La tua società registra perdite per più anni consecutivi e hai ricevuto un avviso di accertamento basato su metodo induttivo? L’Agenzia delle Entrate considera la perdita pluriennale un indice di antieconomicità e presume che dietro ci sia un occultamento di ricavi o l’iscrizione di costi non reali. Questa presunzione, però, non è definitiva e può essere ribaltata con una difesa mirata.
Quando scattano gli accertamenti induttivi per perdite pluriennali
– Se la società dichiara perdite per più esercizi consecutivi senza giustificazione economica plausibile
– Se i costi dichiarati risultano sproporzionati rispetto ai ricavi
– Se i margini risultano costantemente inferiori rispetto a quelli medi del settore
– Se l’impresa continua ad operare nonostante perdite gravi e reiterate
– Se il Fisco ritiene che le perdite siano il frutto di ricavi non contabilizzati
Cosa rischi in caso di accertamento induttivo
– Tassazione di ricavi presunti e maggior reddito determinato induttivamente
– Applicazione di sanzioni fiscali fino al 180% delle imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme richieste
– Estensione dei controlli ad altri periodi d’imposta
– Possibile segnalazione di irregolarità anche in sede penale-tributaria se i dati appaiono falsati
Come difendersi da un accertamento basato su perdite pluriennali
– Dimostrare con documenti contabili e piani industriali che le perdite hanno cause economiche reali (crisi di settore, investimenti, ammortamenti straordinari)
– Presentare prove che attestino la strategia di rilancio o i motivi per cui l’impresa ha continuato ad operare nonostante i risultati negativi
– Contestare la presunzione di occultamento di ricavi come semplice deduzione senza riscontri concreti
– Evidenziare la buona fede e la regolarità della contabilità aziendale
– Impugnare l’accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria se fondato solo su presunzioni generiche
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare l’accertamento e verificare la metodologia induttiva utilizzata dal Fisco
– Predisporre un dossier difensivo con dati contabili, bilanci e documenti a supporto
– Contestare la legittimità dell’accertamento fondato solo su antieconomicità
– Difendere la società in fase di contraddittorio e in giudizio
– Negoziare con l’Agenzia delle Entrate per ridurre l’impatto economico tramite adesione
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della pretesa fiscale
– La riduzione delle imposte e delle sanzioni applicate
– La sospensione di procedure esecutive collegate all’accertamento
– La tutela del patrimonio aziendale e degli amministratori
– La possibilità di continuare a operare senza subire presunzioni arbitrarie
⚠️ Attenzione: la perdita pluriennale non è automaticamente indice di evasione. Molte imprese attraversano cicli negativi dovuti a crisi di mercato, investimenti o strategie di ristrutturazione. Una difesa ben documentata può smontare l’accertamento induttivo.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in difesa tributaria e diritto d’impresa – ti spiega come affrontare le contestazioni per perdite pluriennali e come difenderti dall’accertamento induttivo.
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Introduzione
Perdite pluriennali e rischio fiscale: In Italia, un’azienda che dichiara perdite fiscali anno dopo anno può attirare l’attenzione del Fisco e rischiare un accertamento induttivo basato sull’antieconomicità della gestione. Dichiarare sistematicamente risultati negativi o utili esigui – in misura macroscopica rispetto ai costi sostenuti o agli standard di settore – viene considerato “antieconomico”, ossia privo di normale logica economica. In tali casi l’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate o Guardia di Finanza) può presumere che dietro perdite così prolungate si celino ricavi non dichiarati (oppure costi fittizi) da tassare. In altre parole, un’impresa che opera in perdita per più anni consecutivi potrebbe essere sospettata di occultare profitti o di gonfiare le spese.
Equilibrio tra controlli e libertà d’impresa: L’uso di presunzioni basate sull’antieconomicità tocca principi fondamentali: da un lato il dovere tributario legato alla capacità contributiva (art. 53 Cost.), dall’altro la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.). Lo Stato non può ingerirsi nelle scelte imprenditoriali né punire un’azienda solo perché poco redditizia; tuttavia, se i risultati appaiono irragionevoli, può legittimamente contestarli per verificare se nascondano evasione fiscale. Si tratta di un equilibrio delicato: un’attività realmente in difficoltà non deve essere penalizzata ingiustamente, ma allo stesso tempo il Fisco intende contrastare le perdite “di comodo” usate per eludere tasse.
Obiettivo della guida: In questo testo affronteremo in dettaglio come difendersi, dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta), da un accertamento induttivo fondato su perdite pluriennali. La trattazione è di livello avanzato, rivolta a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti) ma anche a imprenditori e privati informati: useremo un linguaggio tecnico-giuridico, ma con taglio divulgativo per chiarire i concetti chiave. Esamineremo la normativa italiana di riferimento, gli orientamenti giurisprudenziali più recenti (comprese sentenze di Cassazione fino al 2025), e delineeremo sia le contromisure preventive (contabili e fiscali) attuabili prima di un accertamento, sia le strategie difensive in sede di verifica e contenzioso. Tabelle riepilogative aiuteranno a distinguere i vari tipi di accertamento e presunzioni, mentre una sezione finale di Domande e Risposte (FAQ) affronterà i quesiti pratici più frequenti. Tutte le fonti normative e le pronunce giurisprudenziali citate sono indicate per un riferimento puntuale.
Importanza pratica: Comprendere come gestire il rischio di un accertamento per perdite sistematiche è cruciale. Da un lato, molte startup e imprese in fase di investimento presentano perdite iniziali fisiologiche; dall’altro, esistono anche società di comodo che simulano perdite per evitare imposte. Sapere come documentare le proprie legittime ragioni economiche ed essere a conoscenza dei limiti legali all’azione del Fisco consente al contribuente di esercitare al meglio il proprio diritto di difesa. Centralmente emerge il tema dell’onere della prova: fino a che punto l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare la fondatezza delle sue presunzioni di antieconomicità? E cosa deve provare invece il contribuente per giustificare le proprie perdite? Su questo punto vi sono stati sviluppi significativi, tra cui la riforma della giustizia tributaria del 2022 e recenti sentenze “svolta” nel 2023-2025, che approfondiremo nel prosieguo.
1. L’accertamento induttivo e la normativa di riferimento
Cos’è l’accertamento induttivo: In ambito tributario l’accertamento induttivo è un metodo di determinazione del reddito imponibile in cui il Fisco prescinde, in tutto o in parte, dalle scritture contabili del contribuente per ricostruire i ricavi e/o il reddito d’impresa sulla base di indizi e presunzioni . Si contrappone all’accertamento analitico tradizionale, nel quale invece l’ufficio verifica singolarmente le varie poste di bilancio (ricavi, costi, ecc.) utilizzando i dati contabili forniti. Il nostro ordinamento prevede diverse tipologie di accertamento, delineate principalmente dal D.P.R. 600/1973 (per le imposte sui redditi) e dal D.P.R. 633/1972 (per l’IVA):
- Accertamento analitico puro: l’ufficio rettifica specifiche voci di reddito/deduzione mantenendosi nell’alveo delle scritture contabili presentate, se ritiene che alcune di esse siano infedeli o inesatte. Esempio: disconosce un costo ritenuto indeducibile, aggiunge un ricavo non dichiarato ma documentalmente accertato, ecc. È disciplinato dall’art. 39 comma 1 del DPR 600/73 (per le imposte dirette) e dall’art. 54 comma 2 DPR 633/72 (per l’IVA). Presuppone contabilità regolarmente tenuta e attendibile, salvo alcune rettifiche mirate.
- Accertamento analitico-induttivo (o analitico-presuntivo): l’ufficio considera le scritture contabili nel complesso attendibili ma riscontra anomalie parziali o incongruenze nei risultati, tali da giustificare integrazioni basate su presunzioni semplici (gravi, precise e concordanti) . Si colloca nella parte finale dell’art. 39 comma 1 DPR 600/73 (lett. d)), che consente di “prescindere in parte” dalle risultanze contabili. In pratica l’Agenzia stima maggiori ricavi (o minori costi deducibili) con metodi indiretti – ad esempio applicando una percentuale di ricarico media di settore, oppure basandosi su indicatori di redditività come il rapporto costi/ricavi – integrando così il reddito dichiarato. La contabilità non è del tutto ignorata, ma viene corretta perché ritenuta sostanzialmente inattendibile rispetto alla logica economica. L’IVA a debito e a credito può essere rettificata di conseguenza (art. 54 comma 2 DPR 633/72). Questa è la tipologia tipicamente utilizzata nei casi di perdite reiterate o gestione antieconomica: formalmente i libri sono in ordine, ma l’esito (perdita) è considerato implausibile e quindi corretto presuntivamente. Importante: nel metodo analitico-induttivo la legge originariamente non obbligava l’ufficio a quantificare anche i costi correlati ai maggiori ricavi presunti, lasciando al contribuente l’onere di provare eventuali costi aggiuntivi da dedurre . Su questo punto però, come vedremo, la giurisprudenza più recente ha introdotto importanti correttivi a tutela del contribuente.
- Accertamento induttivo puro: l’ufficio disconosce totalmente l’attendibilità delle scritture contabili e ricostruisce l’intero reddito d’impresa in via induttiva, spesso basandosi su dati esterni o coefficienti presuntivi fissati dalla legge. È previsto dall’art. 39 comma 2 DPR 600/73 (imposte dirette) e dall’art. 55 DPR 633/72 (IVA). I presupposti tipici sono situazioni gravi: ad esempio contabilità inattendibile nel complesso o inesistente, omessa presentazione della dichiarazione, libri non aggiornati o gravemente irregolari. In questi casi l’Erario “prescinde in tutto” dalle scritture e determina forfettariamente sia i ricavi sia i costi , al fine di stimare un reddito complessivo congruo. Ad esempio può applicare il ricarico medio di settore ai costi noti per ricavare i ricavi presunti, oppure utilizzare coefficenti di redditività stabiliti per categorie di contribuenti. Nell’induttivo puro l’ufficio deve tener conto anche dei costi (negativi) nella ricostruzione, per non tassare utili lordi irrealistici . Questo metodo, più drastico, elimina qualunque fiducia nella contabilità del contribuente.
- Accertamento sintetico del reddito (redditometro e similari): è un accertamento sui generis, rivolto in particolare alle persone fisiche, dove il reddito complessivo dichiarato viene confrontato con indicatori di spesa e ricchezza (il cosiddetto redditometro per il tenore di vita) oppure, dal 2025, con nuovi parametri previsti dalla riforma del DLgs 108/2024. Se dalle spese sostenute o dai patrimoni posseduti dal contribuente si desume un certo reddito minimo, sensibilmente superiore a quello dichiarato, l’ufficio può accertare sinteticamente un maggior reddito (art. 38 DPR 600/73). Questo strumento riguarda più il confronto reddito/spese personali e non le perdite aziendali in sé, ma è spesso complementare: ad esempio, il titolare di una ditta individuale in perdita potrebbe essere oggetto di redditometro qualora sostenesse spese personali elevate incompatibili con il reddito dichiarato.
Nella Tabella 1 sono riassunte le principali tipologie di accertamento e i relativi presupposti normativi:
Tipo di accertamento | Presupposti tipici | Norme di riferimento | Caratteristiche |
---|---|---|---|
Analitico tradizionale | Contabilità formalmente regolare e attendibile, lievi differenze o errori su singole voci | Art. 39 co.1 (lett. a–c), DPR 600/73; Art. 54 co.2, DPR 633/72 (IVA) | Rettifiche puntuali su elementi specifici (ricavi non dichiarati, costi indeducibili) mantenendo il resto delle scritture come base. Onere prova a carico Fisco per singola voce contestata. |
Analitico–induttivo (presuntivo) | Contabilità formalmente regolare ma risultato d’insieme incoerente/irragionevole (es. margini irrisori, perdite anomale); oppure gravi incongruenze rispetto a medie di settore o altri indici. | Art. 39 co.1 (lett. d), DPR 600/73; Art. 54 co.2 (ultima parte), DPR 633/72. | Prescinde in parte dalle scritture: l’ufficio stima presuntivamente maggiori ricavi (o riduce costi) con indizi gravi, precisi e concordanti. Contabilità non ignorata ma “corretta” per incongruenze. Inizialmente il Fisco non riconosce automaticamente costi aggiuntivi per i ricavi presunti; il contribuente deve provarli, anche in via presuntiva (vedi evoluzione giurisprudenziale 2023–25). |
Induttivo puro (extracontabile) | Contabilità inattendibile o mancante del tutto; gravi violazioni formali (registri non tenuti, doppie contabilità) o omessa dichiarazione. | Art. 39 co.2, DPR 600/73; Art. 55, DPR 633/72. | Prescinde in toto dalle scritture: l’ufficio ricostruisce ex novo ricavi e costi su base forfettaria (es. applicando percentuali standard, dati terzi, consumi di materie prime, ecc.). Il reddito accertato comprende costi presunti per evitare utili lordi irrealistici . Presunzioni anche semplici, ma con fondati motivi documentati dall’ufficio. |
Sintetico (redditometro, ISA) | Persone fisiche con gap ≥20% tra reddito dichiarato e reddito desumibile da spese patrimoniali/di consumo (redditometro) o punteggio basso di affidabilità fiscale ISA per più anni. | Art. 38 DPR 600/73 (redditometro); Norme speciali DLgs 175/2014 e DL 50/2017 sugli ISA. | Ricostruisce il reddito globale della persona considerando spese sostenute e incrementi patrimoniali. Non richiede contabilità inattendibile, ma discrepanza significativa tra tenore di vita e reddito. Il contribuente può fornire prova contraria (es. spese coperte da redditi esenti, uso di risparmi pregressi, ecc.). |
Focus sulle perdite pluriennali: Le società che presentano perdite fiscali per più esercizi consecutivi non sono più soggette, dal 2022, alla speciale disciplina automatica delle “società in perdita sistematica” (vedi riquadro sotto). Fino al 2021, infatti, l’ordinamento prevedeva che un’azienda sempre in perdita per 5 anni fosse considerata non operativa e dovesse dichiarare un reddito minimo presunto, subendo una maggiorazione d’imposta e limitazioni sull’utilizzo di crediti IVA. Tale normativa (art. 2 commi 36-decies e ss. DL 138/2011) è stata abrogata con il DL 73/2022 (Decreto Semplificazioni), efficace dal periodo d’imposta 2022. Attenzione: l’abrogazione riguarda la presunzione legale di non operatività dopo perdite pluriennali, ma non significa che l’Agenzia ignori chi accumula perdite: semplicemente, oggi non scatta più in automatico un calcolo forfettario di reddito minimo. Restano però pienamente applicabili i controlli e accertamenti induttivi caso per caso, qualora le perdite reiterate appaiano ingiustificate. Inoltre permane la disciplina generale delle società non operative (c.d. “società di comodo” ex art. 30 L. 724/1994) basata sul test di operatività dei beni: se una società, indipendentemente dalle perdite, non supera il test dei ricavi minimi rispetto al valore di asset detenuti, continua ad essere considerata non operativa e a dover dichiarare redditi presunti. In pratica, dal 2022 in poi vi è un solo meccanismo di “comodo” fondato sull’impiego dei beni, mentre la situazione di perdita sistematica di per sé non genera più un automatismo. Ciò non toglie che più anni in rosso costituiscano un fortissimo segnale d’allarme per il Fisco, che potrà comunque attivare verifiche ed eventualmente procedere ad accertamento induttivo basandosi sull’antieconomicità di tali risultati.
Esempio: un’S.r.l. che dal 2018 al 2022 ha sempre chiuso in perdita fiscale non sarà più obbligata per legge a dichiarare un reddito minimo nel 2023 (come invece accadeva prima, dopo 5 anni di perdite). Tuttavia, se l’Agenzia delle Entrate rileva questa situazione, potrà inserire la società in liste di controllo e, in assenza di cause giustificative oggettive, potrebbe avviare un accertamento presumendo che le perdite nascondano ricavi non contabilizzati. Dal punto di vista pratico, dunque, la difesa da un potenziale accertamento inizia ben prima che l’avviso arrivi: l’imprenditore deve essere pronto a spiegare le cause legittime delle sue perdite prolungate, per convincere il Fisco della genuinità del dato fiscale dichiarato.
2. L’“antieconomicità” come indice di evasione fiscale
Nozione di antieconomicità: Per gestione antieconomica si intende una conduzione dell’attività imprenditoriale che viola le normali regole economiche di convenienza e profitto. In termini tributari, l’antieconomicità si manifesta con risultati anomali quali: perdite reiterate, ricavi e margini lordi sistematicamente troppo bassi rispetto ai costi, costi elevatissimi senza un corrispettivo reddito, beni venduti stabilmente sottocosto, ecc. Questi elementi non costituiscono di per sé violazioni di legge (non è “illecito” avere bassi profitti o essere in perdita), ma per l’Amministrazione finanziaria sono “campanelli d’allarme” che fanno presumere possibili comportamenti evasivi o elusivi. L’idea di fondo è: nessun imprenditore razionale opererebbe a lungo in perdita senza un motivo, quindi se ciò accade, forse esistono componenti di reddito nascoste (incassi non dichiarati, utili distratti altrove) oppure costi fittizi portati in deduzione per azzerare l’utile.
Esempio tipico – perdite pluriennali: un commerciante al dettaglio dichiara perdite fiscali per 4 anni consecutivi. Eppure continua a tenere aperta l’attività, a pagare fornitori e spese generali. Dal punto di vista economico, come fa a sopravvivere un’azienda sempre in rosso? Le ipotesi possono essere: sta erodendo il capitale proprio o indebitandosi; oppure riceve finanziamenti “esterni” non dichiarati (es. capitali in nero); oppure gonfia i costi a bilancio per far risultare perdite e in realtà breakeven o utili esistono. Il Fisco, di fronte a perdite croniche senza apparente giustificazione, tende a propendere per queste ultime ipotesi (evasione di ricavi o costi fittizi). Non c’è una soglia fissa di anni di perdita oltre la quale scatta automaticamente l’accertamento – dipende dal contesto – ma certamente più a lungo prosegue la situazione antieconomica, più aumenta la probabilità di un intervento.
Presunzioni semplici vs prove dirette: L’antieconomicità è utilizzata dal Fisco come presunzione semplice, cioè un indizio (o insieme di indizi) dal quale dedurre, in via logica, l’esistenza di un maggior reddito occulto. Non è una prova diretta di evasione (come potrebbe essere, ad esempio, la scoperta di vendite in nero documentate da conti bancari occulti), bensì un fatto-secondario noto da cui inferire il fatto principale ignoto (reddito non dichiarato). Pertanto deve rispettare i requisiti delle presunzioni: deve essere grave, preciso e concordante (art. 2729 c.c. e art. 39 DPR 600/73) per poter fondare validamente un accertamento.
- Gravità: l’indizio dev’essere consistente e non banale. Ad esempio, un lieve calo di utile non è un indizio grave; una perdita pari alla metà del fatturato, ripetuta più anni, lo è.
- Precisione: l’indizio deve essere determinato e non generico. Dire “l’azienda va male” è generico; dire “il ricarico applicato è solo il 10% contro il 30% abituale di settore” è un dato preciso.
- Concordanza: se ci sono più indizi, essi devono convergere verso la stessa conclusione. Un solo indizio molto forte può bastare, ma più spesso servono più elementi tra loro coerenti. Ad esempio: perdite pluriennali e margini inferiori ai concorrenti e continui versamenti di contante sul conto soci. Insieme delineano un quadro concordante di ricavi sottratti alle casse aziendali.
Un unico elemento basta? La giurisprudenza ha chiarito che un singolo indice di antieconomicità, se estremamente macroscopico, può anche da solo costituire una presunzione grave e precisa sufficiente ad accertare un maggior reddito. Tuttavia, è un caso limite. Più spesso, un solo elemento isolato non è di per sé sufficiente, specie se il resto del contesto aziendale è regolare. Ad esempio, la Corte di Cassazione, ord. n. 25217/2018, ha annullato un accertamento fondato esclusivamente su un costo ritenuto antieconomico, isolato rispetto al resto della gestione: l’azienda in questione, malgrado quell’onere elevato, aveva comunque chiuso l’esercizio in utile, per cui mancava una reale situazione d’antieconomicità complessiva. La Suprema Corte ha affermato un principio importante: “un’unica operazione antieconomica, isolata rispetto al contesto aziendale complessivo, non giustifica un accertamento analitico-induttivo”. L’Amministrazione avrebbe dovuto valutare l’intero quadro d’insieme e considerare eventuali ragioni giustificative di quel costo anomalo (nel caso concreto, la spesa poteva avere finalità promozionali ed era compensata da utili su altre operazioni). Dunque antieconomicità va valutata sull’insieme: un singolo affare in perdita non prova l’evasione se l’impresa nel suo complesso è sana. Questo non contraddice quanto sopra (ossia che un unico indice macroscopico può bastare): la differenza sta nell’intensità e nell’isolamento dell’indizio. Se l’anomalia è lieve e isolata, non regge; se è enorme o si ripete sistematicamente, assume ben altro peso.
Perdite reiterate = indice multiplo: Nel caso delle perdite pluriennali, si può dire che lo stesso fatto di produrre perdita anno dopo anno costituisce un indice che si rinnova ed accumula gravità col tempo. Una perdita occasionale può capitare anche ad aziende sane; ma perdite per 4-5 esercizi di fila denotano, a prima vista, un business insostenibile, dunque antieconomico. La Cassazione ha più volte considerato legittimo basare un accertamento su tale circostanza, purché essa sia accompagnata da un’adeguata motivazione. Ad esempio, in Cass. n. 2561/2024 (Sez. Trib., depositata il 26 gennaio 2024) è stato ribadito che l’Amministrazione può ricorrere al metodo induttivo ex art. 39 DPR 600/73 quando il contribuente dichiara per più anni redditi esigui o negativi, in contrasto con l’elevato volume di attività svolta. In quel caso veniva contestata a una società la ripetuta dichiarazione di perdite di notevole entità a fronte di fatturati comunque significativi: secondo i giudici, il dato di fatto di perdite d’esercizio rilevanti e reiterate costituiva un indizio serio di ricavi occultati, legittimando l’accertamento (ove corredato da ulteriori riscontri di inattendibilità). In sintesi, più le perdite sono prolungate e ingenti, più si avvicinano a una “prova” di antieconomicità agli occhi del Fisco.
Scostamento dalle medie di settore: Una forma particolare di valutazione dell’antieconomicità è il confronto tra i risultati del contribuente e le medie di redditività del settore economico di appartenenza. Ad esempio, tramite gli Studi di Settore (oggi sostituiti dagli indici ISA) l’Amministrazione dispone di valori medi o normali di margine, ricarico, costi, ecc., per ogni categoria di impresa. Se un’azienda dichiara ricavi molto inferiori rispetto al livello congruo stimato per la sua categoria, ciò costituisce un elemento di sospetto. La normativa (art. 39 co.1 lett. d DPR 600/73) prevede che uno scostamento grave dagli studi di settore possa essere considerato indizio di evasione, ma non basta da solo: servono sempre ulteriori elementi. La giurisprudenza ha infatti stabilito fermamente che “le medie di settore non costituiscono un fatto noto, ma solo un’estrapolazione statistica” e quindi lo scostamento dalla media, da solo, è insufficiente a fondare una presunzione di maggior reddito. Occorre dimostrare che quel gap sia abnorme o irragionevole e accompagnato da altri indizi concordanti (ad esempio, costi fissi elevati che rendono improbabile un margine così basso, oppure una situazione di mercato che non giustifichi vendite al ribasso). Ad esempio, Cass. 31682/2021 ha affermato che i dati di settore sono solo un raffronto statistico e vanno integrati con ulteriori elementi concreti prima di procedere all’accertamento. Nella prassi, uno scostamento modesto (inferiore al 10%) difficilmente regge come grave incongruenza, mentre differenze più marcate possono giustificare l’indagine. La Cass. 24300/2019 ha annullato un accertamento basato su un ricarico dell’87% contro una media del 74% (scostamento di 13 punti, ritenuto non così eclatante). Viceversa, pronunce più recenti hanno ritenuto significativo uno scostamento >10% protratto nel tempo.
Da ricordare: gli ISA (Indici Sintetici di Affidabilità) introdotti dal 2018 attribuiscono un punteggio al contribuente: punteggi molto bassi (es. <6 su 10) per più anni possono essere un criterio di selezione per i controlli, in quanto segnalano affidabilità fiscale scarsa. Avere perdite croniche incide negativamente sugli ISA. Pur non essendo sanzionati automaticamente, gli indici bassi aumentano la probabilità di verifica. Tuttavia, anche in ambito ISA, vale il principio che il punteggio o lo studio è solo un alert interno: l’accertamento poi deve poggiarsi su elementi indiziari solidi, non sul punteggio in sé.
L’antieconomicità nelle diverse forme d’impresa: Il concetto di gestione antieconomica si applica trasversalmente a tutte le forme giuridiche di impresa e anche alle attività di lavoro autonomo. La Cassazione, sent. n. 11339/2023 ha sottolineato che anche un professionista individuale può subire un accertamento induttivo se dichiara redditi troppo esigui rispetto all’attività svolta, pur avendo tenuto i registri in ordine. In quel caso un geometra aveva dichiarato un reddito modesto a fronte di numerosi incarichi svolti: la contabilità era formalmente regolare, ma i ricavi dichiarati apparivano incongrui rispetto al numero di pratiche edilizie gestite. L’ufficio, incrociando dati catastali e parcelle medie, aveva presunto compensi non dichiarati, e la Cassazione ha ritenuto legittimo l’accertamento analitico-induttivo basato su tale antieconomicità. Questo per dire che S.r.l., S.n.c., ditte individuali, professionisti – tutti possono incorrere in contestazioni di antieconomicità. La differenza sta semmai negli effetti: ad esempio, in una società di persone (S.n.c., S.a.s.) l’eventuale maggior reddito accertato verrà imputato per trasparenza ai soci e tassato in capo a loro (IRPEF); in una società di capitali (S.r.l., S.p.A.) resterà a carico della società (IRES), ma potrà far emergere utili extrabilancio che, se distribuiti ai soci, potrebbero avere ulteriori conseguenze fiscali o anche penali. In ogni caso, però, il meccanismo logico di base è uguale: risultati anomali → presunzione di evasione → onere sul contribuente di spiegare le anomalie.
3. Evoluzione giurisprudenziale recente (2018–2025)
Negli ultimi anni la Corte di Cassazione è intervenuta più volte sui temi dell’accertamento fondato su antieconomicità, definendo principi utili sia per l’Amministrazione finanziaria sia per i contribuenti. Di seguito riepiloghiamo le pronunce più significative, suddivise per argomento chiave, con i relativi principi di diritto affermati.
a) Accertamento analitico-induttivo con contabilità formalmente regolare:
Cass. Sez. Trib. 2 maggio 2023 n. 11339 – “Contabilità attendibile vs. ragionevolezza economica”. La Corte ha chiarito che l’art. 39 co.1 lett. d) DPR 600/73 consente l’accertamento induttivo del reddito, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente inattendibile, in quanto confliggente con le regole fondamentali di ragionevolezza, potendo il giudizio di non affidabilità […] essere determinato dall’abnormità dell’espressione finale”. In sostanza: la regolarità formale dei conti non salva dal controllo, se il risultato d’esercizio è manifestamente irragionevole. È un principio cruciale (ripreso da molti casi): la sostanza economica prevale sulla forma. Nel caso concreto (un professionista con compensi troppo bassi rispetto alle pratiche svolte), la Cassazione confermò la legittimità dell’analitico-induttivo, ribadendo che anche in assenza di violazioni contabili si può accertare quando i numeri “non tornano” economicamente.
b) Singola operazione antieconomica vs. andamento generale:
Cass. Sez. Trib. ord. 11 ottobre 2018 n. 25217 – “Operazione antieconomica isolata”. Pronuncia spesso citata in difesa dei contribuenti, ha stabilito che un’unica operazione antieconomica isolata non giustifica l’accertamento analitico-induttivo. L’Ufficio in quel caso aveva basato la rettifica su un solo costo ritenuto sproporzionato (quindi parzialmente indeducibile), senza altri elementi. La Corte ha ritenuto illegittimo l’accertamento perché privo di una valutazione complessiva: l’azienda infatti, tolto quel costo, era in utile e quindi non presentava un andamento anomalo generale. Viene richiesto al Fisco di considerare “il contesto imprenditoriale complessivo” e tutti gli elementi fattuali che possano giustificare l’operazione contestata. Si conferma inoltre che servono più indizi concordanti, oppure un unico indizio ma davvero macroscopico, per poter parlare di antieconomicità rilevante. Questo principio tutela i casi in cui magari un affare va male (vendere sottocosto una tantum per smaltire magazzino è un esempio portato dalla Corte) ma l’impresa nel complesso va bene: non si può estrapolare quell’episodio e dedurne evasione se tutto il resto è coerente.
c) Antieconomicità e IVA (costi “sproporzionati”):
Cass. Sez. Trib. ord. 12 agosto 2024 n. 22698 – “Antieconomicità e detrazione IVA”. Riguarda un aspetto specifico: come incide l’antieconomicità sul diritto alla detrazione dell’IVA sugli acquisti. La regola generale nel sistema IVA è che la detrazione non dipende dall’utile o economicità dell’operazione, essendo l’IVA un’imposta “neutra” sul valore aggiunto. Infatti “la mancanza di congruità della spesa non esclude il diritto alla detrazione”. Tuttavia, la Cassazione (richiamando precedenti come Cass. 2240/2018) ha ribadito che se un’operazione è manifestamente antieconomica in modo macroscopico, ciò può costituire indizio che la fattura sia fittizia oppure che il costo non sia inerente all’attività. In tal caso scatta l’onere per il contribuente di provare la reale esistenza e inerenza dell’operazione. Esempio: se una società acquista materie prime pagandole il doppio del prezzo di mercato, detrae l’IVA su tale importo abnorme e dichiara il costo, il Fisco può sospettare una frode (es. sovrafatturazione per creare un costo fittizio e credito IVA). L’antieconomicità qui è vista non per presumere ricavi occulti, ma per presumere costi fittizi o operazioni inesistenti. La Cassazione conferma che in questi casi estremi (prezzi pagati inspiegabilmente alti, senza motivo) l’IVA può essere negata e il costo indeducibile, a meno che l’azienda dimostri la genuinità e la ragione economica dell’operazione (es. urgenza di approvvigionamento che giustifica il prezzo fuori mercato, particolari caratteristiche del bene, ecc.). In sostanza, fatture enormemente antieconomiche = indizio di frode, con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. Questo orientamento (già espresso nel 2018 e confermato nel 2024) è un monito: acquisti o spese del tutto scollegate dalla normalità economica attirano l’attenzione e possono portare non solo ad accertamenti sui ricavi, ma anche al disconoscimento dei costi/IVA legittimamente contabilizzati, se il contribuente non prova la buona fede.
d) Obbligo di contraddittorio e studi di settore vs antieconomicità:
Cass. Sez. V ord. 9 aprile 2024 n. 9554 – “Studi di settore e contraddittorio”. Questa pronuncia (richiamata anche da altre decisioni) tocca il tema del contraddittorio endoprocedimentale quando l’accertamento si basa sugli studi di settore. La regola, fissata dall’art. 10 comma 3-ter L. 146/1998 e dalle Sezioni Unite 24823/2015, è che se un accertamento è fondato esclusivamente sulle risultanze di uno studio di settore (o ISA), l’ufficio deve attivare preventivamente il contraddittorio con il contribuente, pena la nullità dell’atto. Il contribuente cioè va convocato per fornire spiegazioni sullo scostamento. Tuttavia, la Cassazione 9554/2024 precisa che questo obbligo viene meno se l’accertamento poggia anche su altri elementi oltre allo scostamento dallo studio, ad esempio “una gestione aziendale reiteratamente antieconomica” o irregolarità contabili. In tal caso l’accertamento non è più basato solo sugli studi, ma su una pluralità di presunzioni semplici (fra cui l’antieconomicità), e per la giurisprudenza non sussiste un obbligo generalizzato di contraddittorio salvo diversa previsione. Nel caso concreto, l’ufficio inizialmente aveva rilevato uno scostamento dallo studio di settore, ma poi aveva approfondito trovando altre incongruenze (irregolarità, redditi non dichiarati) e aveva fondato l’accertamento soprattutto sull’antieconomicità della gestione. La Cassazione ha ritenuto inapplicabile la nullità per mancato contraddittorio, perché l’atto traeva fondamento da indizi ulteriori e non dal solo studio. Implicazione pratica: l’Agenzia spesso mescola sempre un po’ di contestazioni di antieconomicità o altre anomalie insieme alle risultanze degli ISA, proprio per evitare l’obbligo formale di convocazione. Va ricordato che, dopo la riforma del 2015, per le imposte sui redditi (tributi non armonizzati UE) non esiste un obbligo generale di contraddittorio preventivo, salvo che sia previsto espressamente dalla legge. Per l’IVA (tributo armonizzato), la Corte di Giustizia UE ha invece richiesto il contraddittorio anticipato in determinati casi, ma comunque con la prova di resistenza: il contribuente, per far annullare l’atto, deve indicare quali argomentazioni avrebbe portato se convocato e come queste avrebbero potuto incidere sull’esito. In un accertamento per antieconomicità misto IRPEF-IVA, quindi, teoricamente sul lato IVA si può ancora eccepire la mancata convocazione (se l’accertamento nasce da studi/indici), ma bisogna dimostrare che tale omissione ha pregiudicato il diritto di difesa in concreto. In pratica, come detto, l’Agenzia tende a prevenire il problema inserendo più motivi dell’accertamento. Sta al difensore del contribuente valutare se ci sono gli estremi per sollevare comunque un vizio di procedimento (si veda par. 5 sulle strategie difensive).
e) Diritto alla deduzione forfetaria dei costi presunti (novità 2023-2025):
Questo è un punto nodale emerso di recente, che segna un cambio di rotta a favore del contribuente. Tradizionalmente, nell’accertamento analitico-induttivo, l’ufficio accertava maggiori ricavi ma non riconosceva automaticamente i relativi costi, lasciando al contribuente l’onere di provarli specificamente (ad es. mostrando fatture di acquisti aggiuntivi se pretendeva che per vendere di più aveva dovuto spendere di più). Ciò creava una sperequazione: se un contribuente era così evasore da non tenere alcuna contabilità (accertamento induttivo puro), paradossalmente il Fisco era tenuto a ricostruirgli anche i costi (magari in percentuale sui ricavi presunti) per non tassarlo su un profitto del 100% ; invece, se un contribuente aveva tenuto la contabilità ma era solo parzialmente evasore (analitico-induttivo), l’ufficio poteva aggiungere ricavi presunti senza considerare alcun costo, caricando il contribuente dell’onere di dimostrare costi ulteriori. Questa asimmetria è stata ritenuta ingiusta. La svolta è arrivata con la Corte Costituzionale n. 10/2023, che ha giudicato irragionevole negare al contribuente la possibilità di far valere costi anche in via presuntiva nell’accertamento analitico-induttivo, in quanto ciò viola il principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.). Conseguentemente la Cassazione, ord. 15 luglio 2025 n. 19574, ha aggiornato la giurisprudenza: in tema di accertamento analitico-induttivo, “a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 2023, il contribuente imprenditore può sempre opporre la prova presuntiva contraria, eccependo una incidenza percentuale forfetaria di costi di produzione, che vanno quindi detratti dall’ammontare dei maggiori ricavi presunti”. In altre parole, anche se la contabilità non è completamente inattendibile (accertamento parziale), il contribuente ha diritto di sostenere, anche solo con presunzioni o argomentazioni logiche, che per ottenere quei maggiori ricavi presunti avrebbe dovuto sostenere certi costi, e dunque tali costi vanno dedotti forfettariamente dall’ufficio.
Questo principio adegua l’accertamento analitico-induttivo al rispetto pieno della capacità contributiva: il Fisco non può più limitarsi ad accertare ricavi aggiuntivi e tassarli integralmente, ma deve (o quantomeno il giudice deve, se adito) riconoscere una ragionevole quota di costi correlati, se il contribuente ne fa richiesta anche solo in via presuntiva. Ad esempio, se un ristorante dichiara 100 di incassi ma l’ufficio presume che ne abbia fatti 150, oltre a tassare i 50 in più dovrà ammettere in deduzione i costi relativi (materie prime, ecc.) magari calcolandoli col margine medio di settore – supponiamo il 60% di quei 50, quindi 30 di costi – e dunque tassare un utile aggiuntivo netto di 20 (invece che 50). Prima, in assenza di prove documentali di quei costi (che ovviamente non c’erano, trattandosi di ricavi occultati), il contribuente rimaneva con l’intero 50 tassato. Ora può eccepire tale costo presunto e la Cassazione dice che va accolto. Questa è una notevole arma difensiva in più. Da notare che questo diritto vale “sempre” per il contribuente imprenditore, dunque anche in giudizio: il giudice tributario di merito potrà quantificare un margine di profitto congruo e ridurre l’imponibile accertato se l’ufficio non lo ha fatto. Il tutto discende, come detto, dalla sentenza della Consulta n. 10/2023, che aveva evidenziato l’irragionevolezza della disciplina precedente. In sintesi, dopo il 2023 l’onere della prova su questo punto è più equilibrato: l’ufficio deve sì provare che i ricavi erano più alti, ma il contribuente può controbattere chiedendo l’applicazione di costi percentuali (basati magari su medie di settore) senza dover esibire fatture che ovviamente non può avere (perché se avesse registrato costi per quei ricavi, li avrebbe dichiarati anche di ricavi). Questa novità va assolutamente invocata nella difesa di accertamenti per antieconomicità, specie quando l’atto impositivo risulti eccessivo perché calcola utili lordi irrealistici. Ad esempio, Cass. 3567/2017 (richiamata in dottrina) aveva già affermato che in un induttivo puro occorre applicare il margine medio di settore e non tassare l’intero ricavo ricostruito; ora questo ragionamento si estende anche agli induttivi parziali. Insomma, i costi presunti “seguono” sempre i ricavi presunti, al fine di tassare solo il reddito netto effettivo.
Riepilogo pronunce chiave (2018–2025): la seguente tabella elenca alcune delle sentenze citate con il principio di diritto semplificato:
Sentenza (Cass. Civ.) | Principio affermato | Riferimenti |
---|---|---|
Cass. ord. 25217/2018 (Sez. Trib.) | Un singolo atto antieconomico isolato non giustifica l’accertamento induttivo se l’azienda è nel complesso sana. Serve valutazione globale della gestione, non estrapolare un costo anomalo senza considerare il contesto. | Antieconomicità isolata non sufficiente; necessaria visione d’insieme. |
Cass. sent. 24300/2019 (Sez. Trib.) | Uno scostamento modesto dalle medie di settore (es. +13% di ricarico rispetto al minimo) non integra grave incongruenza di per sé. Servono difformità più marcate o altri indizi di inattendibilità della contabilità. | Scostamento da studi di settore da solo non basta se contenuto. |
Cass. sent. 31682/2021 (Sez. Trib.) | Le medie di settore sono estrapolazioni statistiche, non fatti noti: vanno integrate con ulteriori elementi concreti prima di procedere ad accertamento. Solo un divario “abnorme” e ingiustificato unito ad altre prove può costituire presunzione grave. | Studi di settore ≠ prova diretta; necessarie altre conferme. |
Cass. sent. 11339/2023 (Sez. Trib.) | È ammesso l’accertamento analitico-induttivo anche con contabilità formalmente regolare se il risultato economico è irragionevole. La contabilità apparentemente in ordine può essere superata se confligge con la logica economica fondamentale (utile troppo basso, perdite inspiegabili). | Forma vs sostanza: conti in regola non immunizzano da controllo se il quadro economico è incoerente. |
Cass. ord. 9554/2024 (Sez. V) | Contraddittorio obbligatorio sugli studi di settore solo se l’accertamento ne è esclusivamente basato. Se invece ci sono anche altri elementi (es. perdite pluriennali, irregolarità), l’accertamento rientra nelle presunzioni semplici e non è nullo in assenza di convocazione. (Resta l’obbligo per l’IVA in base al diritto UE, con prova di resistenza). | Studi di settore + antieconomicità → no nullità per mancato contraddittorio, perché l’atto non si fonda solo sullo studio. |
Cass. ord. 22698/2024 (Sez. Trib.) | In materia IVA, l’antieconomicità di un’operazione non priva del diritto a detrazione di per sé (IVA neutra). Solo se l’operazione è manifestamente antieconomica al punto da suggerire una frode (fattura fittizia o spesa non inerente), allora l’antieconomicità diventa indizio contro il contribuente, che deve provarne la legittimità. | Costo sproporzionato → sospetto di fattura falsa; onere al contribuente di provare effettività dell’operazione per mantenere detrazione IVA. |
Cass. ord. 12807/2025 (Sez. Trib.) | Massima: Ricavi troppo bassi rispetto ai costi possono essere considerati falsi. Se i ricavi dichiarati sono sproporzionatamente esigui rispetto ai costi sostenuti, l’ufficio può legittimamente presumere che parte dei ricavi reali non sia stata dichiarata . (Conferma la possibilità di accertamento induttivo analitico in caso di ricavi “antieconomici”). | Ricavi < Costi in modo rilevante → presunzione di ricavi non dichiarati (gestione in perdita implausibile). |
Cass. ord. 19574/2025 (Sez. Trib.) | Anche nell’accertamento analitico-induttivo il contribuente può chiedere il riconoscimento forfettario di costi presunti a fronte di ricavi presunti, come prova contraria presuntiva. Post Consulta 10/2023, il contribuente imprenditore “può sempre opporre la prova presuntiva contraria, eccependo un’incidenza percentuale forfetaria di costi […], da detrarsi dai maggiori ricavi presunti”. | Diritto alla deduzione di costi presunti anche in accertamenti parziali → il Fisco non può tassare ricavi ricostruiti senza considerare alcun costo. |
(Fonti: Cassazione – varie sentenze/ordinanze 2018-2025 come da riferimenti citati in tabella)
4. L’onere della prova e i diritti del contribuente
Uno snodo fondamentale nelle controversie da antieconomicità è la ripartizione dell’onere probatorio. Chi deve provare cosa, quando l’ufficio contesta perdite e utili bassi?
Onere iniziale a carico del Fisco: Trattandosi, come detto, di presunzioni semplici (iuris tantum), è innanzitutto l’Agenzia delle Entrate che deve fornire indizi seri e coerenti tali da mettere in discussione l’attendibilità di quanto dichiarato. In altre parole, spetta al Fisco il primo passo probatorio: l’avviso di accertamento dev’essere motivatamente fondato su elementi che facciano presumere un maggior reddito. Non basta un generico sospetto o “a me non tornano i conti”; servono dati o circostanze concrete: ad esempio, l’atto impositivo potrebbe elencare le annualità in perdita, indicare che nel settore simile si registrano utili, segnalare che nonostante le perdite l’azienda ha incrementato il patrimonio, oppure riportare risultati di controlli incrociati (come prelevamenti bancari non giustificati). La motivazione dell’accertamento è cruciale: se l’ufficio non argomenta in modo logico e dettagliato perché reputa inattendibili le perdite dichiarate, l’atto è viziato. La Cassazione richiede che l’atto espliciti gli indizi di antieconomicità riscontrati, così che il contribuente sappia cosa contestare. Ad esempio, nell’avviso impugnato nella sentenza 11339/2023, l’ufficio aveva ben delineato: numero di pratiche svolte dal geometra, parcelle attese in base a tariffe, confronto con il dichiarato, ecc., formando un “quadro logico” considerato sufficiente. Solo con questa base l’onere passa al contribuente.
Presunzione iuris tantum (relativa): Una volta che il Fisco ha assolto il suo onere di presentare presunzioni gravi, precise e concordanti, queste valgono come prove indirette di evasione, salvo prova contraria. Si tratta, appunto, di presunzioni relative (non legali assolute): il contribuente ha la facoltà di fornire prova contraria per confutarle. La natura di tale prova può variare: prova documentale diretta (es. dimostrare che i ricavi mancanti non esistono perché l’azienda era chiusa per lavori, o che le perdite erano coperte da finanziamenti dimostrabili), oppure spiegazioni logiche e dati economici che rendano plausibile il risultato ottenuto (es. margini ridotti perché ci si è posizionati su fascia di prezzo inferiore ai concorrenti, oppure perdite deliberate per politiche di espansione sul mercato). Importante: il contribuente può anche utilizzare presunzioni a sua volta come prova contraria. Cioè, può opporre presunzioni inverse (come visto col tema dei costi forfettari) o ragionamenti economici che minano la gravità dell’indizio fiscale. Ad esempio: il Fisco presume ricavi in nero perché l’utile è troppo basso? Il contribuente può controbattere che quell’anno ha volutamente ridotto i prezzi del 30% per svuotare il magazzino (dimostrando magari con listini, campagne promozionali, l’urgenza di liquidità, etc.), circostanza che spiegherebbe il margine basso senza chiamare in causa ricavi nascosti. Oppure: l’Erario evidenzia perdite per 3 anni, il contribuente produce il piano industriale redatto all’epoca dove si prevedevano investimenti e perdite iniziali per conquistare quota di mercato, poi un break-even al 4° anno (magari effettivamente raggiunto), provando così la razionalità ex ante di quelle perdite.
Prova “libera” e recenti rafforzamenti: Nel processo tributario, in generale, vige il principio della libera valutazione del giudice e della non tassatività dei mezzi di prova, salvo eccezioni. Ciò significa che il contribuente può ricorrere a qualunque elemento probatorio non espressamente vietato: documenti contabili ed extracontabili, perizie, testimoni (novità introdotta dalla riforma del 2022, che ora ammette in taluni casi la testimonianza per iscritto ex art. 7 d.lgs. 546/92 riformato), presunzioni semplici, dati statistici, giurisprudenza, ecc. La Legge 130/2022 di riforma della giustizia tributaria ha sottolineato il dovere del giudice di merito di valutare analiticamente le prove e ha introdotto alcuni strumenti in più per il contraddittorio probatorio (come appunto la possibilità di assumere deposizioni rese fuori dal giudizio, cioè dichiarazioni giurate, quando non si dispone di documenti). Inoltre, la L.130/2022 ha sancito un principio di maggior terzietà e completezza del giudizio tributario, il che comporta che il giudice non debba dare “automatismo” alle pretese del fisco basate su presunzioni, ma deve vagliarle criticamente alla luce delle controdeduzioni e prove del contribuente. Si parla a tal proposito di onere della prova “rafforzato” in capo all’Amministrazione, nel senso che in giudizio non basta più per il Fisco richiamarsi alle presunzioni di antieconomicità indicate nell’atto: se il contribuente ha fornito spiegazioni convincenti o ha indebolito la presunzione, il giudice deve tenerne conto. La parità delle armi è maggiore rispetto al passato.
Inversione dell’onere e limiti: Va però tenuto presente che, quando l’Agenzia ha presentato una presunzione valida, l’onere si sposta effettivamente sul contribuente. Ciò significa che il silenzio o la carenza di prove contrarie del contribuente avvantaggia il Fisco. Se il contribuente non riesce a fornire elementi a proprio favore, la presunzione regge e l’accertamento viene confermato. Ad esempio, se il Fisco contesta 100 di ricavi in nero e l’imprenditore si limita a negare senza fornire alcuna giustificazione credibile per i suoi numeri, il giudice probabilmente darà ragione all’ufficio. Al contrario, se il contribuente porta una giustificazione documentata delle sue perdite (es: fatture di spese straordinarie, calo di mercato attestato da statistiche di settore, insolvenza di un importante cliente che ha causato una perdita su crediti, ecc.) tale da spezzare la catena logica della presunzione di evasione, allora l’ufficio deve arrendersi o trovare ulteriori elementi. Un caso peculiare: cosa succede se l’antieconomicità deriva da scelte imprenditoriali volontarie ma lecite? Ad esempio un’impresa che vende per anni sotto costo un prodotto di punta, adottando una strategia aggressiva per togliere mercato ai concorrenti. È antieconomico, ma è una scelta deliberata che potrebbe poi dare frutti (es. fidelizzazione clienti). In tali situazioni, la difesa consisterà nel provare che la scelta aveva una logica commerciale (studi di settore e business plan che mostrano la strategia di dumping seguita da aumento prezzi, ecc.). La Cassazione stessa ha riconosciuto che vanno considerate anche le possibili ragioni extrafiscali di operazioni in perdita, se rientrano in una normale logica imprenditoriale (come vendere un lotto in perdita per liberare liquidità – è antieconomico isolatamente, ma può essere giustificato). Quindi, se tale logica è comprovabile, l’antieconomicità perde valore come indizio di evasione.
Riassumendo:
- Il Fisco deve provare l’antieconomicità con indizi seri (perdite ingenti, margini anomali, etc.). Senza questo, l’accertamento cade.
- Il contribuente deve poi provare che quei risultati anomali hanno cause lecite: presentare evidenze di costi reali, condizioni di mercato sfavorevoli, errori onesti di gestione, investimenti fatti, politiche di prezzo particolari, ecc. In mancanza, la presunzione si consolida.
- Ora il contribuente può anche utilizzare presunzioni (es: costi forfettari correlati) e spiegazioni logiche come prova contraria, non solo documenti formali.
- Se le giustificazioni del contribuente aprono scenari plausibili che escludono l’evasione, l’onere torna in capo all’ufficio di smentirle o l’accertamento va annullato per insufficienza di prova.
Infine, va ricordato un ulteriore aspetto: il legittimo affidamento. Se un certo comportamento fiscale del contribuente (es. dichiarare certe spese che portano a perdita) era stato tenuto negli anni con il “benestare” tacito del Fisco (magari dopo controlli senza rilievi), ci si può chiedere se questi possa improvvisamente cambiare idea. In linea generale, per le dichiarazioni fiscali vale il principio che ogni anno è autonomo, e non c’è affidamento sul fatto che, poiché prima non ti hanno contestato le perdite, non possano farlo ora. Tuttavia, se esistessero prese di posizione formali (es. una risposta a interpello in cui l’Agenzia avallava una certa pratica contabile) il contribuente potrebbe opporre l’affidamento e la buona fede. Nell’ambito dell’antieconomicità pura, di solito questo non accade perché l’ufficio non “approva” mai formalmente un bilancio in perdita; al più può essergli sfuggito o averlo ritenuto tollerabile finché di modesta entità. Dunque, è difficile invocare affidamento per giustificare perdite seriali (“non mi avete contestato nulla per 3 anni, pensavo andasse bene così” – non è una vera tutela giuridica). Meglio concentrarsi sulle prove concrete di aver agito correttamente nonostante i risultati negativi.
5. Contromisure preventive (contabili e fiscali) per imprese in perdita
La miglior difesa è la prevenzione: se la tua azienda sta accumulando perdite o utili esigui, agire in anticipo può ridurre il rischio di accertamenti o metterti in posizione di forza qualora avvengano. Ecco alcune contromisure contabili e fiscali da valutare prima di finire nel mirino del Fisco:
- Documentare le cause delle perdite: Sin d’ora, tieni traccia e prova delle ragioni economiche che spiegano i bilanci in rosso. Ad esempio: cali di mercato, investimenti ingenti in nuovi macchinari, spese di avviamento, strategie di prezzo aggressivo, crediti non riscossi, eventi straordinari (calamità, pandemia, ecc.). Inserisci queste spiegazioni nella Relazione sulla gestione o nella Nota Integrativa al bilancio (per le società di capitali): nero su bianco, spiega agli stakeholder – e indirettamente al Fisco – perché c’è la perdita e quali prospettive future si attendono. Questa non è una giustificazione automatica verso l’Agenzia, ma fornisce coerenza al bilancio e potrà essere richiamata in sede di verifica come indicazione di buona fede e trasparenza. Se sei una ditta individuale o società di persone senza nota integrativa, puoi comunque conservare report interni, analisi di settore, studi di fattibilità che attestino le motivazioni delle perdite. Ad esempio, un business plan pluriennale che prevedeva perdite nei primi 3 anni e utile dal 4° è un ottimo elemento: mostra che la perdita era parte di un percorso pianificato.
- Ricapitalizzazione e copertura delle perdite: La legge societaria impone che, se le perdite erodono oltre un terzo del capitale nelle S.p.A. e S.r.l., i soci debbano intervenire (art. 2447 c.c. e analoghe norme per S.r.l.) ricapitalizzando o riducendo il capitale. Anche per imprese individuali o società di persone, perdite consistenti richiedono comunque apporto di nuovi mezzi (capitale o finanziamenti) per non diventare insolventi. Assicurati di eseguire formalmente queste operazioni: se la tua S.r.l. ha bruciato metà del capitale, convoca l’assemblea e decidi il da farsi (versamenti soci, riduzione capitale, trasformazione…). Oltre ad essere un obbligo di legge, ciò smonta un potenziale argomento del Fisco: se non ricapitalizzi mai, l’ufficio potrebbe dire “come facevi a proseguire l’attività? Forse con utili in nero”. Se invece le perdite sono coperte con formali aumenti di capitale o versamenti soci, dimostri da dove arrivano le risorse (i soci hanno messo soldi dichiarati e tracciabili). Ad esempio, se la società perde €100k ogni anno e ogni anno i soci versano €100k con bonifico per ripianarla, sarà più difficile sostenere che servivano ricavi occulti per sopravvivere. Contabilizza correttamente questi apporti (come riserva versamenti soci, finanziamenti infruttiferi, ecc.) e conserva evidenza bancaria. In mancanza di ciò, una società tecnicamente fallita ma ancora operante appare sospetta.
- Verifica del “test di operatività” (società di comodo): Anche se la disciplina delle perdite sistematiche è abrogata, rimane l’obbligo di verificare ogni anno se la società supera il test di operatività dei ricavi (art. 30 L. 724/1994). Se la tua azienda possiede immobili, partecipazioni o altri asset di rilievo e contemporaneamente ha ricavi bassissimi (o zero), potrebbe risultare non operativa. Esempio: una S.r.l. immobiliare con un capannone del valore di 1 milione e affitti percepiti per soli €10.000 annui sarà considerata non operativa (ricavi troppo bassi rispetto al valore bene). In tal caso, devi dichiarare un reddito minimo presunto (calcolato per legge sui beni) e pagare comunque le imposte su quello, a meno che tu non presenti un’istanza di disapplicazione dimostrando le cause oggettive che ti impediscono di ottenere ricavi adeguati. Per prevenire problemi: calcola in anticipo il test di operatività. Se sei sotto i minimi e non hai cause automatiche di esclusione (startup nei primi anni, società in fallimento, ecc.), valuta due opzioni: 1) Aumentare i ricavi reali (es. affittando a valore di mercato un immobile inutilizzato) o ridurre gli asset improduttivi; 2) Presentare un interpello probatorio all’Agenzia prima della dichiarazione, spiegando perché i tuoi ricavi sono bassi e chiedendo di non applicare la disciplina delle società di comodo. Se l’Agenzia risponde positivamente o non risponde (silenzio-assenso entro 120 gg), potrai non applicare i redditi minimi. Questo protegge anche in caso di controllo: hai già chiarito la situazione. Se non fai l’interpello, puoi “disapplicare in autonomia” la norma indicando in dichiarazione la causa oggettiva che ritieni valida, ma è più rischioso perché l’Agenzia potrebbe non concordare e sanzionarti. Meglio dunque prevenire con interpello. Ricorda: dal 2022 il test di operatività non considera più le perdite pregresse, ma solo i beni; tuttavia una società costantemente in perdita spesso è anche non operativa (perché i ricavi sono scarsi). Quindi il problema rimane.
- Controllo del cash-flow e dei conti bancari: Una società che macina perdite deve essere finanziata in qualche modo. Preoccupati di tenere traccia dei flussi finanziari con trasparenza. Se usi conti bancari personali per sostenere l’impresa, o viceversa, regolarizza queste partite (es. formalizzale come prestiti soci, con idonee delibere). Evita assolutamente di operare in larga parte in contanti: versa il necessario sul conto societario come apporto tracciato, invece di far fronte alle spese con contante di provenienza incerta. Questo perché, in un futuro controllo, l’ufficio quasi certamente scruterà i movimenti finanziari: i prelevamenti e versamenti ingiustificati sui conti dell’imprenditore o della società sono un altro indizio di evasione (art. 32 DPR 600/73 prevede la presunzione legale che versamenti non giustificati = ricavi in nero). Quindi, prima ancora che te lo chiedano, predisponi le giustificazioni: se hai versato 10.000 € sul conto aziendale, assicurati di poter dimostrare da dove vengono (prestito di un socio? metti tutto per iscritto e conserva il bonifico). Se un socio ha pagato spese aziendali di tasca sua, considera di fargli emettere un finanziamento formale. Insomma, fai parlare i numeri in modo chiaro. Questo scoraggerà anche l’ufficio dal fare accertamenti “bancari” lunghi e potenzialmente invasivi. Inoltre, controlla periodicamente il cash flow: se emergono tensioni di liquidità, formalizza immediatamente le soluzioni (ad es. affidamenti bancari, nuovi apporti soci) invece di tamponare informalmente. Tutto ciò dipinge un quadro di correttezza.
- Qualità della contabilità e regolarità formale: Anche se il tuo problema sono i risultati economici e non errori formali, è essenziale che sulle scritture contabili non ci sia il minimo appiglio. Se la GdF o Agenzia trovano anche piccole irregolarità formali (registri non aggiornati al giorno, scontrini non battuti, inventario impreciso), potrebbero aggravare la tua posizione sostenendo che oltre antieconomica, la contabilità è inattendibile anche formalmente. Ciò aprirebbe la porta addirittura a un induttivo puro (peggio per te). Quindi, cura maniacalmente la tenuta dei registri IVA, i libri obbligatori, la conservazione di fatture e DDT, l’inventario di magazzino, la corrispondenza tra movimenti di magazzino e contabili. Fai controllare dal commercialista periodicamente la congruenza delle varie dichiarazioni (redditi, IVA, studi di settore/ISA): eventuali incoerenze vanno risolte o spiegate (meglio se con una nota integrativa). Se usi artifici contabili leciti per ridurre l’utile (es. massimizzi gli ammortamenti, accantoni molto a fondi rischi), va bene, ma sii pronto a dimostrare la correttezza di tali scelte (perché quell’ammortamento anticipato è ammesso, perché quel fondo era opportuno). Insomma, elimina qualunque elemento che possa far dire al verificatore “contabilità inattendibile”. Così restringi il campo solo all’antieconomicità, dove hai già pronte le tue giustificazioni sostanziali.
- Interventi correttivi graduali: Se sai che l’impresa non può reggere altre perdite a lungo, considera di apportare modifiche gestionali prima che sia troppo tardi (sia per l’azienda sia per il fisco che potrebbe intervenire). Ad esempio: ritocca i prezzi verso l’alto se erano troppo bassi, riduci costi inutili, aliena cespiti improduttivi, riconverti l’attività se il ramo è in crisi. Non stiamo suggerendo di farlo solo “per far vedere un utile al Fisco”, ma oggettivamente un’impresa che non trova mai un equilibrio rischia di fallire. Dal lato fiscale, alternare qualche anno in utile tra le perdite spezza la percezione di perenne antieconomicità. Se riesci a chiudere magari il prossimo esercizio con un leggero utile (anche solo pareggio) – senza artifici illeciti ma magari rinviando qualche spesa non urgente – potrai poi dimostrare che la situazione era transitoria e stavi uscendo dal tunnel. Vedere 4-5 bilanci tutti in rosso dà un’altra impressione rispetto a 3 perdite seguite da 1 utile (anche modesto). In quest’ultimo caso potrai dire: “Ecco, la mia strategia ha iniziato a pagare, non c’era evasione”. Ovviamente, queste sono considerazioni imprenditoriali prima ancora che fiscali.
- Valutazione dell’opportunità di continuare l’attività: Può sembrare drastico, ma a volte chiudere o cambiare forma giuridica può essere preferibile al trascinarsi in perdita. Se l’attività non è (ancora) profittevole ma ha potenziale, potresti pensare di trasformare la ditta individuale in società coinvolgendo nuovi soci capitalizzatori, oppure di fondere l’azienda con un’altra, o ancora di cederla parzialmente per ottenere risorse fresche. Queste mosse possono portare liquidità che giustifica come hai coperto le perdite (ad es. vendendo quote). Oppure, se l’attività non ha speranza di risanamento, cessare l’impresa prima che arrivi un’ispezione può limitare i danni: il Fisco controlla anche le aziende cessate, ma statisticamente è meno probabile, e comunque la chiusura in sé è coerente col fatto che l’impresa non andava (purché non sia una chiusura fittizia con prosecuzione in altra forma – quello sarebbe abuso/evasione). Insomma, fai valutazioni strategiche complessive: a volte l’ostinazione a tenere in piedi una società per anni in perdita non conviene né a te né ai tuoi obblighi fiscali.
- Consulenza preventiva e interpelli: Se hai dubbi sulla corretta deducibilità di alcuni costi o sulla posizione fiscale della tua impresa “borderline”, valuta di chiedere un parere professionale o persino presentare un interpello all’Agenzia. Ad esempio, se stai per effettuare un’operazione necessaria ma antieconomica (tipo vendere un bene sotto costo al socio per ragioni di ristrutturazione del debito), un interpello disapplicativo o qualificatorio potrebbe metterti al riparo da successive contestazioni di abuso. Non sempre l’Agenzia risponde in modo favorevole, ma il solo interpello dimostra la tua volontà di rispettare le regole e può eventualmente giovare in termini di non applicazione di sanzioni (buona fede) o di tenuità.
In sintesi, trasparenza, ordine e pianificazione sono le armi migliori. Molte imprese che subiscono accertamenti per perdite multiple avevano sottovalutato l’importanza di queste contromisure: magari l’imprenditore era focalizzato a sopravvivere e non ha curato la forma, dando così il fianco al Fisco. Fare le cose per bene – ricapitalizzare, tenere traccia, motivare le scelte – non garantisce al 100% di evitare controlli, ma di certo fornisce munizioni per vincere un’eventuale battaglia difensiva.
6. Gestire la verifica fiscale: strategie difensive “in itinere”
Nonostante tutte le cautele, può accadere che l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza decidano di controllare proprio la tua impresa in perdita. Vediamo come affrontare al meglio le varie fasi di un accertamento tributario, dal momento in cui iniziano le verifiche fino all’eventuale processo, dal punto di vista del contribuente. Un approccio tempestivo e strategico può spesso evitare che si arrivi a un avviso di accertamento vero e proprio, o comunque porre le basi per annullarlo in sede contenziosa.
6.1 Fase di controllo e accertamento prima dell’emissione dell’atto
Accessi, ispezioni e verifiche: Se l’impresa viene scelta per un controllo, gli ispettori (funzionari AdE o militari GdF) possono eseguire accessi nei locali, ispezionare libri e registri, acquisire documenti e informazioni. Quando il tema è l’antieconomicità, spesso i verificatori cercheranno riscontri extracontabili: ad esempio, confronteranno le quantità di merce venduta con gli acquisti di materia prima, analizzeranno i movimenti bancari, controlleranno lo stile di vita degli amministratori, ecc. È fondamentale collaborare in modo intelligente: da un lato fornire quanto richiesto (è obbligatorio esibire i documenti e non opporsi alle verifiche autorizzate), dall’altro cominciare già a fornire spiegazioni verbali delle anomalie che noti stiano emergendo. Se l’ispettore fa domande tipo “Come mai avete perso 50k l’anno scorso?”, non limitarti a scrollare le spalle; cogli l’occasione per illustrare – con calma e oggettività – le cause (es. “Abbiamo investito in un macchinario nuovo da 80k, che però inizierà a produrre ricavi solo dall’anno prossimo, ecco la documentazione”). Spesso i verificatori annotano nel processo verbale anche le giustificazioni addotte dal contribuente durante l’accesso. Meglio che le tue motivazioni compaiano già lì, a caldo, piuttosto che tirarle fuori per la prima volta mesi dopo. Naturalmente, evita dichiarazioni avventate: se non sei sicuro su un punto, è lecito dire che fornirai risposta tramite il consulente. Ma sulle cose chiare – es. perché hai prezzi più bassi della media – dillo subito e magari fai vedere i listini o le brochure promozionali.
Il Processo Verbale di Constatazione (PVC): Al termine della verifica, specie se svolta dalla Guardia di Finanza, viene redatto un PVC, cioè un verbale con tutti i rilievi riscontrati. Per legge (art. 12, c.7 L. 212/2000, Statuto del Contribuente) – fino al 2023 – l’ufficio non poteva emettere l’accertamento prima di 60 giorni dalla consegna del PVC, per lasciare tempo al contribuente di presentare osservazioni difensive. Questa norma dei 60 giorni è stata formalmente abrogata nel 2023 (nell’ambito del riordino delle norme procedimentali, con il D.Lgs. 156/2022 attuativo della riforma del processo tributario). Tuttavia, nella prassi 2024, sia l’Agenzia che la GdF continuano generalmente a rispettare tale intervallo, salvo casi eccezionali di particolare urgenza (ad es. pericolo di prescrizione imminente). Quindi è ancora possibile (e altamente raccomandato) sfruttare quei ~60 giorni post-verifica per presentare le tue memorie. Se ricevi un PVC con contestazioni di antieconomicità (o altre), non restare passivo: entro 60 giorni prepara una dettagliata Memoria difensiva in cui contesti punto per punto i rilievi infondati e alleg[a] prove a tuo favore. Ad esempio, se nel PVC si legge “azienda in perenne perdita, presumibili ricavi non contabilizzati 100k in nero”, tu risponderai per iscritto spiegando le tue ragioni (crisi del settore, ecc., con dati) e magari evidenziando errori dei verificatori (es. hanno calcolato margini medi di settore errati perché hanno preso un codice attività diverso dal tuo). Queste osservazioni scritte vanno inviate all’Ufficio competente (indicato nel PVC) e la legge richiede che l’ufficio le valuti prima di emettere l’atto. Se non lo fa, in passato la giurisprudenza annullava l’atto per violazione del contraddittorio. Oggi, con l’abrogazione, l’obbligo formale è attenuato, ma di fatto l’Agenzia valuta comunque le memorie – è nel suo interesse, per evitare figure in causa. Includi nella memoria ogni elemento che possa far riflettere l’ufficio: se ad esempio hanno ignorato che nel 4° anno tu sei tornato in utile, segnalalo; se non hanno considerato che avevi chiuso un reparto in perdita (migliorando quindi la situazione per il futuro), scrivilo. Lo scopo è convincere l’Agenzia a ridurre o archiviare la pretesa prima che diventi atto impositivo. Perciò, cura molto questa fase: di fatto è un contraddittorio anticipato utile anche per il successivo giudizio, perché se l’ufficio non terrà conto di argomenti validi, lo si potrà far notare al giudice. Ricorda: fino all’emissione dell’accertamento definitivo, sei ancora in tempo per negoziare o presentare elementi.
Invito al contraddittorio e accertamento con adesione “in corso di verifica”: In alcune situazioni l’ufficio, dopo il PVC o anche senza PVC, potrebbe inviarti un invito a comparire per discutere i rilievi prima di emettere l’accertamento (specie se non c’è stato un PVC formale, ad esempio nei controlli da ufficio su studi di settore). Questo invito è facoltativo per l’ufficio (tranne nei casi di studi di settore puri, come già detto). Se lo ricevi, partecip[a] assolutamente: è un’occasione di difesa anticipata. Puoi andarci con il tuo difensore e presentare memorie anche in quell’incontro. Se si giunge a un accordo in questa sede pre-atto, può tradursi in un accertamento con adesione semplificato (senza nemmeno far partire il contenzioso).
Tieni presente che puoi avviare tu stesso un’adesione anche dopo la notifica dell’accertamento (lo vedremo a breve), ma riuscire a risolvere prima che l’atto sia emesso è ancor meglio (evita sanzioni piene e contenzioso). Quindi sfrutta ogni spazio di dialogo in fase amministrativa: a volte il funzionario può essere convinto a lasciar perdere l’accertamento se fornisci prove solide che la perdita era reale e non c’è materia imponibile nascosta. Altre volte, quantomeno, si può trovare un compromesso, tipo riconoscere una quota di ricavi non dichiarati minore di quella inizialmente ipotizzata (specie se mostri qualche errore nei loro calcoli).
Conclusione di questa fase: Idealmente, il tuo obiettivo è far sì che l’accertamento non venga proprio emesso (archiviazione) oppure che, se emesso, sia già frutto di un accordo (adesione pre-contenzioso) con richieste ridotte e condivise. Se tutto ciò non avviene e ti arriva l’avviso di accertamento, non disperare: hai ancora le fasi successive per difenderti.
6.2 Fase successiva all’emissione dell’avviso di accertamento
Ricezione dell’atto e termini per reagire: L’avviso di accertamento è l’atto con cui l’Agenzia rettifica i redditi (e IVA, IRAP se del caso) dichiarati e liquida le maggiori imposte, sanzioni e interessi. Una volta notificato (di solito via PEC per i soggetti con obbligo di domicilio digitale, o tramite raccomandata/Agenzia Riscossione), scattano i termini per reagire: 60 giorni per proporre ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente (ex Commissione Tributaria Provinciale). Entro lo stesso termine puoi decidere di pagare (totalmente o con acquiescenza ridotta sanzioni) oppure attivare strumenti deflattivi.
Accertamento con adesione post-notifica: Uno strumento utilissimo è l’istanza di accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997) dopo aver ricevuto l’atto. Presentando l’istanza (entro 30 giorni dalla notifica dell’accertamento) si avvia una procedura di negoziazione: l’ufficio ti convocherà per discutere e cercare un accordo sul contenuto dell’atto. Il vantaggio è duplice: 1) i termini del ricorso si sospendono per 90 giorni, dandoti più tempo; 2) se trovi un accordo, le sanzioni vengono ridotte a 1/3 (rispetto normalmente al 100% in caso di soccombenza, o 2/3 in caso di conciliazione in giudizio). In più, puoi ottenere un piano di rateazione del dovuto. Nel contesto di antieconomicità, l’adesione è spesso una sede fruttuosa: puoi portare davanti ai funzionari le tue ragioni (magari con nuovi documenti o perizie allegate) e “trattare” una riduzione della pretesa. Ad esempio, se l’ufficio ti contesta €200k di ricavi non dichiarati su 4 anni di perdite, potresti patteggiare riconoscendo solo €50k di maggior ricavi, ottenendo sanzioni ridotte sul concordato e chiudendo lì la vicenda. L’adesione è volontaria: se non ti soddisfa la proposta dell’ufficio, puoi sempre non firmare e procedere col ricorso. Nulla sarà pregiudicato (le tue ammissioni in sede di adesione non possono essere usate contro di te in giudizio, in teoria). Quindi conviene tentare: presenta l’istanza di adesione salvo casi in cui ritieni l’atto del tutto infondato e preferisci andare subito in causa. Nella domanda di adesione non devi entrare nel merito (basta indicare che vuoi avviare la procedura per l’atto tal dei tali); preparati però per l’incontro con un piano: decidi il massimo che sei disposto a concedere. Se sei convinto di aver ragione al 100%, potresti comunque sfruttare la sede di adesione per capire le mosse dell’ufficio o, minimo, guadagnare tempo. Durante l’adesione, enfatizza le tue prove a favore e magari fai leva sulle incognite che il Fisco affronterebbe in giudizio (ad esempio: “Guardate che la Cassazione su un caso analogo ha annullato tutto, ci pensi due volte”). Spesso l’ufficio preferisce recuperare qualcosa subito (anche meno) piuttosto che rischiare di perdere tutto in giudizio, soprattutto se la materia è incerta come l’antieconomicità.
Altre definizioni agevolate: In alcuni periodi, il legislatore offre vie di mezzo come definizioni agevolate o “pacificazioni fiscali”. Ad esempio, la Legge di Bilancio 2023 ha permesso di definire accertamenti pendenti pagando solo imposte e il 3% di sanzioni. Queste norme speciali variano di anno in anno. Nel 2023-2024 c’è stata la “tregua fiscale” con varie opzioni (rinuncia al ricorso con riduzione sanzioni, ecc.). Verifica sempre se, per l’anno in cui ricevi l’atto, c’è qualche legge di definizione agevolata in vigore. Potrebbe essere conveniente aderire, ad esempio, pagando il dovuto senza sanzioni o con sanzioni minime, invece di fare causa. Attenzione: spesso la definizione agevolata richiede di rinunciare al ricorso e accettare la pretesa (magari parzialmente). Quindi valutala bene con un professionista: se ritieni di avere buone chance di vittoria piena, potresti voler combattere; se il rischio è alto, definire con sconto potrebbe convenire.
Acquiescenza: Un’ulteriore opzione, meno vantaggiosa ma semplice, è l’acquiescenza all’accertamento. Significa pagarne le somme entro 60 giorni senza fare ricorso: in cambio si ha la riduzione delle sanzioni del 1/3 (quindi si paga il 2/3 delle sanzioni inflitte) e si evita il contenzioso. È simile allo sconto dell’adesione, ma senza trattativa e senza sospensione termini (va pagato subito). Si usa quando l’atto tutto sommato è corretto e si vuole chiudere. Nel caso di antieconomicità, raramente il contribuente la sceglie a meno che la contestazione sia piccola e fondata, perché spesso c’è margine di difesa.
Sospensione della riscossione: Ricevuto l’atto, dopo 60 giorni l’importo diventa iscritto a ruolo e può essere avviata la riscossione (cartella o accertamento esecutivo). Se il ricorso è presentato, la riscossione è in parte congelata (oggi l’AdE Riscossione chiede 1/3 delle imposte intanto, ma c’è dibattito su questo). In ogni caso, puoi chiedere al giudice tributario una sospensione dell’atto se il pagamento immediato ti creerebbe danni gravi e se il ricorso ha fumus (possibilità di successo). Questo aspetto finanziario va considerato: se ti contestano cifre grosse, preparati a valutare una domanda di sospensione, da depositare subito col ricorso o anche prima. Ad esempio, un accertamento che nega perdite per più anni potrebbe portare un debito di centinaia di migliaia di euro (tra imposte e sanzioni): impossibile pagarli per un’azienda già in difficoltà. Il giudice, se riconosce la fondatezza almeno parziale delle tue doglianze (es. vede che l’ufficio ha usato un solo indizio isolato), spesso concede la sospensiva fino alla decisione.
6.3 Difesa in giudizio (fase processuale)
Se si arriva al contenzioso vero e proprio (ricorso in Commissione/Corte di Giustizia Tributaria), la partita si gioca sulla persuasività delle argomentazioni giuridiche e probatorie che ciascuna parte porta al giudice. Ecco le linee guida per impostare una difesa efficace in caso di accertamento induttivo per perdite pluriennali:
- Vizi formali e procedurali: Passa al setaccio l’atto alla ricerca di eventuali vizi formali o di procedura, perché se presenti possono portare all’annullamento indipendentemente dal merito. Ad esempio:
- Motivazione insufficiente: se l’accertamento si limita a dire “perdite pluriennali = evasione presunta, recupero reddito €X” senza spiegare in concreto gli indizi raccolti, puoi eccepire il difetto di motivazione. L’atto deve indicare in modo intellegibile le ragioni e il calcolo seguito. La Cassazione è chiara che la motivazione sugli indizi di antieconomicità deve essere dettagliata.
- Mancato contraddittorio obbligatorio: come detto, può capitare per l’IVA o per studi di settore puri. Se nel tuo caso l’accertamento era basato unicamente sullo studio ISA e non sei stato invitato a contraddittorio, l’atto è nullo. Attenzione però: spesso l’ufficio inserisce anche solo un cenno ad “altre irregolarità” per dire che non era solo ISA. Valuta se contestare comunque la violazione dell’art. 10 L.146/98, magari sostenendo che gli altri elementi erano marginali e la sostanza era lo studio (non sempre facile, ma tentabile). Per l’IVA, controlla se c’era obbligo di contraddittorio per normativa UE (in genere sì, ma con prova di resistenza: dovrai argomentare che, se convocato, avresti potuto spiegare X e Y e forse l’atto non sarebbe uscito così).
- Violazione del termine dei 60 giorni post-PVC (se applicabile): se il PVC ti è stato notificato prima del 2023 e l’accertamento è stato emesso prima dei 60 giorni senza urgenza, è nullità. Se invece è nel 2024 e la norma è abrogata… qui c’è incertezza: la Cassazione non si è ancora espressa definitivamentte post-abrogazione. Si potrebbe provare a sostenere la permanenza del diritto al contraddittorio per via dei principi generali, ma è un terno al lotto. Comunque, se hanno emesso in fretta senza ascoltare nessuno, fallo notare: magari il giudice di merito, in ossequio allo Statuto del Contribuente “tradizionale”, potrebbe annullare l’atto (qualche CTP lo sta facendo).
- Notifica dell’atto invalida: controlla le modalità di notifica via PEC o postali (busta, relata, ecc.). Un vizio di notifica farebbe decadere l’atto (ma attenzione a non “sanarlo” se fai ricorso – comunque ormai se stai in giudizio è sanato).
- Argomentazioni di merito (sostanza): Qui devi fare leva su tutto quanto emerso in questa guida:
- Mancanza di presunzioni gravi, precise, concordanti: se l’ufficio ha usato un unico indicatore debole, martella su questo. Ad esempio: “L’accertamento si basa esclusivamente sulle perdite registrate, senza considerare che la società era in start-up e che l’ultimo anno aveva già dimezzato la perdita. Non sono stati valutati altri elementi di anomalia (che infatti non vi erano). Quindi manca la pluralità di indizi gravi richiesta dalla giurisprudenza. Un’analoga presunzione isolata è stata ritenuta insufficiente da Cass. 25217/2018, data l’assenza di valutazione complessiva.” Questo è un esempio di come citare la giurisprudenza a tuo favore. Se nel tuo caso gli indizi erano più d’uno ma contraddittori (es. margine basso ma capitale sempre ripianato): evidenzia che non c’è concordanza. Magari l’ufficio ha trascurato qualche indicatore che invece era normale (es. “ha considerato solo il margine di un prodotto andato male e non gli altri due andati bene”). Sottolinea tutto ciò che rompe la concordanza o la gravità.
- Esistenza di cause giustificative lecite (antieconomicità apparente): qui entra in gioco la tua contro-narrazione: spiega al giudice perché le perdite non implicavano affatto ricavi nascosti. Usa i documenti e le analisi preparate. Ad esempio: “Le perdite 2018-2020 derivano da scelte strategiche: come da business plan (Doc. 3) l’azienda ha investito €500k in un nuovo stabilimento, sostenendo costi di ammortamento e personale per avviare la produzione di un prodotto che ha ottenuto riscontro solo dal 2021. Ciò è evidente nel fatto che nel 2021 la società è tornata in utile (Doc. 4, bilancio 2021). Pertanto la tesi dell’ufficio di un’antieconomicità inspiegabile decade: le perdite erano fisiologiche e temporanee, e infatti si sono risolte. Non vi è indizio di ricavi nascosti, bensì di un normale ciclo di investimento e ritorno.”. Un discorso del genere, se supportato da carte, può convincere il giudice che il Fisco ha visto un fantasma dove c’era una spiegazione logica. Ancora: “L’asserito margine basso (10%) era dovuto alla necessità di liquidare le rimanenze obsolete: si allegano i documenti di inventario (Doc.5) con l’indicazione che una parte significativa del magazzino era costituita da articoli fuori moda, venduti con sconto 50%. Ciò spiega interamente lo scostamento rispetto al ricarico medio di settore, senza bisogno di chiamare in causa vendite in nero.”
- Errori metodologici del Fisco: non aver paura di evidenziare se l’ufficio ha commesso errori di calcolo o di valutazione. Esempio: ha confrontato la tua impresa con un settore sbagliato (metti che ti ha paragonato a “commercio all’ingrosso” invece tu sei dettagliante). Un errore del genere fu ritenuto decisivo in una pronuncia (Cass. 12888/2011 diceva che parametri di settore scelti male invalidano la gravità della presunzione). Oppure: l’ufficio non ha considerato i costi variabili aggiuntivi per produrre quei ricavi extra ipotizzati – ora con la nuova giurisprudenza ciò è contro la legge. Quindi se hanno tassato un utile lordo impossibile (100% di quel ricavo), scrivi: “L’accertamento risulta inoltre errato nella quantificazione: ha aggiunto ricavi per €80.000 senza ammettere alcun costo, ipotizzando di fatto che l’azienda abbia operato a redditività 100% su quei ricavi. Ciò è irrealistico e contrario ai principi sanciti dalla Consulta (sent. 10/2023) e dalla Cassazione (ord. 19574/2025), che impongono di riconoscere costi presuntivi correlati ai ricavi presunti. Quindi l’eventuale maggior reddito andrebbe ridotto applicando il margine netto reale (o medio di settore), che, come da nostra perizia di parte (Doc.8), è del 20%. Ne consegue che, su €80.000 di ricavi, l’utile tassabile semmai sarebbe €16.000. L’atto invece pretende di tassarne €80.000: inaccettabile e iniquo .” In tal modo prepari il terreno al giudice: anche se non volesse annullare tutto, almeno riduca ai sensi della Cassazione nuova.
- Richiamo ai principi generali: non guasta mai fare presente i principi costituzionali: capacità contributiva (non si tassa oltre il reddito effettivo), libertà d’impresa (il fisco non può sindacare le scelte salvo siano chiaramente fasulle). Ad esempio: “L’ufficio di fatto pretende di sostituirsi all’imprenditore nel giudicare la convenienza delle sue politiche aziendali, ma ciò collide con la libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. Se l’imprenditore ha sopportato perdite per scelte imprenditoriali (per quanto discutibili), non può essere sanzionato fiscalmente salvo prova che fossero simulate a fini illeciti. Prova che qui manca.”
- Giurisprudenza favorevole: abbiamo citato tanti casi, sfruttali. Ad esempio se la tua è una sola operazione in perdita in un contesto sano, batti su Cass. 25217/18. Se è IVA con costi contestati, richiama Cass. 22698/24 e 2240/18. Se è margine vs studi di settore, cita Cass. 31682/21 ed eventualmente la Corte UE 2018 (C-648/16) che chiede “gravi divergenze” e contraddittorio. Se è contraddittorio mancato, Cass. SS.UU. 24823/15. Se è conto bancario soci, c’è giurisprudenza che dice che i versamenti sui conti soci non sono automaticamente ricavi della società ma vanno provati ecc. (un campo a parte). Scegli quelli calzanti e inserisci brevi citazioni tra virgolette con riferimento.
- Prove documentali allegate: In giudizio conta molto cosa alleghi. Prepara un dossier con:
- Bilanci e dichiarazioni di tutti gli anni coinvolti (per mostrare l’andamento, magari evidenziando che stavi migliorando).
- Estratti di studi di settore/ISA se ti sono favorevoli (es. se un anno eri già congruo, o se il tuo punteggio ISA non era pessimo – a volte succede che l’ISA consideri altri indicatori, es. affidabilità alta nonostante perdita, potrebbe essere un punto a tuo favore: “non eravamo considerati fiscalmente pericolosi dal sistema premiale”).
- Documenti extracontabili: contratti, piani, corrispondenza commerciale (ad esempio, lettera di disdetta di un grosso cliente che spiega il calo di fatturato). Tutto ciò che spiega le perdite.
- Eventuali perizie di parte: se la questione è complessa (tipo “qual era il margine netto normale nel nostro settore?”) puoi allegare una relazione di un consulente (es. commercialista) che attesti elementi tecnici. Spesso i giudici le apprezzano come orientamento.
- Se hai testimoni di fatti rilevanti (un esperto di mercato che attesta il dumping di un competitor, o un ex socio che conferma che avete deliberatamente finanziato di tasca l’azienda per espansione), ora puoi farti fare una dichiarazione giurata da costoro e allegarla. Non è detto che il giudice la ritenga ammissibile, ma la nuova legge 130/22 tende ad aprire a queste prove. Mal che vada sarà considerata come “memoria”.
- Giurisprudenza stampata: allega le sentenze citate (almeno massime) per farle leggere al giudice, specie quelle di legittimità.
Difesa penale: Se gli importi evasi contestati sono rilevanti, potrebbe profilarsi anche un procedimento penale per dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000, soglie: imposta evasa > €100.000 annui e ricavi non dichiarati > 10% di quanto dichiarato o comunque > €2 milioni). Nel caso di perdite, paradossalmente la soglia del 10% può scattare facile (se dichiari 0 e ti imputano 200k reddito, è 200k% in più!). Fortunatamente, la Cassazione penale è tendenzialmente più rigorosa: condannare qualcuno solo perché la sua gestione era antieconomica sarebbe rischioso. In genere serve che l’accertamento tributario sia definitivo e solido, e comunque si dovrebbe provare il dolo specifico di evadere. Tuttavia, attenzione: se l’ufficio ti accusa di ricavi occulti per parecchie centinaia di migliaia di euro, la notizia di reato ai PM parte. Come difendersi sul penale? In gran parte coincide con la difesa tributaria: dimostrare che non c’era alcun reddito occulto. Può aiutare, in quella sede, anche provare l’assenza di dolo – magari evidenziando che hai agito alla luce del sole, che hai sempre informato i soci delle perdite, che insomma non stavi cercando di ingannare. Se riesci a far annullare l’accertamento in Commissione, il penale cadrà (il reato di infedele dichiarazione infatti viene meno se non c’è un reddito evaso legalmente accertato). In caso andasse male in tributario, valuta un patteggiamento nel penale per evitare rischi di sanzioni accessorie pesanti. Ma questo esula dal tema principale – lo accenniamo solo per completezza, auspicando che una buona difesa fiscale eviti di arrivare a tanto.
Processo in Commissione: Durante l’udienza in Commissione (ora Corte di Giustizia Tributaria), il tuo avvocato o difensore discuterà i punti sopra. Spesso queste cause si vincono/perdono sulle convinzioni generali: cerca di far passare l’immagine che la tua azienda era sinceramente in difficoltà e non un veicolo di evasione. Se il giudice percepisce bona fide e ragionevolezza nelle tue spiegazioni, sarà più incline ad annullare l’atto che appare magari pretestuoso. Al contrario, se l’azienda emanava red flags (tipo i soci giravano in Ferrari mentre l’azienda era in rosso), sarà dura. Quindi cura anche questi dettagli “di contorno” nella narrazione.
Appello e Cassazione: Se in primo grado non va bene, non demoralizzarti: molte cause su antieconomicità vengono vinte in appello o in Cassazione, perché i principi giuridici sono forti dalla parte del contribuente (capacità contributiva, onere della prova, ecc.). A volte i giudici di primo grado tendono a dare ragione al Fisco per prudenza, ma le Corti regionali e la Cassazione poi correggono. Certo, ci vogliono anni. L’importante è impostare bene la difesa già all’inizio (così in appello/cassazione potrai far valere eventuali errori di diritto del primo giudice, come non aver applicato una giurisprudenza consolidata).
Riassumendo la strategia: sgretolare la presunzione dimostrando che c’erano ragioni valide per le perdite, e parallelamente attaccare l’operato dell’ufficio su eventuali mancanze procedurali o forzature. Supportare il tutto con quanti più elementi oggettivi possibile. Se eseguito con cura, questo approccio spesso porta almeno a una riduzione significativa, se non all’annullamento totale, dell’accertamento impugnato.
7. Esempi pratici e simulazioni
Per rendere più concreti i concetti esposti, presentiamo alcune simulazioni pratiche basate su casi tipici di società con perdite pluriennali e relative possibili difese. Si tratta di esempi ipotetici (ma realistici) riferiti al contesto italiano.
Esempio 1: Startup innovativa in perdita per i primi anni
Scenario: La Alfa S.r.l., fondata nel 2020, opera nel settore tecnologico (sviluppo software). Nei bilanci 2020, 2021 e 2022 ha dichiarato perdite fiscali rispettivamente di €50.000, €80.000 e €30.000. Nel 2023 finalmente dichiara un piccolo utile di €10.000. Il fatturato era modesto nei primi anni (50k, 100k, 150k, poi 300k nel 2023). L’Agenzia delle Entrate avvia un controllo nel 2024 insospettita dalle perdite consecutive.
Accertamento ipotizzato: L’ufficio, notando i costi elevati per personale e R&D capitalizzati, contesta che “nei primi tre anni la società ha sostenuto costi del personale e ammortamenti per 300k complessivi a fronte di ricavi insufficienti, operando in sistematica perdita; ciò è antieconomico e lascia presumere ricavi non dichiarati. Si accertano pertanto maggiori ricavi per €100.000 complessivi ripartiti sui periodi d’imposta 2020-2022, con ripresa a tassazione ai fini IRES e IRAP”. In pratica, l’ufficio suppone che la startup abbia sottodichiarato vendite (o sovrastimato costi) e la tassa come se avesse guadagnato qualcosa in quei primi anni.
Difesa: La Alfa S.r.l. impugna l’accertamento portando le seguenti difese: – Documentazione di investimenti e piano industriale: La società esibisce il business plan originario (datato 2020) in cui era previsto che l’azienda sarebbe stata in perdita per i primi 3 anni, con ricavi in crescita lenta mentre si sviluppava il prodotto software, e che il break-even sarebbe avvenuto nel 2023 con la vendita della versione definitiva del software. Mostra che effettivamente nel 2023 c’è stato il primo utile, come da previsione. Allega contratti di finanziamento con investitori che coprivano le perdite (versamenti soci per 150k nel triennio), tutti registrati a bilancio. – Cause delle perdite spiegate: Viene evidenziato che le perdite erano dovute a costi di sviluppo (ammortamenti di licenze, stipendi di programmatori) necessari per creare il prodotto, mentre i ricavi erano inizialmente solo servizi collaterali. Nessun ricavo “nascosto”: semplicemente il core business non generava entrate subito. Appena il prodotto è andato sul mercato (2023), i ricavi sono quadruplicati e l’azienda è tornata in utile (seppur minimo). Si sottolinea che questo pattern è tipico delle startup innovative. – Normativa di settore e incentivi: Si cita che Alfa S.r.l. era registrata come “startup innovativa” ai sensi del DL 179/2012, godendo di esoneri e soprattutto rispondendo a un modello di business dove le perdite iniziali sono fisiologiche. Si allegano statistiche (es. rapporto del MISE) che mostrano come X% delle startup registrino perdite nei primi 3-5 anni. Ciò per contestualizzare la normalità economica della situazione, contrariamente a quanto il Fisco presume. – Giurisprudenza e principio di inerenza: La difesa richiama Cass. 25217/2018 per dire: non si può isolare il triennio in perdita senza guardare il contesto quinquennale complessivo, che mostra una curva in miglioramento e un utile finale. Inoltre richiama Cass. 11339/2023: contabilità regolare e scelta imprenditoriale (investire in R&D) non possono essere disconosciute solo perché il risultato è temporaneamente in rosso. Non c’è spesa “non inerente” perché tutto il personale e i costi erano finalizzati allo sviluppo del prodotto (inerenza piena). – Richiesta applicazione costi presuntivi: In subordine, la società afferma che anche se ipoteticamente ci fossero stati ricavi occulti, l’ufficio non ha calcolato alcun costo correlato. Fa valere l’ordinanza 19574/2025: se si ipotizzano €100k di ricavi in più, occorre ipotizzare pure i costi (almeno il 70-80% trattandosi di software house con alto costo del lavoro). Quindi la base tassabile sarebbe molto inferiore. Questo per evidenziare che l’accertamento è comunque sovrastimato in maniera ingiustificata.
Esito possibile: La Commissione tributaria potrebbe accogliere le tesi della Alfa S.r.l. ritenendo che l’ufficio non abbia fornito veri indizi di ricavi occulti ma abbia ignorato la spiegazione logica delle perdite. Si riconosce che le perdite erano dovute all’attività di sviluppo e che già nel 2023 l’impresa è tornata in utile (se ci fosse evasione, difficilmente poi comparirebbe spontaneamente un utile). L’accertamento viene annullato in toto per mancanza di presunzioni gravi e concordanti. In subordine, anche qualora si ritenesse valida qualche presunzione, il giudice ridurrebbe drasticamente l’importo imponibile tenendo conto dei costi: ad esempio, su €100k di ricavi non contabilizzati potrebbe ammetterne €80k di costi (paga solo su €20k). Con sanzioni ridotte di conseguenza. Probabile inoltre la compensazione delle spese di giudizio, data la particolarità del caso.
Esempio 2: Impresa commerciale con margini irrisori rispetto al settore
Scenario: La Beta S.n.c. gestisce dal 2015 un negozio di abbigliamento. Dal 2018 al 2021 ha dichiarato utili minimi (nell’ordine di €1.000-€5.000 annui) su fatturati di circa €200.000 annui – praticamente in pareggio, alcuni anni in lieve perdita fiscale per via di deduzioni. Il settore (abbigliamento dettaglio) secondo gli studi di settore presentava mediamente un ricarico del 150% e redditività netta del 10%. Beta invece risulta con ricarichi del 50% e redditività netta vicina allo zero. Nel 2020-2021 complice anche il Covid, Beta è andata in rosso. L’Agenzia, nel 2022, seleziona la Beta per un accertamento analitico-induttivo: sospetta vendite non fatturate o acquisti in nero.
Accertamento ipotizzato: L’ufficio esamina i bilanci 2018-2021 e nota che la Beta S.n.c. ha un patrimonio modesto (capitale €10k) ma ha sempre coperto le piccole perdite tramite i conti correnti dei soci. Trova anche che uno dei soci aveva prelevato dal conto sociale €50k in 4 anni “per esigenze personali”. Emana così un avviso di accertamento per i periodi 2018-2021 contestando: “Gestione antieconomica: ricarichi applicati tra 40% e 60%, nettamente inferiori agli standard di settore (120-150%). Margine operativo praticamente nullo a fronte di costi fissi incomprimibili (affitto, utenze). La società ha potuto continuare solo grazie a continui apporti dei soci, i quali peraltro effettuavano ingenti prelievi di contante. Si presume che parte delle vendite non siano state scontrinate. Si rideterminano i ricavi con percentuale di ricarico del 120% su acquisti, con recupero a tassazione di €80.000 complessivi di maggiori ricavi (oltre IVA) ripartiti proporzionalmente sugli anni.” In pratica l’Agenzia ricostruisce i ricavi che Beta avrebbe dovuto fare applicando un ricarico “normale” agli acquisti di merce dichiarati, e tassando la differenza come vendite in nero.
Difesa: La Beta S.n.c. ricorre presentando queste difese: – Giustificazioni commerciali dei margini bassi: La società spiega che dal 2018 ha subito la concorrenza di un centro commerciale aperto nelle vicinanze e di piattaforme online, costringendola ad abbassare fortemente i ricarichi per mantenere la clientela. Allega rassegna stampa locale sul fenomeno e documenta che i prezzi praticati erano spesso prossimi al costo, specialmente durante tutto l’anno 2020 (lockdown e necessità di liquidare merce stagionale invenduta). In sostanza, la politica è stata di svendere per sopravvivere. Ciò spiega ricarichi al 50% contro il 120% medio: Beta vendeva magliette a €15 acquistate a €10, mentre altri negozi magari €25. Questa è antieconomica come scelta, ma era l’unica via per restare sul mercato. Beta mostra anche di aver ridotto i costi al minimo (ha licenziato l’unico commesso, i soci lavoravano da soli, dimezzato lo spazio in affitto nel 2021). – Contesto di crisi settore e Covid: Viene evidenziato che il 2020-21 per l’abbigliamento sono stati disastrosi causa pandemia (negozi chiusi per mesi, calo consumi). Allega dati di Confcommercio che mostrano come tante piccole boutique fossero in perdita in quei due anni, con ricarichi compressi. Insomma, la situazione di Beta non era un’eccezione isolata ma figlia di un contesto oggettivo.
– Spiegazione dei prelievi e versamenti soci: I soci chiariscono che i prelievi di contante contestati (50k in 4 anni) erano usati in parte per pagare fornitori in contanti con sconti (molti fornitori cinesi del mercato rionale preferivano contanti per dare un 5% di sconto) e in parte per le loro necessità personali, ma comunque erano soldi già tassati a monte (perché l’utile era minimo, quei prelievi erano attingere a riserve o a quanto versato a capitale). Allegano estratti conto e ricevute: ad esempio, evidenziano che alcuni fornitori stessi versavano contanti sul loro conto (segno che pagavano fornitori in contanti, che poi depositavano). Certo questo è borderline, ma serve a dire: i movimenti finanziari erano finalizzati a risparmiare costi, non a nascondere vendite. Per i versamenti soci (apporti di €20k totali nel quadriennio), li giustificano come piccoli finanziamenti personali (di parenti) registrati come tali – mostrano le contabili. – Critica della ricostruzione con ricarico fisso: La difesa contesta il metodo dell’ufficio: applicare il 120% di ricarico non tiene conto che Beta vendeva in saldo continuo. Cassazione insegna che la media di settore è un dato statistico e da solo non può essere prova. Inoltre, Beta allega le schede di magazzino e documenti di inventario per mostrare che aveva molte rimanenze invendute diventate obsolete (che ha svenduto sottocosto). Quindi l’ufficio calcolando un 120% su tutti gli acquisti non ha considerato che una parte della merce non è stata venduta a prezzo pieno affatto. In pratica, la presunzione non è precisa: i calcoli forfettari del Fisco sarebbero gonfiati. – Presenza di anni con utile (anche modesto): Beta evidenzia che almeno un anno (2019) era leggermente in attivo; inoltre che dal 2022 hanno cambiato strategia (puntando su nicchie di prodotto) e nel 2022 hanno ottenuto un utile del 5%. Quindi la fase antieconomica era transitoria e in via di risoluzione. Questo per dire: se ci fosse stata evasione massiccia, non si spiegherebbe il piccolo utile 2022 (avrebbero continuato a occultare). – Applicazione di costi e IVA: In subordine, contesta che l’ufficio ha aggiunto ricavi imponibili per 80k più IVA senza considerare i costi correlati e l’IVA detraibile. Dice: se davvero avessimo venduto 80k in più di merci, avremmo dovuto acquistare più merce (o comunque avremmo meno rimanenze finali, quindi un costo del venduto maggiore). Chiede quindi almeno di ridurre l’imponibile considerando il costo del venduto su quei presunti ricavi (che a ricarico 50% vorrebbe dire costi per ~53k, tassando solo 27k). E per l’IVA, rileva che quell’IVA sulle vendite presunte sarebbe in parte compensata dall’IVA sugli acquisti delle merci corrispondenti. Insomma, l’accertamento così com’è calcola IVA a debito in eccesso.
Esito possibile: La Commissione potrebbe essere convinta dal fatto che Beta S.n.c. operasse in un contesto difficile e che le perdite/margini ridotti fossero giustificati dal mercato (non da evasione). Potrebbe richiamare proprio Cass. 25217/2018 sul vendere sottocosto per liberarsi di merce come prassi non anomala. È realistico che venga annullato l’accertamento almeno per gli anni di Covid (2020-21), riconoscendo l’eccezionalità. Per gli anni pre-Covid, magari se resta il dubbio, il giudice potrebbe ridurre l’importo: ad esempio, applicare un ricarico minore (tipo 80% invece di 120%), o accogliere la tesi dei costi da detrarre. Così l’eventuale maggior reddito tassato si ridurrebbe drasticamente, e Beta potrebbe cavarsela con un modesto aggiustamento. Data la buona fede riscontrabile, le sanzioni potrebbero anche essere annullate per obiettiva incertezza, oppure ridotte al minimo. Il fatto che Beta abbia cooperato mostrando registri di magazzino, listini, etc., la mette in luce favorevole. Se invece Beta non avesse nulla da esibire (magazzino opaco, incassi non registrati in c/c), l’esito sarebbe stato probabilmente sfavorevole.
Esempio 3: Società immobiliare “di comodo” con perdite fiscali
Scenario: Gamma S.r.l. è una società immobiliare famigliare che possiede due immobili: un appartamento e un locale commerciale. Dal 2016 al 2020 li ha concessi in locazione ai figli dell’amministratore a canoni irrisori, dichiarando così redditi molto bassi e spesso in perdita (grazie ad ammortamenti e spese). Situazione tipica di società non operativa: patrimonio alto (immobili valore €1 milione complessivo) e ricavi quasi nulli. Infatti Gamma è stata società di comodo e ha dovuto dichiarare redditi presunti minimi per alcuni anni (fino al 2021). Nel 2022 la norma delle perdite sistematiche è stata abrogata, ma nel frattempo l’Agenzia avvia un controllo. Vede che Gamma ha portato a nuovo perdite fiscali per tot euro, e teme che la società sia usata per far transitare spese personali (tipo manutenzioni) e generare perdite fittizie da usare forse in futuro.
Accertamento ipotizzato: L’ufficio contesta il carattere elusivo dell’attività di Gamma: “Società formalmente in perdita ma di fatto avente oggetto il godimento di immobili di famiglia. Canoni di locazione sottovalutati e costi portati in deduzione (manutenzioni, utenze) che appaiono in parte estranei ad attività d’impresa (sembrano spese personali dei familiari utilizzatori). Si procede a rettifica induttiva delle perdite: disconoscimento di costi non inerenti per €X e imputazione di canoni di mercato invece dei canoni inframarginali dichiarati, con rideterminazione del reddito imponibile (non più perdita) per ciascun anno.” Insomma convertono le perdite in piccoli utili imponibili, contestando che Gamma non fosse una vera impresa ma una schermatura di consumo personale (classica contestazione anti-elusiva delle società di comodo).
Difesa: Gamma S.r.l. fa opposizione sostenendo: – Cause oggettive di non operatività: Gamma presenta un’istanza (anche se postuma) di disapplicazione della normativa di comodo, adducendo ad esempio che uno degli immobili era inutilizzabile per lavori o che il mercato della zona giustificava canoni bassi. Se era stato fatto interpello a suo tempo (non l’ha fatto, supponiamo), lo allega ora per sostenere che non c’era volontà evasiva ma ragioni concrete. – Inerenza dei costi: Porta documenti che i costi contestati (bollette, manutenzioni) erano effettivamente a carico della società per contratto di locazione (anche se locatari parti correlate). Fa magari periziare i canoni di mercato: se risultasse che i canoni pagati, pur bassi, non erano così fuori mercato dato che gli immobili erano in cattivo stato, ecc., tenta di giustificare che non c’era affitto simulato. – Nessun vantaggio fiscale indebito: Sottolinea che le perdite fiscali accumulate non sono state mai utilizzate in compensazione di altri redditi (trattandosi di società a ristretta base, nessun consolidato fiscale). Quindi non c’era un risparmio d’imposta concreto, i soci comunque non si sono dedotti niente (visto che era soggetto IRES). Questo per togliere l’idea di elusione: al massimo differimento d’imposta per futuri utili, ma di futuri utili non ce n’erano all’orizzonte. In mancanza di beneficio fiscale, viene meno anche l’interesse a farlo apposta. – Principio di capacità contributiva: Gamma richiama un recente orientamento di Cassazione (es. Cass. 2561/2024) dove si dice che non si possono tassare utili inesistenti solo perché un’attività appare antieconomica: se davvero è un’attività “di mero godimento”, allora semmai non è soggetto d’imposta (si tratterebbe di ricondurre gli immobili alle persone fisiche, ma quella è un’operazione straordinaria non fatta qui). Insomma, cerca di far leva sul fatto che tassare redditi presunti quando l’attività è in perdita stride con l’art.53 Cost. – Proposta conciliativa: Forse per evitare guai, Gamma potrebbe proporre di adeguarsi per il futuro (ad esempio iniziare a dichiarare un reddito minimo come da parametri) e magari offre in sede di adesione di pagare qualcosa per chiudere il passato. Questo in uno scenario reale spesso avviene: si trova un accordo dove la società non operativa versa una quota per sanare e l’AdE chiude un occhio sul resto.
Esito possibile: Questo è un caso di confine tra antieconomicità e abuso del diritto. Se il giudice percepisce che era effettivamente una società schermo, potrebbe confermare l’accertamento sul presupposto che i costi non fossero deducibili (per difetto di inerenza) e i ricavi andassero a valore normale. Tuttavia, visto che qui il focus è il punto di vista del contribuente, c’è da dire che alcuni giudici potrebbero invece considerare che l’ufficio stia eccedendo: dopotutto la legge di comodo c’era ed è stata rispettata (o comunque nota), e voler tassare ulteriormente può sembrare doppia imposizione. Se Gamma mostra di aver rispettato alcune formalità (assemblee che deliberano di affittare a prezzi bassi per mantenere l’immobile in famiglia, etc.) e di non aver tratto vantaggi indebiti, potrebbe spuntarla in parte. Ad esempio, il giudice potrebbe: confermare la ripresa sulle spese platealmente personali (tipo bolletta telefonica usata dal figlio non inerente), ma annullare l’aumento dei canoni a valore di mercato ritenendo che l’Agenzia non abbia provato che c’erano pagamenti extra in nero. Così Gamma pagherebbe qualcosa ma non tutto. Inoltre, l’abrogazione dal 2022 delle norme sulle perdite sistematiche (che il ricorso sottolineerebbe) potrebbe far propendere il giudice per un atteggiamento meno punitivo per gli anni passati.
Questi esempi illustrano come applicare concretamente le regole e difese discusse: ogni caso reale avrà le sue peculiarità, ma lo schema logico rimane distinguere perdite antieconomiche con evasione da perdite antieconomiche con cause giustificabili. Il buon esito dipende dalla quantità e qualità di prove che il contribuente riesce a portare per sostenere la seconda ipotesi.
Domande frequenti (FAQ) sull’accertamento per perdite pluriennali
D: La mia impresa ha margini di guadagno molto bassi rispetto alla media. Posso essere accusato di “gestione antieconomica”?
R: Margini insolitamente bassi destano effettivamente sospetti nel Fisco. L’antieconomicità di per sé non è una violazione di legge, ma è un indizio: l’Agenzia può attivare un controllo per verificare se dietro margini esigui si nascondono ricavi non dichiarati o costi fittizi. Per prevenire contestazioni, è bene documentare sin d’ora le ragioni economiche dei margini bassi (ad es. prezzi ribassati per svendite di fine stagione, obsolescenza di magazzino, spese straordinarie non ricorrenti, strategia di ingresso sul mercato con prezzi aggressivi, ecc.). Se puoi mostrare che c’è un motivo di business lecito per i profitti risicati, l’antieconomicità apparente perde forza. In caso di verifica, presenta subito queste spiegazioni – meglio se supportate da dati e documenti – ai verificatori: questo può convincerli e magari evitare un accertamento formale. Viceversa, se non fornisci giustificazioni credibili, l’ufficio potrebbe presumere l’occultamento di ricavi basandosi sui parametri di settore e rettificando il reddito di conseguenza.
D: La mia società è sempre in perdita da parecchi anni. Rischio un accertamento induttivo automatico?
R: Non esiste una “regola automatica” per cui X anni di perdite comportano necessariamente un accertamento. Tuttavia, più a lungo dura la serie di perdite, più aumenta il rischio di controllo. Fino al 2021 c’era una norma che, dopo 5 anni consecutivi in perdita fiscale, la società veniva considerata “non operativa” e doveva dichiarare un reddito minimo presunto (la disciplina delle società in perdita sistematica). Dal 2022 questa norma è stata abrogata. Ciò significa che non scatta più quel meccanismo punitivo automatico sul piano dichiarativo. Ma attenzione: l’Agenzia delle Entrate può comunque disporre accertamenti caso per caso. Anzi, tipicamente utilizza le perdite seriali come criterio di selezione. Non è “automatico” ma è molto probabile se le perdite sono consistenti e non giustificate. Dunque sì, sei a rischio accertamento, anche se non “per legge” ma per prassi. Per ridurre il rischio, adotta le misure preventive di cui abbiamo parlato (spiegare perdite, capitalizzare, ecc.) e, se possibile, cerca di mostrare almeno qualche segnale di ripresa (un anno con utile o riduzione della perdita) così da interrompere la serie negativa e segnalare che l’azienda non è un “buco nero” di soldi.
D: Se la contabilità è tenuta in ordine e non ci sono irregolarità formali, possono comunque contestarmi qualcosa sul piano dei risultati economici?
R: Sì. La Cassazione ha chiarito che anche con scritture formalmente regolari, l’ufficio può procedere ad accertamento induttivo se ritiene che i dati contabili, pur corretti nella forma, siano inattendibili nella sostanza economica. È il caso appunto di conti “in ordine” che però producono un risultato illogico (perdite inspiegabili, utili irrisori a fronte di grande attività, ecc.). In tali situazioni l’art. 39 co.1 lett. d) DPR 600/73 consente l’accertamento: la contabilità viene considerata “complessivamente inattendibile” proprio perché confligge con le fondamentali regole di ragionevolezza. Quindi, non bisogna pensare “ho tenuto i registri perfetti, sono al riparo”: se i numeri in essi contenuti non convincono, il Fisco può metterli in discussione. Ovviamente l’ufficio dovrà motivare bene perché quei numeri sarebbero implausibili. Dal canto tuo, potrai difenderti evidenziando che, pur essendo anomali, essi riflettono fedelmente la realtà (magari sfortunata, ma reale) dell’impresa. Ma, in sintesi, contabilità regolare non immunizza da contestazioni basate sull’antieconomicità.
D: Cosa devo fare se ricevo un PVC (Processo Verbale di Constatazione) dalla Guardia di Finanza su questo tema?
R: Il PVC è il verbale finale della verifica fiscale. Di solito, dopo il PVC, passano 60 giorni prima che l’Agenzia emetta un eventuale avviso di accertamento (questo termine di 60 giorni era un obbligo di legge fino al 2022, oggi formalmente abolito ma ancora rispettato in pratica). In quei 60 giorni hai l’opportunità di presentare osservazioni e memorie difensive all’ufficio. È molto importante sfruttare questa finestra: prepara, magari con l’aiuto di un professionista, una memoria dettagliata in risposta al PVC. Dovrai contestare punto per punto i rilievi dei verificatori, correggere eventuali errori fattuali, e soprattutto fornire quelle spiegazioni che magari durante la verifica non sono state adeguatamente considerate. L’ufficio è tenuto a valutare le tue osservazioni prima di decidere se e come procedere con l’accertamento. Se dalle tue memorie emergono elementi convincenti, c’è la possibilità che l’accertamento non venga nemmeno emesso, oppure venga emesso in forma più attenuata. Quindi: dopo il PVC, agire subito. Hai 60 giorni: non aspettare l’ultimo momento, ma neanche spedire qualcosa frettolosamente il giorno dopo – prenditi qualche settimana per raccogliere documenti e redigere una risposta solida. Inviarla all’inizio del termine (entro 30-40 giorni) è utile, così magari l’ufficio ti chiama per chiarimenti o per un contraddittorio orale spontaneo. E ricorda di protocollare/inviare con PEC la memoria, conservando la ricevuta, così da poter dimostrare in futuro (anche in giudizio) di averla presentata e se mai sia stata ignorata.
D: Ho ricevuto un avviso di accertamento per IRPEF/IVA basato su antieconomicità. Cosa posso fare per evitarne gli effetti immediati e magari risolvere senza processo?
R: Quando arriva l’accertamento, hai davanti alcune opzioni: – Accertamento con adesione: Entro 30 giorni dalla notifica dell’avviso, puoi presentare un’istanza di adesione. Questo sospende i termini per fare ricorso e ti consente di avviare una trattativa con l’ufficio. Nell’incontro di adesione potrai esporre di nuovo le tue ragioni e magari ottenere una riduzione della pretesa. Se trovi un accordo, verrà formalizzato un atto di adesione: in genere comporta sanzioni ridotte a 1/3 e possibilità di pagamento rateale. L’adesione è utile perché evita la causa e spesso porta a uno “sconto” ragionevole (il Fisco, per chiudere in adesione, di norma concede qualcosa: ad es. riconosce un po’ di costi in più, abbassa i maggiori ricavi presunti, ecc., soprattutto nei casi dubbi come l’antieconomicità). Dalla presentazione dell’istanza hai 90 giorni (più 60 per l’eventuale perfezionamento) in cui il ricorso è congelato, quindi ti dà anche respiro. – Definizioni agevolate: Verifica se la legge vigente offre qualche modalità di definizione. Negli ultimi anni, ad esempio, ci sono stati condoni, “pacificazione fiscale”, definizione agevolata degli avvisi (pagando solo imposta e piccola parte di sanzioni). Ogni anno fiscale fa storia a sé: nel 2023 c’era, nel 2024-25 bisogna vedere. Se c’è una norma di tregua fiscale e il tuo atto rientra nelle condizioni, valuta seriamente se aderirvi. Spesso richiede di rinunciare al ricorso, ma ti fa risparmiare molto su sanzioni e interessi (es. sanzioni ridotte al 5% o 10% invece che 90-100%). Sono opportunità da cogliere soprattutto se la controversia è incerta o se vuoi chiudere in fretta il capitolo senza lungaggini. – Acquiescenza: Se ritieni di non avere margini di difesa (o la pretesa dell’ufficio è tutto sommato corretta e vuoi sistemare pagando), puoi optare per l’acquiescenza: in pratica paghi quanto dovuto entro 60 giorni dalla notifica e ti prendi la riduzione delle sanzioni a 1/3. È simile all’adesione come effetto sulle sanzioni, ma senza negoziazione e senza sospensione dei termini (devi pagare subito). L’acquiescenza ha senso se la controversia è piccola o palesemente persa e vuoi evitare ulteriori aggravi. – Ricorso e sospensione: Se invece decidi di impugnare l’accertamento in giudizio (Corte di Giustizia Tributaria, ex Commissione), devi farlo entro 60 giorni (salvo sospensioni per adesione). Nel frattempo, l’accertamento diventerà esecutivo per 1/3 delle imposte (solitamente, salvo tu ottenga sospensione). Puoi presentare al giudice un’istanza di sospensione dell’atto se il pagamento ti causerebbe danno grave e c’è fumus boni iuris (probabilità di vittoria). Spesso nei casi di presunzioni, i giudici concedono la sospensione, perché la materia è opinabile e l’esecuzione immediata potrebbe mettere in crisi l’azienda. Quindi, insieme al ricorso, valuta di chiedere la sospensiva per bloccare le cartelle nell’attesa della sentenza.
In sintesi: prima tenta la via di adesione o definizione, che può farti risparmiare tempo e denaro. Se non va o non la trovi conveniente, prepara il ricorso con richiesta di sospensione. Durante il ricorso, puoi ancora chiudere la lite con una conciliazione (ad esempio in udienza l’ufficio potrebbe offrire una riduzione delle sanzioni o dell’imponibile e firmare un accordo di conciliazione). Insomma, fino all’ultimo ci sono spiragli per evitare la sentenza. Tieni presente che con la riforma 2022, esistono anche meccanismi di mediazione per le liti sotto €50.000, obbligatoria prima di andare in giudizio: in tal caso dovresti presentare un’istanza di mediazione contestualmente al ricorso. Ma l’accertamento con adesione, che abbiamo detto, di fatto sostituisce la mediazione se lo attivi.
D: Chi deve provare l’evasione in questi casi? Spetta a me dimostrare che non ho nascosto ricavi, o al Fisco dimostrare che li ho nascosti?
R: La regola generale è che spetta al Fisco portare elementi presuntivi sufficientemente seri da far presumere l’evasione; poi spetta al contribuente fornire una prova contraria per smontare quella presunzione. Quindi inizialmente l’onere è dell’Agenzia: l’accertamento deve essere motivato con indizi gravi, precisi e concordanti (es. perdite reiterate + incongruenze varie). Se l’ufficio non offre elementi di questo tipo, tu vinci facile per carenza di prova. Tuttavia, nella pratica l’ufficio riesce quasi sempre a presentare almeno qualche indizio (perdite ci sono, quello è un fatto). A quel punto l’onere si sposta su di te: devi dimostrare che quelle perdite sono giustificate e non frutto di evasione. Come? Portando documenti, analisi, testimonianze che spiegano le cause dei risultati negativi (vedi la sezione difensiva). Puoi anche tu utilizzare presunzioni a tuo favore, come dire: “è vero che ho margine basso, ma ho riscontrato furti di merce (allego denunce) che spiegano la differenza” – in questo caso fornisci un fatto noto alternativo che spiegherebbe il buco. In assenza di tua reazione, la presunzione del Fisco viene data per valida. Negli ultimi tempi c’è una tendenza a chiedere un rigore maggiore al Fisco (dopo la L.130/2022 e la Consulta 10/2023): in giudizio non basta più un indizio vago, serve che il Fisco convinca il giudice che probabilmente c’era evasione, e solo allora scatta l’onere sul contribuente. Ma in linea di massima, preparati psicologicamente che dovrai tu dare spiegazioni. Un contributo importante della riforma recente è sul fronte dei costi: prima il contribuente doveva provare con fatture l’esistenza di costi correlati ai ricavi presunti (impossibile); ora può semplicemente affermare in giudizio che, per logica, se avesse incassato di più avrebbe speso di più, e la Cassazione gli dà ragione. Anche questo è una forma di “onere della prova” riequilibrato (non devo provare io ogni euro di costo occulto, mi basta dedurlo in via presuntiva). Quindi, sintetizzando: il Fisco deve fare il primo passo provando le tue anomalie; tu devi fare il passo successivo provando le tue giustificazioni.
D: Cosa rischio sul piano penale se mi contestano ricavi occultati da perdite fittizie?
R: Dal punto di vista penale tributario, la situazione tipica sarebbe il reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) se le imposte evase superano le soglie di legge: attualmente, imposta evasa > €100.000 e ricavi non dichiarati > 10% del dichiarato o comunque > €2 milioni, per singola annualità. Nel caso di una società in perdita, non è immediato il calcolo: se dichiari zero e ti contestano 100k di reddito, l’imposta evasa (IRES 24%) sarebbe 24k, sotto soglia penale; se ti contestano 1 milione, sarebbe 240k di imposta, e lì sì. Diciamo che solo se i numeri occulti presunti sono molto grandi scatta il penale. Inoltre, serve il dolo specifico di evasione. In vicende di antieconomicità spesso è difficile dimostrare oltre ogni dubbio che c’era volontà di evadere: potrebbe essere semplice cattiva gestione. Quindi, nella maggior parte dei casi di perdite pluriennali, non si arriva al penale. Se però l’accertamento individua situazioni più gravi (es. falsi costi, fatture false, distrazione di utili), allora entrano in gioco reati più pesanti come dichiarazione fraudolenta. Ma parliamo di step successivi (richiedono prove concrete di falsi). Per stare al tuo caso: il solo fatto di aver dichiarato perdite e poi l’Agenzia le rettifica in utili, non implica automaticamente un procedimento penale, a meno che l’utile non dichiarato generi imposta evasa oltre soglia. In ogni caso, se dovesse profilarsi un’inchiesta penale, potrai difenderti mostrando l’assenza di intenti dolosi – per dire, la Cassazione penale riconosce spesso che scelte imprenditoriali antieconomiche non sono di per sé reato. Concentrati intanto sul versante fiscale: se riesci a vincere o ridurre lì, il penale (eventuale) cade o si ridimensiona. E ricorda che c’è un principio di fondo: non ogni evasione amministrativa è reato, solo le più gravi. Un lieve aggiustamento di reddito difficilmente ti porterà in tribunale penale. Diverso se emerge che tenevi due contabilità o occultavi milioni: ma allora non saremmo in un caso di “perdite pluriennali” in buona fede, saremmo di fronte a frode conclamata.
D: La mia società potrebbe rientrare tra le “società di comodo” perché ha molti asset e pochi ricavi. Come influisce questo sulla difesa?
R: Le società di comodo (non operative) sono quelle che non superano il test di operatività (ricavi minimi in proporzione a beni detenuti). Se la tua società è di comodo, a prescindere dalle perdite, la legge ti impone di dichiarare un reddito minimo e pagare imposte su quello, oltre a una maggiorazione IRES se è società di capitali, e limita l’uso del credito IVA. Questo è un altro fronte: in sostanza, anche senza accertamento ti trovi già a pagare più tasse del dovuto se sei considerato di comodo. Dal 2022 la parte di perdite sistematiche è abolita, ma il test di operatività sugli asset rimane. Dunque, se hai molti beni e produci perdite o redditi bassi, probabilmente sei già classificato come non operativa. In tal caso, la strategia è: o trovi cause di esclusione/disapplicazione (ad es. sei startup giovane, o gli immobili erano in ristrutturazione, ecc.), oppure ti adegui pagando il reddito minimo. Per la difesa da accertamento induttivo, essere di comodo può essere un’arma a doppio taglio: – L’ufficio potrebbe dire: “sei di comodo, quindi di fatto ammetti di avere ricavi potenziali maggiori, e ti tassiamo su quelli”. Ma questo ragionamento in sede contenziosa regge fino a un certo punto, perché la normativa di comodo ha sue regole (tipo che se non vuoi sottoporti, dovevi fare interpello). Un accertamento in presenza di disciplina di comodo applicata può configurarsi come doppia imposizione. Per esempio, se tu hai già dichiarato il reddito minimo forfettario, non ha senso che ti accertino altro in più. – Invece, se hai disapplicato autonomamente la disciplina perché ritenevi di avere cause oggettive (lo si fa indicando una nota in Unico), allora l’ufficio può accertare che in effetti non avevi diritto a disapplicarla e quindi tassarti sul minimo. Ma questo è più un accertamento “da società di comodo” che non da antieconomicità in senso classico – anche se i confini si sovrappongono.
In generale, se sei borderline non operativa, il consiglio è: presenta interpello disapplicativo preventivo. Se te lo approvano, poi un eventuale accertamento induttivo per antieconomicità sarebbe contraddittorio (l’Agenzia stessa ha riconosciuto la situazione particolare). Se non lo presenti o te lo negano, allora preparati che useranno l’artiglieria di comodo/antieconomico. In giudizio potrai sostenere magari che la disciplina di comodo è speciale e preclusiva di altri accertamenti (c’è stato dibattito, ma di solito dicono che l’adesione al regime di comodo non esclude accertamenti se c’è evasione). Diciamo che, sul piano pratico, se già rientri in società di comodo, la difesa si concentra sul dimostrare che avevi cause oggettive per non raggiungere quei ricavi. Che è poi lo stesso che dire: avevo valide ragioni per le perdite. Quindi gli argomenti coincidono in buona parte.
D: In caso di processo, quali prove posso portare per convincere i giudici?
R: Puoi (e devi) portare tutto ciò che supporta la genuinità delle tue perdite. In particolare: – Documenti contabili ufficiali: bilanci, dichiarazioni fiscali, libri giornale, mastri… per far vedere i numeri anno per anno e la loro composizione. – Documenti extracontabili: corrispondenza commerciale, contratti, preventivi, fatture significative. Ad esempio, se sostieni che un cliente importante ti ha disdettato ordini causando la perdita, porta la lettera di disdetta o le email. Se dici di aver praticato sconti eccezionali, porta volantini pubblicitari o listini comparativi. – Relazioni o perizie tecniche: Puoi far redigere a un consulente (commercialista, CTU di tribunale, ecc.) una perizia che ricostruisce la tua situazione economica e attesta (ad esempio) che il tuo settore era in crisi tot percento, che i tuoi indici erano in linea con le aziende del territorio in quell’anno, etc. I giudici apprezzano le perizie indipendenti come elemento oggettivo. – Statistiche di settore o studi di mercato: Qualunque dato pubblico che avvalori la tua tesi. Es: l’ISTAT dice che nel tuo settore nel 2020 crollo vendite -30%. Se tu hai fatto -25%, è coerente. Oppure, allega articoli di giornale su eventi che ti hanno colpito (alluvione, pandemia, inflazione materie prime… dipende dal caso). – Prova testimoniale (novità): La riforma consente in certi casi testimonianze per iscritto. Puoi far fare dichiarazioni giurate a terzi, ad esempio a un tuo fornitore che attesta “sì, Tizio svendeva la merce perché aveva magazzino pieno”, o a un ex dipendente: “confermo che l’azienda era aperta solo part-time perché non c’erano abbastanza ordini”. Non tutti i giudici le ammettono, ma tentar non nuoce, mal che vada la trattano come memoria. – Foto, video, ispezioni: A volte servono: se l’ufficio dice “magazzino vuoto? non ci crediamo”, tu porta foto del magazzino pieno di invenduto. O screenshot del tuo sito e-commerce con saldi al 70%. Sono tutte tessere del mosaico.
In generale, più prove concrete porti, più dai l’impressione (e la sostanza) di veridicità. Le cause perse di solito vedono contribuenti che non hanno prodotto nulla se non affermazioni generiche. Quelle vinte mostrano documenti, numeri, riscontri. Quindi il suggerimento è: fai uno sforzo documentale. Anche se qualcosa non pare decisivo, portalo: potrà concorrere al convincimento del giudice. Naturalmente, focalizzati su ciò che conta: non sommergere di carta inutile, evidenzia i passaggi chiave (es. allega bilanci, ma nel ricorso estrai i dati salienti per farli notare subito; allega articoli, ma sottolinea la frase che ti interessa).
D: Le perdite che ho oggi potrò usarle per compensare futuri utili. Possono contestarmele già ora o solo quando le utilizzerò?
R: Questa è una domanda acuta. In teoria, una perdita fiscale dichiarata in un anno può essere oggetto di accertamento già nell’anno in cui è maturata, anche se in quell’anno non c’era imposta da pagare. L’ufficio ha interesse a farlo perché, rettificando quella perdita (riducendola), impedisce che tu la usi negli anni successivi per abbattere gli utili. C’è stata una discussione in passato se fosse lecito accertare “un maggior reddito imponibile in un anno in cui comunque l’imposta era zero per via di perdite”: la Cassazione ha detto di sì, è legittimo, perché incide sul riporto delle perdite. Dunque possono contestarti la perdita ora, senza attendere che tu la utilizzi. Per contro, se arrivi a utilizzare una perdita in compensazione di utili futuri, l’ufficio potrebbe in quell’anno di utilizzo contestare che quella perdita (di tot anni prima) in realtà non era valida. Ma con i termini di decadenza vigenti, di solito non si può andare troppo indietro (si può riaprire l’anno della perdita se ancora nei termini, altrimenti no). In pratica: se fai 2018 perdita, 2023 utile compensato, l’ufficio per contestare la perdita del 2018 deve riaprire il 2018 entro il 31/12/2024. Se se lo lascia sfuggire, poi nel 2023 non può dire “quella perdita non vale” (c’è giurisprudenza in evoluzione, ma tendenzialmente la perdita non rettificata nei termini è cristallizzata). Però con la delega fiscale 2023 pare vogliano permettere di sindacare le perdite portate in avanti nell’anno di utilizzo (questione tecnica). In ogni caso, già ora possono accertarti le perdite pregresse. Se oggi sei sempre in perdita e prevedi utili domani, è probabile che oggi ti controllino per limitare quelle perdite. Quindi la difesa delle perdite è da fare subito, non da rimandare a quando le userai. Un’idea: se hai perdite e prevedi di usarle, assicurati che siano incontestabili (cioè che derivino da operazioni corrette). Ad esempio, se una perdita deriva da una grossa svalutazione di magazzino dubbia, potresti valutare di non portarla in compensazione tutta domani, perché inviterebbe al controllo. Magari conviene realizzare quella perdita in modo certo (vendendo la merce a poco e registrando il ricavo basso piuttosto che una svalutazione teorica). Sto però andando sul complesso: la risposta diretta è sì, possono contestartele ora, e anzi spesso lo fanno quando vedono che le stai accumulando. Del resto, se aspettassero a quando fai utili, potrebbe esserci rischio di decadenza (e comunque tu intanto useresti la perdita). Quindi non contare sul fatto che “non avendo utili non mi controllano”: proprio per le perdite possono controllare.
D: Quali sono i “segnali” che possono far scattare un accertamento per antieconomicità?
R: Oltre alle perdite di più anni di cui abbiamo parlato, altri red flag tipici: – Ricavi dichiarati troppo bassi rispetto ai costi sostenuti: ad es. costo del venduto 100, ricavi 105 (margine 5). L’ufficio pensa: di solito a 100 di costi corrispondono 130 di ricavi, perché solo 105? Magari hai venduto qualcosa senza fattura. Un caso estremo: se dichiarassi ricavi pari o inferiori ai costi variabili, sarebbe subito sospetto (vendi sottocosto tutto? Perché?). – Percentuali di ricarico anomale: già menzionate – se nel tuo settore si ricarica 150% e tu 50%, è un indizio (non una prova) che qualcosa non torna. – Utili netti costantemente sotto una soglia minima (es. <1% del fatturato): l’impresa sembra lavorare gratis. O è incapace, o c’è altro: in entrambi i casi il Fisco ci guarda. La Cassazione ha detto che anche utili esigui, non solo perdite, possono configurare antieconomicità meritevole di controllo. – Continui finanziamenti dai soci o da terzi per coprire gestione corrente: se ogni anno i soci immettono liquidità per pagare i debiti, l’azienda sembra tenuta in vita artificialmente. Il Fisco pensa: perché lo fanno? Forse perché in realtà quei soldi li hanno guadagnati in nero via società e poi li reintroducono. – Operazioni palesemente sconvenienti ripetute: es. vendi spesso prodotti sotto costo senza ragione apparente, o fai investimenti che non generano reddito (beni inutilizzati, ecc.). Una tantum può succedere, ma se diventa la norma, è indice. – Sproporzione tra tenore di vita e redditi d’impresa: per ditte individuali o soci di società trasparenti. Se la ditta è sempre in perdita (quindi imprenditore dichiara reddito zero) ma questi cambia auto di lusso ogni anno, scatta il redditometro o comunque l’analisi finanziaria. È un segnale forte che la perdita forse è “voluta”. – Indicatori ISA bassi per più anni: se sei soggetto agli ISA (Indici di affidabilità fiscale) e prendi voto 4 per 3 anni di fila, sicuramente sei a rischio controllo. Gli ISA considerano anche antieconomicità (hanno indicatori di anomalia che scattano, come “perdita per più di un anno” o “valore aggiunto negativo”). – Eventuali segnalazioni di banche o creditori sulla tua insolvenza perenne: meno comune, ma se ad es. Equitalia nota che sei sempre in perdita ma nel frattempo i soci prelevano utili fittizi, può segnalare.
In sostanza, ogni scostamento dalla normalità economica dell’azienda può essere un segnale. La normalità dipende dal settore e dal contesto: un ristorante normalmente ha margine X, se il tuo è un terzo di X, è segnale; un professionista di solito ha costi al 30% dei ricavi, se tu dichiari costi al 90% per 5 anni, segnale. E ovviamente, la serie storica: un anno no capita, due anni male ok, dal terzo in poi i campanelli suonano.
D: In caso di accertamento e causa, chi decide: si basano sugli studi di settore o su perizie tecniche?
R: La decisione la prende la Corte di Giustizia Tributaria (primo grado e appello) in base alle prove e argomenti portati dalle parti. Non si decide a tavolino sui parametri generali. Gli studi di settore o ISA possono aver innescato il controllo, ma in giudizio non hanno valore di prova legale. Sono considerati indizi, al più. Quindi il giudice valuta: da un lato ciò che porta il Fisco (dati medi, confronti, stranezze contabili); dall’altro ciò che porti tu (spiegazioni, documenti, testimoni, etc.). Spesso, nelle cause da antieconomicità il giudice può chiamare un CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio) per avere un parere neutrale. Ad esempio, può incaricare un commercialista di esaminare i bilanci e riferire se effettivamente i conti tornano o se emergono ricavi sommersi. La CTU non è obbligatoria, ma può capitare in casi complessi. Se nominata, le parti possono partecipare con i propri consulenti di parte e far presente elementi. Alcuni giudici decidono senza CTU, basandosi su massime di esperienza (tipo “non è credibile fare impresa senza utile per 10 anni” – ma se tu gli hai portato evidenze contrarie, le considerano). Diciamo che il convincimento del giudice tributario è abbastanza libero: il loro obiettivo è capire se l’accertamento regge o meno. Non applicano algoritmi, valutano gli elementi a disposizione. Per questo è importante fornire al giudice una narrazione completa e documentata: per far pendere la bilancia dalla tua parte. Se il giudice resta con il dubbio “boh, potrebbe aver evaso come no”, in teoria dovrebbe propendere per annullare l’atto (perché onere prova fisco, in dubio pro reo), ma non tutti ragionano così: alcuni dicono “boh, divido la metà” (in appello succede di vedere soluzioni salomoniche, tipo riducono gli imponibili del 50%). Non proprio ortodosso ma succede. Il nostro compito è non lasciarli nel dubbio: far capire chiaramente che la ragione sta da una parte sola (la tua, ovvio!).
Fonti Normative e Giurisprudenziali citate:
- D.P.R. 29/09/1973 n. 600, art. 39, comma 1 lett. d) e comma 2 – (Accertamento induttivo per le imposte sui redditi) .
- D.P.R. 26/10/1972 n. 633, art. 54 (accertamento IVA) e art. 55 (accertamento induttivo IVA) .
- Legge 724/1994, art. 30 – Disciplina delle società non operative (“società di comodo”).
- D.L. 138/2011, art. 2 commi 36-decies e ss. – (Abrogato nel 2022) Disciplina società in perdita sistematica.
- D.L. 73/2022 (Decreto Semplificazioni), art. 9 comma 1 – Abrogazione normativa sulle società in perdita sistematica dal 2022.
- Statuto del Contribuente (L. 212/2000), art. 12 comma 7 – Termine di 60 giorni dopo PVC prima di emettere accertamento (norma abrogata nel 2023, ma con applicazione transitoria).
- Cass., Sez. Un., 18/09/2015 n. 24823 – Contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio per tributi “armonizzati” (IVA) e non per altri, salvo previsione.
- Cass., Sez. Trib., 11/10/2018 n. 25217 – Un’unica operazione antieconomica isolata non giustifica accertamento induttivo.
- Cass., Sez. Trib., 21/11/2018 n. 32441 (richiamata) – Antieconomicità in IVA: costi sproporzionati possono indicare fatture false (cfr. Cass. 2240/2018).
- Corte di Giustizia UE, 21/11/2018 causa C-648/16 – In materia di studi di settore, occorrono gravi divergenze e va garantito contraddittorio.
- Cass., Sez. Trib., 05/11/2019 n. 31682 – Medie di settore non costituiscono “fatto noto” di per sé; vanno integrati con altri elementi.
- Cass., Sez. Trib., 30/09/2019 n. 24300 – Scostamento del 13% dal ricarico medio: insufficiente a fondare presunzione grave.
- Cass., Sez. Trib., 09/04/2021 n. 9020 (richiamata) – Necessità di più indizi concordanti o di un indizio macroscopico; principi già in Cass. 20060/2014, 26036/2015.
- Cass., Sez. Trib., 15/12/2021 n. 40562 (richiamata) – Utili esigui come indice di antieconomicità contestabile (anche senza perdita).
- Cass., Sez. Trib., 15/12/2021 n. 40563 (richiamata) – Margini troppo bassi sospetti, anche in presenza di contabilità regolare (analogo principi Cass. 11339/2023).
- Cass., Sez. Trib., 02/05/2023 n. 11339 – Contabilità formalmente regolare ma risultato irragionevole: ammesso accertamento induttivo.
- Cass., Sez. Trib., 19/04/2023 n. 10422 – (Massima riportata in ricerche) Gestione antieconomica anche con utile minimo: contestabile (presumibile riferimento).
- Cass., Sez. V, 09/04/2024 n. 9554 – Obbligo di contraddittorio per studi di settore solo se accertamento basato esclusivamente su di essi; non richiesto se presenti altri elementi (es. antieconomicità reiterata).
- Cass., Sez. Trib., 12/08/2024 n. 22698 – Antieconomicità macroscopica in ambito IVA può indicare non veridicità della fattura; onere al contribuente di provarne effettività.
- Cass., Sez. Trib., 26/01/2024 n. 2561 – (Massima: legittimo metodo induttivo in presenza di perdite d’impresa reiterate e sproporzionate all’attività svolta).
- Corte Costituzionale, 10/02/2023 n. 10 – Ha dichiarato l’illegittimità parziale della disciplina, nella parte in cui non consentiva al contribuente di dedurre costi in via forfetaria nell’accertamento analitico-induttivo; principio recepito dalla Cass. 19574/2025.
- Cass., Sez. Trib., 15/07/2025 n. 19574 – Il contribuente ha diritto a eccepire costi presuntivi nell’accertamento analitico-induttivo (riconoscimento forfetario dei costi anche senza pezze giustificative).
- Cass., Sez. Trib., 13/05/2025 n. 12807 – Ricavi sproporzionati per difetto rispetto ai costi legittimano accertamento: “i ricavi possono essere ritenuti falsi in base alla loro sproporzione per difetto rispetto ai costi” .
- Cass., Sez. Trib., 25/09/2024 n. 25627 – (Richiamata in fonti: onere della prova in accertamento induttivo, presumibilmente conferma necessità di riconoscere costi – da verificare).
- Cass., Sez. Trib., 08/11/2022 n. 32909 – (Richiamata per perdite su crediti: attiene a antieconomicità di scelte imprenditoriali su crediti, dice che anche se scelta antieconomica – es. rinuncia credito – la perdita è deducibile se supportata da elementi oggettivi).
Hai ricevuto un avviso di accertamento perché la tua società registra perdite fiscali per più anni consecutivi e l’Agenzia delle Entrate sospetta l’esistenza di ricavi occultati? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Vuoi capire quali sono i rischi e come puoi difenderti da un accertamento induttivo?
Il Fisco ritiene sospetta la situazione delle società con perdite pluriennali, perché considera antieconomico il mantenimento di un’impresa che produce solo perdite. In questi casi, può ricorrere all’accertamento induttivo, basandosi su presunzioni e indizi, per attribuire alla società maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati.
👉 Non sempre però la perdita è indice di evasione: molte volte dipende da fattori di mercato, investimenti strategici o eventi straordinari.
⚖️ Perché scatta l’accertamento induttivo
- Bilanci in perdita per più esercizi consecutivi;
- Ricavi dichiarati incoerenti rispetto ai costi sostenuti;
- Margini inferiori alla media del settore (indici ISA o studi di settore);
- Presunzione di ricavi non contabilizzati per giustificare la sopravvivenza dell’impresa;
- Sospetti di società di comodo usate solo per generare perdite fiscali.
📌 Conseguenze possibili
- Determinazione induttiva dei ricavi con tassazione presunta;
- Recupero di imposte, sanzioni e interessi;
- Contestazione di antieconomicità della gestione;
- Nei casi più gravi, rischio di accertamenti penali tributari per dichiarazione infedele.
🔍 Come difendersi
- Analizza l’accertamento ricevuto: individua i parametri utilizzati dall’Agenzia per ricostruire i ricavi.
- Dimostra la ragionevolezza delle perdite: crisi di settore, investimenti a lungo termine, insolvenza dei clienti, eventi straordinari.
- Raccogli documentazione di supporto: bilanci, piani industriali, studi di mercato, perizie di esperti.
- Contesta le presunzioni del Fisco: l’antieconomicità non basta da sola a provare l’evasione.
- Predisponi memorie difensive o ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza l’avviso di accertamento e le presunzioni su cui si fonda;
- 📌 Ricostruisce le ragioni economiche delle perdite per dimostrare la legittimità della gestione;
- ✍️ Redige memorie difensive e ricorsi per annullare o ridurre le pretese fiscali;
- ⚖️ Ti assiste nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
- 🔁 Suggerisce strategie preventive, come la corretta gestione contabile e la pianificazione fiscale, per ridurre i rischi futuri.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in accertamenti induttivi e antieconomicità societaria;
- ✔️ Specializzato in contenzioso tributario e fiscalità d’impresa;
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Un’impresa con perdite pluriennali non è automaticamente evasiva: ci possono essere ragioni concrete e documentabili che giustificano i risultati negativi.
Con una difesa legale mirata puoi contestare le presunzioni dell’Agenzia delle Entrate, dimostrare la correttezza della gestione e ridurre l’impatto dell’accertamento.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti induttivi sulle società in perdita inizia qui.