Hai lavorato o percepito redditi nel Regno Unito e ti sei trovato a pagare le tasse sia lì che in Italia? Questo fenomeno è noto come doppia imposizione fiscale. Per evitarlo, la Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito consente di utilizzare il credito d’imposta. Tuttavia, errori dichiarativi o interpretazioni restrittive dell’Agenzia delle Entrate possono generare contestazioni.
Quando si verifica la doppia imposizione UK-Italia
– Se sei fiscalmente residente in Italia e hai percepito redditi di lavoro dipendente o autonomo in UK
– Se hai ricevuto dividendi, interessi o plusvalenze da investimenti britannici
– Se hai immobili locati nel Regno Unito e hai dichiarato i canoni anche in Italia
– Se le autorità italiane non hanno correttamente riconosciuto le imposte già pagate in UK
Cos’è e come funziona il credito d’imposta
– Il credito d’imposta consente di scomputare dall’IRPEF italiana le imposte già pagate nel Regno Unito sullo stesso reddito
– Può essere utilizzato entro il limite dell’imposta italiana dovuta sul reddito estero
– Va indicato correttamente nel quadro CE della dichiarazione dei redditi
– Richiede documentazione che provi l’effettivo pagamento delle tasse in UK (certificati HMRC, buste paga, estratti fiscali)
Cosa rischi se non dichiari correttamente
– Doppia tassazione effettiva sullo stesso reddito
– Contestazioni dell’Agenzia delle Entrate per omessa o infedele dichiarazione
– Sanzioni fiscali dal 90% al 180% delle imposte ritenute non versate
– Interessi di mora che aumentano l’importo dovuto
– Diniego del credito d’imposta per mancanza di documentazione adeguata
Come difendersi da una contestazione sulla doppia imposizione
– Dimostrare con certificazioni fiscali UK (HMRC) l’imposta effettivamente pagata
– Richiamare la Convenzione Italia-UK che stabilisce quale Stato ha il diritto prioritario di tassare
– Contestare il diniego del credito quando fondato solo su errori formali nella dichiarazione
– Presentare dichiarazioni integrative per correggere omissioni e far valere il credito d’imposta
– Impugnare l’avviso di accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria se la contestazione è infondata
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la posizione fiscale del contribuente in Italia e in UK
– Predisporre la documentazione necessaria per dimostrare il diritto al credito
– Contestare sanzioni sproporzionate e l’errata applicazione della normativa convenzionale
– Difendere il contribuente in contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e in giudizio
– Assistere nella pianificazione fiscale per evitare futuri problemi di doppia imposizione
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– Il riconoscimento del credito d’imposta e l’eliminazione della doppia imposizione
– L’annullamento totale o parziale della contestazione fiscale
– La riduzione o cancellazione delle sanzioni e degli interessi
– La tutela del patrimonio personale e familiare da pretese indebite
– La possibilità di regolarizzare la posizione fiscale in modo trasparente e sicuro
⚠️ Attenzione: la doppia imposizione UK-Italia non è inevitabile. La Convenzione bilaterale tutela i contribuenti, ma serve una dichiarazione corretta e documentata. Spesso le contestazioni derivano da errori formali che possono essere superati con una difesa tecnica.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale – ti spiega come far valere il credito d’imposta per redditi percepiti nel Regno Unito e come difenderti da eventuali contestazioni dell’Agenzia delle Entrate.
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Introduzione
La “doppia imposizione” fiscale si verifica quando un medesimo reddito viene tassato da due diversi Stati. Nel contesto dei rapporti tra Italia e Regno Unito, questo fenomeno è particolarmente rilevante per i soggetti (persone fisiche e giuridiche) residenti fiscalmente in Italia che producono redditi in UK, o viceversa. Per tutelare i contribuenti ed evitare penalizzanti duplicazioni di imposta, esistono strumenti normativi nazionali e accordi internazionali – in primis la Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito – che permettono di far valere un credito d’imposta per le imposte pagate all’estero e di difendersi da pretese fiscali duplicative.
Aggiornata ad agosto 2025, questa guida approfondisce la normativa italiana di riferimento e la Convenzione Italia–UK (tenendo conto anche degli effetti post-Brexit), con un taglio avanzato rivolto ad avvocati, consulenti fiscali, imprenditori e privati. Verranno analizzati i principali tipi di reddito (dividendi, interessi, lavoro dipendente, pensioni, capital gains, redditi d’impresa, ecc.) evidenziando per ciascuno il trattamento fiscale nei due Paesi, le modalità di utilizzo del credito per le imposte estere e gli strumenti di tutela in caso di contestazioni del Fisco. Il linguaggio utilizzato è giuridico ma divulgativo, per coniugare rigore normativo e chiarezza espositiva.
La guida include domande e risposte frequenti, tabelle riepilogative dei regimi fiscali e simulazioni pratiche in ottica italiana, offrendo esempi concreti di calcolo del credito d’imposta e strategie difensive. Il punto di vista adottato è quello del debitore d’imposta (ossia del contribuente tenuto al pagamento), con particolare attenzione ai diritti del contribuente di evitare o recuperare la doppia tassazione sui propri redditi esteri. Le informazioni e interpretazioni sono supportate da fonti normative e giurisprudenziali aggiornate – incluse recenti sentenze di Corti italiane (Corte di Cassazione e Commissioni Tributarie) e documenti ufficiali – per garantire autorevolezza e aggiornamento.
Normativa di riferimento: Italia e Convenzione Italia–UK
Normativa italiana: In base al principio della worldwide taxation, i soggetti fiscalmente residenti in Italia (persone fisiche residenti ai sensi dell’art. 2 TUIR e società residenti ex art. 73 TUIR) sono tassati in Italia su tutti i redditi ovunque prodotti (principio della tassazione mondiale). Ciò può generare doppia imposizione quando tali redditi sono già stati tassati anche nello Stato estero di produzione. Il rimedio interno principale è l’art. 165 del TUIR (D.P.R. 917/1986), che disciplina il credito d’imposta per redditi prodotti all’estero. In sintesi, se un reddito prodotto all’estero è tassato due volte (all’estero e in Italia), il contribuente può detrarre dalle imposte italiane l’imposta pagata all’estero a titolo definitivo, nei limiti previsti. Il credito spettante è pari al minore tra l’imposta estera effettivamente pagata e la quota di imposta italiana corrispondente a quel reddito estero. La normativa interna prevede inoltre che il reddito estero deve concorrere alla formazione del reddito complessivo in Italia perché sia riconosciuto il credito (art. 165, co.1 TUIR). In altre parole, il credito d’imposta non spetta per redditi che in Italia non vengono tassati in via ordinaria (ad esempio perché soggetti a ritenuta a titolo d’imposta o imposta sostitutiva); più avanti vedremo come la giurisprudenza recente abbia temperato questo principio in presenza di Convenzioni internazionali.
Convenzione Italia–Regno Unito: Italia e UK hanno stipulato una Convenzione contro le doppie imposizioni, firmata il 21 ottobre 1988 e ratificata in Italia con Legge 5 novembre 1990, n. 329. Tale trattato, conforme in larga parte al Modello OCSE, è tuttora in vigore e continua a disciplinare i rapporti fiscali bilaterali anche dopo la Brexit (l’uscita del Regno Unito dall’UE non ha inciso sulla validità del trattato, che è accordo bilaterale). La Convenzione individua quale Stato può tassare le varie categorie di reddito (artt. 6–22) e prevede, all’art. 23, le modalità per eliminare la doppia imposizione. In generale, la Convenzione assegna la tassazione primaria allo Stato di residenza del percettore, ma consente allo Stato di fonte (dove il reddito è prodotto) di applicare un prelievo entro limiti prestabiliti (ritenute alla fonte ridotte su dividendi, interessi, royalty, ecc.). L’eliminazione della doppia imposizione avviene, per i residenti in Italia, attraverso il metodo del credito d’imposta: l’Italia deve detrarre dalle proprie imposte l’imposta pagata in UK su quei redditi, entro il limite dell’imposta italiana relativa a tali redditi (art. 23, par.3 della Convenzione). Lo Stato del Regno Unito, simmetricamente, riconosce un analogo foreign tax credit ai suoi residenti per le imposte pagate in Italia. In alcuni casi particolari la Convenzione prevede la tassazione esclusiva in uno solo dei due Stati, evitando a monte il doppio prelievo (ad es. alcune pensioni, come vedremo).
Di seguito, riassumiamo le aliquote massime di imposizione alla fonte previste dalla Convenzione Italia–UK per alcune categorie chiave di reddito transfrontaliero (pagato da un residente di uno Stato a un residente dell’altro Stato):
- Dividendi: l’imposta nello Stato della società erogante è limitata al 5% dell’ammontare lordo dei dividendi se il beneficiario effettivo è una società che controlla almeno il 10% della società che paga i dividendi; negli altri casi l’aliquota massima è 15%. (Va notato che il Regno Unito, per legge interna, non applica ritenute sui dividendi verso non residenti – salvo eccezioni come taluni dividendi immobiliari – quindi spesso in pratica sui dividendi UK verso l’Italia non vi è ritenuta; resta però importante la previsione convenzionale per dare certezza e per casi particolari).
- Interessi: l’imposta alla fonte non può eccedere il 10% dell’importo lordo degli interessi . (Anche in questo caso, l’UK in diversi casi esenta da ritenuta gli interessi verso non residenti, ma il trattato assicura comunque un tetto del 10%).
- Royalties: l’imposta alla fonte è limitata al 8% dell’ammontare lordo delle royalties .
- Canoni e pagamenti analoghi: equiparati alle royalties, quindi aliquota massima 8%.
- Dividendi di fonte italiana pagati a residenti UK: per completezza, la Convenzione prevede analogamente 5% o 15% di ritenuta in Italia. Dopo la Brexit, l’Italia non applica più l’esenzione da ritenuta UE “madre-figlia” sui dividendi verso società UK, ma applica le aliquote convenzionali (generalmente 5% alle distribuzioni a società controllanti UK e 15% ad altri soggetti). Dal 1° gennaio 2021, dunque, i dividendi pagati da società italiane a società britanniche scontano la ritenuta convenzionale del 5% (in luogo dell’esenzione totale che vigeva intra-UE).
Oltre a fissare queste aliquote, la Convenzione contiene clausole di salvaguardia contro abusi ed evasione e procedure amichevoli di composizione delle controversie (Mutual Agreement Procedure, art. 25). Ricordiamo che ai sensi dell’art. 169 del TUIR le disposizioni delle Convenzioni internazionali prevalgono sul diritto interno in caso di contrasto, essendo norme speciali e successivamente approvate dal Parlamento. Dunque, in presenza di previsioni convenzionali più favorevoli al contribuente (ad es. riconoscimento di un credito d’imposta dove la legge interna non lo darebbe), prevale la Convenzione.
Nei paragrafi seguenti analizziamo categoria per categoria come si applicano queste regole, quali accorgimenti seguire per ottenere il credito d’imposta spettante e come difendersi in caso di doppia tassazione o contestazioni dell’Amministrazione finanziaria italiana.
Dividendi di fonte UK
I dividendi distribuiti da società residenti nel Regno Unito a soggetti residenti in Italia rientrano nei redditi di capitale per il nostro ordinamento. Occorre distinguere tra percettori persone fisiche e società (o enti) perché il regime fiscale interno differisce, così come le modalità di evitare la doppia imposizione.
Persone fisiche residenti in Italia – Dividendi UK
Un contribuente persona fisica fiscalmente residente in Italia che percepisce dividendi da società britanniche è assoggettato in Italia, di regola, a una imposta sostitutiva del 26% sui dividendi esteri (aliquota attualmente allineata a quella sui dividendi italiani). Se il dividendo estero è corrisposto tramite un intermediario finanziario italiano (banca, SIM), viene applicata una ritenuta a titolo d’imposta del 26% sul cosiddetto “netto frontiera”, ossia sull’importo del dividendo al netto delle eventuali ritenute subite all’estero. Se invece il dividendo è percepito senza intermediario (ad esempio accreditato su un conto estero), il contribuente deve indicarlo nella dichiarazione dei redditi ed è soggetto a un’imposta sostitutiva del 26% sull’importo lordo percepito (in tal caso il 26% si applica sull’intero dividendo, potendo poi il contribuente valutare il credito d’imposta). In entrambi i casi, secondo la prassi dell’Agenzia delle Entrate, il prelievo italiano del 26% è considerato “definitivo” e non consente lo scomputo diretto dell’eventuale imposta estera subita, determinando di fatto una doppia tassazione economica, solo parzialmente attenuata nel caso dell’intermediario (dove almeno non si tassa nuovamente la quota pagata all’estero).
Esempio: Tizio, residente in Italia, incassa un dividendo di 1.000 € da azioni UK. Il Regno Unito, in base alla propria legge, non applica alcuna ritenuta (0%). Se Tizio incassa tramite banca italiana, questa trattiene il 26% su 1.000 €, cioè 260 €; Tizio riceve 740 € netti. Se incassa su conto estero, dovrà indicare 1.000 € in dichiarazione e pagare un’imposta sostitutiva di 260 €. In entrambi i casi, la tassazione complessiva è 260 € (26%). – Se invece il dividendo avesse subito una ritenuta alla fonte UK (poniamo 10%, cioè 100 €) – ipotesi teorica, poiché UK usualmente non trattiene – allora tramite banca italiana la ritenuta italiana sarebbe applicata sul netto-frontiera di 900 €, ossia 234 € (26% di 900); Tizio avrebbe pagato 100 € in UK + 234 € in Italia, totale 334 € (pari al 33,4% del lordo, evidenziando una doppia imposizione parziale). Senza intermediario, avrebbe pagato 260 € in Italia sul lordo 1000, oltre ai 100 € in UK, totale 360 € (36%). In assenza di correttivi, maggiore è l’imposta estera, maggiore risulta la tassazione complessiva oltre il 26% italiano.
Il ruolo della Convenzione: La Convenzione Italia–UK stabilisce (art. 10) che i dividendi possono essere tassati sia nello Stato della società erogante (entro il 15% o 5%) sia nello Stato di residenza del beneficiario, prevedendo che quest’ultimo debba eliminare la doppia imposizione mediante il riconoscimento di un credito per l’imposta pagata all’estero. In forza di ciò, molti trattati – incluso quello con il Regno Unito – contengono una clausola secondo cui l’Italia deve concedere ai propri residenti un credito d’imposta pari all’imposta pagata in UK su quei dividendi (nei limiti dell’imposta italiana relativa). Tuttavia, la normativa interna fino a tempi recenti negava tale credito nei casi in cui il dividendo fosse tassato in Italia con ritenuta/imposta sostitutiva. Ne derivava un conflitto tra legge interna (che escludeva il credito perché il reddito non concorreva al reddito complessivo) e legge convenzionale (che invece obbliga a dare sollievo dal doppio prelievo).
Evoluzione giurisprudenziale: La Corte di Cassazione ha risolto questo conflitto a favore del contribuente, con importanti pronunce di orientamento innovativo. In particolare, con la sentenza n. 25698/2022 e poi con la recente sentenza n. 10204/2024, la Suprema Corte ha stabilito che il credito d’imposta per le imposte pagate all’estero sui dividendi spetta in base alla normativa convenzionale più favorevole, anche se la normativa interna (art. 165 TUIR) lo escluderebbe per quei redditi tassati con imposta sostitutiva. Si afferma cioè la prevalenza della Convenzione: se il trattato contro le doppie imposizioni (come quasi tutti quelli stipulati dall’Italia, incluso UK) prevede l’obbligo di evitare la doppia tassazione, l’Italia deve riconoscere il credito d’imposta, “sconfessando lo storico orientamento dell’amministrazione finanziaria” contrario. Questo principio, definito dalla Cassazione “dirompente” per la prassi, è ormai consolidato: la giurisprudenza di merito si sta uniformando (es. Commissioni tributarie di Siena e Verona 2024 citate in Cass. 10204/2024). In pratica, anche un dividendo estero percepito da persona fisica al di fuori dell’esercizio d’impresa può godere del credito d’imposta estero, in virtù della Convenzione, a condizione che il dividendo sia stato effettivamente tassato in UK.
Esempio continuato: Nell’ipotesi del dividendo di 1.000 € con ritenuta UK di 100 €, secondo la Cassazione Tizio ha diritto a detrarre quei 100 € dalle imposte italiane. Se Tizio aveva subito ritenuta italiana di 234 € sul netto frontiera, potrà chiederne il rimborso per la parte che eccede l’imposta netta dovuta dopo il credito. In definitiva pagherà 160 € in Italia (260 € teorici meno 100 € credito) oltre ai 100 € pagati in UK, realizzando una tassazione totale di 260 € (26%) come se non vi fosse doppia imposta. Se aveva già pagato integralmente i 234 €, potrà chiederne 74 € a rimborso. – Analogamente, se avesse dichiarato il dividendo senza intermediario pagando 260 €, ha diritto a recuperare 100 € a credito, versando in Italia solo 160 €. La Cassazione ha ribadito che negare il credito in tali casi comporterebbe una “sostanziale doppia imposizione” in contrasto con le Convenzioni.
Va segnalato che tale orientamento riguarda Convenzioni “meno recenti” come quella con UK (1988) o USA, che non contengono clausole espresse escludenti. Diversamente, alcune convenzioni più nuove potrebbero avere disposizioni ad hoc, ma nel caso UK-Italia la normativa pattizia è favorevole al contribuente. Si consiglia dunque, quando si percepiscono dividendi UK con ritenuta alla fonte, di optare per la tassazione ordinaria in dichiarazione (esercitando la facoltà prevista dall’art. 18, comma 1 TUIR di non avvalersi dell’imposta sostitutiva), così da includere il dividendo nel reddito complessivo e poter scomputare l’imposta estera ex art. 165 TUIR. Qualora si sia già subita la ritenuta italiana a titolo d’imposta tramite intermediario, è possibile presentare istanza di rimborso all’Agenzia delle Entrate per ottenere il credito convenzionale spettante (come nell’esempio, dove Tizio chiederebbe rimborso di 74). In caso di diniego, si potrà ricorrere in Commissione Tributaria, forti delle pronunce di legittimità in materia.
Società italiane e dividendi da società UK
Quando il percettore del dividendo estero è una società (o ente) residente in Italia, si applica il regime di imposizione parziale dei dividendi previsto per i soggetti IRES. In base alla normativa interna, i dividendi provenienti da partecipazioni qualificate (non “paradisiache”) in società estere sono esenti al 95% ai fini IRES (art. 89 TUIR). Ciò significa che solo il 5% dell’importo concorre a tassazione con l’aliquota IRES (24%), risultando un prelievo effettivo molto basso (il 24% del 5% equivale a un’imposizione dell’1,2% sul dividendo lordo). Ad esempio, un dividendo UK di 100.000 € percepito da una SRL italiana comporta l’inclusione di 5.000 € nella base imponibile IRES: l’imposta italiana sarà 5.000×24% = 1.200 €.
In questo scenario, l’eventuale ritenuta subita in UK può risultare superiore all’imposta italiana dovuta su quel dividendo. Ad esempio, se sul dividendo di 100.000 € la società italiana ha subito una ritenuta convenzionale del 5% in UK (5.000 €) – circostanza possibile soprattutto post-Brexit, giacché prima la direttiva madre-figlia UE esentava i dividendi intra-gruppo – allora in Italia avrebbe un’imposta di soli 1.200 €. Il credito d’imposta estero è limitato a 1.200 € (pari all’imposta italiana sul dividendo), lasciando 3.800 € di imposta UK non recuperabile via credito. Si verifica così una doppia imposizione economica: il dividendo sconta il 5% UK non interamente compensato, perché l’Italia non tassa (e quindi non “usa”) la gran parte del dividendo. Questo tipo di problema è noto e ha dato luogo a contenziosi, specialmente in situazioni in cui le società avevano diritto – in base al trattato – a particolari meccanismi di credito.
La Convenzione Italia–UK all’art. 10 par. 4 prevedeva infatti un meccanismo di credito d’imposta sul dividendo per le società controllanti britanniche: in sostanza, una società madre UK che riceve dividendi da controllate italiane ha diritto, oltre all’eventuale riduzione di ritenuta al 5%, a un credito d’imposta che rappresenta una quota dell’imposta italiana pagata sugli utili societari (un sistema di tax credit retaggio del vecchio sistema di imputazione britannico). Tale credito convenzionale mirava ad evitare la doppia imposizione economica societaria. In Italia, questo si traduceva nella possibilità per la società UK di chiedere un rimborso parziale. Cassazione 2313/2020, 20646/2021 e 14624/2023 (confermate da Cass. 18215/2025) hanno statuito che il beneficio del credito d’imposta convenzionale non è escluso nemmeno se la società aveva fruito dell’esenzione da ritenuta ai sensi della Direttiva madre-figlia. In altri termini, la società madre UK può rinunciare ex post all’esenzione UE e optare per l’applicazione del trattato, ottenendo il credito d’imposta sui dividendi, a patto di subire la ritenuta convenzionale del 5% sui dividendi stessi e un’ulteriore ritenuta del 5% sull’importo del credito d’imposta accordato. La logica è quella di assicurare la neutralità fiscale internazionale, evitando che l’uso dell’esenzione UE (0% ritenuta) precluda il recupero dell’imposizione societaria già scontata in Italia sugli utili distribuiti. La Cassazione ha richiamato anche la Corte di Giustizia UE (causa C-389/18 Brussels Securities del 19/12/2019) a sostegno del principio che l’assenza di ritenuta non garantisce automaticamente l’assenza di doppia imposizione economica.
Caso pratico: Una holding inglese ricevette nel 2002-2003 dividendi dalla controllata italiana. La controllata, applicando l’allora art. 27-bis DPR 600/1973 (direttiva UE), non trattenne ritenuta. La holding chiese poi di applicare il trattato: pagando il 5% di ritenuta sui dividendi retroattivamente, rivendicò il credito d’imposta convenzionale. L’Agenzia negò il rimborso della metà del credito, sostenendo che senza imposta pagata non spettasse. La Cassazione (ult. sent. 18215/2025) ha invece dato ragione alla società estera: ha confermato che l’opzione per il credito convenzionale è lecita e cumulabile con l’esenzione UE, e che il credito spetta purché i dividendi e il credito stesso abbiano concorso alla formazione della base imponibile italiana della società percettrice (nel caso di specie, il credito era entrato nel calcolo d’imposta in UK). Ha inoltre chiarito che la società deve accettare la doppia ritenuta del 5% (sui dividendi e sul credito) come previsto dall’art. 10(4)(b) del trattato. In sintesi, dal punto di vista del Fisco italiano, una società estera può ottenere il rimborso parziale delle imposte per evitare doppie tassazioni economiche sui dividendi, anche se in origine aveva goduto della direttiva, purché si applichino integralmente le condizioni del trattato.
Per le società italiane che ricevono dividendi da UK, invece, il problema è l’opposto: spesso non c’è ritenuta UK, quindi nessun credito da utilizzare. Se vi è (p.es. dividendi da UK Real Estate Investment Trusts, soggetti a ritenuta 20% in UK), tale imposta estera eccede quasi sempre l’1,2% dovuto in Italia, generando un credito utilizzabile solo in minima parte. Non vi sono soluzioni convenzionali specifiche per questo (il trattato UK non prevede tax sparing per l’Italia). La pianificazione può consistere nel far sì che la controllata UK distribuisca dividendi ordinari (no ritenuta) e beneficiare della quasi totale esenzione domestica. In alternativa, per evitare del tutto doppie imposizioni su utili di fonte estera, le imprese italiane possono valutare il regime di branch exemption (opzione per esentare gli utili di una stabile organizzazione estera anziché ricorrere al credito – si veda oltre nella sezione redditi d’impresa).
Sintesi operativa: Le società italiane che incassano dividendi UK normalmente non subiscono ritenute estere (0%) e tassano in Italia solo il 5% a 24%. Doppia imposizione assente in pratica. Le società UK che incassano dividendi italiani post-Brexit pagano 5% di ritenuta in Italia e possono ottenere in UK un credito per tale 5% (UK in genere esenta i dividendi in capo a società madre, quindi il 5% italiano diventa un costo se non c’è credito locale; va considerato il regime UK participation exemption). In scenari complessi (imposizioni incrociate, utilizzo di direttive e trattati) è opportuno avvalersi di interpelli o consulenze specialistiche per confermare la spettanza di crediti d’imposta e pianificare la strategia ottimale.
Interessi (redditi di capitale da interessi)
Gli interessi percepiti da fonte UK da un residente in Italia (persona o società) possono anch’essi subire doppia tassazione: ritenuta fiscale in UK e tassazione in Italia. La Convenzione Italia–UK (art. 11) limita la ritenuta britannica al 10% sugli interessi corrisposti a residenti italiani. Spesso il Regno Unito, per normativa interna, esenta gli interessi pagati a non residenti (ad esempio interessi su depositi bancari o su molti titoli), applicando ritenuta solo in casi specifici (es. interessi corrisposti a entità non cooperative o interessi su alcuni strumenti). Se però viene applicata una ritenuta UK, il contribuente italiano ha diritto al credito d’imposta corrispondente.
Persone fisiche: In Italia, gli interessi da investimenti esteri (conti correnti, obbligazioni, prestiti) sono di norma soggetti a ritenuta o imposta sostitutiva del 26%. Come per i dividendi, se incassati tramite intermediario italiano subiscono direttamente il 26% sul “netto frontiera” (interesse al netto ritenuta estera). Se percepiti direttamente, vanno dichiarati nel quadro RL/RT del modello Redditi e tassati al 26% sostitutivo. La Agenzia delle Entrate ha tradizionalmente escluso il credito estero per tali redditi, con la motivazione che il 26% è imposta sostitutiva e il reddito non entra nell’IRPEF. Di nuovo, però, la Cassazione ha affermato che prevale la Convenzione: il divieto di doppia imposizione sancito dagli obblighi internazionali implica il riconoscimento del credito anche se l’interesse è stato tassato in via sostitutiva. Pertanto, un individuo italiano che abbia percepito interessi in UK con ritenuta, potrà optare per la tassazione ordinaria IRPEF (in luogo del 26% se conveniente) al fine di detrarre l’imposta UK, oppure – qualora mantenga il 26% – rivendicare comunque il credito convenzionale. Data l’aliquota IRPEF potenzialmente più alta del 26%, spesso il contribuente preferirà il 26% se l’imposta estera è modesta; ma se l’imposta estera è significativa, conviene valutare l’opzione per recuperarla.
Esempio: Caio, persona fisica residente, ha un bond UK che gli ha fruttato interessi per 1.000 € su cui il pagatore inglese ha applicato 100 € di ritenuta (10%). Se Caio incassa tramite banca italiana, questa trattiene il 26% su 900 € = 234 €. Totale pagato: 100 € UK + 234 € IT = 334 € (~33,4%). Senza convenzione, non recupererebbe i 100 € esteri. Convenzione alla mano, Caio può chiedere 100 € di credito: di fatto, in Italia dovrebbe pagare solo 134 € netti (234-100) affinché il totale resti 234 € (26% del lordo). Se la banca ha già prelevato 234 €, Caio in teoria può presentare dichiarazione e richiedere a rimborso i 100 € eccedenti la sua imposta netta dovuta. – In alternativa, Caio potrebbe dichiarare l’interesse in quadro RL, rinunciando alla ritenuta definitiva: in tal caso 1.000 € entrano nel reddito IRPEF; supponendo un’aliquota marginale del 43%, l’imposta lorda sarebbe 430 €, da cui detrarre i 100 € UK = 330 € netti (33%). Ci avrebbe perso rispetto al 26% fisso. Quindi la scelta dipende dai numeri: il credito estero è utile ma bisogna valutare il regime più favorevole.
Società ed enti: Gli interessi attivi percepiti da una società italiana sono parte del suo reddito d’impresa imponibile IRES (24%). Se la società ha pagato una ritenuta in UK (ad es. su interessi da un prestito a un partner UK), potrà sfruttare il credito d’imposta estero in sede di dichiarazione dei redditi (quadro CE). Il credito è calcolato separatamente per ciascun Paese e tipologia di reddito, ma in generale funziona come visto: detrazione fino a concorrenza dell’imposta italiana su quello stesso reddito. Una società normalmente dichiara l’interesse come ricavo e paga IRES su di esso; l’imposta UK (fino al 10%) potrà ridurre l’IRES dovuta. Se l’interesse è stato tassato anche dall’UK nonostante la Convenzione (magari perché la società italiana non ha fornito in tempo la documentazione per l’esenzione o riduzione), conviene attivarsi per chiedere il rimborso in UK oppure assicurarsi di recuperare via credito in Italia.
Interessi passivi e ritenute in uscita: Per completezza, quando una società italiana paga interessi a un creditore UK, dal 2021 si applica una ritenuta alla fonte italiana (in assenza di direttiva interessi-royalties). Il trattato limita tale ritenuta al 10%. La società pagatrice deve quindi operare, ad esempio, una ritenuta del 10% sull’interesse corrisposto a una banca o società UK, se beneficiaria effettiva e residente fiscale UK. Il percettore britannico potrà poi ottenere un credito d’imposta in UK per la ritenuta italiana subita. Per evitare problemi, il beneficiario UK dovrebbe fornire una certificazione di residenza fiscale, in modo che la società italiana applichi da subito l’aliquota ridotta convenzionale (10%) invece del 26% interno. Allo stesso modo, se una banca italiana paga interessi a un privato residente in UK, la Convenzione consente alla fonte Italia un 10%, ma spesso in pratica le banche applicano zero se ricevono il modulo di residenza estera (perché vari trattati prevedono esenzioni in certi casi, o per redditi di non residenti la norma interna a volte esenta depositi esteri). Nel dubbio, è sempre opportuno presentare la documentazione convenzionale (modulo per applicazione dei benefici del trattato) al sostituto d’imposta.
Royalties e canoni: Pur non espressamente richiesti, sono affini agli interessi. In breve, l’UK potrebbe applicare una ritenuta sui pagamenti di royalties verso l’Italia, anch’essa limitata all’8% dal trattato. In Italia, le royalties attive percepite da soggetti IRPEF sono redditi di lavoro autonomo o d’impresa, da dichiarare; per soggetti IRES sono ricavi d’impresa. Il credito d’imposta estero opera similmente per le imposte estere su tali compensi. Viceversa, se un soggetto italiano paga royalties a UK, l’Italia come fonte preleva il 30% sull’80% del compenso (equivalente a 24% effettivo) salvo trattato: con la Convenzione riduce all’8%. Anche qui, il beneficiario UK chiederà credito in patria per la ritenuta italiana. Dopo Brexit, la direttiva UE che aboliva ritenute su royalties tra società consociate non si applica, dunque è fondamentale invocare la Convenzione per limitare il prelievo italiano all’8% .
Redditi di lavoro dipendente
Il trattamento dei salari e stipendi dipende dalla residenza fiscale del lavoratore e dal luogo in cui l’attività lavorativa è svolta. La Convenzione Italia–UK ricalca il modello OCSE: in generale, lo Stato in cui il lavoro è svolto ha il diritto di tassare il reddito da lavoro dipendente (Stato della fonte), mentre lo Stato di residenza fiscale del lavoratore tassa il reddito mondiale ma deve evitare la doppia imposizione tramite credito d’imposta. Fanno eccezione i casi di breve durata: se un residente italiano lavora in UK per un periodo non superiore a 183 giorni nell’anno e il compenso è pagato da un datore di lavoro non residente in UK (senza stabile organizzazione in UK), allora si applica la clausola di esenzione: il reddito resta imponibile solo in Italia (nessuna tassazione UK). Questa regola dei 183 giorni è prevista dall’art. 15 par.2 del trattato, in linea col modello OCSE.
Vediamo alcune situazioni pratiche:
- Lavoratore residente in Italia distaccato/soggiornante in UK: Se l’italiano si trasferisce temporaneamente in UK per lavoro e supera le condizioni di esenzione (ad es. resta in UK più di 183 giorni, oppure è pagato da una società inglese o a carico di una filiale UK), allora i suoi salari saranno tassati in UK. Essendo ancora residente fiscale in Italia (se non si è iscritto all’AIRE e non ha trasferito la residenza), dovrà dichiarare anche in Italia quei redditi esteri. L’Italia concederà il credito per le imposte pagate in UK, evitando la doppia imposizione (art. 23, co.3 Convenzione). In pratica, il lavoratore pagherà eventualmente la differenza se l’imposta italiana sul reddito eccede quella britannica. Se invece l’imposizione UK è maggiore, il credito copre solo fino all’ammontare dell’imposta italiana, e il surplus UK resta non compensato (a meno di eventuali rimborsi UK se previsti). È fondamentale che il lavoratore raccolga la documentazione delle imposte pagate in UK (buste paga con PAYE, annual tax summary, ecc.) per poter richiedere il credito.
- Lavoratore residente in UK dipendente di azienda italiana: Questo caso è frequente con italiani che si trasferiscono nel Regno Unito per lavoro, magari mantenendo un rapporto con una società italiana. Se il lavoratore diventa residente fiscale UK (iscrivendosi all’AIRE, vivendo stabilmente lì), il suo centro degli interessi si sposta e in Italia diventa non residente. A quel punto, l’Italia non dovrebbe tassare i redditi esteri non prodotti in Italia. Tuttavia, potrebbero sorgere complicazioni se il datore di lavoro italiano applica ritenute in Italia come se il dipendente fosse residente. La Cassazione è intervenuta proprio su un caso di un italiano residente a Londra, dipendente di una società italiana, che aveva pagato imposte in UK sulle sue retribuzioni e subìto anche ritenute in Italia dal datore di lavoro italiano. La Suprema Corte (sent. n. 25424/2024) ha chiarito che, in presenza di Convenzione, la nazionalità italiana del datore di lavoro è irrilevante: se il reddito da lavoro è stato tassato nello Stato estero di residenza del lavoratore (UK), non può essere nuovamente tassato in Italia. Ha quindi riconosciuto il diritto del contribuente al rimborso delle ritenute italiane indebitamente subite. In sostanza, per i lavoratori italiani all’estero, la Convenzione prevede che “se il reddito è stato assoggettato a imposizione nel Paese estero di residenza del lavoratore, gli stessi importi non debbano essere nuovamente tassati in Italia, Paese di cittadinanza”. Questo principio vale indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro sia italiano o inglese.
- Nota: Per usufruire di tale beneficio, il lavoratore deve provare la propria residenza fiscale estera e che il reddito è stato ivi tassato. Nel caso citato, la Cassazione ha notato che il contribuente aveva presentato il certificato di residenza UK e l’opzione per la tassazione in UK, adempiendo all’onere probatorio. È importante quindi, per i lavoratori espatriati, fornire al proprio datore di lavoro la documentazione di residenza estera (il cosiddetto certificato di residenza fiscale convenzionale) per evitare che vengano operate ritenute in Italia. L’Agenzia delle Entrate italiana, con la Risoluzione n. 172/E del 2023, ha del resto confermato che le retribuzioni di un residente UK (anche se cittadino italiano) per lavoro svolto in UK non sono imponibili in Italia, invitando l’azienda italiana a non effettuare ritenute se il dipendente dimostra la residenza estera in base alla Convenzione.
- Lavoratore in trasferta breve (<183 giorni): Se un residente italiano viene mandato in UK per alcuni mesi (es. 6 mesi) da datore italiano e la retribuzione rimane a carico di quest’ultimo senza PE in UK, allora per la Convenzione la tassazione spetta solo all’Italia (il reddito rimane imponibile esclusivamente in Italia, ex art. 15(2)). In UK il lavoratore può essere esentato da imposizione presentando un’apposita richiesta (in genere il modulo attestante che le condizioni del trattato sono soddisfatte). L’Italia ovviamente tassa normalmente, senza dover dare crediti in quanto UK non preleva nulla.
- Lavoratore frontaliero o multi-stato: Non è di stretta pertinenza UK (non esistono “frontalieri” data la distanza geografica), ma se un soggetto lavora parte dell’anno in Italia e parte in UK, bisogna applicare la ripartizione convenzionale per ciascun periodo.
Crediti d’imposta e compliance: Un residente italiano che abbia pagato imposte in UK sul proprio stipendio (perché ha lavorato colà) deve ricordarsi di indicare il reddito estero in dichiarazione dei redditi italiana, nel quadro RC (redditi di lavoro dipendente) e di compilare la sezione del quadro CE/CR per calcolare il credito d’imposta spettante. Il credito sarà pari all’imposta UK pagata (documentata da P60, P45, tax return UK, ecc.) ma non oltre l’IRPEF italiana relativa a quel reddito. Se, per esempio, l’imposta UK è stata di 5.000 € e l’IRPEF italiana calcolata sul reddito UK è 6.000 €, l’Italia detrae 5.000 € e riscuote la differenza (1.000 €). Se invece l’imposta UK fosse 7.000 € a fronte di 6.000 € di IRPEF, il credito si ferma a 6.000 € (nessuna imposta aggiuntiva dovuta in Italia, ma resta un 1.000 € pagato in UK non recuperabile). In tali casi estremi, talvolta si può valutare la possibilità di chiedere un rimborso in UK per l’eccedenza (ad esempio tramite le procedure di Mutual Agreement tra Stati, se la doppia imposizione non è adeguatamente eliminata – si veda la sezione difesa).
Caso particolare – lavoratori italiani non iscritti AIRE: È prassi che molti lavoratori emigrati tardino ad iscriversi all’AIRE, risultando formalmente residenti in Italia per l’anagrafe. L’Agenzia delle Entrate può in questi casi contestare l’omessa dichiarazione dei redditi esteri e richiedere la tassazione integrale in Italia. Fino a poco tempo fa, questo comportava un temuto effetto sanzionatorio: l’art. 165, comma 8 TUIR negava il credito d’imposta estero se il reddito non era stato dichiarato (o se la dichiarazione era omessa). Ciò significava che un lavoratore non AIRE, pur avendo pagato tutte le tasse in UK, se scoperto veniva tassato di nuovo in Italia senza scontare nulla, subendo così una doppia imposizione integrale oltre alle sanzioni. La Cassazione ha censurato questa impostazione: vedi oltre nella sezione “Come difendersi”, dove analizziamo le sentenze che hanno dichiarato inoperante la decadenza dal credito in caso di omessa dichiarazione.
Redditi da pensione
La tassazione delle pensioni tra Italia e Regno Unito è disciplinata dall’art. 18 della Convenzione, che distingue tra pensioni private e pensioni pubbliche, con attenzione anche alla cittadinanza del beneficiario.
- Pensioni di natura “privata” (previdenza complementare o pensioni da lavoro privato): La regola generale dell’art. 18(1) è la tassazione esclusiva nello Stato di residenza del beneficiario. Ciò significa che una pensione erogata da un ente britannico a un residente italiano è tassata soltanto in Italia (e viceversa, una pensione erogata da INPS a un residente UK è tassata solo in UK), salvo diverse disposizioni. Questa previsione – non presente in tutte le convenzioni, ma in molte sì – evita in radice la doppia imposizione: solo il Paese di residenza preleva l’imposta. Dunque un pensionato italiano residente in Italia, che percepisce una pensione privata britannica (es. da un fondo pensione occupazionale UK), dovrà dichiararla e tassarla in Italia secondo le nostre aliquote IRPEF, mentre il Regno Unito dovrà astenersi dal tassarla (può però essere necessario per il pensionato farsi riconoscere l’esenzione in UK fornendo prova di residenza italiana, ad esempio tramite il modulo convenzionale). Simmetricamente, un cittadino britannico residente in UK che percepisce una pensione privata dall’Italia la dichiarerà solo in UK.
- Pensioni pubbliche (governative): L’art. 18(2) della Convenzione prevede un regime diverso. In generale (sub-paragrafo (a)), le pensioni pagate da uno Stato o suddivisione politica per servizi resi a detto Stato (tipicamente pensioni di ex dipendenti pubblici, militari, funzionari) sono imponibili esclusivamente in quello Stato fonte. Ad esempio, la pensione di un ex insegnante statale italiano residente in UK sarebbe, di regola, tassata solo in Italia (Stato erogante). Tuttavia, sub-paragrafo (b) introduce un’eccezione: se il beneficiario della pensione pubblica è un residente dell’altro Stato che ne possiede la cittadinanza, allora si applica la tassazione esclusiva nello Stato di residenza del pensionato. In altre parole, la cittadinanza del beneficiario può spostare l’imposizione sulle pensioni pubbliche verso lo Stato di residenza. Questo evita discriminazioni verso i cittadini dell’uno o dell’altro Paese.
- Esempio: Mario, ex dipendente pubblico italiano in pensione, si trasferisce a Londra ed acquista anche la cittadinanza britannica (oltre a quella italiana). La sua pensione pubblica italiana, secondo la regola (a), sarebbe tassabile solo in Italia; ma poiché Mario è ora cittadino anche del Regno Unito (suo Stato di residenza), si applica l’eccezione (b) e la pensione diventa imponibile esclusivamente nel Regno Unito. L’Agenzia delle Entrate ha confermato questo nella Risposta a interpello n. 172/2023: un soggetto con doppia cittadinanza Italo-britannica residente in UK, percettore di pensione per lavoro pubblico svolto in Italia, è tassato esclusivamente in UK. Viceversa, un cittadino solo britannico residente in Italia con pensione pubblica UK sarà tassato solo in UK, a meno che non acquisisca la cittadinanza italiana (nel qual caso la tassazione passa solo all’Italia).
- Pensioni INPS e previdenza obbligatoria: Le pensioni da lavoro privato erogate dall’INPS a residenti UK rientrano nell’art. 18(1) (private pensions), quindi tassabili solo in UK (residenza). Infatti, l’INPS non dovrebbe applicare ritenute IRPEF se il pensionato è iscritto AIRE e residente in UK, in base alla Convenzione. Se per caso fossero state applicate (magari per mancata comunicazione dello status estero), il pensionato può chiedere rimborso in Italia. Simile discorso per pensioni UK a residenti Italia: HMRC può rilasciare un’esenzione su richiesta (modulo DT/Individual), così che la pensione venga pagata senza ritenute e il residente italiano la dichiara e tassa interamente in Italia.
- Trattamento fiscale italiano: Una pensione estera percepita da residente in Italia viene equiparata a una pensione italiana e tassata con le aliquote progressive IRPEF, al netto delle detrazioni per redditi da pensione. Il credito d’imposta estero di solito non entra in gioco per le pensioni, perché se la Convenzione dà tassazione esclusiva all’Italia non c’è imposta estera da accreditare; se dà tassazione esclusiva all’estero (caso pensioni pubbliche senza cittadinanza locale), allora l’Italia non tassa affatto quel reddito. Tuttavia, situazioni di doppia imposizione possono sorgere se: a) la Convenzione non fosse applicata correttamente da uno Stato (es. un pensionato privato tassato in entrambi erroneamente); b) o in periodi di transizione della residenza. In tal caso, il credito art. 165 TUIR verrebbe in soccorso.
- Lavoro dipendente vs pensione: Da notare che la definizione di pensione convenzionale riguarda somme pagate dopo cessazione del rapporto di lavoro. Se un soggetto percepisce, ad esempio, una “lump sum” o trattamento di fine servizio da un fondo estero, bisognerà vedere se rientra in pensioni o in altri redditi secondo il trattato (spesso le lump sum seguono il regime delle pensioni). In genere, le liquidazioni attinenti a lavoro pubblico godono delle stesse regole delle pensioni pubbliche.
Caso pratico: John, cittadino britannico, vive in Italia dal 2022 (residente fiscale) e percepisce una pensione statale UK (ex dipendente pubblico britannico). Non avendo cittadinanza italiana, la Convenzione (18(2)(a)) dice che la pensione è tassata solo in UK. John infatti continua a pagare le imposte su di essa in UK (dove magari gode anche di una soglia esente) e in Italia non deve dichiararla. Se invece John ottenesse la cittadinanza italiana, scatterebbe 18(2)(b): pensione tassabile solo in Italia; John dovrebbe allora far cessare la tassazione UK presentando documentazione, e iniziare a dichiararla in Italia (dove forse, essendo pensione estera governativa, godrebbe dell’esenzione perché ora trattata come pensione italiana? Su questo punto, va detto che molte convenzioni hanno proprio l’effetto di equiparare il trattamento a quello interno – in Italia le pensioni estere di fonte pubblica diventano imponibili se il beneficiario è italiano). In ogni caso, per chi riceve pensioni estere è cruciale valutare la Convenzione e la propria cittadinanza per capire dove pagherà le tasse.
Convenzione vs legge nazionale: In mancanza di convenzione, l’Italia tende a tassare comunque le pensioni estere dei residenti (con alcuni crediti se c’è reciprocità). Ma con la Convenzione UK, le regole sono chiare e vanno fatte valere. Si suggerisce ai pensionati esteri residenti in Italia di utilizzare i moduli di richiesta di esenzione/riduzione ritenute presso l’ente pensionistico estero, spesso predisposti dalle autorità fiscali (es. Modello DT-Individual per pensioni UK, che attesta la residenza italiana e chiede l’applicazione del trattato).
Capital gains e plusvalenze
Le plusvalenze (capital gains) su beni patrimoniali possono anch’esse subire doppia imposizione internazionale. La Convenzione Italia–UK contiene l’art. 13 dedicato alle plusvalenze, il quale in linea generale segue il modello OCSE:
- Immobili: le plusvalenze derivanti dalla vendita di beni immobili sono tassabili nello Stato dove l’immobile è situato. Quindi la vendita di una proprietà immobiliare sita in UK da parte di un residente italiano può essere tassata dal Regno Unito. Dal 2015 il Regno Unito infatti tassa anche i non-resident sui capital gains immobiliari (con aliquota tipica 28% sulle seconde case). L’Italia, come Stato di residenza, tassa potenzialmente la plusvalenza (se l’immobile estero è ceduto entro 5 anni dall’acquisto, analogamente agli immobili italiani) e deve riconoscere un credito per l’imposta pagata in UK. Nella pratica, però, l’Italia spesso non tassa plusvalenze su immobili detenuti da più di 5 anni (esenti ex art. 67 TUIR) – scenario comune per le case. Se l’immobile UK era detenuto da lungo tempo, l’Italia non avrà prelievo e il problema si riduce a chiedere all’UK eventuali esenzioni per non residenti (che comunque sono limitate). Se invece la vendita avviene entro 5 anni e genera tassazione in entrambi i Paesi, l’Italia detrae il pagato in UK fino a concorrenza della propria imposta.
- Esempio: Luigi, residente italiano, vende dopo 3 anni un appartamento a Londra con una plusvalenza di 100.000 €. UK preleva 28% = 28.000 €. In Italia, Luigi deve dichiarare la plusvalenza (considerata reddito diverso) e viene tassato IRPEF su 100.000 € (aliquota dipendente dal suo scaglione, poniamo 43% = 43.000 €). L’Italia gli riconoscerà un credito per i 28.000 € versati all’HMRC. Luigi quindi pagherà ulteriori 15.000 € in Italia (43.000 – 28.000). Risultato: tassazione complessiva 43.000 (pari all’aliquota più alta tra le due). Se la situazione fosse invertita (imposte UK > italiane), l’Italia si accontenterebbe dell’importo pari alla sua imposta e Luigi dovrebbe eventualmente chiedere il rimborso in UK per eccedenza, oppure considerarla tassazione definitiva estera non recuperabile.
- Plusvalenze su partecipazioni societarie: la Convenzione prevede solitamente che le plusvalenze derivanti dalla cessione di azioni o quote siano tassabili solo nello Stato di residenza del cedente, ad eccezione di quelle relative a società il cui attivo è costituito principalmente da beni immobili (c.d. property rich companies). Molti trattati più recenti includono questa eccezione immobiliare, ma nel 1988 non era standard: bisognerebbe controllare il testo, ma è probabile che la Convenzione Italia-UK del 1988 non contenesse la clausola “immovable property companies” (perché introdotta nel modello OCSE 2003). Se così, le plusvalenze da cessione di azioni di una società UK dovrebbero essere tassate solo in Italia (residenza del venditore), salvo il caso di una stabile organizzazione. In pratica, il Regno Unito fino a poco tempo non tassava i non residenti sulle plusvalenze su azioni, ad eccezione dal 2019 delle plusvalenze su partecipazioni sostanziali in società UK detenute da soggetti di paesi senza trattato (regola anti-elusione). Con l’Italia c’è il trattato, quindi l’UK generalmente non tasserebbe un italiano che venda azioni di società UK (tranne potenzialmente immobiliari se considerato possibile). D’altra parte, l’Italia potrebbe tassare: se la partecipazione è non qualificata, la plusvalenza è soggetta all’imposta sostitutiva del 26%; se è qualificata (regime previgente al 2018), parte della plusvalenza era imponibile IRPEF. Dal 2019 l’Italia equipara plusvalenze su partecipazioni qualificate e non: tutte tassate al 26% per le persone fisiche. Le società italiane che cedono partecipazioni in società estere possono spesso beneficiare della PEX (esenzione 95% se requisiti art. 87 TUIR), quindi plusvalenza quasi esente. Morale: raramente c’è doppia imposizione su plusvalenze mobiliari, perché uno dei due Stati esenta. Se per ipotesi vi fosse (es. società italiana vende un immobile situato in UK: plusvalenza tassata in UK come immobile e in Italia come reddito d’impresa se non PEX), allora di nuovo il credito art. 165 e il trattato risolveranno.
- Altri redditi diversi: Gli articoli convenzionali attribuiscono al solo Stato di residenza le imposizioni su plusvalenze che non siano immobili o bene d’impresa (ad esempio, vendita di beni mobili). Quindi, se un collezionista italiano vende a Londra un’opera d’arte, quell’eventuale guadagno sarà tassato solo in Italia (se imponibile per la nostra legge).
In sintesi, per i capital gains il credito d’imposta trova applicazione essenzialmente sulle plusvalenze immobiliari. In tali casi, è importante determinare correttamente il cost basis secondo entrambe le leggi e pagare l’imposta estera entro la data della dichiarazione italiana, perché solo le imposte estere pagate a titolo definitivo entro il termine dichiarativo sono accreditabili immediatamente (altrimenti il credito può slittare). Se, come spesso accade, la tassazione estera avviene dopo (es. vendita a fine anno e pagamento imposta UK l’anno successivo), è previsto che il credito possa essere fruito nella dichiarazione del periodo di pagamento definitivo, evitando decadenze.
Redditi d’impresa e stabili organizzazioni
Quando un imprenditore italiano trae redditi dall’attività in UK, o viceversa, occorre individuare se esiste una stabile organizzazione (permanent establishment, PE) nel Paese estero. La presenza di una stabile organizzazione implica che i profitti ad essa attribuibili sono tassabili nello Stato estero (art. 7 Convenzione) e contemporaneamente – in assenza di esenzioni – nel Paese di residenza della casa madre, con obbligo di eliminare la doppia imposizione.
Imprese italiane con attività in UK: Se una società italiana opera in UK tramite una sede fissa d’affari (ufficio, succursale, cantiere oltre 12 mesi, ecc.) o un agente che configura una PE, i profitti di tale stabile organizzazione saranno tassati dall’UK (aliquota società UK attualmente 19% fino al 2022, poi 25% dal 2023 per grandi imprese). L’Italia, per evitare la doppia tassazione su quegli utili, può adottare due metodi, a seconda della Convenzione e della normativa domestica: esenzione o credito. La maggior parte delle Convenzioni italiane recenti utilizza il metodo del credito d’imposta (l’Italia tassa gli utili mondiali e poi detrae l’imposta estera pagata). Alcune convenzioni prevedono l’esenzione per i profitti di PE (ad esempio quella con la Svizzera). La Convenzione Italia–UK, come detto, richiede all’Italia di concedere un credito d’imposta (metodo creditizio), quindi formalmente l’Italia include i redditi della stabile organizzazione UK nel bilancio imponibile dell’azienda italiana e poi detrae l’imposta societaria pagata in UK. Tuttavia, dal 2016 l’Italia ha introdotto per le imprese la facoltà di optare per il regime di branch exemption (art. 168-ter TUIR): in tal caso, l’azienda comunica all’Agenzia Entrate l’opzione e da quel momento tutti i redditi (e perdite) delle sue stabili organizzazioni estere vengono esclusi dalla tassazione italiana. Se una società ha optato per branch exemption e ha un ufficio in UK, gli utili generati da quell’ufficio saranno tassati solo in UK (aliquota UK) e totalmente esenti in Italia; parimenti, non potrà dedurre perdite estere. È un regime opzionale “tutto o nulla” per tutte le branch all’estero. Dunque, per evitare la doppia imposizione su redditi d’impresa UK esistono due vie: l’approccio tax credit tradizionale (detrarre il 19-25% pagato all’HMRC dall’IRES 24% italiana) o l’approccio branch esenzione (non tassare affatto in Italia). Quest’ultimo conviene se l’aliquota estera non è troppo inferiore a quella italiana, per non perdere imponibile negativo. Nel caso UK, con aliquote comparabili, molte multinazionali italiane hanno adottato la branch exemption su filiali inglesi, semplificando la gestione fiscale.
Esempio: Alfa S.p.A. ha una stabile organizzazione a Manchester. Nel 2025 la branch realizza 1 milione € di utile e paga 190k € di corporation tax UK (ipotizzando 19%). Se Alfa non ha optato per branch exemption, dovrà includere quell’utile nel suo imponibile mondiale: IRES teorica 240k € (24%). Avrà diritto a un credito per i 190k € pagati in UK, quindi pagherà in Italia ulteriori 50k € per raggiungere il 24% complessivo. Se invece Alfa aveva la branch exemption, non include affatto il milione nei suoi redditi: paga 0 € in Italia su quell’utile, e resta solo la tassazione 19% UK. Nel primo caso, totale imposizione ~24% (sommando i due Paesi), nel secondo ~19%. La differenza di 5 punti è l’importo che, col credito, l’Italia ha “integrato” per arrivare alla propria aliquota. Si noti che se le aliquote fossero invertite (es. paese estero con tassa 30%), il credito italiano si fermerebbe al 24% e il restante 6% sarebbe doppia imposizione economica: scenario in cui la branch exemption sarebbe preferibile perché lascerebbe tutto al 30% estero ma evitando di tassare al 24%. L’opzione va ponderata caso per caso.
Imprese UK con attività in Italia: Simmetricamente, un’azienda britannica con stabile organizzazione in Italia pagherà le imposte (IRES 24% + eventuale IRAP ~3.9%) in Italia sui redditi della sede italiana, e il Regno Unito dovrà evitare doppia imposizione riconoscendo un credito per le imposte pagate in Italia. Dopo Brexit, non c’è più la direttiva UE madre-figlia o interessi-royalties a influenzare questo meccanismo, per cui si segue strettamente il trattato. Il UK in generale concede credito d’imposta estero ai suoi soggetti sui profitti tassati all’estero. In alcuni casi, il UK potrebbe applicare l’exemption method per branch estere di società UK (il Regno Unito ha da anni un regime territoriale per branch: di default esenta i branch non-UK di società UK, salvo opzione contraria). Quindi, curiosamente, entrambi i Paesi offrono alle proprie imprese la possibilità di esenzione branch: ciò può far sì che un utile di branch non sia tassato due volte ma addirittura una volta sola nel Paese ospite.
Altri redditi d’impresa senza PE: Se un imprenditore italiano svolge attività in UK senza una stabile organizzazione, i suoi profitti non dovrebbero essere tassati in UK (art. 7, par.1: no PE, no tassazione fonte), ma solo in Italia. Questo vale ad esempio per vendite di beni o servizi in UK senza base fissa lì. Analogamente, un freelance UK che presta servizi in Italia senza base fissa non viene tassato dall’Italia, solo in UK. Bisogna fare attenzione però a categorie speciali: ad esempio utili derivanti da spedizioni internazionali (art. 8 – navigazione e traffico aereo) sono imponibili solo nello Stato di esercizio effettivo dell’impresa di navigazione. Esempio: utili di British Airways in Italia non sono tassati da noi, e viceversa Alitalia (ITA Airways) in UK.
Utili distribuiti e ritenute: I profitti d’impresa una volta tassati a livello societario possono essere distribuiti come dividendi: si torna ai paragrafi sui dividendi (trattati con 5-15% ritenuta). Quindi attenzione a non confondere tassazione del reddito d’impresa (corporate tax) con tassazione dei dividendi (withholding su utili distribuiti): sono due livelli distinti coperti da articoli diversi in convenzione.
Determinazione del credito e modello dichiarativo: Per le società italiane, tutti i calcoli del credito per imposte estere d’impresa avvengono nel quadro CE del Modello Redditi SC. Si compila una sezione per ogni Paese estero, indicando i redditi prodotti colà, l’imposta estera pagata definitiva e calcolando la quota di imposta italiana media attribuibile a quei redditi. Il sistema, in base all’art. 165 co. 1 e 3 TUIR, impone un calcolo per singolo Stato: non si può compensare l’eccedenza di un Paese con un altro. Ad esempio, se una società ha 100 di utili in UK tassati al 19% e 100 di utili in Dubai (0% tasse), l’Italia dà credito di 19 sulla prima e nulla sulla seconda, tassando la seconda per intero. Non si sommano 200 di redditi con 19 di tasse totali (che farebbero aliquota effettiva 9.5%). Questo meccanismo per country limitation è pensato per evitare che le imposte basse di certi Paesi riducano la tassazione italiana di redditi di Paesi ad alta tassazione oltre un certo limite.
Infine, va ricordato che il credito d’imposta può essere ripartito su più periodi se l’imposta estera è divenuta definitiva in anni successivi. Ad esempio, un contenzioso in UK risolto dopo anni: l’art. 165 co.6 TUIR consente di recuperare il credito nell’anno di pagamento definitivo con eventuale riliquidazione di periodi precedenti. Questo però esula dalla trattazione base; l’importante per l’impresa è conservare la documentazione delle imposte pagate in UK (certificati HMRC, modelli CT600 ecc.) e tradurli se necessario, per esibirli al fisco italiano su richiesta.
Come far valere il credito d’imposta estero (procedure e modelli)
L’ottenimento del credito d’imposta per le imposte pagate all’estero non è automatico: richiede che il contribuente segua le procedure previste, compilando correttamente la dichiarazione dei redditi e documentando le imposte estere pagate.
Dichiarazione dei redditi – persone fisiche: I contribuenti persone fisiche residenti in Italia che percepiscono redditi esteri devono dichiararli nel Modello Redditi PF (o talora nel 730 se consentito). Per i redditi esteri dichiarati, il credito si calcola nel quadro CR – Sezione II (crediti d’imposta per redditi prodotti all’estero). Nel modello 730 semplificato è prevista un’apposita casella per indicare l’ammontare delle imposte estere pagate, ma il 730 gestisce solo i casi più semplici; spesso chi ha redditi esteri con crediti d’imposta sceglie (o è obbligato) a presentare il modello Redditi completo. In ogni caso, bisogna indicare per ciascun Paese estero: l’ammontare del reddito imponibile in Italia, l’imposta estera definitiva pagata su di esso e calcolare la quota di imposta italiana riferibile a quel reddito. Quest’ultima si ottiene con la formula: imposta italiana lorda × (reddito estero / reddito complessivo). Il credito spettante è il minore tra l’imposta estera e tale quota italiana. Il software di compilazione dell’Agenzia delle Entrate effettua questo calcolo automaticamente se i campi sono compilati. È importante non eccedere: se si indica un credito maggiore della quota, l’eccedenza non verrà comunque utilizzata. Non è ammesso riportare a nuovo crediti non utilizzati (a differenza di altri crediti d’imposta); se in un anno non si sfrutta tutto perché l’imposta italiana era inferiore, l’eccedenza di solito è persa. Fa eccezione il caso di redditi d’impresa con imposte definitive in anni diversi (art. 165(6)), come detto.
Documentazione: Il contribuente non deve allegare nulla alla dichiarazione, ma deve conservare ed esibire su richiesta la prova delle imposte pagate all’estero. Tipicamente: certificazione di tasse estere trattenute (convenientemente tradotte), modelli fiscali esteri (come il P60/P45 per lavoratori UK, o modelli di versamento), attestazioni di banche estere sulle ritenute subite, cedolini pensione estera con dettaglio fiscale, ecc. Inoltre, va conservata documentazione che provi che il reddito aveva fonte estera e l’ammontare imponibile (es.: atto di vendita per plusvalenza immobiliare, conteggi del datore estero per lavoro dipendente, contratto di dividend payout, etc.).
Termini e modalità: Il credito d’imposta va richiesto nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno di pagamento dell’imposta estera, a pena (prevista dalla norma) di decadenza. In passato, l’Agenzia applicava rigidamente questa regola: se uno non indicava il credito nel modello dell’anno giusto, perdeva il diritto. Ciò era collegato anche al famigerato comma 8 dell’art. 165 (niente credito se reddito non dichiarato). Oggi la situazione è cambiata grazie alla giurisprudenza: la Cassazione, ord. 10642 del 23/04/2025, ha statuito che il diritto al credito per imposte estere può essere esercitato entro il normale termine di prescrizione decennale, eliminando la decadenza automatica per omessa tempestiva indicazione. In pratica, se un contribuente non ha indicato il credito in dichiarazione, può rettificare o chiederlo entro 10 anni. Questa pronuncia epocale tutela chi magari scopre tardi di avere diritto al credito, e rafforza il principio che la Convenzione internazionale (divieto di doppia imposizione) prevale su formalismi interni. Ad esempio, se un contribuente italiana doveva prendere un credito nel 2021 ma se ne accorge nel 2024, può presentare una dichiarazione integrativa o istanza di rimborso entro il 2031. L’Agenzia potrebbe opporre la tardività ex art. 165(8), ma la giurisprudenza ormai considera tale decadenza non applicabile perché in contrasto con gli obblighi internazionali. Dunque come difendersi? citando Cass. 24205/2024 e 10642/2025, che hanno dichiarato invalida la decadenza e incostituzionale l’art. 165 c.8 nella parte in cui prevede doppia tassazione per omessa dichiarazione. Si può recuperare il credito entro 10 anni, ma non oltre (la Corte ha infatti fissato il limite del decennio di prescrizione ordinaria).
Quadro RW: Non attiene al credito d’imposta, ma si ricorda che chi detiene attività finanziarie o immobili all’estero deve monitorarle nel Quadro RW e pagare le eventuali imposte patrimoniali IVAFE/IVIE. Questo adempimento è distinto: la mancata compilazione non incide sul credito d’imposta, ma può portare a sanzioni amministrative. Ad esempio, un conto in UK con dividendi dovrà far dichiarare gli importi in RW (saldo) oltre che in CR per il reddito. È bene quindi, nella gestione dei redditi esteri, curare entrambi gli aspetti: dichiarazione del reddito + credito, e RW per il monitoraggio.
Moduli convenzionali: Per prevenire la doppia imposizione “a monte”, esistono modelli che il contribuente può utilizzare. Ad esempio, per ottenere la riduzione o esenzione immediata delle ritenute alla fonte, il beneficiario estero deve fornire un certificato di residenza fiscale all’ente pagatore e/o all’amministrazione fiscale dello Stato della fonte. L’Agenzia delle Entrate italiana e l’HMRC mettono a disposizione moduli bilingue: il Modello IT/UK (in cui l’AE attesta la residenza italiana del contribuente che deve ricevere redditi dall’UK, permettendogli di avere la ritenuta ridotta o zero) e viceversa il form UK per redditi dall’Italia. Ad esempio, per far applicare la ritenuta del 10% su interessi invece del 20% standard UK, un residente italiano compila il form “Claim form – Double Taxation treaty relief” disponibile sul sito HMRC, lo fa certificare all’Agenzia Entrate e lo invia in UK. Similmente, per far sì che il datore italiano non trattenga IRPEF a un lavoratore residente UK, occorre il certificato di residenza UK. Raccomandazione: Sempre che possibile, agire in via preventiva presentando questi moduli onde evitare di pagare due volte e poi dover chiedere rimborsi. I tempi di rimborso estero possono essere lunghi, quindi meglio evitare l’esborso iniziale.
Interessi e dividendi post-Brexit: Un’ulteriore accortezza post-2021: ora che il RU è Paese extra-UE, chi percepisce dividendi, interessi o royalties da UK non può più beneficiare delle direttive UE, ma solo del trattato. Quindi conviene sempre dichiarare la propria residenza e chiedere l’applicazione delle aliquote convenzionali. L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato chiarimenti (es. Interpello 19/2022) confermando che i flussi da/per UK dal 2021 vanno assoggettati a ritenuta secondo Convenzione e che eventuali “certificazioni di residenza cumulativa” sono accettate (es. il caso in cui una società italiana abbia tanti piccoli soci UK: è possibile un certificato cumulativo che semplifica).
Compensazione in F24: Una volta determinato il credito d’imposta in dichiarazione, esso riduce l’imposta netta dovuta. Non è un credito rimborsabile di per sé (a meno che risulti eccedenza pagata). Ad esempio, se dalle imposte lorde IRPEF risultavano 10.000 € e il credito estero è 2.000 €, il contribuente pagherà 8.000 €. Se ha già versato acconti in eccesso, può andare a rimborso come di consueto. È possibile anche utilizzare eventuali crediti in compensazione su F24 se dalla dichiarazione risultano a credito, ma in genere il foreign tax credit serve solo ad abbattere il debito fiscale.
Controlli del fisco: L’Agenzia delle Entrate può richiedere evidenze dei crediti fruiti fino a 8 anni successivi (accertamento). Ad esempio, potrebbero chiedere di vedere la prova del pagamento dell’imposta UK per accordare il credito. Se non adeguatamente documentato, il credito può essere disconosciuto con recupero dell’imposta (e sanzioni). Perciò è cruciale conservare la documentazione originale, traduzioni giurate se necessario, e magari una nota esplicativa del calcolo. In caso di importi rilevanti, può valer la pena allegare spontaneamente in dichiarazione una documentazione integrativa (per i contribuenti soggetti a controllo formale ex art. 36-ter DPR 600/73).
Riassumendo: 1) dichiara tutti i redditi esteri; 2) calcola e indica i crediti spettanti; 3) custodisci prove; 4) se hai dimenticato di chiedere un credito, hai fino a 10 anni per rimediare grazie alla giurisprudenza favorevole.
Difendersi dalla doppia imposizione: contenzioso e strumenti di tutela
Nonostante le regole esistenti, in pratica possono sorgere situazioni in cui il contribuente subisce (o rischia di subire) una doppia imposizione. Vediamo come difendersi e far valere i propri diritti.
1. Accertamenti dell’Agenzia delle Entrate su redditi esteri non dichiarati: Come anticipato, era prassi dell’Amministrazione negare il credito d’imposta se il reddito estero non era stato dichiarato nei termini (art. 165(8) TUIR). Ciò veniva utilizzato quasi “punitivamente” contro i contribuenti scoperti a non aver dichiarato redditi esteri (spesso lavoratori emigrati non AIRE, o pensionati ex Inpdap all’estero). In questi casi l’Agenzia emetteva avvisi di accertamento chiedendo l’intera imposta italiana sui redditi esteri, più sanzioni (anche se il soggetto aveva pagato all’estero). Esempi tipici: un italiano lavora 3 anni in UK senza iscriversi AIRE, non dichiara in Italia pensando basti pagare in UK; l’Agenzia lo rintraccia (magari tramite scambio informazioni) e gli notifica imposte per quegli anni, senza riconoscere il credito perché il reddito non era in dichiarazione. Il risultato era devastante: doppia tassazione al 100% (UK+IT) più sanzione 90-180% sull’imposta italiana e interessi.
**Oggi, con l’orientamento Cassazione 2024-25, il contribuente può far valere in sede di difesa che il **divieto di doppia imposizione convenzionale prevale** e dunque il credito spetta comunque.** Le sentenze Cass. n. 24205 del 19/06/2024 e Cass. n. 10642 del 23/04/2025 hanno sancito che l’omessa dichiarazione o indicazione del reddito estero *“non opera come causa di decadenza dalla fruizione della detrazione d’imposta”*, in virtù dell’obbligo internazionale incondizionato assunto dall’Italia di evitare la doppia tassazione【32†L119-L127】【32†L121-L128】. Hanno perfino definito l’art. 165 c.8 una norma “invalida e incostituzionale” per contrasto con i trattati【32†L129-L137】. Pertanto, in un eventuale ricorso, il giudice dovrebbe riconoscere al contribuente il diritto al credito per le imposte estere già pagate, riducendo l’imposta accertata e anche le sanzioni (che andranno ricalcolate sul minor importo). Già Commissioni Tributarie regionali avevano aperto a questa tesi, ora avallata dalla Cassazione e perfino oggetto di interrogazioni parlamentari【32†L113-L121】【32†L125-L133】. Quindi **strategia difensiva**: in caso di avviso, proporre ricorso eccependo la violazione della Convenzione contro le doppie imposizioni, richiamare le pronunce di Cassazione più aggiornate, quantificare il credito spettante e chiedere l’annullamento/riduzione dell’atto. Nella maggior parte dei casi recenti, l’Agenzia – ben consapevole del nuovo orientamento – potrebbe anche scegliere di evitare il contenzioso pieno e accogliere in autotutela parziale la richiesta, specie se le imposte estere sono chiaramente documentate.
2. Diniego di rimborso crediti da parte dell’Amministrazione: Altra ipotesi: il contribuente presenta un’istanza di rimborso (ad esempio per ritenute italiane indebitamente subite, o per un credito d’imposta non goduto) e l’Agenzia rigetta. Abbiamo visto esempi: società UK che chiede rimborso metà credito dividendi (caso Cass. 18215/2025), lavoratore in UK che chiede rimborso ritenute IRPEF Italia (caso Cass. 25424/2024). In questi casi il ricorso al giudice tributario è d’obbligo se si ritiene di aver ragione. Le pronunce citate dimostrano che la Cassazione tende ormai a censurare la doppia imposizione e a tutelare il contribuente quando la Convenzione gli dà appiglio. Quindi, il contribuente dovrà articolare bene il ricorso, provando i fatti (es. residenza estera e doppia imposizione subita) e il diritto (norme convenzionali pertinenti) e citando giurisprudenza a supporto. Un esempio è la già menzionata Cass. 25424/2024 sul rimborso ritenute stipendi esteri: la CTR e la Cassazione hanno dato ragione al contribuente, respingendo le tesi dell’Agenzia che sosteneva contasse la nazionalità del datore di lavoro o la mancata produzione di moduli (certificati) in fase amministrativa. L’assenza di un certificato al momento del pagamento non può far decadere dal diritto convenzionale se poi la residenza estera è dimostrata. Questo è importante: se vi siete dimenticati di fornire il modulo e vi hanno tassato due volte, potete rimediare presentando dopo i certificati e richiedendo il rimborso di quanto non dovuto.
3. Procedura di Mutual Agreement (MAP): Quando un contribuente subisce tassazione doppia non risolta né da credito né da esenzioni, può attivare la procedura amichevole prevista dall’art. 25 della Convenzione. Ad esempio, controversie su doppia residenza (se due Stati lo considerano residente) o su allocazione di utili tra casa madre e stabile organizzazione. La MAP consente alle autorità competenti dei due Stati (per l’Italia, il MEF o Agenzia Entrate – Ufficio accordi internazionali) di consultarsi e trovare un accordo per eliminare la doppia imposizione. La domanda di MAP va presentata dal contribuente entro i termini (di solito entro 3 anni dalla prima notifica dell’imposizione contestata). Nel contesto UE esisteva la Convenzione Arbitrale e la Direttiva 2017/1852 sui meccanismi di risoluzione delle dispute fiscali, ma con UK dopo Brexit questi strumenti UE non si applicano più (vale la convenzione bilaterale e l’eventuale arbitrato se previsto lì: l’art. 25 della Convenzione Italia-UK non prevedeva arbitrato obbligatorio all’epoca, quindi è solo MAP senza fase arbitrale vincolante). Ciò significa che se la MAP fallisce, resta la doppia imposizione oppure l’unica via sarebbe un contenzioso interno. La MAP è però utilissima ad esempio in casi di doppia residenza: se un soggetto per errore viene tassato come residente in entrambi i Paesi, può chiedere ai due fisc di applicare i criteri convenzionali di tie-breaker (art. 4 Convenzione: domicilio permanente, centro interessi vitali, ecc.) e decidere univocamente dove risiede. L’accordo MAP vincolerà le amministrazioni a rilasciare eventuali rimborsi o esenzioni per correggere la doppia tassazione.
4. Interpello internazionale: In via preventiva, per evitare di incorrere in doppia imposizione o sanzioni, il contribuente può presentare un interpello all’Agenzia delle Entrate – Divisione Contribuenti non residenti e rimpatriati (interpello art. 11 L. 212/2000 in materia internazionale, o interpello sui nuovi investimenti se rilevante). Ad esempio, un caso di dubbio su come applicare un articolo di convenzione (es. se un certo reddito rientra tra quelli tassabili esclusivamente all’estero oppure no) può essere sottoposto tramite istanza di interpello. L’Agenzia risponderà con un parere vincolante per il caso del contribuente. Esempio reale: Interpello n. 172/2023 (già citato) dove un contribuente chiese come trattare la pensione pubblica con doppia cittadinanza, ottenendo conferma dell’esenzione Italia. Avere una risposta scritta evita contenziosi futuri. L’interpello va presentato prima della scadenza dichiarativa del reddito oggetto di dubbio.
5. Norme anti-abuso e credito d’imposta: Attenzione: l’ottenimento di crediti d’imposta esteri è talvolta oggetto di abusi (schemi per trasformare imposte estere in crediti, ad esempio in assenza di effettiva doppia imposizione). L’art. 165 TUIR richiede che l’imposta estera sia definitiva e relativa a redditi effettivamente tassati anche in Italia. Se uno “fabbrica” un credito estero senza reddito imponibile in Italia, quel credito è illegittimo. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto legittimo il diniego di un credito da parte dell’AE quando era frutto di comportamenti abusivi (si veda Cass. 14404/2019 su dividendi black-list in esenzione da base imponibile ma con tentativo di credito, rigettato). Nel rapporto con UK, questo è meno frequente dato che UK non è paradiso fiscale, però ipotesi come “round-tripping” (utilizzare entità UK per generare imposte estere artificiosamente) potrebbero essere contestate. Quindi la difesa del credito è sacrosanta, ma deve essere un credito genuino su imposte davvero pagate a fronte di redditi realmente tassati in Italia.
6. Penalità e sanzioni: In molti casi di doppia imposizione, la questione si accompagna a sanzioni per infedele dichiarazione. Ad esempio, se un reddito estero non dichiarato viene recuperato, c’è sanzione 90%-180%. La difesa convenzionale può aiutare anche qui: se grazie al credito d’imposta l’imposta evasa risulta piccola o zero, le sanzioni vanno ricalcolate su quell’importo. Inoltre, se il contribuente può dimostrare di aver omesso la dichiarazione estera in buona fede perché riteneva (erroneamente) che fosse tassato solo all’estero, talvolta le Commissioni riconoscono la non punibilità per obiettiva incertezza o mancanza di dolo, almeno per le sanzioni penali (in caso di importi elevati). Ad esempio, molti pensionati ex-INPDAP all’estero erano convinti, prima delle recenti sentenze, che la pensione fosse tassata solo in Italia per via della cittadinanza: non dichiaravano all’estero e poi si trovavano a pagare doppio. Ora, con la risposta AE 172/2023, hanno chiarezza e possono regolarizzare.
Conclusione sulla difesa: Oggi più che mai il contribuente dispone di un arsenale normativo e giurisprudenziale per far valere i propri diritti: le Convenzioni internazionali come scudo, e la Cassazione come alleato che – citiamo un comunicato – “censura nuovamente la doppia imposizione fiscale” e tutela decine di migliaia di contribuenti italiani nel mondo. Se l’Agenzia non dovesse spontaneamente adeguarsi (ma in parte lo sta facendo, ad esempio nelle circolari future dovrà riconoscere il credito su dividendi esteri), il contribuente ha ottime chance in giudizio. Inoltre, c’è un fermento legislativo: la pronuncia 10642/2025 ha spinto alcuni parlamentari a chiedere la modifica del famigerato art. 165 comma 8 TUIR. Ci si attende quindi un intervento normativo che recepisca questi principi, per evitare in futuro contenziosi inutili e dare certezza al contribuente.
Nel frattempo, il consiglio pratico è: informarsi bene sui propri obblighi dichiarativi internazionali, sfruttare gli strumenti convenzionali (certificati di residenza, interpelli), e in caso di doppia tassazione subita, non rassegnarsi ma agire per reclamare il credito o il rimborso dovuto, eventualmente assistiti da un esperto di fiscalità internazionale.
Domande e risposte frequenti (FAQ)
D: Cosa si intende per doppia imposizione fiscale e come la Convenzione Italia–UK aiuta ad evitarla?
R: Si ha doppia imposizione quando due Stati tassano lo stesso reddito (ad esempio, stipendio o interesse) in capo allo stesso soggetto. La Convenzione Italia–UK è un accordo che ripartisce la potestà impositiva tra i due Paesi e obbliga lo Stato di residenza a eliminare la doppia tassazione tramite credito d’imposta o esenzione. In pratica, se un residente italiano paga tasse in UK su un reddito, l’Italia detrae quell’importo dalla propria imposta, evitando che il reddito sconti due volte l’intero carico fiscale.
D: Sono residente in Italia e ho pagato tasse in UK su un reddito (stipendio, dividendo, etc.). Come posso recuperare quelle imposte estere?
R: Devi dichiarare il reddito estero in Italia e nella stessa dichiarazione calcolare il credito d’imposta per le imposte estere pagate. Nel modello Redditi PF utilizzerai il quadro CR, indicando l’ammontare del reddito e dell’imposta estera definitiva pagata. Il sistema sottrarrà dall’IRPEF italiana dovuta l’importo minore tra l’imposta UK e la corrispondente imposta italiana. In sostanza, pagherai la differenza se l’imposta italiana è più alta, oppure nulla in più se l’imposta estera copre l’italiana. È fondamentale avere le ricevute/certificati delle imposte UK versate, in caso di controlli.
D: Ho già pagato tutte le tasse sul reddito in UK. Devo comunque dichiararlo in Italia?
R: Sì, se sei fiscalmente residente in Italia devi dichiarare i redditi ovunque prodotti (principio del reddito mondiale). Anche se tassato in UK, il reddito va indicato: l’Italia applicherà la sua aliquota ma ti riconoscerà un credito per evitare la doppia imposizione. Se non lo dichiari, rischi un accertamento per redditi esteri non dichiarati con relativa imposta e sanzioni. Inoltre, finché non dichiari, non puoi usufruire del credito d’imposta estero a tuo favore.
D: Cosa succede se mi dimentico di richiedere il credito d’imposta nella dichiarazione dei redditi? Lo perdo per sempre?
R: In passato l’Agenzia diceva che lo perdevi (dovevi richiederlo contestualmente alla dichiarazione del reddito estero). Ma la Cassazione ha di recente stabilito che non decade automaticamente: puoi far valere il tuo diritto al credito entro il termine di prescrizione ordinaria (10 anni). Ciò significa che puoi presentare una dichiarazione integrativa a favore o un’istanza di rimborso entro tale termine per recuperare il credito non indicato inizialmente. Ad esempio, se nel 2020 non hai indicato un credito, hai tempo fino al 2030 circa. È comunque consigliabile agire il prima possibile e non fare affidamento sui 10 anni se puoi evitare, anche perché un chiarimento legislativo potrebbe intervenire.
D: Ho ricevuto un avviso dell’Agenzia perché non ho dichiarato redditi esteri, ma io ho già pagato le imposte all’estero. Devo pagare di nuovo in Italia?
R: No, in linea di principio hai diritto a non essere tassato due volte. In sede di contraddittorio o ricorso, dovrai dimostrare l’ammontare delle imposte estere pagate e chiedere che vengano detratte dall’imposta italiana. La Cassazione ha confermato che il Fisco italiano deve riconoscere il credito anche se non avevi dichiarato il reddito a suo tempo. L’avviso andrà quindi ridotto dell’importo delle imposte UK già pagate (potresti dover pagare solo eventuale differenza). Le sanzioni per infedele dichiarazione, se applicabili, verranno ricalcolate sul minor dovuto. È consigliabile farsi assistere per impostare correttamente la difesa, citando le sentenze pertinenti.
D: Sono un cittadino britannico residente in Italia: la mia pensione UK sarà tassata in Italia o in UK?
R: Dipende dal tipo di pensione. Se è una pensione privata (fondo pensione, datore di lavoro privato), la Convenzione prevede che sia tassata esclusivamente in Italia (Stato di residenza). Quindi dovresti farla tassare solo dall’Italia, e chiedere all’HMRC l’esenzione (tramite modulo convenzionale) per evitare la tassazione UK. Se invece è una pensione pubblica governativa (es. ex dipendente statale britannico), in linea generale spetterebbe al Regno Unito tassarla esclusivamente. Però attenzione: se hai acquisito anche la cittadinanza italiana oltre a quella britannica, allora torna ad essere tassabile solo in Italia (perché la Convenzione in tal caso sposta la tassazione allo Stato di residenza quando il pensionato è cittadino di quello Stato). In sintesi, per pensioni pubbliche conta la cittadinanza del beneficiario; per quelle private no. Se hai dubbi, puoi presentare interpello all’Agenzia delle Entrate o consultare un esperto, ma la regola è questa.
D: Sono un lavoratore italiano residente all’estero (iscritto AIRE) ma assunto da un’azienda italiana: devo pagare le tasse in Italia sul mio stipendio?
R: No, se sei realmente residente fiscale all’estero (ad esempio in UK) e ivi paghi le imposte sul tuo stipendio, l’Italia non deve tassarti nuovamente, anche se il tuo datore di lavoro è italiano. La Convenzione con UK prevede che il reddito di lavoro dipendente sia tassato dove svolgi l’attività (quindi UK), e non possa essere ritassato in Italia. Dovresti comunicare al tuo datore di lavoro e all’Agenzia delle Entrate la tua residenza estera presentando il certificato di residenza fiscale UK, in modo che l’azienda italiana non applichi ritenute IRPEF. Se per qualche motivo hai subito trattenute in Italia, hai diritto al rimborso. La Cassazione (sentenza 25424/2024) ha confermato proprio un caso simile, dando ragione al lavoratore all’estero.
D: Se apro una filiale della mia azienda italiana in UK, come evito doppie imposizioni sugli utili?
R: Puoi usare il meccanismo del credito d’imposta: dichiari in Italia anche gli utili della stabile organizzazione UK, ma detrai tutte le imposte societarie pagate in UK. In questo modo, pagherai in Italia solo l’eventuale differenza per arrivare all’aliquota italiana. Oppure, puoi valutare l’opzione branch exemption in Italia: se esercitata, gli utili della filiale UK saranno esenti in Italia (quindi pagherai solo il fisco UK). La scelta dipende da vari fattori (aliquote, perdite, cash flow); consigliati con un fiscalista d’impresa. In ogni caso, grazie al trattato e alle norme italiane, non dovresti scontare doppio carico fiscale sullo stesso utile.
D: Devo compilare il quadro RW per i miei investimenti in UK?
R: Sì, se sei residente in Italia e detieni attività finanziarie o patrimoniali in UK (conto corrente, portafoglio titoli, immobili, partecipazioni, ecc.), il quadro RW serve a monitoraggio fiscale. Va compilato a prescindere dal credito d’imposta e dalle imposte sui redditi. Nel RW indicherai, ad esempio, il conto bancario UK e il suo valore, e calcolerai l’IVAFE (0,2% sul valore medio) o IVIE per immobili (0,76% sul valore catastale/di acquisto, con credito per eventuale council tax). Questo è un adempimento parallelo: non riguarda evitare doppie imposizioni sul reddito, ma è comunque obbligatorio. Le sanzioni per omesso RW sono separate (3%-15% degli importi non dichiarati, raddoppiate se in Paesi black list, ma UK non lo è). Dunque, non trascurarlo.
D: In quali casi la doppia imposizione è completamente evitata e in quali invece resta qualche carico fiscale duplicato?
R: È evitata totalmente quando la Convenzione stabilisce la tassazione esclusiva in uno Stato (l’altro esenta del tutto). Ad esempio: pensione privata – solo residenza; pensione pubblica a non cittadino – solo Stato fonte; stipendio con permanenza <183gg – solo residenza; ecc. In questi casi paghi una volta soltanto. Invece, quando entrambi gli Stati possono tassare (es. dividendi, interessi, redditi d’impresa con PE), un certo grado di imposizione avviene in entrambi, ma attraverso il credito d’imposta la duplicazione viene eliminata nella misura dell’imposta minore. Ciò significa che pagherai comunque l’aliquota più alta tra le due: se un Paese tassa al 10% e l’altro al 20%, finirai per pagare ~20% in totale (il 10% minore viene assorbito). La doppia imposizione economica può residuare in casi particolari, ad esempio: società che ricevono dividendi esteri esenti in gran parte in Italia – qui una ritenuta estera può eccedere la poca imposta italiana dovuta, e quell’eccedenza non è accreditabile. Questo è un limite fisiologico del metodo del credito per i soggetti con regimi fiscali privilegiati. A livello di persone fisiche, se le aliquote estere superano quelle italiane (caso raro, ad es. reddito basso tassato più in UK che in Italia), potresti non recuperare tutto. Ma per la maggioranza dei casi pratici (UK aliquote simili alle nostre), il credito d’imposta assicura che non paghi più di quanto pagheresti nello Stato a fiscalità più alta.
D: Quali sono le fonti autorevoli da consultare per approfondire il tema?
R: Oltre alla presente guida, consigliamo:
- Il testo della Convenzione Italia–UK del 1988 (reperibile sul sito del Dipartimento Finanze o in Gazzetta Ufficiale) per conoscere gli articoli rilevanti.
- L’art. 165 TUIR e relative circolari dell’Agenzia Entrate (es. Circolare 9/E del 2015) che spiegano il credito d’imposta.
- Le recenti sentenze della Corte di Cassazione: in particolare la n. 25698/2022 e 10204/2024 sui dividendi esteri, la n. 24205/2024 e 10642/2025 sul credito in caso di omessa dichiarazione, la n. 25424/2024 sul lavoro dipendente estero, e la n. 18215/2025 sul cumulo esenzione UE/credito convenzionale per dividendi societari. Queste pronunce, spesso commentate su riviste fiscali, offrono principi chiave.
- Documenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate: ad esempio la Risoluzione n. 172/E 2023 (pensioni pubbliche), il Principio di diritto n. 15/2019 (che rappresentava la vecchia posizione restrittiva sui dividendi esteri, ora superata, ma utile da conoscere per contesto), e le guide sul sito dell’AE e FiscoOggi su “crediti d’imposta esteri”.
- Infine, contributi dottrinali e articoli specialistici (Sole 24 Ore, Eutekne.info, riviste tributarie) che spesso riportano casi concreti e soluzioni. Ad esempio, Eutekne.info ha pubblicato articoli sulla tassazione delle retribuzioni in presenza di residenza estera e sulla cumulabilità tra direttive UE e trattati.
Tabelle riepilogative
Di seguito due tabelle riassumono il trattamento fiscale dei principali redditi tra Regno Unito e Italia, distinguendo per persone fisiche e società, con indicazione delle regole convenzionali e delle modalità di eliminazione della doppia imposizione.
Tabella 1 – Redditi Italia–UK per persone fisiche (residenti in Italia)
Categoria di reddito | Tassazione in UK (Stato della fonte) | Tassazione in Italia (residenza) | Eliminazione doppia imposizione |
---|---|---|---|
Stipendi e salari | Tassati in UK se lavoro svolto in UK e >183 giorni o datore UK (ritenute PAYE). Se <183g e datore italiano senza PE, esenti in UK (art. 15 Convenzione) | Tassati in Italia se residente (aliquote IRPEF progressive). Se il lavoro è tassato in UK, l’Italia comunque impone dichiarazione del reddito. | Credito d’imposta per imposta UK pagata (fino a concorrenza IRPEF italiana). Se <183g (esente UK), Italia tassa integralmente e nessun credito serve. |
Pensione privata | Non tassata in UK (tassazione esclusiva allo Stato di residenza del pensionato per art. 18(1)). Eccezione: alcune lump sum potrebbero essere tassate UK, ma in genere no. | Tassata in Italia esclusivamente (IRPEF) con detrazioni per pensioni. | Niente doppia imposizione per previsione convenzionale esclusiva. Se erroneamente tassata anche in UK, richiedere esenzione/rimborso UK (trattato la assegna a Italia). |
Pensione pubblica | Tassata esclusivamente da Stato erogante (es. UK) se il beneficiario non è cittadino anche dell’altro Stato. Se beneficiario è anche cittadino dell’altro Stato (Italia), allora no: vedi colonna Italia. | Se beneficiario anche cittadino italiano, tassata solo in Italia (art. 18(2)(b)). Se non cittadino, Italia esenta. | Convenzione prevede regola di esclusività: o solo UK o solo ITA a seconda della cittadinanza. Quindi nessuna doppia imposizione (ciascuno esenta quando non ha potestà). |
Dividendi da UK | Spesso 0% ritenuta UK (no withholding tax su dividendi ordinari a non residenti). Convenzione permetterebbe max 15% (5% se partecipazione ≥10%). Dividendi franchi da imprese UK. | Imposta sostitutiva 26% sul dividendo percepito (netto frontiera se tramite intermediario). | Se UK ha applicato ritenuta (es. 0 in molti casi, altrimenti max 15%), l’Italia deve riconoscere credito pari a ritenuta UK, nonostante il 26% sia imposta sostitutiva (orientamento Cass.) – ciò evita doppia imposizione effettiva. Se UK=0, nessun credito serve (paghi 26% Italia). |
Interessi da UK | Ritenuta UK fino 0-20%. Convenzione limita al 10%. Molti interessi (depositi bancari, titoli di Stato UK) esenti da ritenuta per non-residenti. | Imposta sostitutiva 26% sugli interessi esteri. Se tramite banca italiana, 26% sul netto dopo ritenuta estera. | Credito d’imposta per eventuali ritenute UK fino a 10%. In pratica, il contribuente può detrarre l’imposta UK dalla sostitutiva/IRPEF italiana dovuta. Con ritenuta banca su netto-frontiera, di fatto l’estero è già scomputato. |
Capital gain immobiliare (vendita casa in UK) | Tassato in UK se plusvalenza su immobile UK (28% aliquota per individui su residenziale). No esenzione per non-residenti (dal 2015). | Tassato in Italia se l’immobile venduto entro 5 anni dall’acquisto (aliquota IRPEF su plusvalenza); esente se oltre 5 anni. | Se tassato in entrambi (vendita <5 anni), credito d’imposta in Italia per la CGT pagata in UK. In genere si paga l’aliquota più alta tra i due Paesi sul guadagno. Se vendita >5 anni: UK tassa (28%), Italia no – possibile doppia imposizione se Italia non dà credito perché reddito esente; in tal caso, valutare se convenzione prevede esclusiva (non nel 1988). Purtroppo in tale scenario l’imposta UK resta definitiva (Italia non potendo dare credito su reddito esente). |
Capital gain finanziario (vendita azioni, etc.) | UK di norma non tassa i non residenti su plusvalenze azionarie (salvo casi particolari, es. partecipazioni in società immobiliari UK se trattato lo consente – la conv. 1988 non lo prevedeva espressamente). | Italia tassa le plusvalenze su partecipazioni/strumenti finanziari esteri al 26% (imposta sostitutiva), indipendentemente da partecipazione qualificata o meno (dal 2019). | In assenza di tassazione UK, nessuna doppia imposizione (paghi solo 26% Italia). Se invece UK tassasse (caso raro, es. vendi quota di società immobiliare UK ed HMRC applica CGT): l’Italia riconoscerebbe credito d’imposta entro il 26%. L’eventuale eccedenza UK resterebbe non utilizzabile. |
Tabella 2 – Redditi cross-border per società/imprese
Categoria di reddito (società italiana con fonte UK) | Tassazione in UK | Tassazione in Italia | Eliminazione doppia imposizione |
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Utili d’impresa – senza stabile organizzazione | Se l’attività in UK non configura una PE, UK non tassa i profitti dell’impresa italiana (art. 7 Conv.) | Italia tassa gli utili mondiali (IRES 24% + IRAP) includendo anche redditi prodotti in UK. | Nessuna doppia imposizione perché uno solo Stato tassa in partenza (no imposizione UK). Si applica il principio di tassazione nello Stato di residenza dell’impresa. |
Utili d’impresa – con stabile organizzazione (PE) in UK | UK tassa i profitti attribuibili alla sua stabile organizzazione (Corporation Tax 19%-25%). Ad esempio, branch UK di società italiana paga CT come se fosse società locale sui suoi utili. | Italia tassa l’utile mondiale incluse le branch estere, ma: – Se non opta per branch exemption: calcola IRES su utili UK, poi detrae imposta UK. – Se opta per branch exemption (168-ter TUIR): esenta totalmente gli utili della branch UK, non li include affatto. IRAP non dovuta su branch estere. | Metodo credito: L’Italia concede credito per l’imposta pagata in UK fino alla quota IRES corrispondente. In pratica si integra solo la differenza d’aliquota se Italia>UK. Metodo esenzione: se branch exemption, nessuna doppia imposizione perché l’utile è tassato una volta (solo in UK). La Convenzione di base prevede credito, ma l’Italia internamente consente esenzione per scelta opzionale dell’impresa. |
Dividendi da partecipata UK (società italiana madre) | UK generalmente non preleva ritenuta sui dividendi in uscita (trattato permetterebbe max 5% se partecipazione >10%, 15% altri casi, ma UK WHT 0% in molti casi). | Dividendi esteri percepiti da società ita: esclusi al 95% da IRES (art. 89 TUIR). Il 5% imponibile a 24% → effettiva tassa ~1.2%. | Se UK avesse applicato ritenuta (es. 5%), la società italiana può usare il credito d’imposta entro l’1.2% circa dovuto in Italia. L’eccedenza di ritenuta UK oltre tale limite non è recuperabile (doppia imposizione economica residua). Spesso però WHT è 0%, quindi nessun credito necessario e tassazione totale limitata a 1.2% ita. |
Interessi attivi (es. su prestito a debitore UK) | UK può applicare ritenuta sugli interessi pagati a società italiana: standard 20%, ridotta al 10% per trattato. Molti pagatori UK però possono non trattenere nulla se presentata richiesta di treaty relief. | Interesse attivo per società ita = parte del reddito d’impresa tassato IRES 24%. | Credito d’imposta in Italia per la ritenuta UK subita fino a concorrenza 24%. Se UK WHT 10% e IRES 24%, la società detrae quel 10 (resta da pagare 14%). Se UK WHT 0 (dopo procedure treaty), Italia tassa 24% intero. Doppia imposizione evitata via credito. |
Royalties attive (es. licenza brevetto a UK) | UK applica per legge ritenuta 20% sui canoni pagati a estero, ridotta all’8% dal trattato . | Royalties attive estere per società ita = reddito d’impresa tassato 24% (salvo sfruttamento brevetti agevolato da Patent box, ecc.). | Credito d’imposta per ritenuta UK fino al 24%. Con WHT 8% UK, Italia incassa altri ~16% per arrivare a 24%. Nessuna doppia tassazione residua. Se UK WHT >24% ipoteticamente (non è il caso, max 8%), l’eccedenza sarebbe non accreditabile. |
Dividendi da società italiana a società UK (per confronto) | Italia come Stato fonte applica 5% di ritenuta (partecipazioni societarie qualificate) o 15% (altre) secondo Convenzione. Post-Brexit, niente esenzione direttiva, quindi queste ritenute si applicano. | (Società UK non è tassata in Italia perché non residente; eventuale stabile org in Italia diversa dal concetto di dividendi) | La società UK ricevente può ottenere un credito d’imposta in UK per le imposte italiane sul dividendo, a seconda del regime britannico (oggi in UK in realtà i dividendi esteri sono spesso esenti per partecipation exemption, quindi il 5% italiano potrebbe restare un costo; ma il trattato almeno ne limita l’ammontare). |
Note: Nelle tabelle si è semplificato assumendo che il soggetto sia resident in uno Stato e non abbia doppia residenza (in tal caso intervengono i criteri tie-breaker). Inoltre si presume che siano soddisfatti i requisiti formali per le aliquote convenzionali (certificati di residenza scambiati). Le aliquote indicate sono quelle massime da trattato; leggi interne più favorevoli (ad es. esenzione WHT UK su interessi/royalties a aziende con benefici, o esenzioni domestiche italiane) prevalgono se applicabili.
Riferimenti normativi e di prassi citati: Convenzione Italia–UK contro le doppie imposizioni (Legge 329/1990); Art. 165 TUIR (credito imposte estere); Art. 18 TUIR (dividendi esteri persone fisiche); Circolare AE n. 9/E del 2015; Principio di diritto AE n. 15/2019; Risposta AE interpello n. 172/2023 (pensioni pubbliche); Cass. civ. Sez. Trib. n. 25698/2022 e n. 10204/2024 (crediti su dividendi esteri); Cass. Sez. V n. 24205/2024 e n. 10642/2025 (no decadenza credito per omessa dichiarazione); Cass. n. 25424/2024 (lavoratore in UK, rimborso ritenute); Cass. n. 18215/2025 (dividendi società, cumulo esenzione UE e credito convenzionale). Queste fonti, insieme alla normativa domestica, costituiscono la base per far valere efficacemente i propri diritti in materia di doppia imposizione tra Italia e Regno Unito.
Hai lavorato o percepito redditi nel Regno Unito e l’Agenzia delle Entrate ti contesta che non li hai dichiarati correttamente in Italia? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Temi di dover pagare due volte le imposte, sia in UK che in Italia?
Il rischio di doppia imposizione fiscale è molto comune per chi ha redditi esteri. Tuttavia, tra Italia e Regno Unito è in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni che stabilisce regole chiare su dove i redditi devono essere tassati e come il contribuente residente in Italia può ottenere il credito d’imposta per le imposte già pagate in UK.
👉 Conoscere come applicare la Convenzione è essenziale per difendersi da contestazioni e per non subire una doppia tassazione.
⚖️ Quando si applica la doppia imposizione
- Lavoro dipendente nel Regno Unito: tassato in UK, ma deve essere dichiarato anche in Italia se sei residente fiscalmente qui;
- Redditi da pensione o da investimenti percepiti in UK;
- Redditi da immobili locati in Gran Bretagna;
- Dividendi, interessi o plusvalenze da fonti britanniche.
📌 Come funziona il credito d’imposta
- I redditi esteri vanno dichiarati in Italia nel quadro RL (o RW per il monitoraggio).
- Le imposte pagate in UK danno diritto a un credito d’imposta che riduce le tasse dovute in Italia;
- Il credito non può superare l’imposta italiana corrispondente a quel reddito;
- Serve la documentazione ufficiale delle imposte già versate all’estero (certificazioni HMRC, buste paga, attestazioni fiscali).
📌 Cosa rischi se non dichiari correttamente
- Recupero delle imposte in Italia sui redditi non dichiarati;
- Sanzioni dal 90% al 180% delle somme contestate;
- Interessi di mora;
- Nei casi più gravi, rischio di contestazioni penali per dichiarazione infedele o omessa dichiarazione.
🔍 Come difendersi
- Analizza l’accertamento ricevuto: individua quali redditi dall’UK sono stati contestati.
- Raccogli la documentazione: certificazioni HMRC, contratti di lavoro, estratti conto, dichiarazioni dei redditi estere.
- Dimostra l’imposta già pagata in UK e chiedi il riconoscimento del credito d’imposta in Italia.
- Applica la Convenzione Italia–Regno Unito: individua dove il reddito deve essere tassato.
- Predisponi memorie difensive o ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per evitare la doppia tassazione.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza l’accertamento e i redditi UK contestati;
- 📌 Verifica l’applicabilità della Convenzione contro le doppie imposizioni;
- ✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per ottenere il riconoscimento del credito d’imposta;
- ⚖️ Ti rappresenta nei giudizi tributari e nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate;
- 🔁 Elabora strategie preventive per gestire correttamente i redditi esteri nelle dichiarazioni future.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e doppia imposizione;
- ✔️ Specializzato in redditi esteri, crediti d’imposta e convenzioni bilaterali;
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Se hai percepito redditi nel Regno Unito, non devi subire una doppia tassazione: la Convenzione Italia–UK e il credito d’imposta ti consentono di evitare il pagamento duplicato.
Con una difesa legale mirata puoi dimostrare l’imposta già versata in UK, contestare le pretese dell’Agenzia delle Entrate e ridurre le sanzioni.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro la doppia imposizione UK–Italia inizia qui..