Accertamento Fiscale Su Lavoro Nero: Come Calcola Il Reddito L’agenzia E Come Difendersi

Hai ricevuto un accertamento dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestato l’impiego di lavoratori in nero? In questi casi, oltre alle sanzioni in materia di lavoro, il Fisco procede a stimare i redditi non dichiarati utilizzando criteri presuntivi. Questo porta al recupero di imposte, contributi e IVA su somme che potrebbero essere superiori a quelle effettivamente corrisposte. Conoscere le regole di calcolo e come difendersi è fondamentale.

Come l’Agenzia delle Entrate calcola i redditi da lavoro nero
– Assume che i compensi pagati ai lavoratori non regolari costituiscano costi occulti per l’impresa o il professionista
– Considera i rapporti di lavoro irregolari come indice di ricavi non contabilizzati
– Utilizza le dichiarazioni dei lavoratori, i verbali ispettivi e i flussi bancari come base per la ricostruzione
– Può applicare presunzioni induttive, stimando i ricavi in misura superiore rispetto alle somme accertate come pagate in nero
– Nei casi più gravi, procede a ricostruzioni globali del fatturato, considerando l’esistenza del lavoro nero come prova di un’evasione strutturale

Cosa rischi in caso di accertamento
– Recupero di imposte sui maggiori redditi presunti
– Recupero di contributi previdenziali e assicurativi non versati
– Sanzioni fiscali dal 90% al 180% delle imposte accertate
– Sanzioni amministrative e interdittive in materia di lavoro
– Possibile contestazione di reati tributari se gli importi superano le soglie penali
– Azioni esecutive (pignoramenti, ipoteche, sequestri) in caso di mancato pagamento

Come difendersi da una contestazione per lavoro nero
– Dimostrare che i rapporti di lavoro erano occasionali o saltuari, non soggetti a regolare assunzione
– Contestare i criteri di calcolo presuntivi utilizzati dall’Agenzia delle Entrate
– Presentare documenti e prove che ridimensionino l’entità dei compensi contestati
– Evidenziare che le somme non hanno generato ricavi occulti, ma solo costi non contabilizzati
– Impugnare l’avviso di accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere la riduzione o l’annullamento della pretesa

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i verbali ispettivi e l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate
– Contestare l’uso di presunzioni arbitrarie e ricostruzioni induttive sproporzionate
– Predisporre memorie difensive e ricorsi con prove documentali a supporto
– Difendere il contribuente sia in sede tributaria che, se necessario, in sede penale-tributaria
– Negoziare soluzioni agevolate con l’Agenzia delle Entrate per ridurre l’impatto economico

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– La riduzione dei ricavi presunti attribuiti all’impresa o al professionista
– L’annullamento parziale o totale della contestazione fiscale
– La diminuzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle procedure esecutive collegate
– La tutela del patrimonio personale e aziendale da pretese sproporzionate

⚠️ Attenzione: la presenza di lavoratori in nero è un indice che il Fisco utilizza per giustificare ricostruzioni induttive pesanti. Tuttavia, queste presunzioni possono essere contestate: con prove concrete e difesa tecnica è possibile ridurre in modo significativo l’impatto dell’accertamento.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in difesa tributaria e diritto del lavoro – ti spiega come l’Agenzia delle Entrate calcola il reddito in caso di lavoro nero e quali strategie difensive adottare.

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Introduzione

Aggiornato ad agosto 2025 – L’impiego di lavoratori in nero (cioè senza regolare assunzione e dichiarazione ai fini fiscali) espone il datore di lavoro a verifiche fiscali e a pesanti conseguenze economiche e sanzionatorie. In questa guida avanzata esamineremo come l’Agenzia delle Entrate ricostruisce il reddito d’impresa in presenza di lavoro irregolare (ossia non dichiarato) e quali sono gli strumenti di difesa a disposizione del contribuente (dal punto di vista di chi subisce l’accertamento). La trattazione è improntata ad un linguaggio tecnico-giuridico ma divulgativo, con riferimenti normativi italiani e giurisprudenza aggiornata al 2025, rivolgendosi ad avvocati, imprenditori e privati che necessitino di un quadro completo della materia. Troverete inoltre tabelle riepilogative, esempi pratici, modelli fac-simile e una sezione Domande & Risposte per chiarire i dubbi più frequenti.

Normativa di riferimento e presupposti dell’accertamento per lavoro “in nero”

Il lavoro “in nero” si configura quando un lavoratore subordinato viene impiegato senza le comunicazioni obbligatorie di instaurazione del rapporto e senza il versamento dei relativi contributi e imposte. Dal punto di vista fiscale, ciò significa che i compensi corrisposti al lavoratore non risultano dalle scritture contabili dell’azienda né dalle dichiarazioni dei redditi. Questa situazione costituisce un grave indice di irregolarità contabile che può legittimare l’Agenzia delle Entrate a procedere ad un accertamento fiscale di tipo presuntivo sui redditi non dichiarati.

Le norme cardine in materia di accertamento tributario sono contenute nel DPR 29 settembre 1973 n. 600. In particolare, l’art. 39 di tale decreto disciplina gli accertamenti sui redditi d’impresa in base alle scritture contabili. Esso prevede diverse modalità di accertamento: il metodo analitico-contabile, l’induttivo extracontabile puro e un metodo misto detto analitico-induttivo. In linea generale:

  • Nell’accertamento analitico-contabile l’Ufficio rettifica singole voci di reddito o di costo, partendo dalle risultanze della contabilità, eventualmente avvalendosi di presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti. Questo metodo presuppone che la contabilità sia attendibile nel suo complesso e non presenti irregolarità gravi.
  • L’accertamento induttivo puro (extracontabile), disciplinato dall’art. 39 comma 2 DPR 600/1973, avviene prescindendo completamente dalle scritture contabili, quando queste sono totalmente inattendibili o vi sono violazioni gravi specifiche (ad es. omessa dichiarazione, mancata tenuta delle scritture, libri falsi, ecc.). In tal caso l’Amministrazione può determinare il reddito con qualsiasi dato o elemento a sua disposizione, utilizzando anche mere presunzioni semplicissime (non occorre che siano gravi, precise e concordanti). È quindi il metodo più radicale, applicabile solo in presenza di irregolarità estreme tassativamente previste dalla legge.
  • L’accertamento analitico-induttivo (o “misto”), disciplinato dall’art. 39 comma 1 lett. d) DPR 600/1973, consente invece all’Ufficio di rettificare il reddito anche in presenza di una contabilità formalmente tenuta, ma individuando gravi incongruenze o elementi extra-contabili che rendono i dati dichiarati parzialmente inattendibili. Si tratta di un accertamento mirato: la contabilità è regolare nelle forme, ma si riscontra qualche elemento (anche extracontabile) che ne mette in dubbio la completezza o veridicità. In tali casi l’Ufficio può ricostruire induttivamente solo alcune componenti del reddito, sempre basandosi su presunzioni semplici dotate però dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti (a differenza dell’induttivo puro che ammette anche presunzioni semplici prive di questi requisiti).

La presenza di lavoratori in nero rientra proprio in questo ambito: anche se l’azienda presenta una contabilità apparentemente regolare, l’impiego di dipendenti non registrati fa emergere un scostamento tra realtà effettiva e quanto riportato nei libri contabili. La giurisprudenza – con orientamento ormai consolidato – qualifica l’utilizzo di manodopera irregolare come un elemento presuntivo grave e preciso di inattendibilità parziale, che legittima l’accertamento analitico-induttivo ai sensi dell’art. 39, co.1, lett. d) DPR 600/1973. In altri termini, la scoperta di lavoratori in nero è considerata un fatto noto da cui l’Amministrazione finanziaria può dedurre in via logica l’esistenza di ricavi non dichiarati (e non solo di costi non contabilizzati).

Va sottolineato che non ogni minima irregolarità giustifica automaticamente un accertamento induttivo puro. Secondo la Cassazione, occorre valutare la gravità della violazione rispetto all’attendibilità complessiva dei conti. Tuttavia, l’impiego di personale “in nero” è generalmente ritenuto una violazione sufficientemente grave da poter inficiare la contabilità: ad esempio, la Corte di Cassazione ha affermato che avere anche un solo dipendente non registrato rende complessivamente inattendibile la documentazione fiscale e integra la presunzione di maggiori ricavi non dichiarati. In un caso, la presenza in un ristorante di tre lavoratori in nero è stata considerata circostanza idonea a legittimare l’accertamento induttivo (sebbene con alcune riduzioni operate dal giudice di merito) proprio perché quei lavoratori irregolari indicavano che i registri ufficiali non riflettevano appieno l’attività svolta.

Nota: La differenza tra accertamento analitico-induttivo e induttivo puro non è solo teorica, ma ha implicazioni pratiche importanti. Nel metodo analitico-induttivo l’onere della prova contraria a carico del contribuente è leggermente più favorevole rispetto all’induttivo puro, e – come vedremo – è possibile ottenere il riconoscimento di costi anche se non risultanti da contabilità (costi presunti). Viceversa, nell’induttivo puro il fisco può ignorare totalmente le scritture e il contribuente deve ricostruire da zero il proprio reddito con prove spesso difficili da reperire. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi di lavoro nero si ricorre al metodo analitico-induttivo e non a quello extracontabile puro, specie se l’azienda ha comunque tenuto i libri e presentato dichiarazioni per il resto dell’attività.

Il valore probatorio dei verbali ispettivi

Quando i lavoratori in nero vengono scoperti a seguito di ispezioni (dalla Guardia di Finanza, dall’Ispettorato del Lavoro o dagli enti previdenziali come INPS), l’accertamento fiscale spesso si fonda sui verbali ispettivi redatti da questi organi. È fondamentale sapere che i verbali redatti dai funzionari pubblici ispettivi fanno piena prova dei fatti constatati di persona dagli ispettori. Ciò significa, ad esempio, che se nel verbale si attesta che l’ispettore ha trovato Tizio intento a lavorare presso l’azienda senza risultare formalmente assunto, tale circostanza è legalmente provata (fino ad eventuale querela di falso) e il contribuente non potrà validamente negarla in giudizio, se non contestando formalmente il verbale stesso.

Diverso è il discorso per altri elementi riportati nel verbale ma non direttamente constatati dall’ispettore – ad esempio le dichiarazioni rese dai lavoratori stessi circa la durata o la retribuzione del rapporto in nero. Tali dichiarazioni di terzi non godono di fede privilegiata e costituiscono solo indizi liberamente valutabili dal giudice insieme al resto delle prove. In pratica: l’esistenza del lavoratore irregolare è un fatto ormai incontestabile se risulta a verbale, mentre la quantificazione del periodo lavorato o delle somme pagate “in nero” potrebbe essere oggetto di contestazione e richiedere ulteriori riscontri (es. testimonianze, documenti, ammissioni).

Riassumendo i presupposti: la scoperta di lavoro nero consente all’Agenzia Entrate di procedere ad un accertamento presuntivo del maggior reddito d’impresa, anche se la contabilità era formalmente regolare. Si configura un quadro di contabilità solo parzialmente attendibile, che autorizza l’uso di presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti, come riconosciuto da numerose pronunce della Cassazione. Resta comunque onere del Fisco indicare nell’atto di accertamento gli elementi concreti su cui si fonda la presunzione (es. numero di lavoratori irregolari, mansioni svolte, periodo di impiego, eventuali appunti extracontabili trovati, incongruenze nei dati economici, ecc.), in modo da permettere al contribuente di esercitare il diritto di difesa. Vediamo allora come l’Agenzia ricostruisce, in concreto, il reddito non dichiarato in queste situazioni.

Calcolo dei ricavi non dichiarati in presenza di lavoro nero

Come quantifica l’Agenzia delle Entrate il maggior reddito presunto derivante dall’impiego di lavoratori in nero? Il calcolo avviene generalmente in due fasi:

(1) Quantificazione del costo “in nero” sostenuto per i lavoratori irregolari. Questo è il punto di partenza: determinare quanto l’azienda ha pagato (o verosimilmente avrebbe pagato) di retribuzioni non contabilizzate. A seconda delle informazioni disponibili, possono presentarsi diverse situazioni :

  • Caso A – Dati completi: Se dall’ispezione risultano note le mansioni svolte, il periodo di impiego e l’ammontare effettivo della retribuzione corrisposta al lavoratore in nero, allora l’Ufficio può partire direttamente da questo dato certo . Ad esempio, se dal verbale risulta che un lavoratore non registrato ha percepito €1.200 al mese per 6 mesi, il costo totale in nero sarà di €7.200. Questo importo costituirà il costo effettivo non contabilizzato da cui muovere per ricostruire i ricavi nascosti.
  • Caso B – Mansioni e periodo noti, ma retribuzione ignota: In molti casi l’ispettore accerta che Tizio ha lavorato in nero per un certo periodo e con determinate mansioni, però non si riesce a provare l’importo esatto che gli è stato corrisposto (magari perché pagato in contanti senza tracce, e il lavoratore non dichiara la cifra oppure non è ritenuto attendibile su di essa). In tale scenario, la prassi corretta è di stimare la retribuzione presumibile in base ai parametri ufficiali. Tipicamente si assume come riferimento il CCNL applicabile nell’azienda per quella qualifica e per il periodo in questione. In altre parole, si ipotizza che il datore avrebbe dovuto – se il rapporto fosse stato regolare – pagare almeno lo stipendio previsto dal contratto collettivo di settore per quella posizione. Così, se un cameriere in nero ha lavorato 3 mesi, si utilizza la retribuzione mensile tabellare del CCNL Turismo per un cameriere di pari livello, moltiplicata per 3. Il risultato (ad es. €1.000 * 3 = €3.000) è preso come costo stimato delle retribuzioni in nero nel caso specifico. Questa metodologia garantisce un dato oggettivo e coerente con i minimi salariali legali.
  • Caso C – Periodo noto, ma mansioni e importi ignoti: È lo scenario più difficoltoso (ma non infrequente). L’ispezione accerta che uno o più lavoratori erano impiegati irregolarmente per un certo periodo di tempo, però non è chiaro che tipo di mansioni svolgessero né quanto venissero pagati. Ad esempio vengono trovate persone al lavoro senza contratto, ma l’azienda sostiene fossero lì occasionalmente o con ruoli non definiti, e non si dispone di testimonianze o documenti sui compensi. In questi casi limite, la metodologia suggerita dalla dottrina e condivisa dagli organi verificatori è di procedere comunque ad una stima prudenziale, secondo due possibili criteri:
  • Criterio C1: Se nell’azienda sono impiegati regolarmente più dipendenti con varie qualifiche, si può presumere che i lavoratori irregolari avessero una qualifica analoga a quella della categoria prevalente di dipendenti regolari. Ad esempio, se in un laboratorio tessile la maggior parte degli operai regolari sono cucitrici di 3° livello, è plausibile che anche le lavoratrici in nero svolgessero mansioni di cucitura di pari livello; quindi si potrebbe applicare il corrispondente livello retributivo CCNL per stimarne la paga.
  • Criterio C2 (preferito): In assenza di qualunque indicazione su mansioni e stipendi, è più equilibrato utilizzare come base la retribuzione minima legale. Si fa riferimento al cosiddetto minimale giornaliero di retribuzione previsto dall’art. 7 co.1 D.L. 463/1983 (conv. L. 638/1983) e aggiornato annualmente dall’INPS. Il minimale INPS stabilisce la retribuzione minima imponibile ai fini previdenziali per ogni giornata di lavoro. Applicando questo parametro (ad esempio circa €49 al giorno nel 2025 per il lavoro dipendente a tempo pieno), si ottiene un importo certo e fissato per legge, che evita di sovrastimare il costo. Questa soluzione è ritenuta la più prudente e garantista verso il contribuente quando mancano altri elementi: da un lato fornisce ai verificatori un punto di riferimento oggettivo, dall’altro non espone il datore a importi esagerati basati su ipotesi arbitrarie. Dunque, se un lavoratore in nero ha prestato attività per 100 giorni complessivi, si potrebbe stimare un costo almeno pari a 100 * [minimale giornaliero] (es. 100 * €49 = €4.900).

In tutte le ipotesi di cui sopra, una volta determinato (o stimato) il costo delle retribuzioni in nero, tale costo verrà riconosciuto come somma effettivamente uscita dalle casse aziendali (anche se non registrata in contabilità) e servirà come base per il passo successivo, ossia la ricostruzione dei ricavi non dichiarati correlati a quel costo.

(2) Stima dei ricavi “in nero” generati dall’impiego di manodopera irregolare. La logica sottostante, affermata con forza dalla giurisprudenza, è che un costo occulto per lavoro nero implica l’esistenza di ricavi occulti di entità pari o superiore a tale costo. Ciò per due ragioni fondamentali:

  • Copertura del costo: Per poter pagare stipendi in nero, l’impresa deve aver reperito risorse finanziarie non dichiarate. In primo luogo, dunque, si presume che l’azienda abbia conseguito ricavi non dichiarati almeno pari all’ammontare delle retribuzioni pagate in nero. Ad esempio, se un datore ha sborsato €10.000 in contanti per lavoratori irregolari, quantomeno dovrà aver incassato €10.000 “fuori bilancio” da qualche parte (vendite non fatturate, introiti non registrati) per disporre di quella somma.
  • Economicità e ricarico: Inoltre, un’impresa non assume personale (regolare o meno) con l’obiettivo di rimetterci. La spesa per il personale è finalizzata ad aumentare la capacità produttiva e quindi i ricavi dell’azienda, non semplicemente a ridurre gli utili. In condizioni normali di economicità, ogni lavoratore aggiuntivo dovrebbe generare ricavi superiori al proprio costo, altrimenti il datore di lavoro non avrebbe interesse a impiegarlo. La Cassazione ha sottolineato che l’impiego di manodopera in nero è considerato piuttosto un effetto dei maggiori introiti aziendali e non la causa: la possibilità di pagare stipendi non contabilizzati dimostra che l’impresa ha la capacità di produrre ricavi “in nero” in misura esponenziale rispetto a quei costi. In altre parole, chi sostiene costi occulti lo fa perché ottiene vendite occulte corrispondenti e con un certo margine di profitto, altrimenti non avrebbe senso economico.

Sulla base di questo principio logico-giuridico di maggior redditività presunta grazie alla manodopera irregolare, l’Agenzia delle Entrate (talvolta coadiuvata dalla Guardia di Finanza) impiega metodologie di calcolo induttivo per quantificare i maggiori ricavi non dichiarati. Tra le tecniche più accreditate e utilizzate troviamo:

  • Indice di produttività per addetto (ricavi per dipendente): consiste nel calcolare il fatturato medio per dipendente che l’azienda ottiene con i lavoratori regolarmente assunti, e applicare tale indice anche ai lavoratori irregolari, in modo da stimare quanto ulteriore fatturato questi ultimi possano aver generato. In pratica, si determina il rapporto:
  • Questo indice esprime quanti ricavi, in media, produce ciascun lavoratore regolare. Si suppone quindi che anche ogni lavoratore non registrato abbia contribuito in misura analoga ai ricavi, salvo adattamenti. Moltiplicando l’indice di produttività per il numero di lavoratori irregolari e per il periodo in cui hanno operato, si ottiene un importo di ricavi aggiuntivi attribuibili al lavoro nero. Ad esempio, se un ristorante ha dichiarato €300.000 di ricavi annui impiegando 5 dipendenti ufficiali (produttività €60.000 per addetto) e viene scoperto 1 cameriere in nero presente per l’intero anno, i verificatori potrebbero presumere €60.000 di ricavi non contabilizzati generati da quell’addetto irregolare. Se invece il cameriere in nero ha lavorato solo metà anno (6 mesi), il calcolo potrebbe essere proporzionato a quel periodo, ossia circa €30.000 di ricavi non dichiarati. Naturalmente tale metodologia va calibrata sulle peculiarità dell’impresa e del periodo considerato (ad esempio tenendo conto di fattori stagionali, orari part-time, ecc.), ma fornisce un criterio di massima che la giurisprudenza ha ritenuto persuasivo e attendibile se applicato con razionalità. Vale la pena notare che questo approccio è in linea con le istruzioni operative interne della Guardia di Finanza, che già in una circolare del 2018 indicava la formula dell’“indice di produttività per addetto” come strumento per la ricostruzione induttiva del fatturato in presenza di lavoro irregolare.
  • Ricostruzione per ore lavorative non contabilizzate: Variante del metodo precedente, si focalizza sulle ore di lavoro fornite dai dipendenti in nero. Se ad esempio dagli appunti extracontabili o da dichiarazioni emerge che i lavoratori irregolari hanno prestato complessivamente X ore di manodopera, si può calcolare quanti ricavi genera in media un’ora di lavoro dipendente nell’azienda. Questo richiede di conoscere (o stimare) la produttività oraria media dei dipendenti regolari. Nelle aziende manifatturiere talvolta si utilizza il parametro del valore aggiunto per ora lavorata o simili indicatori economici. Una volta individuata la resa oraria, la si moltiplica per le ore “in nero” per ottenere i ricavi nascosti.
  • Percentuale di ricarico sui costi in nero: In assenza di riferimenti interni, un approccio induttivo semplificato è ipotizzare che i ricavi non dichiarati siano pari al costo delle retribuzioni in nero maggiorato di un margine. Questo sulla base dell’idea che l’azienda abbia applicato ai costi occulti lo stesso margine di profitto che mediamente realizza sui costi dichiarati. Ad esempio, se l’azienda opera con un ricarico medio del 30% sui costi del personale, e sono stati accertati €10.000 di stipendi in nero, si potrebbe stimare €13.000 di ricavi in nero (10.000 + 30%). Questo metodo è più grossolano e meno ancorato a dati reali, quindi potrebbe essere utilizzato solo come raffronto o controllo di congruità rispetto ad altri metodi più precisi (come l’indice per addetto).
  • Studi di settore / ISA e altre medie settoriali: Per alcune attività, l’Agenzia può confrontare l’azienda verificata con i parametri medi di settore. Ad esempio, se in un laboratorio artigianale la presenza di un certo numero di operai implica normalmente un determinato volume di produzione e fatturato (secondo studi di settore o indici ISA), il fatto che l’azienda abbia prodotto molto meno fatturato potrebbe essere spiegato solo con il mancato conteggio di vendite, suggerendo di colmare il gap. Questo approccio però è meno diretto e oggi mitigato dall’uso degli ISA come indicatori di affidabilità fiscale: difficilmente verrà usato come unico fondamento dell’accertamento, ma può corroborare altre evidenze.

Una volta determinati i maggiori ricavi presunti, il passo successivo è tradurli in maggior reddito imponibile. Qui è cruciale evidenziare un principio di equità tributaria: all’aumento di ricavi deve corrispondere il riconoscimento dei costi sostenuti per ottenerli, anche se tali costi erano occulti. Non sarebbe corretto, infatti, tassare l’intero importo dei ricavi in nero come se fossero profitto netto, ignorando che una parte di essi è servita a pagare salari (o altre spese) in nero.

Facciamo un esempio pratico per chiarire: supponiamo che, grazie ai metodi sopra, il Fisco ritenga che un’impresa edile abbia realizzato ricavi non dichiarati per €50.000, avendo impiegato alcuni operai in nero per un certo periodo. Contestualmente, si è stimato che l’importo dei salari in nero corrisposti a quegli operai sia di €20.000. È evidente che se l’azienda avesse contabilizzato tutto, avrebbe dichiarato €50.000 di ricavi in più ma anche €20.000 di costi in più (salari) deducibili, per cui l’utile imponibile aggiuntivo sarebbe di €30.000. Tassare l’intero importo di €50.000 come reddito imponibile sarebbe ingiusto, perché equivarrebbe a negare qualsiasi deduzione dei costi del lavoro sostenuti (punendo il contribuente più severamente di chi magari non tiene affatto contabilità, come vedremo tra poco).

Per lungo tempo, tuttavia, la prassi degli Uffici è stata quella di non riconoscere alcun costo se questo non risultava dalle scritture o da elementi certi. La giustificazione risiedeva nell’art. 109 del TUIR, il quale vieta di dedurre costi non documentati in contabilità (salvo poche eccezioni). In sede di accertamento analitico-induttivo, dunque, l’Amministrazione tendeva a recuperare a tassazione i ricavi in nero al lordo, lasciando al contribuente l’onere di provare l’esistenza di eventuali costi correlati con documenti certi, pena la loro indeducibilità. Ciò portava a risultati paradossalmente punitivi in modo eccessivo: chi aveva una contabilità nel complesso regolare ma occultava solo una parte di costi/ricavi finiva per essere tassato sull’intero importo occultato, mentre chi teneva contabilità totalmente inesistenti (accertamento induttivo puro) spesso beneficiava dell’applicazione di criteri forfettari che consideravano anche i costi medi di settore.

Questa disparità di trattamento è stata oggetto di critica e infine di intervento giurisprudenziale. Un punto di svolta si è avuto con la sentenza n. 10/2023 della Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato irragionevole escludere in assoluto il riconoscimento di costi nel caso di accertamento analitico-induttivo. La Consulta ha evidenziato che così facendo si finiva per punire più severamente il contribuente che aveva tenuto una contabilità parzialmente attendibile (mancandogli la possibilità di dedurre costi se non documentati analiticamente), rispetto a chi aveva violato completamente gli obblighi contabili (al quale invece, in accertamento induttivo puro, l’Ufficio spesso attribuisce d’ufficio costi figurativi o margini standard). In seguito a questa pronuncia, la Corte di Cassazione ha modificato il suo orientamento in favore di una maggiore apertura verso la deducibilità dei costi in sede di accertamento.

In particolare, con la recente ordinanza n. 19574 del 15 luglio 2025, la Suprema Corte ha confermato che anche nell’accertamento analitico-induttivo il contribuente può vedersi riconosciuti costi forfettari come contro-presunzione. In pratica, una volta che l’Ufficio presume ricavi non dichiarati basandosi su certi elementi, il contribuente ha diritto di opporre in detrazione i costi correlati, anche solo mediante presunzioni semplici a suo favore. Ciò rappresenta un importante strumento difensivo: ad esempio, di fronte a €50.000 di ricavi non contabilizzati derivanti da lavoro nero, il contribuente potrà almeno far valere (in sede di contraddittorio o di ricorso) l’esistenza di quei €20.000 di costi salariali non registrati, chiedendo che il maggior reddito imponibile sia calcolato al netto di essi. La Cassazione, nel caso oggetto dell’ord. 19574/2025, ha cassato la sentenza di appello proprio perché non aveva consentito la deduzione in via induttiva dei costi relativi ai ricavi occulti, richiamando il nuovo orientamento post-Corte Costituzionale.

In sintesi, oggi la situazione può riassumersi così: l’Ufficio calcola i maggiori ricavi in nero e li somma al reddito imponibile, ma il contribuente può ottenere (in sede amministrativa o contenziosa) lo scomputo dei costi sostenuti per realizzarli, anche se tali costi non erano documentati contabilmente. Questo garantisce un’imposizione sul solo utile reale non dichiarato, e non sull’intero giro d’affari occulto. È importante presentare adeguatamente questa istanza, come vedremo nella parte difensiva.

Vale la pena chiarire che il riconoscimento dei costi “in nero” non è automatico: l’azienda dovrà fornire elementi, anche presuntivi, della loro esistenza e quantificazione (es. copie di buste paga ufficiose, dichiarazioni dei lavoratori su quanto percepito, confronti con paghe CCNL, ecc.). Il giudice tributario potrà anche determinare tali costi in via equitativa o forfettaria, ad esempio riconoscendo una percentuale dei ricavi come costi (in passato alcune Commissioni hanno applicato forfettariamente una deduzione del 20-30% dei ricavi non dichiarati a titolo di costi, quando la documentazione era carente). L’importante novità è che oggi ciò è ammesso e anzi doveroso, mentre fino a pochi anni fa le stesse Commissioni respingevano tali richieste trincerandosi dietro la mancata prova “certa” dei costi.

Esempio pratico: Un caso concreto potrebbe aiutare a comprendere l’applicazione di quanto detto. Immaginiamo una piccola impresa manifatturiera (es. un laboratorio tessile) che nel 2024 dichiara 3 dipendenti ufficiali e €150.000 di ricavi. A seguito di un controllo, vengono trovate altre 2 sarte in nero che lavoravano lì da circa 8 mesi. Non ci sono buste paga in nero, ma dalle interviste le lavoratrici (seppur non “piene prova”) riferiscono di aver ricevuto circa €800 al mese ciascuna. Inoltre si rinviene un quaderno (brogliaccio) con annotazioni di produzione che evidenzia molte più ore lavorate di quelle compatibili con le sole 3 dipendenti regolari – segno quindi che c’era personale aggiuntivo non contabilizzato, come infatti confermato dalla presenza delle 2 sarte irregolari.

L’Agenzia, valutato il tutto, potrebbe procedere così:

  • Stima costo in nero: 2 sarte * €800/mese * 8 mesi = €12.800 di retribuzioni non registrate (cifra coerente col CCNL Tessili artigianato per operaie di livello medio, quindi accettabile). Questo è il costo occulto.
  • Indice di produttività per addetto: l’azienda con 3 dipendenti regolari e €150.000 di ricavi ha una produttività di €50.000 a dipendente/anno. Considerando 2 dipendenti in nero per 8 mesi (che su base annua equivarrebbero a 1,33 unità lavorative circa), i ricavi non dichiarati stimati sarebbero €50.000 * 1,33 = circa €66.500. Probabilmente l’Ufficio terrà conto che gli 8 mesi coprono la stagione di picco delle commesse, quindi potrebbe anche arrotondare per eccesso (es. €70.000) se ha elementi per ritenere che in quel periodo l’azienda abbia sfruttato al massimo la maggiore capacità produttiva.
  • Reddito imponibile aggiuntivo: se l’Ufficio considerasse solo i ricavi, imputerebbe €70.000 di ricavi non dichiarati. Tuttavia, applicando i nuovi indirizzi giurisprudenziali, dal maggior ricavo (€70.000) andrebbe sottratto il costo €12.800 sostenuto per realizzarlo (più eventualmente altri costi materiali: ad esempio se nel brogliaccio risultano consumi extra di tessuto non contabilizzati, anche quelli andrebbero considerati). Dunque il maggior reddito imponibile sarebbe attorno a €57.200. Su tale importo l’azienda dovrà poi pagare le imposte dovute (IRES o IRPEF, addizionali, IRAP se dovuta, etc.), oltre alle sanzioni.

Naturalmente l’azienda potrebbe contestare vari aspetti: ad esempio sostenere che il volume di affari aggiuntivo calcolato è eccessivo, oppure che quelle sarte in nero in realtà lavoravano meno ore di un dipendente normale (riducendo quindi la produttività effettiva), ecc. La difesa in sede amministrativa o giudiziaria può riuscire a ridurre queste pretese, come vedremo. Ma in linea di principio l’approccio dell’Ufficio sarebbe giuridicamente fondato, in quanto i lavoratori in nero giustificano una ricostruzione induttiva del reddito d’impresa e il metodo di calcolo per addetto è stato ritenuto legittimo dalla Cassazione (purché non rigido e aperto al contraddittorio col contribuente).

Da quanto esposto appare chiaro che l’accertamento fiscale sul lavoro nero tende a colpire due fronti: da una parte recuperare le imposte sui redditi evasi (e sull’IVA evasa, se c’è stata mancata fatturazione di vendite), dall’altra sanzionare la violazione degli obblighi come sostituto d’imposta (ritenute sui salari non operate) e i connessi obblighi contributivi. Nella sezione seguente affronteremo proprio le sanzioni e conseguenze legali di un accertamento da lavoro nero, prima di passare alle strategie difensive.

Sanzioni fiscali, contributive e penali in caso di lavoro nero

Un accertamento fiscale su lavoro irregolare comporta molteplici tipi di sanzioni a carico del datore di lavoro (e in parte anche del lavoratore). Possiamo distinguerle in: sanzioni tributarie (per le imposte evase), sanzioni amministrative del lavoro (la cosiddetta maxi-sanzione per lavoro nero) e possibili rilievi penali in determinate circostanze. Vediamole separatamente per chiarezza, riportando in una tabella riepilogativa le principali voci.

Sanzioni tributarie (Amministrative) – Derivano dalla violazione delle norme fiscali relative alle dichiarazioni e ai versamenti. Nel contesto del lavoro nero, le violazioni tipiche sono: dichiarazione infedele dei redditiomessa fatturazione (IVA) su ricavi non dichiarati, omesso versamento di ritenute sui redditi di lavoro dipendente e omessa presentazione delle certificazioni (CU) e del modello 770 per i dipendenti non dichiarati. Ecco le sanzioni applicabili (riferite alla normativa vigente al 2025):

  • Maggiori imposte sui redditi (Irpef/Ires) evase: si configura come dichiarazione infedele se il contribuente aveva presentato la dichiarazione ma ha sotto-dichiarato i redditi. La sanzione ordinaria è pari al 90% della maggiore imposta dovuta (o del minor credito di imposta utilizzato), elevabile fino al 180% nei casi più gravi (ad esempio quando l’imposta evasa supera certe soglie). Nota: Recenti progetti di riforma mirano a ridurre questa sanzione al 70% in alcuni casi di ravvedimento, ma al 2025 la regola generale resta 90-180%. È previsto un minimo di €250. Se l’accertamento riguarda anche IVA o IRAP, si applicano le stesse percentuali di multa sul tributo evaso.
  • Omessa fatturazione o registrazione di operazioni (IVA evasa): è anch’essa una forma di infedele dichiarazione IVA. La sanzione è del 90% dell’IVA non versata, salvo casi di frode (uso di fatture false, ecc. comportano sanzioni aggravate dal 135% al 270%). Se l’IVA evasa è inferiore a €5.000 per anno, può essere qualificata diversamente (violazione minore con sanzione dal 5% al 10% dell’imponibile non fatturato).
  • Omessa applicazione delle ritenute fiscali sui salari in nero: il datore di lavoro, in qualità di sostituto d’imposta, avrebbe dovuto trattenere e versare le ritenute IRPEF sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti. Non avendolo fatto, si applica la sanzione per omesso versamento/omessa effettuazione di ritenute. La normativa (D.Lgs. 471/1997, art. 14) distingue: se la ritenuta non è stata proprio operata, si applica una sanzione pari al 20% dell’ammontare non trattenuto; se invece la ritenuta fu operata ma non versata, la sanzione sarebbe il 30% (caso però improbabile nel lavoro nero, dove di norma non si trattiene nulla). Nel nostro contesto, dunque, la sanzione tipica è 20% delle imposte che si sarebbero dovute trattenere al lavoratore. Esempio: su €10.000 di salari in nero, le ritenute IRPEF (ipotizzando aliquota base 23%) sarebbero €2.300; la sanzione amministrativa per il datore sarebbe di circa €460 (20% di 2.300). Attenzione: questa sanzione non sostituisce il pagamento dell’IRPEF dovuta – il Fisco infatti esigerà comunque il versamento delle imposte non trattenute, a titolo di sostituto d’imposta, eventualmente rivalendosi sul datore di lavoro.
  • Omessa presentazione delle Certificazioni Uniche e del modello 770: l’aver avuto lavoratori in nero implica che non sono state inviate le Certificazioni Uniche dei loro redditi né il 770 annuale completo. Sono previste sanzioni formali (generalmente €100 per ogni CU omessa, entro certi limiti) e sanzioni proporzionali per il 770 omesso (di norma 240€ se presentato con ritardo oltre l’anno). Queste sanzioni, tuttavia, sono spesso “assorbite” o trattate insieme alle maggiori sanzioni sostanziali sulle imposte evase.

Maxi-sanzione amministrativa sul lavoro sommerso (violazione lavoro) – Oltre alle sanzioni fiscali, il datore incorre nella cosiddetta maxisanzione per lavoro nero, prevista dall’art. 3 del D.L. 12/2002 (conv. L. 73/2002) e successive modifiche. Si tratta di una sanzione amministrativa irrogata dall’Ispettorato del Lavoro (e destinata allo Stato, non all’Agenzia Entrate), il cui importo varia in base alla durata del periodo lavorativo irregolare accertato. Gli importi sono stati recentemente aumentati dal D.L. 19/2024 (conv. L. 56/2024), per cui dal 2 marzo 2024 valgono le seguenti fasce:

  • Lavoro nero fino a 30 giorni effettivi: sanzione da €1.950 a €11.700 per ciascun lavoratore irregolare.
  • Lavoro nero da 31 a 60 giorni: sanzione da €3.900 a €23.400 per ciascun lavoratore.
  • Lavoro nero oltre 60 giorni: sanzione da €7.800 a €46.800 per ciascun lavoratore.

I range minimo e massimo indicano che l’importo esatto viene poi determinato dall’ispettorato in sede di ordinanza-ingiunzione, tenendo conto di eventuali attenuanti/aggravanti. È comunque prevista una riduzione significativa (fino ai minimi edittali) se il datore provvede alla regolarizzazione tramite la procedura di diffida nei termini prescritti (vedi oltre).

Sono inoltre previsti aggravamenti del 20% della maxisanzione se i lavoratori in nero rientrano in categorie particolarmente tutelate: ad esempio lavoratori stranieri privi di permesso, minori in età non lavorativa, percettori di Reddito di Cittadinanza o di altri ammortizzatori sociali. In caso di recidiva (datore già sanzionato nei 3 anni precedenti per lavoro nero), la sanzione aumenta di un ulteriore 20% (che si cumula con l’altro 20% se applicabile).

Sanzioni contributive (INPS/INAIL) – Dal versante previdenziale, l’azienda sarà chiamata a versare tutti i contributi evasi per i lavoratori in nero, maggiorati di interessi e sanzioni civili. La sanzione civile INPS per omesso versamento di contributi è pari al 30% annuo (2,5% al mese) sulle somme non versate, con un tetto massimo del 60% dell’importo dovuto, oltre al pagamento integrale dei contributi arretrati. Se però il datore regolarizza spontaneamente prima di contestazioni (o entro la diffida), le sanzioni civili possono essere ridotte. Inoltre vi è una sanzione amministrativa per omessa iscrizione del lavoratore agli enti previdenziali, che può variare da circa €150 a €500 per ciascun lavoratore non registrato (ma anch’essa solitamente contenuta se c’è adempimento spontaneo in diffida).

Profili penali tributari – L’utilizzo di lavoro nero può sfociare anche in ipotesi di reato tributario, ma solo se ricorrono certe condizioni di entità. Le fattispecie potenzialmente rilevanti sono:

  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): se l’evasione fiscale realizzata supera le soglie di rilevanza penale. Attualmente il reato scatta se l’imposta evasa (tra imposte sui redditi e IVA) supera €100.000 e contemporaneamente i ricavi non dichiarati superano il 10% di quanto dichiarato oppure in valore assoluto superano €2 milioni. Ad esempio, se un’azienda dichiarava €1.000.000 di ricavi ma ne ha occultati €300.000 (30%) con imposta evasa di €90.000, non sussiste reato perché l’imposta evasa non arriva a 100k (anche se la percentuale eccede il 10%). Se invece l’imposta evasa fosse 120k (ad es. €400k di ricavi occultati), allora scatta il penale. La pena prevista va da 2 a 4 anni di reclusione (salvo attenuanti).
  • Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): non ricorre se l’azienda comunque presentava la dichiarazione (anche se infedele). Può riguardare il lavoratore in nero stesso se, dovendo presentare dichiarazione personale, non lo ha fatto (soglia €50.000 di imposta evasa per il reato di omessa dichiarazione).
  • Emissione di fatture false (art. 8) o altri reati fraudolenti: poco pertinenti al caso tipico del lavoro nero, a meno che l’azienda abbia annotato costi fittizi per mascherare l’uscita di denaro verso i lavoratori (ad esempio simulando spese inesistenti per coprire il pagamento di salari in nero). In tal caso potrebbero ipotizzarsi reati di false fatturazioni o di dichiarazione fraudolenta.
  • Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000): è il reato che punisce il datore di lavoro che non versa le ritenute IRPEF operate ai dipendenti per un ammontare superiore a €150.000 annui. Nel lavoro nero, tuttavia, le ritenute non sono mai state operate né certificate, quindi tecnicamente questa fattispecie non si applica (si riferisce alle ritenute risultanti dalle certificazioni). Tuttavia, se il datore dovesse in sede di regolarizzazione presentare in ritardo il modello 770 con quelle ritenute e poi non pagarle entro i termini, potrebbe incorrere nel reato l’anno successivo. In sintesi: finché il lavoro è occulto, non c’è “omesso versamento di ritenute certificate” (non essendoci certificazione), ma vi è pur sempre l’obbligo di versare le imposte non versate – l’inadempimento di tale obbligo verrà sanzionato amministrativamente (20% come detto sopra) e solo in casi anomali potrebbe avere strascichi penali se si emettono dichiarazioni tardive mendaci.
  • Reati previdenziali (L. 638/1983, art. 2): l’omesso versamento di contributi previdenziali all’INPS per importi superiori a €10.000 annui è reato punito con la reclusione fino a 3 anni e multa fino a €1.032. Questo reato, depenalizzato per un periodo, è stato reintrodotto e attualmente prevede soglie diverse: omesso versamento di contributi dovuti (e non prescritti) oltre €10.000 annui è penale; sotto tale soglia resta illecito amministrativo. Nel caso del lavoro nero, il datore non versa contributi per i lavoratori irregolari: se l’ammontare annuale di contributi evasi supera 10k, può quindi scattare l’accusa di omesso versamento di contributi previdenziali. La difesa spesso obietta che finché il lavoratore era sconosciuto all’INPS il datore non “versava” perché neppure lo aveva denunciato; ma giurisprudenza e prassi equiparano la condotta al mancato versamento dovuto a seguito dell’accertamento, quindi oltre la soglia scatta il penale.

Conseguenze per il lavoratore in nero: anche il lavoratore stesso non è esente da rischi. Sul piano fiscale, egli dovrebbe comunque dichiarare gli importi percepiti in nero come redditi da lavoro e pagarci l’IRPEF. Se non lo fa (di solito non lo fa), può subire a sua volta un accertamento fiscale per redditi non dichiarati. L’Agenzia Entrate, una volta identificato il lavoratore, potrebbe emettere un avviso di accertamento personale richiedendogli le imposte dovute sul salario in nero ricevuto, più interessi e sanzione del 90% (dichiarazione infedele) sulla relativa IRPEF. In pratica, il lavoratore si vedrebbe tassare ciò che ha guadagnato in nero. Va detto che spesso l’Amministrazione concentra l’azione sul datore (come sostituto) per semplicità, ma nulla toglie che anche il lavoratore possa essere destinatario di un avviso. Ciò avviene specialmente se il lavoratore ha percepito somme consistenti o se, ad esempio, fruiva di sussidi indebiti (es. disoccupazione) mentre lavorava: in tal caso l’INPS richiederà la restituzione dei sussidi e potrà esserci anche un profilo penale a suo carico (truffa ai danni dello Stato, indebita percezione di erogazioni pubbliche, falso ideologico nelle autocertificazioni per l’ISEE, ecc.). Ad esempio, un lavoratore in nero che percepiva Reddito di Cittadinanza o NASpI rischia, se scoperto, un procedimento penale per indebita percezione di contributi e per false dichiarazioni (avendo dichiarato di essere disoccupato).

Tabella riepilogativa sanzioni principali:

ViolazioneSanzione amministrativa (importi)Soggetto colpito
Maggiori imposte su redditi (infedele)90% dell’imposta evasa (fino a 180% nei casi gravi). Riducibile a 1/3 con definizione agevolata (acquiescenza) o a 1/6 con adesione. Minimo €250.Datore (contribuente)
IVA non dichiarata90% dell’IVA evasa (fino a 180% se aggravanti) – principi simili a sopra.Datore
Omessa ritenuta su redditi lavoratore20% dell’importo non trattenuto (nel nostro caso IRPEF su salari). Sanzione ridotta a metà (10%) se pagata entro 90gg.Datore (sostituto imposta)
Omesso versamento ritenute operate30% dell’importo non versato (non applicabile se non furono operate affatto).Datore
Omessa presentazione mod. 770/CU€100 per ogni certificazione omessa (max €50k) + sanz. fissa mod.770 tardivo (€258). Possibili riduzioni con ravvedimento.Datore
Maxi-sanzione lavoro nero€1.950–11.700 per lav. fino 30 gg; €3.900–23.400 per 31-60 gg; €7.800–46.800 oltre 60 gg. +20% se minore, clandestino o percettore sussidi. Ridotta al minimo se regolarizza in diffida.Datore
Omessi contributi previdenzialiVersamento integrale dovuto + sanzione civile INPS 30% annuo (max 60%). Reato se > €10.000 annui non versati.Datore
Lavoratore – redditi non dichiaratiIRPEF + sanzione 90% imposta evasa. Eventuale accertamento sintetico (redditometro) se spese manifestamente incoerenti col reddito dichiarato.Lavoratore
Lavoratore – indebita percezione sussidiDecadenza dal beneficio + reato (es. art. 483 CP falso in atto pubblico e art. 316-ter CP indebita percezione) se percepiva NASpI, RdC o altri aiuti come indigente.Lavoratore

Oltre a queste, ci sono ulteriori conseguenze: ad esempio la possibile sospensione dell’attività imprenditoriale disposta dall’Ispettorato del Lavoro se riscontra oltre il 10% di personale in nero sul totale dei lavoratori presenti (o almeno 1 lavoratore irregolare in aziende con meno di 10 dipendenti). Tale sospensione è una misura cautelare che il datore può far revocare effettuando la regolarizzazione immediata e pagando una sanzione aggiuntiva (importo fisso attorno a €2.500).

Da questo quadro complesso appare evidente che il datore di lavoro “colto in fallo” con lavoratori in nero si trova esposto su più fronti: fiscali, previdenziali e lavoristici. Ciò rende fondamentale mettere in atto una strategia di difesa e regolarizzazione per contenere i danni. Nel prossimo capitolo ci focalizzeremo proprio su come difendersi efficacemente in sede di accertamento fiscale, quali passi compiere e quali strumenti normativi utilizzare per ridurre imposte e sanzioni.

Come difendersi da un accertamento fiscale per lavoro nero

Affrontare un accertamento fiscale basato su lavoro nero richiede un approccio strategico e tempestivo. Il contribuente (datore di lavoro) ha a disposizione vari strumenti deflattivi del contenzioso in fase amministrativa, oltre ovviamente alla possibilità di fare ricorso al giudice tributario. In questa sezione esamineremo le mosse difensive da compiere, suggerendo le best practice per tutelare i propri diritti e, se possibile, ridurre l’esborso di imposte e sanzioni. Partiremo dalle azioni immediate da intraprendere quando si riceve un processo verbale o un avviso, per poi entrare nel dettaglio delle possibili contestazioni di merito e dei rimedi impugnatori.

Prima fase: dal Verbale di contestazione all’Avviso di accertamento

Spesso il primo atto con cui il contribuente viene a conoscenza dell’accertamento è il Processo Verbale di Constatazione (PVC) redatto dalla Guardia di Finanza o il verbale di accertamento dell’Ispettorato del Lavoro. In questa sede ci concentriamo sul profilo fiscale, tenendo presente però che i due ambiti (lavoristico e tributario) interagiscono.

  • Verbale ispettivo (lavoro): Se l’accesso iniziale è stato condotto dall’Ispettorato del Lavoro o dall’INPS, al termine verrà notificato al datore un verbale unico di accertamento e notificazione della maxi-sanzione lavoro nero e delle altre violazioni. Questo verbale normalmente viene trasmesso per conoscenza anche alla Guardia di Finanza o Agenzia Entrate per gli eventuali profili fiscali. Dal momento della notifica, il datore ha 120 giorni per provvedere alla diffida: ossia regolarizzare i lavoratori e pagare i contributi e la sanzione minima, in cambio dell’estinzione della maxi-sanzione (o meglio, del suo pagamento al minimo edittale). Se l’impresa coglie questa opportunità, sul lato fiscale ciò può far vedere di buon occhio al Fisco il ravvedimento operoso (ad esempio, il datore potrebbe contestualmente presentare dichiarazioni integrative per gli anni in questione dichiarando i maggiori ricavi e pagando spontaneamente parte delle imposte dovute – vedasi ravvedimento operoso più avanti).
  • PVC Guardia di Finanza (fiscale): Se l’accertamento è condotto dalla Guardia di Finanza (spesso in collaborazione con l’Ispettorato), viene redatto un PVC fiscale che dettaglia le violazioni tributarie riscontrate (maggiori ricavi, IVA evasa, ritenute non operate, ecc.). Questo PVC viene rilasciato al contribuente, il quale ha 60 giorni per presentare osservazioni e memorie difensive prima che l’Agenzia delle Entrate emetta l’eventuale avviso di accertamento (obbligo di contraddittorio preventivo nei controlli multidisciplinari). È molto importante sfruttare questa finestra temporale: presentare entro 60 giorni delle osservazioni scritte al PVC può talvolta convincere l’Ufficio a ridurre o rivedere qualche addebito prima dell’atto finale, oppure porre le basi per una successiva trattativa in adesione.
  • Invito al contraddittorio: In attuazione del principio di collaborazione preventiva, l’Agenzia delle Entrate, prima di emettere un avviso di accertamento in materia di imposte sui redditi e IVA, deve invitare il contribuente a comparire per un contraddittorio (art. 5-ter D.Lgs. 218/1997) quando intende procedere con accertamento basato su presunzioni semplici. Questo include gran parte dei casi di accertamento analitico-induttivo da lavoro nero. L’invito solitamente contiene la descrizione dei fatti (es: presenza lavoratori in nero e presumibili ricavi non dichiarati) e una quantificazione provvisoria delle maggiori imposte dovute. Se ricevete un Invito al contraddittorio, è cruciale partecipare alla convocazione (o chiedere un rinvio motivato) e presentarsi con un professionista di fiducia per far valere le proprie ragioni. Durante il contraddittorio, potete fornire documenti, spiegazioni, rettifiche ai dati: ad esempio, contestare il periodo di lavoro attribuito ai dipendenti in nero (dimostrando che sono stati presenti meno giorni di quanto presunto), evidenziare che parte dei ricavi ritenuti nascosti erano in realtà stati dichiarati (ad es. incassi registrati ma mal allocati), e soprattutto chiedere già in questa sede il riconoscimento dei costi correlati (come spiegato prima) con relative prove. Tutto ciò verrà verbalizzato. Se riuscite a convincere l’Ufficio su qualche punto, l’avviso definitivo potrebbe risultare più leggero. Se non trovate un accordo, l’Agenzia emetterà l’avviso decorsi almeno 60 giorni dall’invito. (Va notato che l’invito obbligatorio non si applica in alcuni casi, ad esempio per atti emessi in esito a PVC GdF già notificato da oltre 60 giorni o in casi di particolare urgenza: in tali situazioni, potreste ricevere direttamente l’avviso.)
  • Avviso di accertamento: È l’atto formale dell’Agenzia delle Entrate che determina il maggior reddito imponibile e le imposte dovute, comprensive di sanzioni e interessi. Deve essere motivato (cioè spiegare su quali elementi si basa la rettifica, tipicamente richiamando il verbale ispettivo e le risultanze emerse). L’avviso ha natura di titolo esecutivo: se entro 60 giorni dalla notifica non viene impugnato, diventa definitivo e l’importo viene iscritto a ruolo per la riscossione coattiva . Pertanto entro 60 giorni il contribuente deve decidere se ed in che modo attivarsi (pagamento, adesione, ricorso…). È fondamentale non far trascorrere inutilmente questo termine, altrimenti ogni difesa diviene preclusa.

Alcune verifiche preliminari sull’avviso: controllare che sia sottoscritto dal dirigente competente (la mancanza di firma del capo ufficio o delega irregolare è motivo di nullità), che rechi l’indicazione dell’ufficio e del responsabile del procedimento, e che sia stato notificato correttamente. Questi sono vizi formali che, se presenti, possono essere eccepiti (anche se spesso l’Agenzia è attenta su tali aspetti). Inoltre, verificare i termini di decadenza: l’avviso deve essere emesso entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ad esempio, per redditi 2019 -> 31/12/2024), oppure del settimo anno se la dichiarazione era omessa. Tali termini sono prorogati di +2 anni in caso di PVC GdF o di reati tributari segnalati. Se ritenete che l’accertamento riguardi un periodo ormai decaduto (oltre i termini), potete far valere la decadenza come motivo di nullità.

Ricevuto l’avviso, le opzioni immediate sono:

  1. Acquiescenza (pagamento con sanzioni ridotte): Se riconoscete la fondatezza dell’accertamento o ritenete di non avere margini di difesa, potete valutare la cosiddetta acquiescenza: pagando entro 60 giorni l’intero importo delle imposte richieste e degli interessi, e solo 1/3 delle sanzioni (invece che l’intero), l’atto si intende definito e non verrà impugnato. Questo comporta una riduzione delle sanzioni di due terzi (sconto del 66%). Ad esempio, su una sanzione di €9.000 paghereste €3.000. L’acquiescenza esclude poi la possibilità di ricorso. È una scelta drastica ma talvolta conveniente se la pretesa è chiaramente corretta o se l’Ufficio ha già accordato uno sconto e si vuole chiudere la vicenda con certezza. Nel caso di lavoro nero, però, difficilmente il contribuente è completamente d’accordo con i calcoli del Fisco, quindi l’acquiescenza pura è poco frequente. Può essere un’opzione se l’ufficio, ad esempio, ha già tenuto conto di molte osservazioni e si è arrivati a un importo ridotto gestibile.
  2. Istanza di accertamento con adesione: È uno strumento deflattivo previsto dal D.Lgs. 218/1997. Presentando un’istanza di adesione all’ufficio entro il termine per il ricorso (60 gg), si apre una fase di trattativa con l’Agenzia per cercare un accordo transattivo sull’imponibile e sulle sanzioni. L’istanza va presentata in carta libera, indicando gli estremi dell’atto impugnato e la volontà di avviare l’adesione. La notifica dell’istanza sospende i termini per fare ricorso per 90 giorni. L’ufficio vi convocherà (di solito entro 15-30 giorni) per una o più riunioni. In tale sede potrete negoziare: ad esempio, fornire ulteriori documenti, far presente che un dipendente in nero ha lavorato meno mesi di quanto ipotizzato, o che i ricavi stimati sono eccessivi rispetto alla capacità produttiva, ecc. L’ufficio, dal canto suo, potrebbe proporre una riduzione parziale del reddito accertato oppure uno sconto sulle sanzioni (oltre a quello di legge). Se si raggiunge un accordo, si redige un atto di adesione con le nuove somme dovute. Le sanzioni sono automaticamente ridotte a 1/3 (come nell’acquiescenza) per legge. Quindi, aderire conviene comunque per la riduzione sanzionatoria. Se non si raggiunge accordo, verrà emesso un verbale di esito negativo e i 60 giorni (più 90 di sospensione) continuano a decorre per poter fare ricorso. L’adesione è spesso uno strumento utile nei casi di accertamento su presunzioni, perché consente di trovare un compromesso: il Fisco preferisce incassare presto una somma ragionevole piuttosto che impelagarsi in un lungo contenzioso con rischio di soccombenza.
  3. Ricorso alle Commissioni Tributarie (ora Corti di Giustizia Tributaria): Se non si opta per definizioni in via amministrativa (o se queste falliscono), resta la strada del ricorso giudiziario. Il ricorso va presentato entro 60 giorni (prorogati di eventuale sospensione per adesione) alla nuova Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente per territorio (ex Commissione Tributaria Provinciale). Dal 2023 il processo tributario è telematico: il ricorso si predispone e si invia tramite il Portale della Giustizia Tributaria (SIGIT) oppure tramite PEC, firmato digitalmente dall’avvocato o dal commercialista abilitato. Nel ricorso si devono indicare i motivi di impugnazione (vedi oltre quali contestazioni sollevare in caso di lavoro nero) e può essere richiesta la sospensione dell’esecuzione dell’accertamento se la riscossione imminente potrebbe causare grave danno. Contestualmente al ricorso va proposta, se dovuta, l’istanza di reclamo/mediazione (obbligatoria se il valore della lite – imposte più sanzioni – non supera €50.000). In pratica, per le liti fino a 50k il ricorso stesso inizialmente vale come reclamo: l’Ufficio ha 90 giorni per eventualmente accogliere in tutto o in parte il reclamo o proporre una mediazione (riducendo sanzioni al 35% in caso di conciliazione prima del giudizio). Se trascorrono 90 giorni senza accordo, il ricorso acquista efficacia e la causa prosegue. In caso di esito positivo, il reclamo può portare a una definizione bonaria con sanzioni ridotte al 35% (in luogo del 100%). Questa percentuale si confronti col 33% dell’adesione: di fatto simili. Si noti che presentare ricorso non preclude di chiudere la lite successivamente con conciliazione giudiziale.
  4. Pagamento rateale: Indipendentemente dalla via scelta (ricorso o definizione), il contribuente può chiedere la rateizzazione delle somme dovute. Ad esempio, se si aderisce o acquiesce, si può dilazionare fino a 8 rate trimestrali (o 16 se importi oltre 50k). Anche se si va in contenzioso, in caso di soccombenza si potranno rateizzare le somme iscritte a ruolo. Nel frattempo, però, se si fa ricorso occorre valutare di versare un importo pari ad 1/3 delle imposte accertate per evitare che dopo i 60 giorni parta la riscossione forzata di quel terzo (ai sensi dell’art. 15 DPR 602/73, la riscossione frazionata prevede che dopo 60 giorni l’Agenzia Riscossione può intanto riscuotere un terzo, anche pendendo il giudizio, salvo sospensione concessa).
  5. Istanza di autotutela: Sin dal primo momento (dalla notifica dell’avviso), si può presentare anche una istanza di autotutela all’Ufficio che ha emesso l’atto, evidenziando eventuali errori palesi o giuridici e chiedendone l’annullamento o la rettifica. L’autotutela è a discrezione dell’Amministrazione: non sospende i termini di ricorso né l’esecutività dell’atto, ma in alcuni casi può portare a un esito rapido (ad esempio se effettivamente l’ufficio ravvisa un errore di calcolo o di persona, può annullare in tutto o parte l’accertamento). Non bisogna però farci troppo affidamento se non per questioni evidenti, ed è comunque prudente presentare ricorso nel frattempo per non far decadere la tutela giurisdizionale.

Vediamo ora quali argomentazioni difensive di merito si possono adottare contro un accertamento da lavoro nero, alla luce della normativa e della giurisprudenza.

Argomentazioni difensive e prova contraria

Nel contenzioso tributario, il contribuente può far leva su vari motivi di ricorso. Quelli rilevanti nel caso di accertamento da lavoro nero includono:

  • Contestare l’entità del maggior reddito accertato: Spesso l’azienda non nega la presenza di lavoratori in nero (difficilmente negabile, come visto), ma può contestare che da ciò derivino ricavi occulti così elevati. Si può sostenere, ad esempio, che l’apporto dei lavoratori in nero non abbia generato un volume di affari aggiuntivo proporzionale come presume il Fisco. Magari l’impresa aveva personale in nero non per far fronte a maggiori commesse, ma per ridurre straordinari ai dipendenti regolari o per altre ragioni non legate all’aumento di produzione. Nel ricorso si può affermare che la presunzione di maggiori ricavi non è grave e precisa in assenza di ulteriori riscontri: ad esempio, “la presenza di due lavoratori in nero non implica automaticamente che l’azienda abbia venduto di più, specie se non risultano vendite non fatturate né materie prime extra”. Questo argomento è stato talvolta sollevato (v. ricorso Cass. 19222/2021) ma la Cassazione l’ha rigettato, ritenendo logica la presunzione di capacità produttiva aumentata. Tuttavia, può essere efficace a livello di Commissione Tributaria soprattutto se supportato da evidenze: per esempio presentando i dati di produzione/vendita dei periodi in questione e mostrando che non vi è stato incremento significativo nonostante gli irregolari. Se si convince il giudice che il nesso “più personale = più ricavi” nel caso concreto è debole (magari perché l’azienda era in crisi e i neri servivano solo a rimpiazzare personale assente o ridurre costi, senza portare vendite aggiuntive), la presunzione fiscale potrebbe essere giudicata non abbastanza “concordante” e dunque le maggiori imposte annullate o ridotte.
  • Dimostrare un periodo di lavoro più breve: Spesso l’ispettore trova il lavoratore in nero in un dato giorno, ma non si sa da quanto tempo lavorasse lì. Il Fisco tende a presumere un periodo esteso (spesso l’intero anno o quantomeno vari mesi). Il contribuente può portare prova contraria che il rapporto irregolare è stato di durata minore. Quali prove? Ad esempio contratti a termine regolari di altri dipendenti che coprivano quelle mansioni fino a una certa data (da cui dedurre che l’irregolare è subentrato solo dopo), oppure testimonianze di clienti/fornitori che frequentando l’azienda possono confermare che quel lavoratore si è visto solo in uno specifico periodo. Anche le dichiarazioni rese dallo stesso lavoratore agli ispettori sono importanti: se questi ha ammesso di lavorare da X mesi, l’Ufficio prenderà tale periodo come riferimento. Se invece il lavoratore ha taciuto, l’Ufficio potrebbe presumere un anno intero. Diventa allora fondamentale, in fase di difesa, acquisire dal lavoratore una dichiarazione (magari in altra sede, es. giudizio del lavoro) che delimiti il periodo effettivo. Nel ricorso si può anche fare leva su elementi indiretti: ad esempio, l’analisi delle buste paga del personale regolare potrebbe mostrare che nei mesi antecedenti l’accertamento gli altri dipendenti facevano straordinari pesanti (indice che l’irregolare non c’era ancora, altrimenti non servivano tanti straordinari), mentre quando è arrivato l’irregolare gli straordinari sono calati. Ciò suggerisce un punto d’inizio.
  • Dimostrare retribuzioni in nero inferiori: Analogamente, se il Fisco ha stimato la paga “in nero” con un certo importo (es. CCNL), il contribuente potrebbe sostenere che in realtà pagava meno. Attenzione: questa linea difensiva è delicata perché in pratica si ammette di aver pagato in nero ma si discute solo il quantum. Tuttavia, nel contenzioso tributario ciò è ammesso (non c’è rischio penale per questa ammissione, essendo in sede tributaria) e può portare a un beneficio in termini di imposte. Ad esempio, se il CCNL prevede €1.200 mensili ma l’azienda riesce a provare (magari con testimonianze o con confronti con salari di altri irregolari in zona) che l’usuale pagamento “sommerso” per quella mansione era €800, potrebbe ottenere una riduzione del costo riconosciuto e quindi dei ricavi correlati. Ogni prova in tal senso è utile: estratti conto che mostrano prelievi di contante compatibili con stipendi più bassi, messaggi o email dove il lavoratore accetta un certo importo, etc.
  • Costi indiretti connessi ai ricavi in nero: Oltre ai costi dei salari, il contribuente può eccepire che per conseguire i maggiori ricavi non dichiarati ha sostenuto anche altri costi che l’Ufficio non ha considerato. Ad esempio: se un panificio ha prodotto e venduto più pane grazie ai panettieri in nero, avrà anche consumato più farina, lievito, energia ecc. Se questi consumi in più non sono stati contabilizzati (magari perché acquistava materie prime in nero, o perché aumentava la resa delle materie prime dichiarate), si può cercare di stimare tali costi e chiedere che vengano dedotti. Magari presentare i dati di acquisto di farine e mostrare che per sostenere l’ipotizzata produzione extra di 1000 kg di pane servivano 700 kg di farina in più, che costavano €X, e quindi ecco un ulteriore costo da detrarre dal reddito. In generale, far emergere tutti i costi correlati (materie prime, trasporti, macchinari usurati, ecc.) aiuta a ridurre la base imponibile in discussione.
  • Vizi procedurali: Sul piano procedurale, abbiamo già menzionato possibili vizi formali (firma, motivazione, termini). Un altro da considerare è la mancata instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale quando era obbligatorio. Ad esempio, se l’Agenzia ha emesso l’avviso senza invito al contraddittorio pur trattandosi di accertamento basato su presunzioni, il contribuente può eccepire la violazione del diritto al contraddittorio (ai sensi dello Statuto del Contribuente, art. 12 comma 7 L. 212/2000, e del citato D.Lgs. 218/97). La giurisprudenza però sul punto oscillava: oggi l’invito è obbligatorio per gli accertamenti dall’1/7/2020 in poi, quindi un omesso contraddittorio può portare all’annullamento dell’atto, a meno che l’ufficio non dimostri che il contribuente non si è presentato o c’era urgenza motivata. Dunque, se non siete stati né invitati né c’era un PVC con 60 giorni, è un motivo da far valere.
  • Cumulo giuridico sanzioni: Se l’accertamento contiene più sanzioni (es. infedele dichiarazione, omessa ritenuta, ecc.), si può chiedere l’applicazione del cumulo giuridico invece che quello materiale, se si ravvisa un unico disegno violativo. Questo in realtà l’ufficio dovrebbe averlo già fatto: ad esempio di solito applica una sanzione unica per infedele su tutta l’imposta (redditi+IVA) in base all’art. 12 D.Lgs.472/97, ma verificare. Così come la non duplicazione di sanzioni tra omessa ritenuta e infedele sullo stesso importo (di solito l’omessa ritenuta è considerata distinta perché colpisce il ruolo di sostituto).
  • Sospensione in pendenza di conciliazione: Durante il ricorso, è possibile chiedere la sospensione dell’atto non solo subito (in via cautelare) ma anche proporre una conciliazione giudiziale all’udienza. Se si trova un accordo con l’ufficio in quella sede, le sanzioni sono ridotte al 50% (se conciliazione in appello) o al 33% (se in primo grado). Questo è un altro momento in cui la difesa può spuntare un risultato negoziale.

Difendersi come “debitore” – Il punto di vista del debitore suggerisce anche di considerare, oltre al merito, la gestione del debito risultante. Non tutte le battaglie vanno portate fino in fondo se i costi superano i benefici. Ad esempio, se l’importo in gioco è modesto, conviene cercare un accordo veloce per evitare spese legali e interessi di mora. Se invece le pretese sono molto alte e si è in difficoltà economica, potrebbe essere opportuno contestare il più possibile e nel frattempo valutare strumenti come la rateazione straordinaria (fino 72 rate mensili con prova difficoltà), o persino definizioni agevolate se offerte (nel 2023 ad esempio c’è stata la “rottamazione-quater” per cartelle e la definizione delle liti pendenti, chissà in futuro). Al 2025, il legislatore ha delegato una riforma fiscale che potrebbe introdurre nuove opportunità di definizione di illeciti minori, ma nulla di concreto ancora per il lavoro nero.

Modelli e fac-simili utili

Chi si trova a fronteggiare un accertamento da lavoro nero potrebbe dover predisporre varie istanze e atti. Forniamo di seguito alcuni fac-simili esemplificativi di documenti utili, da adattare al caso concreto con l’assistenza di un professionista:

Fac-simile di istanza di accertamento con adesione (art. 6, co.2 D.Lgs. 218/97):

Oggetto: Istanza di accertamento con adesione ai sensi dell’art. 6 D.Lgs. 218/1997

Spett.le Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di [___]
Ufficio Accertamento
Via [___], [Città]

Il sottoscritto [Nome Cognome], nato a [___] il [___], C.F. [___], in qualità di titolare/legale rappresentante della ditta/società [___], con sede in [___], P.IVA [___],

PREMESSO CHE:
– In data [___] è stato notificato alla suddetta ditta/società l’Avviso di Accertamento n. [___] prot. [___] relativo al periodo d’imposta [____], con il quale vengono contestati maggiori ricavi da lavoro irregolare e conseguenti maggiori imposte per € [___] oltre sanzioni e interessi;
– L’atto impugnato è stato emesso dall’Ufficio in base al PVC notificato in data [___] a seguito di ispezione della Guardia di Finanza/Ispettorato del Lavoro, in cui si contestava la presenza di personale non regolarmente registrato (n. [__] lavoratori) e si procedeva alla ricostruzione induttiva del reddito;
– Il sottoscritto intende definire in via amministrativa la controversia avvalendosi dell’istituto dell’accertamento con adesione, ritenendo sussistenti elementi suscettibili di valutazione concordata,

Tutto ciò premesso, con la presente

**CHIEDE**

l’instaurazione del procedimento di accertamento con adesione, ai sensi degli artt. 6 e 7 D.Lgs. 218/1997, relativo all’Avviso di Accertamento n. [___] notificato il [___].

A tal fine si dichiara sin d’ora la disponibilità a fornire ogni chiarimento e documentazione utile e si richiede la fissazione di un incontro presso codesto Ufficio.

Si allega copia dell’avviso di accertamento impugnato.

Distinti saluti.

Luogo, data

Firma

Note: L’istanza va presentata entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso (se spedita a mezzo raccomandata A/R, fa fede la data di spedizione) . Dopo la presentazione, l’ufficio vi contatterà per l’appuntamento. Come visto, la presentazione sospende i termini per fare ricorso per 90 giorni, concessi per espletare la procedura di adesione.

Fac-simile di motivi di ricorso (estratto) avverso avviso di accertamento per lavoro nero:

**RICORSO**

… omissis dati delle parti …

**Motivi di Ricorso**

1. **Nullità dell’accertamento per violazione dell’art. 39, c.1, lett. d) DPR 600/73 e carenza dei presupposti del metodo induttivo.**
L’atto impugnato è illegittimo in quanto fondato su presunzioni semplici non assistite dai requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge. In particolare, l’Ufficio ha desunto l’esistenza di ricavi non dichiarati unicamente dalla presenza di n. 1 lavoratore irregolare (sig. XYZ) senza ulteriori elementi oggettivi a supporto. Si rileva che la giurisprudenza di legittimità ammette l’accertamento analitico-induttivo in presenza di lavoratori in nero solo qualora tale circostanza sia concretamente indicativa di maggiore capacità produttiva. Nel caso di specie, la modesta dimensione aziendale e l’assenza di incremento di fatturato nel periodo considerato (come risulta dai corrispettivi giornalieri prodotti in allegato) contraddicono la presunzione di maggiori ricavi. Pertanto, l’accertamento si rivela privo di fondamento logico-giuridico.

2. **Erronea quantificazione dei ricavi presunti – Violazione art. 2697 c.c. (onere della prova) e art. 56 DPR 633/72 (IVA).**
L’Ufficio ha calcolato maggiori ricavi per €50.000 assumendo arbitrariamente che il lavoratore irregolare abbia operato per 12 mesi a pieno regime produttivo. Tale assunto è smentito dalle risultanze fattuali: il lavoratore sig. XYZ, come da sua dichiarazione allegata in sede ispettiva, ha collaborato saltuariamente solo nei fine settimana da giugno a settembre (circa 35 giornate in totale). Ne discende che l’eventuale contributo ai ricavi è di gran lunga inferiore a quanto stimato. L’amministrazione non ha considerato dette circostanze, violando l’onere probatorio a suo carico. Anche volendo applicare l’indice di produttività media aziendale (ricavi per addetto), questo andrebbe ponderato in base al periodo effettivo di impiego (4 mesi su 12) e alla natura occasionale, riducendo il ricavo presunto a circa €16.000, a fronte dei €50.000 contestati. Si chiede quindi la rideterminazione in sede giudiziale del presunto maggior reddito in misura non superiore a €16.000, con corrispondente riduzione di IVA e imposte dirette accertate.

3. **Omessa considerazione dei costi deducibili – Violazione artt. 109 TUIR e 53 Cost.; eccesso di potere impositivo.**
L’atto impugnato, pur determinando maggiori ricavi, non ha riconosciuto i relativi costi sostenuti (se non in minima parte) violando il principio costituzionale di capacità contributiva e la corretta applicazione del DPR 600/73. La Corte Costituzionale n. 10/2023 e la successiva Cass. 19574/2025 hanno sancito che anche in sede di accertamento analitico-induttivo il contribuente ha diritto alla deduzione forfetaria dei costi correlati ai ricavi accertati. Nel caso in esame, a fronte di €50.000 di ricavi in nero l’Ufficio avrebbe dovuto quantomeno detrarre i costi per salari in nero (€20.000) e per materie prime (€10.000 circa desumibili dall’incremento di consumi) ad essi afferenti. Ciò non è avvenuto, con esito di tassare anche quote che non costituiscono reddito. Si chiede quindi l’annullamento/riforma parziale dell’atto impugnato, rideterminando il maggior imponibile al netto di tali costi, pari a €30.000.

4. **Violazione del diritto al contraddittorio – Nullità dell’atto per violazione art. 12 L. 212/2000.**
L’Ufficio ha emesso l’avviso de quo senza previamente attivare il contraddittorio con il contribuente, nonostante l’accertamento fosse fondato su presunzioni semplici e quindi rientrante nell’obbligo di preventivo contraddittorio introdotto dal D.Lgs. 218/97 art.5-ter. Tale omissione ha impedito al ricorrente di far valere elementi cruciali in sede amministrativa (quali la breve durata del rapporto di lavoro nero), configurando una lesione del diritto di difesa procedimentale. In base alla recente giurisprudenza (Cass. nn. ___/2022), l’assenza di contraddittorio preventivo determina la nullità dell’accertamento se dal confronto non attivato sarebbero potuti emergere elementi influenti, come nel caso di specie. Si insiste quindi per l’annullamento dell’atto.

… (eventuali altri motivi) …

**Documenti allegati:** verbale ispettivo, dichiarazione lavoratore, registro corrispettivi, documenti acquisto materie prime, CCNL di riferimento, ecc.

… omissis …

Il fac-simile sopra traccia alcuni dei motivi principali. Ovviamente andrà adattato: ad esempio, se il verbale ispettivo descrive dettagliatamente mansioni e periodo, sarà difficile sostenere il punto 1 del ricorso (carenza di gravità presunzione). In quel caso ci si concentrerà su durata e importi. Viceversa, se il lavoratore era scoperto solo da un giorno di lavoro, si potrà spingere di più sul punto 1 (presunzione debole).

Regolarizzazione e prevenzione

Un accenno finale va fatto sulle possibilità di regolarizzare spontaneamente o prevenire futuri problemi. Se un datore di lavoro si rende conto di aver avuto (o avere tuttora) lavoratori in nero, è sempre preferibile regolarizzarli il prima possibile. Dal punto di vista contributivo, assumere regolarmente il lavoratore e versare i contributi mancanti può evitare la maxi-sanzione (grazie all’istituto della diffida, se fatto prima di ispezioni, solitamente l’ispettorato applica solo sanzioni minime). Sul piano fiscale, il datore potrebbe ricorrere al ravvedimento operoso: presentare una dichiarazione integrativa per l’anno ancora accertabile, inserendo i maggiori ricavi non dichiarati (magari come “sopravvenienza” o altro) e pagando le imposte relative con sanzioni ridotte. Ciò non sanerà l’illecito pregresso se già scoperto, ma se fatto prima di controlli potrebbe far evitare l’accertamento (perché i dati risultano poi dichiarati). Ad esempio, se nel 2024 vi accorgete di aver tenuto un lavoratore in nero per mesi nel 2023, potreste integrare la dichiarazione 2024 (redditi 2023) con i ricavi aggiuntivi e parallelamente regolarizzare contributi. Il costo c’è, ma molto inferiore a quello di un accertamento con sanzioni piene e rischi penali.

Inoltre, consigliamo di predisporre sempre una documentazione dettagliata del lavoro svolto dai dipendenti regolari, perché ciò aiuta a circoscrivere quello degli eventuali irregolari. Un esempio: tenere un registro interno delle presenze, anche al di là del libro unico, può servire a mostrare quante ore extra sono state fatte (o non fatte). Anche conservare dati di produzione giornaliera consente poi di contestare valutazioni iperboliche del Fisco.

Domande frequenti (FAQ)

Di seguito proponiamo una sezione di domande e risposte comuni sul tema, utile per riepilogare in forma discorsiva i concetti chiave e chiarire eventuali dubbi specifici.

D: Cosa si intende esattamente per “lavoro nero”?
R: In ambito giuridico italiano, per lavoro nero si intende un rapporto di lavoro subordinato non dichiarato. Il datore di lavoro impiega una persona senza aver effettuato la comunicazione obbligatoria di assunzione al Centro per l’Impiego, senza instaurare un regolare contratto e senza versare i contributi e le imposte dovute. Ai fini fiscali, ciò implica che le retribuzioni pagate a tale lavoratore non risultano dalla contabilità e il reddito corrispondente non viene dichiarato né tassato. È una condotta illecita sia sul piano del diritto del lavoro sia su quello tributario.

D: Quali sono le conseguenze se la Guardia di Finanza o l’Ispettorato trovano un lavoratore in nero nella mia azienda?
R: Le conseguenze sono su più fronti:
– Sanzioni lavoristiche: l’Ispettorato del Lavoro contesterà la maxi-sanzione pecuniaria per lavoro nero, il cui importo varia a seconda della durata dell’impiego irregolare (fino a €46.800 per lavoratore oltre 60 giorni). Inoltre può disporre la sospensione immediata dell’attività se il lavoratore nero rappresenta più del 10% del personale presente.
– Contributi: verrà intimato di versare tutti i contributi previdenziali e assicurativi arretrati (INPS, INAIL) per il periodo lavorato in nero, con relative sanzioni civili.
– Fisco: l’Agenzia delle Entrate (o la GdF per essa) avvierà un controllo fiscale. In pratica si farà un accertamento per redditi non dichiarati corrispondenti ai compensi pagati in nero e ai ricavi eventualmente non fatturati collegati a quel lavoratore. Seguirà molto probabilmente un avviso di accertamento con richiesta di maggiori imposte (Irpef/Ires, Iva) più interessi e sanzioni (di norma il 90% delle imposte evase).
– Penale: se emergono importi elevati, può scattare il penale. Ad esempio, se l’imposta evasa supera €100.000 e i ricavi non dichiarati superano il 10% del dichiarato o 2 milioni, c’è il reato di dichiarazione infedele. Oppure se non versi contributi oltre €10.000, c’è reato ex art. 2 L.638/83. Anche il lavoratore rischia sanzioni se ha percepito sussidi illegalmente (es. reddito di cittadinanza mentre lavorava).

D: Come fa il Fisco a calcolare le tasse evase in caso di lavoro nero?
R: In genere utilizza presunzioni. Parte dal costo del lavoro in nero (quanto hai pagato il dipendente). Se non lo sa con certezza, lo stima in base ai minimi contrattuali o al minimale INPS. Poi presume che, per pagare quel costo, tu abbia fatto ricavi in nero almeno equivalenti (anzi, di solito maggiori, considerando un margine di profitto). Un metodo comune è calcolare i ricavi medi per dipendente regolare e applicarli al dipendente irregolare. Ad esempio, se con 5 dipendenti hai fatto 200 mila € di fatturato (40k a dipendente), e avevi 1 dipendente in nero, presumono altri ~40k di ricavi non dichiarati. Se il nero ha lavorato metà anno, riducono proporzionalmente (20k). Quindi determinano quante imposte su quei ricavi avresti dovuto pagare (Irpef/Ires, IVA) e quelle sono le imposte evase. Poi applicano le sanzioni (tipicamente 90% dell’Irpef/Ires evasa, 90% dell’IVA evasa). Inoltre ti chiedono le ritenute che avresti dovuto trattenere sul salario del lavoratore (circa il 20-23% di IRPEF su quel salario) e relativa sanzione 20%. In pratica riscotono sia le tasse sull’utile occulto sia quelle sul reddito del dipendente, perché tu dovevi fungere da sostituto d’imposta. Fortunatamente, recenti sentenze permettono di dedurre il costo del salario in nero dal reddito, quindi il Fisco non dovrebbe tassarti anche quello (ma deve comunque recuperare la ritenuta).

D: Il Fisco può tassarmi anche i costi che ho sostenuto in nero (come i salari stessi)?
R: In teoria no, non definitivamente. In passato molti Uffici lo facevano – aggiungevano i ricavi e non riconoscevano i costi perché “non documentati”. Però la Corte Costituzionale e la Cassazione hanno chiarito che è irragionevole. Oggi hai diritto a far valere quei costi anche solo presuntivamente. Quindi, se ad esempio ti contestano 100.000 € di ricavi in nero ma provi che hai pagato 40.000 € di stipendi in nero, le tasse dovrebbero applicarle sui 60.000 € di profitto, non su 100.000. Devi però farne esplicita richiesta in fase di difesa (meglio già in adesione o ricorso), indicando l’entità dei costi e come li hai calcolati. Se l’Ufficio ignorasse completamente i costi, puoi impugnare l’accertamento su questo punto e quasi certamente in giudizio otterrai un ricalcolo al netto.

D: Il lavoratore in nero deve pagare anche lui le tasse su quello che ha guadagnato?
R: Sì, in teoria il lavoratore è tenuto a dichiarare tutti i suoi redditi, anche se percepiti in nero. Se non lo fa, rischia un accertamento per “redditi non dichiarati”. In pratica, se viene identificato, l’Agenzia può inviargli una comunicazione chiedendogli di presentare dichiarazione integrativa. Oppure può emettere direttamente un avviso verso di lui, specie se si tratta di somme rilevanti. Tuttavia spesso, recuperando dal datore le imposte tramite le ritenute non operate, il Fisco tende a non accanirsi sul lavoratore per l’IRPEF (per evitare doppia imposizione). Diciamo che il lavoratore può vedersi tassare l’eventuale differenza se l’aliquota propria sarebbe più alta di quella minima trattenuta dal datore. Inoltre, come già detto, se il lavoratore ha commesso frodi (tipo prendere disoccupazione e stipendio assieme) verrà perseguito per quelle.

D: Posso difendermi dicendo che quei lavoratori in nero non hanno portato affatto maggiori ricavi?
R: Puoi provarci, ma non è semplice convincere il Fisco o il giudice. La legge non presume “automaticamente” che ci siano ricavi in nero: però la Cassazione considera la presenza di lavoro nero un indizio forte di ricavi occulti. Per vincere questa argomentazione devi dimostrare una situazione particolare: ad esempio che hai tenuto un aiutante in nero non per produrre/vendere di più, ma magari solo per rispettare turni di riposo o perché avevi personale in ferie (quindi i ricavi restavano uguali). Se riesci a documentare che il fatturato non è aumentato o che la produttività era già scarsa (magari lavoravi sotto capacità), potresti ottenere una riduzione. È capitato in alcune sentenze di merito che i giudici abbiano annullato l’accertamento ritenendo non provato un maggior volume d’affari: però in Cassazione queste sono eccezioni. Insomma, è una difesa possibile ma in salita. Meglio puntare a ridurre l’entità (discutendo mesi, importi, costi) più che negare in toto la correlazione.

D: Quali strategie posso adottare appena ricevo l’avviso di accertamento?
R: Entro 60 giorni hai diverse opzioni:
– Chiedere l’accertamento con adesione: È altamente consigliato. Presenti l’istanza e negozi con l’Agenzia. Puoi ottenere uno sconto sulle pretese (dipende dalla trattativa) e comunque hai diritto alla sanzione ridotta a 1/3. Molti accertamenti si chiudono con adesione a importi inferiori rispetto al richiesto iniziale, evitando il ricorso.
– Se non trovi accordo, fare ricorso: Nel ricorso metti tutti i motivi di contestazione come sopra (errori, presunzioni eccessive, mancati costi, ecc.). Se l’importo non è altissimo (fino 50k), il tuo ricorso varrà anche come reclamo/medazione, quindi l’ufficio potrebbe ancora farsi avanti per un accordo con sanzioni al 35%. Se invece l’importo è elevato, preparati a un contenzioso lungo (primo grado e appello, magari Cassazione), in cui dovrai portare quante più prove possibili a tuo favore. Puoi chiedere al giudice la sospensione dell’atto (così non paghi nel frattempo) dimostrando che versare subito ti danneggerebbe molto e che hai motivi validi di ricorso.
– Pagamento agevolato (acquiescenza): Se ritieni che il Fisco abbia strarciato poco e hai paura di aggravare la situazione con spese legali, puoi accettare e pagare: in tal caso hai lo sconto sulle sanzioni a 1/3 ma perdi ogni altra possibilità. Francamente, a meno di casi chiarissimi, conviene tentare almeno l’adesione per vedere se calano la pretesa.

D: Ho aderito alla diffida dell’Ispettorato e assunto regolarmente i lavoratori: questo influisce sul fisco?
R: Influisce positivamente in termini generali, ma non elimina l’accertamento fiscale. Mi spiego: se hai accettato la diffida, hai pagato la maxi-sanzione minima e versato i contributi arretrati e assunto il lavoratore per almeno 90 giorni (se ancora in azienda). Questo ti mette in regola sul piano lavoro. L’Agenzia Entrate però, indipendentemente, ti farà comunque l’accertamento per i redditi non dichiarati negli anni passati. Non esiste una “definizione agevolata” fiscale analoga alla diffida (se non fai un ravvedimento attivo come detto). Tuttavia, il fatto che hai regolarizzato può essere visto bene se, ad esempio, in sede di adesione chiedi clemenza: dimostrare di aver regolarizzato potrebbe facilitare un accordo, facendo leva sul fatto che non c’è più evasione in corso e che hai collaborato. In giudizio, aver sistemato la posizione contributiva non incide sulle imposte evase pregresse (che comunque restano dovute). Quindi, bene regolarizzare per evitare ulteriori guai (sospensioni, recidive, ecc.), ma preparati comunque al confronto col fisco sugli anni passati.

D: Il mio caso riguarda un lavoratore familiare (es. mio nipote) che mi aiutava saltuariamente: vale lo stesso la presunzione di ricavi in nero?
R: Situazione interessante: se il lavoratore non dichiarato è un familiare dell’imprenditore, a volte si cerca di sostenere che fosse un aiuto occasionale gratuito. La legge italiana (art. 230-bis c.c. e normativa INPS) riconosce la figura del coadiuvante familiare in azienda, che però comunque andrebbe assicurato se l’attività è abituale. Se riesci a provare che il parente aiutava in maniera del tutto sporadica (es. solo in un evento particolare) e senza compenso, potresti evitare la maxi-sanzione e ridimensionare la contestazione. Tuttavia, spesso gli organi verificatori considerano “in nero” anche i familiari se lavorano con una certa continuità. Sul piano fiscale, se davvero non lo pagavi, potresti argomentare che non c’è stato un costo in nero né un ricavo extra – semplicemente ti sei avvalso di un aiuto gratuito. Ci sono state situazioni in cui i giudici hanno accolto questa tesi, ma serve documentazione (es. testimonianze familiari, magari il fatto che il nipote ha un altro lavoro e veniva solo qualche ora). Resta comunque rischioso: il fisco potrebbe dire che anche se non pagato, se c’era più personale la capacità produttiva cresceva comunque. In definitiva, se è un familiare la difesa va calibrata caso per caso, evidenziando l’eventuale gratuità e l’occasionalità, per cercare di escludere la sussistenza stessa di un rapporto di lavoro nero continuativo.

D: Se ho tenuto dei lavoratori in nero in passato, come posso rimediare ora spontaneamente?
R: Come accennato, puoi fare un ravvedimento operoso in ambito fiscale: presentare dichiarazioni integrative per gli anni non prescritti includendo i redditi non dichiarati (o correggendo l’IVA) e pagando le imposte dovute con sanzioni ridotte (dal 90% si riduce a 1/8 se paghi spontaneamente prima di essere contestato, ad esempio). Questo ti mette al riparo da sanzioni future su quegli anni perché li hai già sanati (il Fisco al più controllerà ma vedrà che hai autodenunciato). Certo, devi pagare le tasse che avevi evitato, ma almeno eviti il 90% di multa, pagandone magari il 12.5% o meno se ravvedimento entro un anno. Sul piano lavoro, puoi autodenunciare all’INPS i periodi di lavoro irregolare e versare i contributi mancanti: l’INPS applicherà le sue sanzioni civili (che se fai tutto spontaneamente potrebbero anche essere mitigate). Non c’è una procedura standard, ma rivolgendoti all’INL (ispettorato) potresti regolarizzare volontariamente e di solito se lo fai prima di un’ispezione eviti la maxi-sanzione (paghi le minime). In sostanza, prima regolarizzi meglio è. Chiaramente è preferibile farlo con l’assistenza di un consulente del lavoro e un fiscalista, perché potresti valutare di utilizzare strumenti come la conciliazione monocratica (per sistemare il dovuto al lavoratore in termini di retribuzioni arretrate) ed evitare vertenze.

D: In caso di accertamento, devo per forza farmi assistere da un avvocato o commercialista?
R: Dipende. Per l’adesione, no: puoi presentare istanza e trattare anche da solo, anche se è sconsigliato perché un professionista sa quali leve usare. Per il ricorso tributario, se il valore della causa supera €3.000, la difesa tecnica è obbligatoria (avvocato tributarista o commercialista abilitato). Sotto 3.000 € potresti stare in giudizio da solo, ma un caso di lavoro nero solitamente supera quella soglia, quindi dovrai incaricare un difensore. Considera comunque che la materia è complessa, quindi avvalersi di un esperto (anche già in fase di contraddittorio/adesione) aumenta le chance di ottenere sconti o di vincere il contenzioso.

D: Quali sono i tempi di prescrizione per queste contestazioni?
R: Per le violazioni fiscali: l’Agenzia può notificare l’accertamento entro il 5° anno successivo a quello in cui hai presentato la dichiarazione (o il 7° se non l’hai presentata). Ad esempio, per lavoro nero nel 2019 (dichiarazione presentata nel 2020) hanno tempo fino al 31/12/2025. Se c’è stato un PVC della Guardia di Finanza, il termine si allunga di 2 anni (quindi fino al 2027 per il 2019). Quindi non sei “al sicuro” finché non scadono questi termini. Per i contributi INPS, attualmente la prescrizione è 5 anni (introdotta nel 2018). In passato era 5 anni, poi diventati 10 per un periodo, ma la legge di Bilancio 2018 l’ha riportata a 5 anni per tutti. La maxi-sanzione lavoro nero è un illecito amministrativo che si prescrive in 5 anni dal momento in cui l’illecito è cessato (di solito dalla data dell’accertamento). Quindi, in sintesi, 5 anni è il numero magico per quasi tutto, salvo eccezioni penali (i reati hanno tempi più lunghi: dichiarazione infedele 8 anni, ecc., ma qui parliamo di azione penale).

D: Se non sono d’accordo con l’esito del primo grado in Commissione, posso fare appello?
R: Sì. Il sistema prevede appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale) entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. In appello puoi rinnovare le tue doglianze. Nota bene: se hai perso in primo grado, per evitare che l’Agenzia inizi la riscossione, devi pagare 2/3 degli importi contestati (il restante 1/3 lo avevi già eventualmente sospeso o pagato). Oppure chiedere una sospensiva in appello. Se perdi anche in secondo grado, resta solo la Cassazione (entro 60 gg) ma solo per questioni di diritto (non rivedono i fatti). Il contenzioso può durare vari anni, e nel frattempo maturano interessi sulle somme dovute. Ecco perché a volte è meglio trovare un accordo prima.

D: In futuro, la normativa potrebbe cambiare? Ad agosto 2025 ci sono novità all’orizzonte?
R: L’Italia ha approvato nel 2023 una legge delega per la riforma fiscale (L. 111/2023) in cui si parla di semplificare il sistema sanzionatorio e migliorare la compliance. È possibile che nei prossimi anni vengano introdotte misure premiali per chi regolarizza spontaneamente, o modificate alcune percentuali di sanzioni (si ipotizzava riduzione della sanzione infedele dal 90% al 70% in caso di lieve scostamento). Al momento, però, nulla di rivoluzionario è in vigore. Una novità recente (2023-2024) è stato l’aumento delle sanzioni sul lavoro nero come abbiamo visto, segno che la tendenza è quella di irrigidire il contrasto al sommerso sul lato lavoro. Sul lato fiscale, invece, c’è più attenzione a evitare tassazioni esagerate su base presuntiva: le sentenze su costi forfettari ne sono un esempio. Quindi mi aspetto in futuro linee guida dell’Agenzia più codificate su come calcolare i ricavi in nero (magari con parametri fissi settoriali) e forse qualche procedura di collaborative compliance per chi vuole emergere dal sommerso pagando il dovuto senza sanzioni penali. Ma al momento atteniamoci alle regole attuali descritte in questa guida.

Conclusione: Il lavoro nero rappresenta un rischio elevato per imprese e datori di lavoro, specie in termini di accertamenti fiscali e sanzioni economiche. Dal punto di vista difensivo, è fondamentale agire tempestivamente, raccogliere tutte le evidenze a proprio favore (documenti, testimonianze, dati contabili) e utilizzare gli strumenti legali disponibili (adesione, ricorso, ecc.) per ottenere una riduzione delle pretese. Aggiornarsi costantemente sulle ultime pronunce giurisprudenziali – come abbiamo fatto qui citando le più recenti del 2020-2025 – è cruciale, perché il diritto tributario su questi temi è in continua evoluzione. Infine, la migliore strategia rimane prevenire: regolarizzare i rapporti di lavoro ed evitare il sommerso conviene nel medio-lungo termine, in quanto gli eventuali risparmi iniziali vengono quasi sempre vanificati (e superati) dal costo di un accertamento fiscale sfavorevole e delle multe annesse.

Fonti normative e giurisprudenziali citate: DPR 600/1973 art. 39; D.Lgs. 74/2000 artt. 4,5,10-bis; D.L. 12/2002 conv. L.73/2002 art.3; Corte Costituzionale n. 10/2023; Corte Cassazione nn. 2593/2011, 24250/2014, 20675/2014, 22476/2020, 19222/2021, 19574/2025; Circolare GdF n.1/2018.

Fonti di prassi e dottrina: Relazione illustrativa D.Lgs. 218/1997; Nota INL n. 1156/2024.

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Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza perché ti accusano di aver utilizzato o percepito lavoro nero?
Vuoi sapere come il Fisco calcola i redditi in questi casi e come puoi difenderti?

Il lavoro nero – cioè senza contratto e senza dichiarazione fiscale – è uno dei principali obiettivi dei controlli fiscali. L’Agenzia delle Entrate può ricostruire i redditi non dichiarati utilizzando presunzioni, indagini bancarie e documenti acquisiti durante le verifiche.

👉 Non sempre però i calcoli dell’Agenzia sono corretti: spesso si basano su stime generiche o sproporzionate che possono essere contestate.


⚖️ Come l’Agenzia calcola il reddito da lavoro nero

  • Verifiche documentali: appunti, agende, e-mail, preventivi, ricevute non registrate;
  • Dichiarazioni di dipendenti o collaboratori trovati a lavorare senza contratto;
  • Indagini bancarie: accrediti sospetti considerati compensi in nero;
  • Presunzioni statistiche: applicazione di margini medi di settore agli incassi presunti;
  • Rilevamenti diretti: controlli sul posto (cantieri, negozi, attività commerciali).

📌 Conseguenze possibili

  • Recupero delle imposte sui redditi presunti da lavoro nero;
  • Sanzioni fiscali dal 90% al 180% delle somme accertate;
  • Interessi di mora;
  • Sanzioni contributive e previdenziali da parte di INPS e INAIL;
  • Nei casi più gravi, reati tributari per dichiarazione infedele o omessa dichiarazione.

🔍 Come difendersi

  1. Analizza l’accertamento: verifica i criteri usati per stimare i redditi.
  2. Contesta le presunzioni: il Fisco deve basarsi su indizi gravi, precisi e concordanti, non su semplici sospetti.
  3. Raccogli prove contrarie: contratti, documenti che giustificano i movimenti bancari, testimonianze.
  4. Dimostra la sproporzione dei calcoli: molti accertamenti si basano su stime di settore non aderenti al caso concreto.
  5. Predisponi memorie difensive o ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

  • 📂 Esamina l’avviso di accertamento e i metodi usati dall’Agenzia per quantificare i redditi;
  • 📌 Ricostruisce la reale situazione reddituale con documentazione e prove concrete;
  • ✍️ Redige memorie difensive e ricorsi per ridurre o annullare le pretese fiscali;
  • ⚖️ Ti assiste nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
  • 🔁 Ti supporta anche nella gestione delle conseguenze contributive e previdenziali.

🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

  • ✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali sul lavoro nero;
  • ✔️ Specializzato in contenzioso tributario e difesa da presunzioni fiscali;
  • ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.

Conclusione

Un accertamento fiscale per lavoro nero può basarsi su presunzioni e calcoli del tutto sfavorevoli al contribuente, ma non sempre attendibili.
Con una difesa legale mirata puoi contestare le ricostruzioni dell’Agenzia, ridurre l’imponibile accertato e limitare le sanzioni.

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La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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