune decisioni chiave della Cassazione menzionate, con scenario e principio affermato:
Sentenza | Scenario | Principio di diritto |
---|---|---|
Cass. 22435/2016 | Consorzio mutualistico che non fattura costi ai soci (compensazione interna) | Il consorzio deve ribaltare alle consorziate tutti i costi e utili relativi alle commesse; differenze non fatturate equivalgono a ricavi occultati. Onere del consorziato provare che l’ammanco è provvigione o servizio consortile . |
Cass. 27918/2022 | Contabilità con fatture a imponibile zero, accertamento induttivo | La presenza di fatture a saldo zero senza imponibile non è di per sé prova sufficiente di inattendibilità della contabilità . Servono ulteriori elementi per legittimare un accertamento extra-contabile. |
Cass. 26374/2023 | Giro di fatture circolari nel trading di energia (infragruppo) | Operazioni perfettamente compensate tra società del medesimo gruppo, prive di scopo economico effettivo, costituiscono operazioni oggettivamente inesistenti. L’IVA sulle fatture emesse è dovuta, ma quella sugli acquisti relativi è indetraibile per mancanza di effettiva operazione . |
Cass. 1449/2022 | Costi infragruppo (fee percentuale) dedotti dal reddito | Ai fini della deducibilità dei costi infragruppo da “cost sharing”, non basta contratto e fattura: occorre provare l’utilità effettiva ottenuta dalla consociata . Inerenza e certezza devono essere documentate concretamente. |
Cass. 17388/2024 | Consorzio trattiene parte dei ricavi come compenso coordinamento | (Sintesi da dottrina) Il ribaltamento parziale è legittimo solo se giustificato da provvigioni pattuite o servizi consortili effettivi; altrimenti si configura occultamento di ricavi consorziati . |
Cass. ord. 20744/2025 | Fatture fittizie contestate come costi indebiti (onere prova) | L’Ufficio deve provare (anche con presunzioni gravi) l’inesistenza delle operazioni; provato ciò, spetta al contribuente dimostrare l’effettività con prove concrete, non bastando la formale regolarità dei documenti . |
Nota: le pronunce sopra sono selezionate per rilevanza; ve ne sono altre che confermano i medesimi principi. La giurisprudenza è in costante evoluzione, ma al 2025 appare coerente nel tracciare un confine netto tra operazioni lecite e operazioni abusive/fittizie, e nell’attribuire i corretti oneri probatori a ciascuna parte.
Distinzione tra elusione e operazioni inesistenti: effetti giuridici
Come emerso, le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate verso le fatture a saldo zero possono inquadrarsi in due macro-categorie: 1. Contestazione di abuso/elusione fiscale (operazione realmente posta in essere, ma priva di sostanza economica diversa dal risparmio d’imposta). 2. Contestazione di operazione inesistente/fraudolenta (l’operazione descritta in fattura non è mai avvenuta nella realtà, configurando una frode o falsa rappresentazione).
Questa distinzione non è solo accademica, ma comporta differenze pratiche notevoli in termini di procedura, onere della prova e sanzioni.
Abuso del diritto (elusione) – Trattamento fiscale
Se l’Agenzia delle Entrate qualifica le fatture a saldo zero come parte di un meccanismo elusivo, essa farà riferimento all’art. 10-bis L. 212/2000. In tal caso: – Procedura: è obbligatorio attivare un contraddittorio preventivo con il contribuente, contestando per iscritto le ragioni per cui si ritiene configurato l’abuso e dando 60 giorni per le osservazioni difensive. Solo dopo potrà essere emesso l’atto impositivo (avviso di accertamento) motivato con l’indicazione specifica dell’abuso rilevato. – Onere della prova: formalmente spetta all’Amministrazione dimostrare la sussistenza di atti, fatti e negozi che, pur rispettando le norme, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Il contribuente può difendersi mostrando che l’operazione aveva valide ragioni extrafiscali non marginali (ad esempio: “ho fatto questo scambio di fatture con la consociata non tanto per risparmiare tasse, ma perché c’era un reale scambio di competenze necessario”; oppure “il consorzio ha trattenuto quella quota perché per legge doveva accantonare una riserva obbligatoria mutualistica”). Se il contribuente dimostra una motivazione economica sostanziale diversa dal vantaggio fiscale, l’abuso non sussiste (art. 10-bis, co.3). – Effetti: qualora l’ufficio confermi l’abuso, disconosce i vantaggi tributari ottenuti. In pratica rifarà i calcoli come se l’operazione non fosse stata posta in essere: ad esempio, negherà la deduzione di un costo o richiederà imposte non versate. Non si applicano sanzioni amministrative né penali (co.13) se il contribuente non ha commesso violazioni diverse dall’abuso stesso. L’importo recuperato è maggiorato di interessi. – Esempio: se il “giro di fatture” tra Tizio e Caio dell’esempio precedente fosse trattato come abuso, l’Ufficio emetterebbe atto verso Tizio riprendendo a tassazione il milione di costo dedotto e liquidando le maggiori imposte IRES/IRAP dovute, più interessi, ma senza sanzione. A Caio forse potrebbe rideterminare la perdita riportabile riducendola di quel milione (così da impedirgli di usarla in futuro). Non scatterebbero denunce penali poiché nessuna legge formale è stata violata, si tratta di riqualificazione di atti reali.
In realtà, va detto che non sempre l’Amministrazione opta per la via dell’abuso. Spesso preferisce contestare direttamente la deduzione come violazione di norma (ad esempio dicendo che il costo non è inerente ex art. 109 TUIR, come in Cass. 1449/2022, o che manca la fattura come da DPR 633/72 nel consorzio, ecc.), il che implica sanzioni. L’abuso è diventato la strada maestra per contestare pianificazioni aggressive quando non c’è un’apposita norma anti-elusiva violata. Nel nostro contesto, se effettivamente c’è stata un’operazione e il Fisco non può negarne la realtà, potrebbe configurarla come abuso se soddisfa le condizioni. Ad esempio, un trasferimento infragruppo di utili camuffato in fatture reciproche è un tipico caso di abuso (essendo una trasformazione di utili in costi deducibili).
Strategie difensive nell’abuso: Il contribuente, come detto, deve puntare a evidenziare le ragioni extra-fiscali dell’operazione. Nell’esempio Tizio-Caio, per difendersi dovrebbe trovare giustificazioni di business: magari Tizio aveva bisogno urgentemente di workforce e Caio gliel’ha fornita (servizio X), e Caio aveva bisogno di una licenza software e Tizio gliel’ha data (servizio Y); il valore uguale potrebbe essere coincidenza o stima, ma si può dire che ciascuno preferiva compensare piuttosto che scambiarsi assegni. Se riesce a far emergere una logica di mutuo beneficio indipendente dalle tasse (difficile ma non impossibile, specie se i servizi sono stati svolti davvero), può sostenere che non c’è abuso perché il principale beneficio non era fiscale.
Se invece la tesi extrafiscale è debole, conviene magari negoziare in sede pre-contenziosa (adesione) per ridurre il danno, tanto non ci sono sanzioni quindi l’importante è minimizzare l’imposta dovuta. Da notare che la circolare Assonime 19/2016 consiglia di valutare l’abuso in casi di consorzi e affini dove prima si sarebbero applicate norme anti-elusive. In giudizio, i tribunali tendono a scrutinare bene l’aspetto della sostanza economica: l’abuso non si applica se l’operazione, pur scomoda, è comunque in linea col normale esercizio d’impresa (la Cassazione, ord. testamentariana 2021, ha escluso l’abuso in casi borderline in cui c’era una giustificazione plausibile).
Frode e operazioni inesistenti – Sanzioni e profili penali
Se invece le fatture a saldo zero sono considerate strumento di frode fiscale, l’impianto sanzionatorio è ben più severo: – Sanzioni tributarie amministrative: Verranno applicate le sanzioni previste dal d.lgs. 471/1997. Per l’IVA indebitamente detratta, la sanzione tipica è il 90% dell’imposta (art. 6, co.6) o 100% se fatture false (in certe interpretazioni anche 90-180%). Per i costi indeducibili portati in dichiarazione, si configura dichiarazione infedele con sanzione dal 90% al 180% della maggior imposta o della differenza di credito (art. 1, co.2). Inoltre, se c’è stata omessa fatturazione di operazioni imponibili (come nel caso consorzio), c’è la sanzione del 100% dell’IVA non documentata (art. 6, co.1). Queste sanzioni si sommano agli importi recuperati più interessi. Non sono importi trascurabili: ad esempio, nel caso Cass. 28735/2022 del consorzio Mz., si parlava di oltre 5 milioni di sanzioni per IVA e altri 20 milioni per irregolarità varie (numeri impressionanti, sebbene riferiti ad annualità molto grandi). – Raddoppio termini: se l’atto configura violazioni penalmente rilevanti (es: utilizzo di fatture false), i termini di accertamento raddoppiano ai sensi dell’art. 12 D.Lgs. 74/2000 (salvo intervenuta prescrizione, questa norma è stata oggetto di modifiche per cui occorre valutare l’epoca del fatto). Quindi il Fisco può andare indietro più anni del normale se c’è reato. – Profili penali: qui sta la maggior preoccupazione. L’emissione di fatture per operazioni inesistenti è punita dall’art. 8 del D.Lgs. 74/2000 con reclusione da 4 a 8 anni (se importo IVA > €100k annui, soglia sotto la quale è 1.5-6 anni, e se <€7.5k irrilevante penalmente). L’utilizzo di fatture false in dichiarazione è art. 2 con stessa pena. Anche la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) potrebbe teoricamente applicarsi se il saldo zero è ottenuto con mezzi fraudolenti diversi dalle fatture (ma raramente, art.3 è più per conti esteri, ecc.). Nell’esempio del giro di fatture di energia, c’era un’indagine penale (citata nel PVC) e infatti la GdF aveva svolto accertamenti, con ogni probabilità per contestare l’art. 2 e 8 al dominus e ai legali rappresentanti . In caso di condanna penale, oltre alle pene detentive, scattano sanzioni accessorie (interdizione da uffici societari, ecc.) e la confisca dei profitti. Per di più, spesso i reati tributari vanno di pari passo con reati societari (false comunicazioni sociali se bilanci truccati) e bancari (se usati per frodare banche). – Esempio penale: due amministratori che si scambiano fatture false da €500k l’uno rischiano, se scoperti, un processo per emissione e utilizzo di false fatture con pene potenziali intorno ai 4-6 anni (dato l’importo sopra soglia).
Quindi la differenza con l’abuso è abissale: nell’abuso il contribuente versa imposte senza sanzioni né casellario giudiziario; nella frode subisce sia sanzioni economiche pesanti che, potenzialmente, l’azione penale.
Difesa nei casi fraudolenti: Non è propriamente oggetto di questa guida entrare nella difesa penale, ma in sintesi il contribuente, in sede tributaria, può cercare di evitare almeno la parte penale convincendo l’Ufficio (e poi il giudice) che si tratta al più di un abuso senza intenti di frode. Talora c’è margine di derubricare la condotta: ad es., se uno prova che la documentazione c’era ma è stata valutata male, potrebbe convincere che non era fattura falsa ma servizio reale seppur sovrastimato (cadrebbe il penale ma resterebbe l’abuso). Viceversa, se gli elementi oggettivi di inesistenza sono forti (es. fornitori cartiere, pagamenti restituiti in contanti, ecc.), la difesa tributaria migliore è magari puntare a errori procedurali dell’accertamento per annullarlo, oppure ottenere il riconoscimento di cause di non punibilità (es. tentare di mostrare che l’evasione era sotto soglia). Anche collaborare (ravvedimento operoso prima della contestazione o adesione dopo) può ridurre la possibilità di procedimento penale, specie per reati borderline.
In generale, quindi, dal punto di vista del debitore/taxpayer è preferibile che la controversia rimanga nell’alveo “elusione/abuso” e non scivoli in “frode fiscale”. Ciò può dipendere molto da come si impostano le cose sin dall’inizio (una piena trasparenza e documentazione fa propendere per l’assenza di dolo fraudolento, anche se poi c’è vantaggio fiscale; segretezza, compiacenze e circolarità estrema fanno pensare subito alla frode). In contenzioso, se c’è ambiguità, spesso conviene proporre in via subordinata la tesi dell’abuso (che toglie sanzioni) rispetto a insistere sulla piena legittimità e rischiare una conferma di frode con sanzioni.
Onere della prova e difesa del contribuente
Un aspetto centrale di ogni contenzioso tributario sulle fatture a saldo zero è la ripartizione dell’onere probatorio e le modalità con cui il contribuente può difendersi efficacemente presentando prove a suo favore. Abbiamo anticipato alcuni principi giurisprudenziali in materia: qui li sistematizziamo per fornire una “mappa” di cosa deve provare il Fisco e cosa invece spetta al contribuente.
L’onere della prova a carico dell’Amministrazione
In linea generale, chi afferma l’inesistenza di operazioni o l’elusività di un negozio deve fornirne dimostrazione. Pertanto: – Se l’Agenzia delle Entrate accusa Tizio di aver utilizzato fatture false (operazioni inesistenti), deve presentare elementi oggettivi o indiziari che facciano seriamente presumere la falsità. Come detto, possono essere prove dirette (es. dichiarazioni di controparti che ammettono la simulazione, documenti che contraddicono la fattura, esito di un’ispezione che trova capannone vuoto quando risultava cessione di merce, ecc.) oppure presunzioni semplici purché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (art. 2729 c.c.). Esempi di presunzioni gravi: – Il fornitore che ha emesso la fattura risulta privo di struttura (es. società amministrata da un prestanome nullatenente, senza dipendenti né beni) e dunque incapace di fornire i beni/servizi fatturati . – I beni fatturati non si trovano da nessuna parte (mancano documenti di trasporto, le giacenze non tornano, ecc.). – I pagamenti risultano anomali (girati su conti esteri e poi tornati in contanti, oppure non sono mai avvenuti senza spiegazione). – Le fatture sono seriali e a specchio con un altro soggetto (tipico dei giri di fatture). – Contrasti logici: es. fattura per “consulenza informatica” a favore di una ditta che però non ha personale qualificato o appare come rivenditore di tutt’altro. Queste presunzioni, se presentate nel loro insieme, possono bastare per spostare l’onere sul contribuente . Infatti, la Corte ha spesso affermato che una volta che il Fisco produce indizi coerenti di non veridicità, spetta al contribuente fornire prova contraria, in caso contrario la frode si considera provata . – Se la contestazione è di abuso/elusione, l’onere è leggermente diverso: l’Ufficio deve evidenziare gli elementi che configurano l’assenza di sostanza economica e la realizzazione di un vantaggio fiscale. Ad esempio: “Società A e B hanno effettuato scambio di fatture X e Y di pari importo lo stesso giorno, senza scambiarsi denaro; tali operazioni, pur formalmente valide, hanno consentito ad A di dedurre X riducendo l’imposta, mentre B non ha effettivo aggravio perché aveva perdite; non risultano ragioni commerciali per tale scambio, se non ottenere risparmio d’imposta”. Questa è la “prova” che deve dare l’Ufficio in ambito abuso. Non è tanto una prova di fatto (la fattura c’è ed è vera magari), ma una prova logica di un disegno elusivo. Basta che la esponga con coerenza e un minimo di riscontri (ad esempio mettendo in luce che i servizi fatturati erano generici o non utilizzati realmente). A quel punto, secondo l’art. 10-bis, l’onere passa al contribuente di dimostrare le ragioni extrafiscali.
Da notare che in giudizio l’onere della prova segue le regole generali del processo tributario: se l’accertamento è motivato su certe prove/presunzioni, il contribuente nel ricorso introduttivo dovrà contestarle puntualmente e magari allegare controprove. Non può limitarsi a dire “il Fisco non ha provato nulla” se in realtà qualcosa ha provato, deve piuttosto smontare o bilanciare quelle prove.
La prova contraria a carico del contribuente
Una volta che l’Agenzia ha assolto il suo onere iniziale (cosa che avviene quasi sempre nelle contestazioni ben fatte, perché gli audit raccolgono elementi), il contribuente per evitare la soccombenza deve dimostrare la legittimità o realtà delle operazioni. Le regole su cosa debba provare si possono riassumere così: – Effettività delle prestazioni: se si sostiene che le fatture erano fittizie, il contribuente dovrà provare che invece la prestazione c’è stata davvero. Come? Innanzitutto con documenti: – Contratti: esibire il contratto o ordine scritto relativo a quella operazione (se esiste). – Documenti di trasporto (DDT), se parliamo di beni: per provare che la merce è stata consegnata. O magari foto, collaudi, certificati di installazione se rilevanti. – Rapporti, documenti di lavoro: se la fattura è per servizi, mostrare relazioni, progetti, disegni, email di interazione, qualsiasi output che testimoni il lavoro svolto. – Testimonianze (in sede penale): nel processo tributario la testimonianza è vietata, ma se c’è anche un procedimento penale, i dipendenti coinvolti o i destinatari finali del bene possono testimoniare che l’attività è stata svolta. Spesso i giudici tributari leggono le sommarie informazioni o deposizioni rese nel penale se agli atti (consentito se già documentali). – Prova finanziaria: far vedere che il pagamento è avvenuto realmente e a condizioni di mercato. Un pagamento tracciato e non restituito è un indizio di genuinità; viceversa assenza di pagamento è un punto a sfavore. Quindi se abbiamo davvero pagato quella fattura, mettere agli atti gli estratti conto. – Inerenza e congruità: provare che quell’operazione aveva per l’azienda un’utilità economica o rientrava nella sua attività. Ad esempio, se contestano che un servizio infragruppo era inutile, portare organigrammi, schede che mostrano come la controllante fornisce servizi centralizzati di norma, evidenza che il costo per quel servizio presso terzi sarebbe stato anche maggiore (per dire che non è gonfiato). – Ragioni extrafiscali: questo se la contestazione è abuso. Occorre dimostrare quale scopo non fiscale si perseguiva. Può voler dire portare verbali del CdA dove si decise quella operazione motivandola, studi di fattibilità, lettere di clienti, ogni cosa che suggerisca che l’operazione rispondeva a esigenze di mercato o organizzative. Ad esempio, nel caso di scambio di servizi tra A e B, si potrebbe portare un piano industriale dal quale risulta che A aveva bisogno di esternalizzare certa attività e B di ampliare il proprio business in quell’area, e hanno deciso di collaborare compensando i valori – se questo c’è, aiuta a sostenere che non fu fatto solo per le tasse. – Buona fede e diligenza: specie se la contestazione riguarda IVA e frodi carosello, è utile mostrare di aver adottato misure diligenti (verifiche sul fornitore, controlli sulla documentazione) per provare che l’azienda non era connivente in eventuali frodi. Se riesce a convincere che fu tratta in inganno (caso di operazioni soggettivamente inesistenti), potrebbe salvare la detrazione IVA se dimostra di non sapere e non poter sapere (dottrina dell’affidamento in buona fede, applicata in ambito IVA comunitario). Per le oggettivamente inesistenti è più dura, perché se non esiste proprio la prestazione, è difficile dire “non lo sapevo” – a meno di errori clamorosi.
La Cassazione ha chiarito che presentare solo fatture, registri e pagamenti non basta, perché quelli possono essere facilmente creati ad arte per far sembrare vera un’operazione falsa . Quindi serve qualcosa in più di ciò che già era nelle scritture aziendali. Ad esempio, portare un preventivo firmato prima della fattura, o una corrispondenza email in cui si pianifica la prestazione, è molto utile: difficilmente chi simula tutto predispone pure la traccia email coerente. Oppure, se si tratta di un cantiere, foto dei lavori eseguiti con date, nominativi del personale presente ecc.
In giudizio, tutto questo materiale probatorio va organizzato e spiegato per bene. Di solito conviene depositare una memoria illustrativa o documento di progetto che colleghi ogni elemento di prova alla sua rilevanza (per guidare il giudice). Nell’esperienza comune, quando un contribuente arriva con dossier dettagliati su come l’operazione si è svolta, se la controparte non ha evidenze forti di falsità, spesso il giudice propenda per la legittimità (anche solo per principio di parità delle armi: se uno porta tanto e l’altro solo sospetti, vince il primo).
Va anche ricordato che l’art. 7 del D.Lgs. 546/92 consente al giudice tributario di disporre consulenza tecnica o ordine di esibizione se ritiene necessario. Quindi, il contribuente può anche chiedere al giudice di nominare un CTU, per esempio, per attestare che la prestazione è stata resa (pensiamo ad un caso informatico: un CTU può analizzare un sistema e dire “sì, il software sviluppato corrisponde a quanto fatturato”). Questo strumento non è usato spessissimo in commissione tributaria, ma in casi complessi potrebbe tornare utile per dare terzietà alla prova.
Riassumendo: – L’Agenzia deve provare la simulazione o l’abuso con indizi solidi. – Il contribuente per difendersi deve provare la realtà e la giustificazione economica delle operazioni, con tutto il ventaglio di elementi possibili (non limitarsi alle sole fatture). – Se la bilancia probatoria pende verso la realtà dell’operazione, il contribuente vince (il costo è deducibile, l’IVA detraibile, ecc.). Se pende verso la fittizietà, vince il Fisco. – In situazioni borderline, potrebbe venire fuori una soluzione “mista”: ad esempio il giudice può ritenere che qualcosa c’è stato ma forse il valore era gonfiato, e allora potrebbe confermare parte delle riprese (in dottrina ci si chiede se è lecito fare proporzioni, ma succede che un giudice dica “ok esisteva, ma valutata troppo, quindi riduco del 50% il costo deducibile”).
Strategie difensive del contribuente
Alla luce di tutto quanto esposto, dal punto di vista pratico del contribuente (società o imprenditore) che si trovi sotto la lente del Fisco per presunte irregolarità legate a fatture a saldo zero, quali strategie e accorgimenti si possono mettere in campo? Affrontiamo il tema distinguendo le fasi: prima dell’accertamento (ossia in sede di verifiche, questionari, ecc.), fase contenziosa (ricorso in Commissione tributaria/Corte di Giustizia Tributaria) e eventuale fase di legittimità (Cassazione).
In sede di verifica e contraddittorio
Molte contestazioni nascono durante una verifica fiscale (ispezione della Guardia di Finanza o accesso dell’Agenzia Entrate) o a seguito di controlli incrociati e questionari. In questa fase preliminare, il contribuente può già difendersi efficacemente e talvolta convincere l’Ufficio a non procedere con un atto formale: – Chiarezza e trasparenza fin da subito: se i verificatori chiedono spiegazioni su operazioni a saldo zero, conviene fornire immediatamente tutta la documentazione e le giustificazioni disponibili. Ad esempio, se vedono fatture incrociate tra società del gruppo, spiegare in dettaglio la ragione (magari allegando il cost-sharing agreement). Se percepiscono collaborazione e vedono prove tangibili, potrebbero convincersi che non c’è dolo. Questo può evitare la segnalazione al reparto accertamento. Naturalmente bisogna dosare: cooperare non significa ammettere inesistenze se non ci sono, né dare più del dovuto (si ha diritto di farsi assistere da un avvocato/consulente in verifica e di rilasciare solo dichiarazioni ponderate). – Memoria difensiva prima del PVC: se la verifica si conclude con un processo verbale di constatazione (PVC) che muove rilievi, il contribuente ha diritto a presentare osservazioni entro 60 giorni (ex art. 12, co.7 L. 212/2000). È cruciale sfruttare questo momento per contestare punto per punto i rilievi sulle fatture a zero, allegando documenti non considerati dalla GdF e argomentando su eventuali errori (es: “il PVC dice che il fornitore era privo di dipendenti, ma ecco un contratto di subappalto con cui il fornitore ha subappaltato a terzi quei lavori – quindi la prestazione è stata eseguita da quei terzi”). La memoria difensiva pre-PVC, se ben fatta, talvolta induce l’Ufficio a non recepire tutti i rilievi nel successivo accertamento, o a ridimensionarli. – Adesione e accordi: se l’ufficio convoca per contraddittorio (nel caso di abuso è obbligatorio, in altri casi può farlo per definire prima del ricorso), valutare la possibilità di un accertamento con adesione. L’adesione è utile se si riconosce qualche torto o si vuole chiudere in fretta riducendo sanzioni (sanzioni ridotte a 1/3). Ad esempio, un consorzio che effettivamente ha omesso autofatture potrebbe concordare col Fisco l’imposta dovuta con minori sanzioni, per evitare cause lunghe e rischio penale. Nell’adesione si può provare a “trattare”: il contribuente porta le sue ragioni e magari ottiene uno sconto (non ufficialmente, ma di fatto l’ufficio può rinunciare a qualche capo se convinto). Importante: se c’è rischio penale, l’adesione con pagamento integrale estingue il reato di dichiarazione infedele (sotto 100k imposta evasa) e riduce le pene per altri reati (circostanza attenuante del pagamento integrale dei debiti prima del dibattimento ex art.13 D.Lgs.74/2000). – Tutela penale: se intanto parte un procedimento penale (se i verificatori fanno comunicazione notizia di reato per false fatture), occorre coordinare la difesa: spesso conviene far seguire il caso da un tributarista e da un penalista insieme. Una mossa può essere chiedere consulenze tecniche di parte o perizie giurate da produrre sia al PM che al Fisco, per dimostrare la sostanza delle operazioni. L’obiettivo è magari far archiviare il penale (se convincente) e poi usare l’archiviazione a supporto nel tributario. Viceversa, se il penale prosegue, le sue risultanze possono influire sul giudizio tributario (anche se formalmente separati, nei fatti le prove raccolte in uno entrano nell’altro).
In sintesi, prevenzione e reazione immediata: non aspettare di arrivare in Commissione tributaria per tirare fuori le prove. Giocare d’anticipo può risolvere o ridurre il problema.
In sede contenziosa (primo e secondo grado)
Se si arriva alla notifica di un avviso di accertamento e quindi al ricorso, la strategia difensiva dovrà essere calibrata su quanto contestato: – Ricorso dettagliato e documentato: nell’atto introduttivo già bisogna mettere tutte le carte in tavola. Elencare ogni vizio di forma (per esempio, se fosse abuso: mancanza di contraddittorio = nullità; oppure difetto di motivazione specifica), ma soprattutto allegare tutte le prove fattuali come documenti. Il ricorso può includere in appendice contratti, DDT, email stampate, perizie, ecc. Meglio “abbondare” (rispettando i limiti di lunghezza degli atti, ma oggi con il processo tributario telematico c’è più tolleranza agli allegati). Come richieste, oltre all’annullamento dell’atto, si può chiedere CTU o ispezione se utile, e audizione in pubblica udienza per chiarire oralmente i punti complessi. – Enfatizzare la giurisprudenza favorevole: citare sentenze come quelle discusse per sostenere le proprie ragioni. Ad esempio, scrivere: “Si rileva che l’Ufficio non ha soddisfatto l’onere probatorio a suo carico, in violazione dei principi espressi da Cass. 20744/2025 secondo cui è necessario provi l’inesistenza con presunzioni gravi ; al contrario, la contribuente ha fornito prova dell’effettività delle operazioni attraverso i seguenti documenti…”. Oppure: “La differenza non ribaltata dal consorzio era costituita da provvigione statutaria, come provato in atti; pertanto, ai sensi di Cass. 28735/2022, non configura ricavo occulto ”. Inquadrare il caso nelle maglie dei precedenti autorevoli dà al giudice la comfort zone per decidere in continuità con la Cassazione. – Chiedere la prova testimoniale (se del caso): Nel processo tributario, come detto, la testimonianza è formalmente vietata. Ma la Legge n. 130/2022 di riforma della giustizia tributaria forse aprirà spiragli (ha delegato il Governo a valutare l’introduzione della prova testimoniale scritta). Per ora, se una prova testimoniale è indispensabile (tipo: un tecnico esterno che conferma di aver eseguito i lavori per conto del fornitore fittizio), una strada è farlo testimoniare nel procedimento penale e poi acquisire quel verbale in quello tributario come prova atipica documentale. Oppure, come a volte accade, farlo parlare in audizione informale se il giudice glielo consente (non trascritta). Questo è un terreno delicato: va valutato caso per caso, magari segnalando nella memoria che esistono persone informate dei fatti disponibili a confermare. – Secondo grado (appello): se in primo grado va male, in appello sarà cruciale correggere eventuali errori. Ad esempio, se il giudice di primo grado non ha valutato un documento, enfatizzarlo subito nell’atto di appello incidentale. Spesso la CTR (ora CGT II grado) è più tecnica, quindi riformare in appello è possibile presentando la questione giuridica in modo robusto. Anche qui, tenere aggiornato il case law: tra primo e secondo grado passano anni, magari esce una Cassazione a sezioni unite risolutiva. Se sì, la si porta all’attenzione del giudice d’appello (anche con memoria integrativa se esce dopo gli atti). – Transazione fiscale? In sede di contenzioso tributario, formalmente non c’è una “transazione” come nel civile, ma è possibile fare acquiescenza parziale o mediazioni per chiudere. Ad esempio, se la materia del contendere è un importo modesto (entro 50mila € di tributi) conviene proporre mediazione tributaria offrendo magari di pagare l’imposta senza sanzioni. L’ente potrebbe accettare se pensa di rischiare di perdere. Anche fuori mediazione obbligatoria, si può sempre trovare un accordo con l’ufficio legale per cessazione della materia del contendere (questo soprattutto se esce una nuova prova o giurisprudenza durante la lite che cambia il quadro: potrebbero rinunciare in appello). L’importante è restare flessibili: difendersi con vigore, ma essere pronti a soluzioni pragmatiche quando opportuno.
In Cassazione (fase di legittimità)
Se si arriva fino alla Cassazione, vuol dire che o il contribuente o l’Agenzia sono rimasti soccombenti in appello e ritengono ci siano questioni di diritto da rivedere. In Cassazione la difesa è più “giuridica”: – Motivi di ricorso mirati: occorre individuare errori di diritto nella sentenza di appello: violazione di legge (es. errata applicazione dell’art. 109 TUIR sull’inerenza, o dell’art. 2697 c.c. sull’onere prova), oppure vizio motivazionale (omesso esame di un fatto decisivo). Non si possono più discutere i fatti in sé (Cassazione non valuta prove, tranne il caso estremo di motivazione inesistente). Dunque la strategia è far vedere che la CTR ha deciso in contrasto con la legge o la giurisprudenza di legittimità. Esempio: “la CTR ha invertito l’onere della prova pretendendo che la società provasse l’inesistenza del disegno elusivo anziché gravare l’AE di provare l’abuso – violazione art.10-bis co.10 L.212/2000”. Oppure: “ha omesso di considerare i contratti X e Y – vizio ex art.360 n.5 c.p.c.”. – Controricorso attento: se si è vinto in appello e ricorre l’Agenzia, bisogna depositare controricorso confutando i suoi motivi e ricordando alla Corte che i giudici di merito hanno accertato certi fatti (per far dichiarare l’eventuale ricorso come inammissibile perché tende a rivalutare i fatti). – Sospensione e definizione agevolata: oggi ci sono spesso norme di definizione agevolata delle liti pendenti in Cassazione (ad esempio condono pagando un tot). Valutare sempre se conviene aderire a queste (specie se si è perso nei gradi di merito e c’è poca speranza). Anche la richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza di appello può essere necessaria se bisogna evitare un pagamento immediato (in tributario di norma la sentenza esecutiva costringe a pagare, salvo garanzia, anche se fai ricorso in Cassazione). – Udienza di discussione: in Cassazione raramente c’è discussione orale (spesso decidono in camera di consiglio). Ma se c’è, l’avvocato deve essere pronto a sottolineare, in pochi minuti, i punti chiave: perché una certa interpretazione va rivista. A volte giova richiamare prassi o principi costituzionali (es. se fosse in gioco legalità, capacità contributiva). Ad esempio, per fatture a saldo zero, si potrebbe fare leva sul principio che non si può tassare una finta capacità contributiva: se nessuno ha guadagnato, sanzionare l’operazione ha senso solo se c’è violazione, altrimenti no – ma qui entriamo nel merito di legittimità (in Cassazione puoi sempre cercare sponda su concetti generali).
Alla fine, se la Cassazione accoglie il ricorso del contribuente, la vicenda può chiudersi (se cassa senza rinvio, ad esempio per vizio di motivazione insanabile) oppure tornare ad un nuovo giudice di appello. In quest’ultimo caso, bisogna rifare il processo di merito tenendo conto dei principi indicati dalla Suprema Corte. Non di rado in questi casi poi la controparte (Agenzia) preferisce transare o lasciar perdere se si trascina da troppi anni.
In ogni caso, l’obiettivo del contribuente sarebbe idealmente di non arrivare fino a lì, risolvendo prima la questione.
Conseguenze delle contestazioni confermate
Se, malauguratamente, le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate dovessero venire confermate (perdendo il contenzioso o rinunciando alla lite), occorre affrontare le conseguenze economiche e giuridiche. Le principali sono:
Recupero delle imposte e interessi
La prima conseguenza è il pagamento delle imposte che erano state ridotte/eluse attraverso le fatture contestate. A seconda dei casi può trattarsi di: – IVA detratta indebitamente: l’importo dell’IVA a credito che il contribuente ha utilizzato viene recuperato. Ad esempio, se ho detratto €50.000 di IVA su fatture poi risultate false, devo restituire €50.000 all’Erario. Se nel frattempo mi erano stati rimborsati, li ridò; se li avevo compensati, quel credito si annulla e devo pagare quell’importo di conseguenza. – Imposte dirette (IRES, IRPEF, IRAP): i costi dichiarati vengono ripresi a tassazione, aumentando il reddito imponibile. Ciò genera un’imposta dovuta aggiuntiva. Esempio: costo fittizio €100.000 dedotto da società con IRES al 24% = €24.000 di imposta recuperata (più eventuali addizionali). Se trattasi di operazione soggettivamente inesistente, può esserci anche recupero ritenute se erano state operate (ma raramente nel nostro contesto). – Altre imposte: ipoteticamente, potrebbero esservi conseguenze su imposte minori, es. IRAP (costi indeducibili aumentano il valore della produzione netta, 3.9% in più), o registro se erano atti registrati ad importo inferiore del reale (ma qui entriamo in altre fattispecie).
Su tutti gli importi di imposta si applicano gli interessi moratori (dal giorno in cui l’imposta sarebbe stata dovuta a quello del pagamento). Il tasso varia per decreto ministeriale periodico. Attualmente è attorno al 4% annuo. Gli interessi possono cumularsi per molti anni data la durata del contenzioso, arrivando anche a incidenze del 20-30% in più se passano 6-7 anni.
In alcuni casi, se l’azienda aveva crediti tributari pendenti, l’Agenzia potrebbe recuperarli in compensazione. Ad esempio, se risulta che avevo un credito IVA in cartella, quell’importo recuperato può essere tolto dal credito.
Sanzioni amministrative tributarie
Accanto alle imposte, come visto vi sono le sanzioni. In sintesi: – Dichiarazione infedele (art.1 d.lgs.471/97): per aver indicato elementi passivi fittizi o in misura superiore al reale. Sanzione base 90% della maggior imposta (se imposta evasa > 5% del dichiarato o > €150k) altrimenti 90% della differenza di credito. Questa si applica su IRES/IRAP evasa. Può salire al 135% in caso di fatture false ex art.2-bis. – IVA indebitamente detratta (art.6, c.6): 90% dell’imposta non spettante. Anche qui può essere aumentata se operazioni inesistenti (spesso applicano direttamente il 90%, ma c’è giurisprudenza che dice si applica art.6 co.6 per indebita detrazione e non il co.1, comunque 90%). – Omessa fatturazione (art.6, c.1): se nel caso consorzio non ha fatturato, 90-180% dell’IVA non documentata. – Emissione fatture false (art.9, co.1): in sede tributaria c’è una sanzione amministrativa anche per chi emette fatture per operazioni inesistenti, pari al 100-200% dell’imposta indicata. Quindi la società emittente potrebbe subire questa oltre al resto (se non coincide col destinatario). – Sanzioni accessorie: se le violazioni sono gravi, può scattare interdizione temporanea da benefici fiscali, sospensione licenza ecc., ma in ambito tributi di solito succede per fatture false in settori tipo carburanti (ex art.12 d.lgs.471/97).
Le sanzioni, se non c’è stato abuso del diritto (che le esenta), possono però essere ridotte in vari modi: – Cumulo giuridico: se un atto contesta più violazioni dello stesso tipo in più anni, c’è di solito la sanzione unificata (es. se facevo fatture false per 3 anni, mi fanno un unico calcolo più grave). – Circostanze attenuanti: ad esempio, collaborazione durante la verifica, pagamento entro i 30gg dall’accertamento (acquiescenza, riduce a 1/3), definizione in adesione (1/3), ecc. – Esimenti: se il contribuente dimostra di aver commesso il fatto per forza maggiore o obiettiva incertezza normativa, le sanzioni possono essere annullate (art.6 d.lgs.472/97). Nell’ambito fatture false, obiettiva incertezza è difficile sostenerla, ma magari in casi di consorzi pre-2016 qualcosina del genere è stato invocato (“non c’era chiarezza se fatturare o no”).
Di norma, se la vicenda arriva a sentenza definitiva, il giudice può anche rimodulare le sanzioni (se l’ufficio non l’ha già fatto) tenendo conto della gravità e di eventuali attenuanti. Ad esempio, può applicare il minimo edittale (90%) invece che il medio (135%).
Va evidenziato che se il contribuente paga spontaneamente in pendenza di giudizio le imposte, ottiene riduzione sanzioni a 1/3, ma rinuncia al contendere. Se invece vuole combattere fino in Cassazione, rischia l’intera sanzione (se perde). Sono scelte strategiche.
Altri effetti: penali, black list, reputazionali
Abbiamo già trattato il penale: in caso di conferma di operazioni inesistenti, se superate le soglie, la sentenza tributaria negativa quasi automaticamente prelude a una condanna penale (specie se si è atteso l’esito tributario come prova). Viceversa, se la contestazione era solo elusiva, non c’è penale.
Un aspetto da considerare è che, per società che operano con la PA o partecipano a gare, l’accertamento di comportamenti elusivi/fraudolenti potrebbe comportare difficoltà reputazionali o di compliance. Ad esempio, essere coinvolti in frodi IVA può portare a finire in liste di operatori a cui fare attenzione, o se c’è una condanna penale, all’interdizione dai pubblici appalti per un certo periodo. Anche i rapporti con le banche possono risentirne (nel caso del trading energia, sembra che usassero proprio le fatture per farsi anticipare denaro dalle banche; una volta scoperto, immaginarsi la reazione delle banche per eventuali profili di truffa).
Dal punto di vista civilistico, se due società hanno fatto un “patto illecito” di scambiarsi fatture false e uno soccombe e paga tutto, potrebbe poi rivalersi civilmente sull’altra per la sua parte (ma essendo un patto illecito, potrebbe non essere tutelato). In intragruppo, magari nessuno fa cause perché è la stessa proprietà, ma tra indipendenti potrebbero nascere contenziosi collaterali.
Insomma, le conseguenze vanno oltre il semplice dover pagare: la credibilità aziendale ne risente, così come i costi (avvocati, tempo perso, possibili sequestri penali di beni aziendali durante le indagini).
Conclusione su conseguenze: evitare pratiche opache conviene anche a prescindere dal rischio fiscale immediato, perché quando vengono scoperte gli strascichi sono lunghi e onerosi.
Domande frequenti (FAQ)
Di seguito una serie di domande e risposte che ricapitolano in forma sintetica i punti salienti riguardo le fatture a saldo zero e la difesa in caso di contestazione:
D: Cosa s’intende esattamente per “fattura a saldo zero”?
R: Si intende una fattura il cui totale da pagare risulta pari a zero. Ciò può avvenire se l’importo dell’operazione è interamente compensato da uno sconto o da un’altra voce (per esempio, fattura di €100 con nota di credito €100 allegata, saldo = 0) oppure nell’ambito di rapporti reciproci in cui le partite di debito e credito si elidono. In pratica è una fattura che documenta un’operazione senza che vi sia un pagamento monetario. Esempi: fattura finale dopo acconti già pagati, riaddebito di spesa già sostenuta, scambio di prestazioni compensate. Formalmente è comunque una fattura (con numerazione, ecc.), solo che non comporta movimento finanziario.
D: È lecito emettere fatture a importo zero?
R: Sì, la normativa IVA non proibisce l’emissione di una fattura con importo netto zero. Ci sono casi legittimi e comuni – ad esempio, come chiarito dall’Agenzia delle Entrate, emettere un documento commerciale/fattura a saldo zero per chiudere una transazione dopo un acconto totale è consentito . Anche in fatturazione elettronica lo SDI accetta importi zero. Tuttavia, queste fatture in genere non hanno rilevanza fiscale (non modificano IVA né reddito). Emetterle “tanto per fare” non ha senso se non per specifiche esigenze gestionali. Quindi le fatture a zero sono possibili, ma raramente necessarie. Vanno invece viste con sospetto quando formalizzano operazioni complesse tra aziende: in quel caso bisogna capire il perché di quel saldo zero.
D: Perché l’Agenzia delle Entrate si preoccupa di operazioni che non generano imponibile (né IVA né reddito)?
R: Perché spesso dietro un’apparenza di neutralità si nascondono fini elusivi o fraudolenti. Ad esempio, due società potrebbero scambiarsi fatture uguali così da far risultare costi fittizi e abbattere il reddito imponibile di una di esse, compensando sull’altra che magari non paga tasse. Oppure possono creare giri di fatture per gonfiare fatturati e ottenere crediti bancari (come nel caso del trading di energia). Pur non emergendo immediatamente un mancato versamento d’imposta, queste pratiche possono costituire evasione differita o potenziale (es. creazione di crediti IVA da chiedere a rimborso). Inoltre violano il principio di veridicità delle scritture contabili. Insomma, il Fisco le attenziona perché spesso sono sintomo di operazioni inesistenti o abuso del diritto. Ciò non toglie che possano esservi casi innocui, ma spetta al contribuente dissipare il dubbio.
D: Quali segnali possono far capire al contribuente che la sua operazione “a saldo zero” potrebbe essere vista come abusiva o fittizia?
R: Alcuni “red flag”: – Se l’operazione non ha una chiara logica economica: ad esempio, scambio di servizi di pari importo senza un motivo commerciale evidente. – Se le controparti sono correlate (gruppo) e l’operazione modifica la distribuzione del reddito nel gruppo (es. sposta utile dalla controllata all’altra). – Se la descrizione in fattura è generica o ripetitiva (“consulenza”, “servizi amministrativi”) e manca documentazione a supporto. – Se non c’è traccia di effettiva esecuzione: niente rapporti, niente consegne, nessun dipendente coinvolto. – Se i pagamenti avvengono con compensazioni atipiche o non avvengono affatto. – Se il beneficio fiscale ottenuto è significativo (es. grande risparmio IRES). In presenza di questi elementi, è probabile che in caso di controllo la domanda arrivi. Meglio prepararsi con giustificazioni o magari evitare di strutturare così le operazioni, se possibile.
D: In caso di verifica fiscale, che prove può chiedere il Fisco per dimostrare che un’operazione è falsa?
R: Può chiedere tutto ciò che aiuta a capire se la transazione c’è stata davvero. Ad esempio: – Contratti, ordini, preventivi relativi alla prestazione. – Documenti di trasporto o di consegna (per beni). – Rapportini, fotografie di avanzamento lavori, collaudi (per lavori o servizi). – Corrispondenza (email, lettere) scambiata con la controparte. – Riscontro di chi ha materialmente eseguito il servizio (dipendenti, subappaltatori). – Prove di pagamento (assegni, bonifici). Può anche incrociare i dati: ad esempio, se ho fatturato consulenza, controlleranno se avevo personale qualificato per farla, o se l’acquirente ne ha tratto beneficio (o se magari parallelamente ne ha pagata un’altra a terzi, segno che la mia era finta). Inoltre possono sentire a verbale rappresentanti o fornitori (la GdF lo fa spesso) per farsi raccontare la loro versione. Il Fisco ha accesso anche ai conti bancari (li chiede con questionario): se vede che il pagamento è stato prelevato in contanti dal fornitore il giorno dopo l’incasso, può sospettare che sia tornato al mittente. Insomma, incastra vari pezzi del puzzle.
D: Se il Fisco mi contesta operazioni inesistenti, io come contribuente cosa devo fornire per difendermi?
R: Devi provare che invece l’operazione c’è stata davvero e non era volta solo a evadere. In pratica: – Mostrare evidenze documentali della prestazione: contratti firmati, documenti di trasporto per merci, report e relazioni per servizi. – Mostrare evidenze contabili e finanziarie: fatture registrate, pagamenti effettuati (bonifici, assegni – meglio se tracciati e non verso paradisi fiscali). – Se possibile, fornire prove terze: ad esempio, la testimonianza di un cliente finale che dice “sì, quella lavorazione l’ha fatta davvero la ditta X per conto di Y”. O un subappalto registrato. – Motivare economicamente l’operazione: perché hai fatto così? Spiegalo in maniera plausibile che non coinvolga “per risparmiare tasse”. Ad esempio: “Abbiamo compensato i debiti perché entrambe le società facevano forniture reciproche mensili, per semplicità abbiamo saldato a fine anno con fattura unica di conguaglio a zero”. – Se vieni accusato di connivenza con una “cartiera” (fornitore fittizio), devi provare la tua buona fede: mostra di aver controllato che avesse partita IVA attiva, magari un DURC regolare, di aver visitato la sede, ecc. Se convinci che sei stato truffato dal fornitore, eviti il penale e forse anche le sanzioni, ma devi comunque sistemare l’IVA (salvo eccezioni UE). In sostanza, devi costruire un dossier che convinca che quell’operazione era autentica e aveva senso. Se ci riesci, hai buone chance di vincere . Se non hai nulla oltre le fatture, sarà dura.
D: Quali sono le sanzioni se l’Agenzia delle Entrate vince la contestazione?
R: Le conseguenze principali: – Pagamento dell’IVA detratta indebitamente (con interessi) e delle imposte sui redditi risparmiate indebitamente, con relativi interessi. – Sanzioni amministrative: generalmente il 90% dell’IVA non spettante e il 90% dell’IRES/IRAP evasa, ciascuna sanzione poi modulata a seconda dei casi (può arrivare fino al 180%). Se fatture false, sanzioni anche per chi le ha emesse (100% dell’IVA). In caso di mancata fatturazione di ricavi, sanzione del 100% dell’IVA non documentata. Sono importi significativi, riducibili se paghi prima o se hai cause attenuanti (es. obiettiva incertezza). – Rischi penali: se si tratta di fatture false sopra le soglie penali (indicativamente false fatture > €1.000 di IVA per l’emittente, o uso di false fatture con imposta evasa > €100k per l’utilizzatore), scatta la denuncia penale. Può portare a processo con pene detentive gravi (fino a 8 anni) per amministratori o responsabili. Anche l’azienda può avere ripercussioni (confisca di beni equivalenti al profitto, esclusione da appalti). Nessun penale invece per condotte puramente elusive (in quel caso solo recupero tasse e interessi). – Altre conseguenze: se l’importo è alto, l’atto diventa esecutivo e l’agente della riscossione può agire su conti e beni aziendali se non paghi. Inoltre, la società finisce in una sorta di “lista nera” interna: future operazioni con essa potrebbero essere monitorate. E come detto, la reputazione verso banche, fornitori, clienti può essere danneggiata. In breve: conviene davvero evitare di arrivare a questo punto, perché si rischia di pagare molto di più di quanto si è “risparmiato” con quelle manovre.
D: Se mi accorgo di aver emesso o ricevuto fatture con possibili problemi, cosa posso fare prima che arrivi il Fisco?
R: È sempre saggio giocare d’anticipo. Alcune azioni possibili: – Ravvedimento operoso: se, ad esempio, hai omesso di fatturare costi a consorziati o hai detratto qualcosa che temi non fosse corretto, puoi spontaneamente regolarizzare: emetti le fatture mancanti, registri un’autofattura tardiva, e versi la differenza d’imposta con sanzioni ridotte (il ravvedimento riduce moltissimo le multe se fatto prima di controlli). Questo in molti casi “sana” la posizione amministrativa, rendendo poi non dovute contestazioni. – Conservare e integrare documentazione: se in passato sei stato leggero nel documentare (es. un contratto solo verbale), magari raccogli ora ciò che puoi: fai dichiarare alle parti coinvolte la realtà dell’operazione (affidavit, scritture private retrodatate non valgono molto ma possono indicare buona fede), raccogli mail, fai foto di opere fatte, ecc. Più materiale hai, meglio potrai rispondere. – Interrompere pratiche dubbie: se stai ancora emettendo quelle fatture incrociate o non fatturando in consorzio, fermati e allineati alla norma. Continuare peggiora solo la situazione (ogni anno in più, altre violazioni). – Consulenza professionale: valuta con un fiscalista esperto se certe operazioni che hai fatto possano essere ristrutturate o spiegate in un interpello. Ad esempio, se è una struttura di gruppo complessa, si può presentare interpello all’Agenzia proponendo una modalità operativa lecita. L’Agenzia risponde e da lì in poi sei tranquillo se segui l’eventuale parere (certo, non ti protegge per il passato). – Transazione di “pulizia”: a volte tra aziende coinvolte conviene fare un atto transattivo che sistemi le partite: ad esempio, se due imprese si erano scambiate fatture inutilmente, potrebbero fare una compensazione finale con riconoscimento di eventuali differenze reali e stendere un verbale per giustificare il tutto. Non cancella il passato, ma se capita un controllo poter mostrare che le parti hanno “messo ordine” e chiarito i rapporti può mitigare l’impressione di frode (mostra che non volevano ingannare il Fisco, magari). In sostanza, meglio auto-correggersi che aspettare l’accertamento: le sanzioni sono minori e si evita il penale (il ravvedimento fatto prima dell’inizio di verifiche esclude la punibilità penale per quei fatti).
D: In un consorzio, come posso evitare contestazioni sulle operazioni infragruppo?
R: Seguendo alcune best practice: – Fattura sempre alle consorziate tutte le quote di costo di competenza loro, anche se ciò significa fatturare importi piccoli. Se ciò non è pratico mensilmente, fallo almeno a fine anno con un conguaglio. – Se trattieni una provvigione sul lavoro che assegni, inserisci chiaramente nei contratti e statuto che c’è una provvigione del X% per l’attività consortile. Così quella differenza è giustificata ed esclusa da IVA (art. 13 DPR 633/72). – Documenta le spese generali: predisponi un budget annuale di costi consortili e ripartiscilo pro-quota ai soci, fatturandolo magari con cadenza periodica come “contributo spese consortili”. – Non generare utili non distribuiti: se a fine anno il consorzio ha comunque un avanzo, decidi in assemblea di restituirlo ai consorziati o scontarlo sui contributi futuri, e metti per iscritto questa decisione. – Tieni la contabilità del consorzio in modo trasparente: evidenzia i conti di giro, i crediti vs consorziati per costi da ribaltare, ecc. Così un verificatore capisce che nulla è occulto, al massimo posticipato. – In caso di dubbi su come fatturare una particolare operazione consortile, valuta un interpello all’AE o consulta un esperto. Meglio chiarire prima che sperimentare soluzioni che poi magari vengono contestate. Seguendo queste regole, riduci tantissimo il rischio di contestazione. E anche se arrivasse, avresti tutte le pezze giustificative pronte per difenderti.
D: C’è differenza tra una fattura a saldo zero tra due società italiane e una tra società di paesi diversi (es. intra-UE)?
R: I principi di base sono simili, ma con società estere entrano in gioco anche le norme sul transfer pricing internazionale e controlli incrociati tra Stati. Se due consociate in paesi diversi si scambiano fatture equivalenti, oltre al fisco italiano potrebbe interessarsi quello estero e l’OCSE. Potrebbe configurarsi un abuso internazionale o una costruzione artificiosa (es. creare fatturato in un paese per sfruttare aiuti, e costi in un altro per risparmiare tasse). L’Agenzia delle Entrate italiana in tal caso potrebbe attivare lo scambio di informazioni con l’estero. Inoltre, se c’è di mezzo l’IVA intracomunitaria, potrebbe essere considerato un carosello UE. In sintesi, il rischio contenzioso è ancora maggiore perché ci sono più giurisdizioni coinvolte. Quindi, ciò che è sconsigliabile in ambito nazionale lo è ancor di più in ambito internazionale. Se proprio devi fare operazioni complesse tra consociate estere, assicurati di avere transfer pricing documentation solida e ragioni di business chiare, altrimenti i problemi si moltiplicano. Comunque le regole discusse (prove effettività, onere prova, ecc.) valgono anche lì, salvo che dovresti difenderti magari davanti ad autorità estere per la parte di loro competenza.
D: Un controllo sul “saldo zero” può partire in automatico dai dati e-fattura o liquidazioni IVA?
R: Sì, teoricamente. Con il Sistema di Interscambio e l’analisi big data, l’Agenzia delle Entrate può individuare schemi ricorrenti di fatture uguali e contrapposte. Ad esempio, se vede che Alfa e Beta si scambiano fatture dello stesso importo nello stesso periodo, un algoritmo potrebbe segnalarlo come anomalia. Così come se un consorzio fattura sempre il 100% ai clienti e incassa, ma non risulta emettere fatture verso i consorziati. Non sappiamo esattamente i criteri interni, ma è plausibile che queste situazioni saltino fuori. Anche il “popolo delle partite IVA” e lo spesometro già in passato evidenziavano situazioni di compensazione. Inoltre, con l’adempimento LIPE (liquidazioni periodiche IVA) il fisco vede se un soggetto ha volume di vendite quasi uguale agli acquisti e magari credito IVA costante: potrebbe approfondire per capire se sta simulando operazioni. Quindi sì, è bene non confidare di passare sotto il radar: l’incrocio automatico di dati diventa ogni anno più raffinato.
D: In conclusione, qual è il consiglio generale sull’uso di fatture a saldo zero?
R: Il consiglio è di usarle solo quando veramente necessario e giustificato, e comunque di documentare tutto minuziosamente. Se servono a formalizzare compensazioni legittime, bene, ma accompagnale con contratti chiari e descrizioni precise. Se stai pensando di usarle come stratagemma fiscale, lascia perdere: l’era digitale rende queste operazioni molto visibili e i rischi (imposte, sanzioni, penali) superano di gran lunga i benefici. Meglio cercare soluzioni di pianificazione fiscale conformi alla normativa (ce ne sono di lecite, come regime di consolidato fiscale, accordi preventivi di transfer pricing, ecc.) piuttosto che costruire castelli di carta di fatture fittizie. In altre parole: transazioni vere, motivate e trasparenti – se poi il saldo economico è zero, non c’è nulla di cui preoccuparsi; ma se il saldo zero è ottenuto con artifici, allora c’è molto di cui preoccuparsi.
Conclusioni
Le fatture a saldo zero rappresentano un tema sfidante nel diritto tributario poiché si collocano sul confine tra lecita gestione economica (in certi casi necessaria e fisiologica) e illecita manipolazione fiscale. Dal percorso svolto in questa guida, possiamo trarre alcune considerazioni finali dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta) che voglia agire correttamente o difendersi da contestazioni:
- Lecito vs illecito – la chiave è la sostanza economica: se un’operazione a saldo zero ha una sostanza reale (un vero scambio di beni/servizi, una vera ripartizione di costi, una funzione oggettiva nell’attività d’impresa), allora, pur destando iniziale attenzione, potrà essere spiegata e difesa con successo. Al contrario, se è stata posta in essere solo per motivi fiscali o, peggio, è solo fittizia, sarà prima o poi smascherata e trattata come violazione. La linea di demarcazione è il principio di inerenza e veridicità: le fatture devono riflettere operazioni vere e inerenti all’attività. Quando così non è, la forma giuridica non regge di fronte alla sostanza (simulata).
- Normativa e giurisprudenza aggiornate offrono riferimenti solidi: negli ultimi anni la Corte di Cassazione ha affinato molto i criteri applicabili a questi casi, delineando oneri probatori e distinguendo chiaramente l’abuso (elusione) dalla frode (evasione mediante inesistenza). Conoscere queste regole – ad esempio l’obbligo per il Fisco di provare le frodi con presunzioni serie , o il diritto del contribuente di dedurre costi infragruppo solo con prova concreta dell’utilità – consente di preparare meglio la propria posizione e, se necessario, di far valere in giudizio i propri diritti sulla base di precedenti autorevoli. La materia è tecnica, ma la giurisprudenza più autorevole (Cassazione Sez. Unite, principi unionali) funge ormai da bussola anche per i giudici di merito.
- Prevenire è meglio che curare: dal punto di vista di imprese e professionisti, il miglior approccio è evitare strutture opache. Se ci si trova in situazioni borderline (ad es. consuetudini di settore di scambi reciproci, pratiche di compensazione interna), conviene confrontarsi con un esperto fiscale e magari regolare contrattualmente tali prassi in modo trasparente. Inoltre, mantenere una documentazione completa di ogni operazione anomala è essenziale: come abbiamo visto, in sede di verifica la differenza tra un’accusa di frode e un chiarimento innocente sta spesso nelle carte che si riescono a esibire. Un archivio ben tenuto di contratti, DDT, relazioni, permetterà di chiarire subito equivoci.
- Difesa coordinata e rigorosa: se scatta l’accertamento, la difesa deve essere affrontata con professionalità, coinvolgendo se necessario competenze multidisciplinari (tributario e penale). Il contraddittorio con l’Agenzia non va vissuto in modo passivo ma come opportunità per presentare il proprio case. E in giudizio, come evidenziato, occorre portare sia argomentazioni giuridiche sia evidenze fattuali solide. L’obiettivo dev’essere mostrare al giudice tributario la storia vera dietro quelle fatture: se si convince il giudice dell’autenticità e ragionevolezza economica, il diritto tributario applicato correttamente porterà all’annullamento della pretesa. Viceversa, se il contribuente arriva impreparato o con spiegazioni fumose, difficilmente otterrà comprensione.
- Impatto delle decisioni finali: la consapevolezza delle conseguenze in caso di esito sfavorevole (imposte, sanzioni, reati) dev’essere da stimolo a impegnarsi a fondo nella fase difensiva. Abbiamo visto come l’esito di un contenzioso su fatture a saldo zero possa variare dal “nessun danno, tutto regolare” al “rovina economica e guai giudiziari”. Questa forbice estrema giustifica il massimo sforzo nel dimostrare la propria posizione e, soprattutto, nel predisporre a monte operazioni che possano essere difendibili con successo.
In conclusione, le fatture a saldo zero non sono di per sé il male assoluto: sono uno strumento che in talune situazioni può avere una logica, ma che è stato spesso abusato a fini illeciti. Il contribuente onesto ha dalla sua parte gli strumenti per giustificare e legittimare tali operazioni (norme, contratti, prassi contabili corrette), mentre chi ne fa un uso distorto troverà oggi un sistema fiscale attrezzato per scoprirlo e sanzionarlo. Dal punto di vista del debitore – sia esso imprenditore, professionista o legale rappresentante – è fondamentale adottare un comportamento prudente e trasparente, e qualora sorga una contestazione, attivare una difesa competente e proattiva. Solo così si potranno affrontare le sfide poste dall’Amministrazione finanziaria su questo terreno avanzato, garantendosi la tutela dei propri diritti e il rispetto del principio di capacità contributiva in ogni fase del rapporto tributario.
Fonti: Le considerazioni svolte sono supportate dalle più recenti sentenze della Corte di Cassazione in materia (Cass. 26374/2023 , Cass. 22435/2016 , Cass. 27918/2022, Cass. 1449/2022 , Cass. 28735/2022 , Cass. 20744/2025 , Cass. 17388/2024) nonché dai principi unionali e dalla normativa domestica (DPR 633/1972 art. 21 c.7 , L.212/2000 art. 10-bis, D.Lgs. 74/2000). Si è inoltre tenuto conto delle indicazioni operative dell’Amministrazione finanziaria e della prassi professionale in materia di controlli fiscali sulle operazioni infragruppo e consortili. Tutto ciò offre un quadro aggiornato ad agosto 2025 delle “fatture a saldo zero” e della loro gestione corretta, con lo scopo di aiutare contribuenti e consulenti a navigare in sicurezza tra esigenze aziendali e rispetto delle norme tributarie.
CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 novembre 2016, n. 22435 – Consorzi – Fatturazione – Mancata fatturazione dei costi sostenuti dal consorzio.
CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 gennaio 2022, n. 1449 – In tema di reddito di impresa, ai fini della deducibilità dei costi infragruppo derivanti da accordi “cost sharing agreements”, non può ritenersi sufficiente l’esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi forniti dalla controllante alle controllate – quali le attività direzionali, amministrative, legali e tecniche – e la fatturazione dei corrispettivi, richiedendosi, al contrario, la specifica allegazione di quegli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio.
Corte di Cassazione sentenza n. 28735 depositata il 4 ottobre 2022 – La causa consortile non è ostativa allo svolgimento, da parte della società consortile, di una distinta attività commerciale con scopo di lucro. Nel caso di differenza tra quanto fatturato dalla società consortile al terzo committente e quanto alla prima fatturato dal consorziato, nel rispetto dei principi certezza, effettività, inerenza e competenza, costituisce onere del consorziato fornire la prova che tale differenza non sia costituita da ricavi, o che la stessa corrisponda a provvigioni o servizi resi dal consorzio al terzo.
Sentenza del 23/09/2022 n. 27918 – Corte di Cassazione.
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Vuoi capire quali sono i rischi e come puoi difenderti?
Le fatture a saldo zero sono documenti emessi per operazioni tra società collegate, consorzi o gruppi imprenditoriali, in cui l’importo viene compensato o azzerato da partite di dare/avere.
Il Fisco spesso guarda con sospetto tali pratiche, ritenendole talvolta strumenti per gonfiare costi, creare crediti IVA fittizi o mascherare operazioni inesistenti.
👉 Non sempre, però, l’accusa è fondata: le fatture a saldo zero possono avere una funzione gestionale legittima se supportate da adeguata documentazione.
⚖️ Perché scatta la contestazione
- Presunzione che la fattura documenti un’operazione inesistente;
- Mancanza di prova della prestazione o della cessione sottostante;
- Compensazioni contabili ritenute prive di reale giustificazione economica;
- Rapporti tra società collegate o consorzi considerati simulati;
- Utilizzo delle fatture per generare indebiti crediti IVA o costi non deducibili.
📌 Conseguenze possibili
- Indetraibilità dell’IVA indicata nelle fatture contestate;
- Indeducibilità del costo ai fini delle imposte dirette;
- Sanzioni fiscali dal 90% al 180% delle imposte recuperate;
- Interessi di mora;
- Nei casi più gravi, procedimenti penali tributari per dichiarazione fraudolenta o utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.
🔍 Come difendersi
- Analizza le fatture contestate: individua le operazioni sottostanti e la loro funzione economica.
- Raccogli la documentazione: contratti, delibere societarie, accordi di compensazione, report interni, corrispondenza commerciale.
- Dimostra la realtà economica dell’operazione: anche senza movimento finanziario diretto, deve esserci una logica gestionale concreta.
- Contesta le presunzioni del Fisco: la fattura a saldo zero non è di per sé illegittima.
- Predisponi memorie difensive o ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza la contestazione dell’Agenzia delle Entrate e le motivazioni alla base;
- 📌 Ricostruisce la realtà economica e gestionale delle operazioni tra società;
- ✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per dimostrare la legittimità delle fatture;
- ⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con il Fisco e nei giudizi tributari e penali;
- 🔁 Suggerisce strategie preventive per la corretta gestione delle compensazioni tra società.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in IVA e fiscalità dei gruppi societari;
- ✔️ Specializzato in contenzioso tributario su fatture contestate e operazioni inesistenti;
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le fatture a saldo zero tra società non sono automaticamente irregolari: possono rappresentare strumenti legittimi di gestione e compensazione interna.
Con una difesa legale mirata puoi dimostrare la sostanza economica delle operazioni, contestare le presunzioni del Fisco e ridurre le sanzioni.
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