Hai ricevuto una comunicazione o un avviso di accertamento a seguito di un controllo incrociato dell’Agenzia delle Entrate sui tuoi redditi da lavoro dipendente? Il Fisco confronta i dati delle Certificazioni Uniche (CU), delle buste paga, delle dichiarazioni dei sostituti d’imposta e della tua dichiarazione dei redditi. Se emergono incongruenze, scatta la contestazione.
Quando scattano i controlli sui redditi da lavoro dipendente
– Se i redditi indicati nella dichiarazione non coincidono con quelli trasmessi dai datori di lavoro
– Se mancano redditi di un datore di lavoro secondario (lavoro part-time, contratti a termine, collaborazioni)
– Se i conguagli fiscali effettuati dal sostituto d’imposta non risultano correttamente dichiarati
– Se ci sono più rapporti di lavoro e non è stata fatta la scelta corretta del datore di lavoro principale
– Se risultano indennità, premi o arretrati non dichiarati correttamente
Cosa rischi in caso di contestazione
– Recupero delle imposte non versate sui redditi omessi o dichiarati in misura errata
– Sanzioni fiscali dal 90% al 180% dell’imposta accertata
– Addebito di interessi di mora
– Possibile contestazione di dichiarazione infedele in caso di differenze rilevanti
– Estensione dei controlli ad altre voci dichiarate (detrazioni, oneri, bonus)
Come difendersi da un controllo incrociato sui redditi da lavoro dipendente
– Verificare la corrispondenza tra la tua dichiarazione e le Certificazioni Uniche dei datori di lavoro
– Dimostrare eventuali errori del sostituto d’imposta nella trasmissione dei dati
– Presentare documenti come buste paga, CU, contratti e attestazioni di conguaglio
– Contestare gli errori dell’Agenzia delle Entrate basati su dati duplicati o non aggiornati
– Impugnare l’avviso di accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria se la contestazione è infondata
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare le discrepanze tra dichiarazione e dati fiscali trasmessi
– Raccogliere la documentazione necessaria a dimostrare la correttezza dei redditi dichiarati
– Contestare le sanzioni sproporzionate, invocando la buona fede del contribuente
– Difendere il lavoratore in fase di contraddittorio e davanti al giudice tributario
– Tutelare il contribuente da ulteriori controlli collegati alla dichiarazione dei redditi
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione di sanzioni e interessi richiesti
– La sospensione delle procedure esecutive collegate
– La tutela del patrimonio personale e familiare
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto
⚠️ Attenzione: i controlli incrociati dell’Agenzia delle Entrate sui redditi da lavoro dipendente si basano su banche dati e flussi informatici, che non sono esenti da errori. Spesso le incongruenze derivano da omissioni dei datori di lavoro o da duplicazioni di dati.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in difesa tributaria – ti spiega come affrontare una contestazione derivante da un controllo incrociato sui redditi da lavoro dipendente e come difenderti in modo efficace.
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Introduzione
Affrontare un controllo incrociato dell’Agenzia delle Entrate sui redditi da lavoro dipendente può risultare complesso e preoccupante per il contribuente. Tuttavia, con un’adeguata preparazione giuridica e la conoscenza degli strumenti di tutela a disposizione, è possibile difendersi efficacemente. In Italia l’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate, spesso coadiuvata dalla Guardia di Finanza) dispone di vaste banche dati e poteri di verifica per incrociare le informazioni reddituali, patrimoniali e finanziarie dei cittadini . Tali controlli mirano a individuare discrepanze tra quanto dichiarato e quanto risulta da altre fonti (ad esempio le Certificazioni Uniche dei datori di lavoro, le comunicazioni bancarie, i dati previdenziali, ecc.) e, in caso di irregolarità o evasione, attivare le procedure di recupero delle imposte evase.
In questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – analizzeremo in modo avanzato ma divulgativo il tema dei controlli incrociati sui redditi da lavoro dipendente dal punto di vista del debitore-contribuente (il soggetto sottoposto al controllo). Ci rivolgeremo sia a professionisti del diritto tributario (avvocati tributaristi, consulenti del lavoro, commercialisti) sia a privati cittadini e imprenditori, fornendo un quadro completo della normativa italiana vigente, arricchito dalle più recenti sentenze giurisprudenziali e dalle circolari ufficiali. Il linguaggio sarà tecnico-giuridico ma il più possibile chiaro e accessibile, per consentire anche ai non addetti ai lavori di comprendere i concetti chiave.
Esamineremo dapprima cosa sono i controlli incrociati e quali strumenti il Fisco utilizza per effettuarli. Successivamente illustreremo le varie tipologie di controllo applicabili ai redditi di lavoro dipendente – dai controlli automatizzati sui modelli dichiarativi fino alle verifiche ispettive sul campo – evidenziando per ciascuna le procedure e i diritti del contribuente. Verranno poi trattate le fasi del procedimento di accertamento (dalle comunicazioni di irregolarità agli avvisi di accertamento e all’eventuale contenzioso tributario) e come difendersi in ognuna di queste fasi, sia con strumenti deflattivi (come il ravvedimento operoso, l’adesione, l’autotutela) sia, se necessario, con il ricorso al giudice tributario .
Dedicheremo inoltre approfondimenti a casi particolari molto rilevanti in materia di lavoro dipendente, come il lavoro “nero” (non dichiarato), il doppio lavoro o cumulo di più CU, e le Certificazioni Uniche false o errate, situazioni che spesso danno origine ad accertamenti fiscali e presentano specifici profili di difesa. Nel corso della trattazione forniremo esempi pratici e tabelle riepilogative (ad esempio sulle sanzioni e tempistiche), oltre a una sezione finale di Domande e Risposte (FAQ) per chiarire i dubbi frequenti.
L’obiettivo finale è fornire una guida di riferimento di oltre 10.000 parole, completa e aggiornata al 2025, che metta il contribuente in grado di comprendere come funzionano i controlli incrociati dell’Agenzia delle Entrate sui redditi da lavoro dipendente e come difendersi in modo efficace e legittimo. Citazioni normative e giurisprudenziali saranno riportate a supporto delle strategie difensive, attingendo alle fonti istituzionali più autorevoli (leggi, decreti, Statuto del Contribuente, sentenze di Cassazione, circolari dell’Agenzia, ecc.) .
Controlli incrociati del Fisco: cosa sono e base normativa
I controlli incrociati (o controlli “a tavolino”) sono attività di verifica fiscale in cui l’Agenzia delle Entrate confronta dati provenienti da diverse fonti per individuare anomalie o evasioni . A differenza delle verifiche fiscali condotte con accesso fisico presso il contribuente (ispezioni in azienda, perquisizioni, ecc.), i controlli incrociati avvengono “da remoto”, analizzando dichiarazioni e informazioni già disponibili nelle banche dati pubbliche senza recarsi presso il domicilio del contribuente . In pratica, il Fisco sfrutta la massa di dati raccolti nell’Anagrafe Tributaria e in altre banche dati per effettuare confronti incrociati: ad esempio, verificare che i redditi da lavoro dipendente dichiarati dal contribuente coincidano con quelli comunicati dai datori di lavoro tramite le Certificazioni Uniche (CU) , oppure controllare che il tenore di vita (spese, acquisti) risulti coerente col reddito dichiarato.
La base normativa di questi controlli è molteplice. Per i controlli sulle dichiarazioni dei redditi si fa riferimento in particolare al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, articoli 36-bis e 36-ter, e al D.P.R. 633/1972 (per l’IVA, art. 54-bis) . L’art. 36-bis DPR 600/1973 disciplina il controllo automatizzato delle dichiarazioni (anche detto liquidazione automatica), effettuato su tutti i modelli presentati: un sistema informatico incrocia i dati dichiarati con quelli risultanti all’archivio dell’Anagrafe Tributaria, individuando errori materiali, omissioni o incoerenze aritmetico-logiche . L’art. 36-ter DPR 600/1973 regola invece il controllo formale, eseguito a campione su dichiarazioni selezionate, in cui l’Ufficio richiede al contribuente la documentazione e le pezze giustificative (es. ricevute di oneri deducibili, scontrini, certificazioni dei sostituti d’imposta) per verificare la correttezza formale di detrazioni, deduzioni e altri dati dichiarati . In sede di controllo formale, inoltre, l’Agenzia confronta i dati dichiarati con quelli trasmessi da soggetti terzi: per esempio le banche (interessi passivi su mutui), assicurazioni (premi detraibili), enti previdenziali (contributi) e – rilevantissimo per i lavoratori dipendenti – i datori di lavoro (che inviano le CU con gli importi pagati e le ritenute operate) .
Accanto a questi controlli “di massa” sulle dichiarazioni, esistono poi i controlli sostanziali o accertamenti veri e propri, fondati su attività istruttorie più approfondite. La normativa di riferimento in tal caso è principalmente l’art. 38 del DPR 600/1973, che disciplina l’accertamento sintetico (redditometro, ora evoluto nel cosiddetto evasometro) e l’art. 39 del DPR 600/1973 che regola l’accertamento analitico-induttivo (ricostruzione dei redditi d’impresa o di lavoro autonomo in base a presunzioni) . In base a tali norme, l’Ufficio può determinare un reddito maggiore rispetto al dichiarato quando emergano elementi gravi, precisi e concordanti di evasione, come ad esempio evidenze di compensi non dichiarati o incongruenze macroscopiche tra reddito e spese sostenute. Per il lavoro dipendente, l’accertamento sintetico (redditometro/evasometro) può scattare se il tenore di vita del contribuente appare incompatibile col solo stipendio dichiarato (acquisti di immobili, auto di lusso, ecc.), mentre l’accertamento induttivo riguarda più tipicamente i datori di lavoro (es. scoperta di lavoratori in nero che fa presumere ricavi occulti dell’azienda) .
Sul fronte penale, va citato il D.Lgs. 74/2000 che punisce i reati tributari: ad esempio l’omessa dichiarazione (art. 5) e la dichiarazione infedele (art. 4) sono reati se l’imposta evasa supera determinate soglie (attualmente 50.000 € per l’omessa e ~100.000 € per l’infedele, con base imponibile sottratta oltre 2 milioni) . Per i datori di lavoro c’è inoltre il reato di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000) se non versano le ritenute IRPEF operate ai dipendenti oltre la soglia di 150.000 € annui. Come vedremo, la Cassazione penale ha precisato di recente che per configurare tale reato è necessario che le Certificazioni Uniche siano state rilasciate ai dipendenti, e a tal fine è sufficiente anche il solo inserimento telematico della CU nel cassetto fiscale del lavoratore . Questo per evidenziare come i controlli incrociati abbiano rilievo anche sul piano penale, specialmente nelle ipotesi di sostituti d’imposta (datori di lavoro) infedeli.
Infine, non si può non menzionare lo Statuto dei Diritti del Contribuente (L. 212/2000), che contiene importanti garanzie procedurali: il diritto al contraddittorio prima di emettere accertamenti (in particolare per gli accertamenti sintetici da redditometro, che richiedono un invito al contraddittorio ex art. 38, co. 7 DPR 600/1973), l’obbligo di attendere 60 giorni dopo il processo verbale di constatazione di una verifica in loco prima di emettere l’atto (art. 12, c.7 L.212/2000), il diritto a richiedere autotutela in caso di errori evidenti, e così via. Tali principi vanno sempre tenuti presenti quando si appronta la difesa: una violazione delle garanzie statutarie da parte del Fisco può talora comportare la nullità dell’accertamento (ad esempio, la Corte di Cassazione ha annullato controlli formali effettuati senza contraddittorio laddove previsto) .
Riassumendo, i controlli incrociati trovano fondamento in un articolato quadro normativo: il DPR 600/1973 e il DPR 633/1972 per i controlli automatizzati e formali, gli articoli 38 e 39 DPR 600 per gli accertamenti in rettifica, il D.Lgs. 74/2000 per i profili penali, oltre alle regole generali dello Statuto del Contribuente. Nel prossimo paragrafo descriveremo quali strumenti e banche dati rendono possibili questi controlli a tappeto, fornendo al Fisco una visione d’insieme delle posizioni reddituali dei contribuenti.
Strumenti informatici e banche dati per i controlli incrociati
Negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha potenziato enormemente la propria capacità di analisi incrociata dei dati, grazie a strumenti informatici avanzati e al progressivo ampliamento delle banche dati disponibili. Un ruolo centrale è svolto dall’Anagrafe Tributaria, istituita dal DPR 605/1973, che raccoglie le informazioni fiscali di base su tutti i contribuenti (dati anagrafici, codici fiscali, dichiarazioni presentate, versamenti effettuati, atti registrati, immobili posseduti, ecc.). All’interno dell’Anagrafe Tributaria è presente l’Archivio dei Rapporti Finanziari, un gigantesco database alimentato da tutti gli operatori finanziari (banche, Poste, assicurazioni, società di gestione del risparmio, ecc.) che trasmettono periodicamente all’Agenzia i saldi e movimenti di conti correnti, depositi, carte di credito, investimenti e ora anche wallet di criptovalute . Questo archivio fornisce al Fisco una fotografia dettagliata della capacità finanziaria di ciascun contribuente: ad esempio, consente di sapere quanti soldi sono entrati o usciti dai conti di una persona in un anno, informazione utilissima per stimare redditi non dichiarati.
Dal 2012 è operativo SERPICO (acronimo di Servizio Elaborazione Rilevazione Prevenzione Incrociata), il cosiddetto “cervellone” dell’Agenzia delle Entrate . SERPICO è un sistema informatico che incrocia oltre 30 milioni di dichiarazioni dei redditi con moltissime altre informazioni disponibili (dati dei Comuni, catasto, PRA per i veicoli, spese sanitarie, dati bancari, comunicazioni di terzi, etc.) , restituendo in pochi secondi un quadro completo della posizione fiscale di un contribuente. Grazie a SERPICO, i funzionari possono ad esempio recuperare immediatamente l’ultimo Modello 730 presentato da un contribuente, verificare se risultano certificazioni di sostituti d’imposta collegate a quel codice fiscale, controllare la presenza di eventuali segnalazioni di spesa (acquisto di immobili, barche, ristrutturazioni con bonus fiscali, ecc.) e così via. SERPICO supporta anche le attività della Guardia di Finanza, fornendo in tempo reale gli elementi utili per le indagini finanziarie o le verifiche sul campo .
Un altro strumento importante, evolutosi di recente, è l’Evasometro (evoluzione del vecchio Redditometro). Si tratta di un sistema di risk analysis che attribuisce a ogni contribuente un punteggio di rischio evasione in base allo scostamento tra il reddito dichiarato e il reddito presunto ricavato dall’analisi incrociata di molteplici dati (spese note, investimenti, incrementi patrimoniali, movimenti finanziari). Dal 2025, grazie alle modifiche normative in attuazione della riforma fiscale, l’evasometro scatterà solo al superamento contemporaneo di due soglie: uno scostamento ≥ 20% e in valore ≥ 70.000 € tra reddito dichiarato e reddito ricostruito . Questo significa che il sistema segnalerà per ulteriori controlli solo i casi in cui il contribuente ha speso/accumulato molto più di quanto dichiarato, con una tolleranza del 20% fino a 70 mila euro. Questa taratura è pensata per evitare di disturbare i contribuenti per piccole differenze, concentrando l’attenzione sui casi di potenziale evasione più rilevanti.
La Certificazione Unica (CU) stessa è uno strumento di controllo cruciale per i redditi di lavoro dipendente. Va ricordato che la CU (introdotta nel 2015 al posto del vecchio CUD) è il documento con cui il sostituto d’imposta (datore di lavoro o ente pensionistico) certifica i redditi corrisposti al lavoratore e le relative ritenute fiscali e contributive operate . La legge (art. 4, co. 6-ter DPR 322/1998) obbliga i datori di lavoro a consegnare la CU al dipendente ogni anno entro il 16 marzo (termine prorogato di qualche giorno se festivo) e a trasmetterne copia telematica all’Agenzia delle Entrate entro la stessa data . Tramite questo flusso, il Fisco riceve in automatico tutti i dati su stipendi, pensioni, compensi assimilati e relative ritenute IRPEF. Ciò consente all’Agenzia di precompilare la dichiarazione dei redditi (730 precompilato) e soprattutto di controllare incrociando due posizioni: quella del percettore (lavoratore) e quella del datore di lavoro . Se, ad esempio, un datore certifica di aver pagato 30.000 € di stipendio a un dipendente e di avergli trattenuto 5.000 € di IRPEF, ma il dipendente non presenta la dichiarazione oppure nel suo 730 non risulta quel reddito, il sistema lo segnala come anomalia. Viceversa, se il dipendente dichiara un reddito da lavoro dipendente che non trova riscontro in nessuna CU pervenuta (ipotesi rara), l’Agenzia potrebbe chiedere conto di chi abbia erogato tale importo.
Grazie all’incrocio tra CU e dichiarazioni, praticamente ogni omissione o discordanza sui redditi di lavoro dipendente viene rilevata automaticamente. Ad esempio, se un contribuente ha percepito redditi da due datori di lavoro nello stesso anno (due CU) ma non ha presentato la dichiarazione per conguagliare il dovuto, il sistema di controllo automatizzato se ne accorge e genera una comunicazione di anomalia . Infatti ogni contribuente viene “profilato” con il totale dei redditi risultanti dalle CU: se tali redditi non confluiscono in alcuna dichiarazione (quando invece c’era obbligo di dichiararli), l’Agenzia può procedere con un accertamento d’ufficio per omessa dichiarazione.
Oltre ai redditi, molte altre informazioni vengono incrociate: i contributi previdenziali comunicati dall’INPS (utili per verificare periodi di lavoro), le spese detraibili comunicate da enti terzi (spese mediche, interessi mutui, assicurazioni vita, ecc.) – il cui incrocio serve a identificare oneri portati in detrazione senza riscontro documentale, ecc. Vi sono poi banche dati specifiche per particolari redditi: ad esempio il Registro Immobili (per controllare canoni di locazione dichiarati, eventuali case date in uso gratuito che escluderebbero detrazioni per affitto, ecc.), il Pubblico Registro Automobilistico (PRA) che elenca i veicoli intestati (usati anche per il redditometro), l’Archivio dei rapporti con l’estero (monitoraggio quadro RW per chi detiene attività finanziarie estere).
Da ultimo, l’Agenzia sta sperimentando l’uso di algoritmi di intelligenza artificiale e machine learning per individuare schemi ricorrenti di evasione. Ad esempio, dal 2024 è operativo un nuovo motore di analisi chiamato informalmente “labirinto di regolarità”, che incrocia una moltitudine di parametri (dai versamenti IVA, ai dati delle CU, ai movimenti bancari) per selezionare automaticamente liste di contribuenti con profilo di rischio elevato, da sottoporre a controllo prioritario . In altre parole, la tecnologia consente ora al Fisco di filtrare milioni di posizioni e concentrare le risorse ispettive dove ci sono più probabilità di trovare evasione, riducendo i controlli a vuoto.
In sintesi, i controlli incrociati poggiano su una infrastruttura di dati e sistemi informatici estremamente potente: l’Anagrafe Tributaria e l’archivio dei conti, SERPICO, l’evasometro, le comunicazioni dei sostituti d’imposta, ecc. Per il contribuente ciò significa che molte informazioni sui suoi redditi e sulle sue attività sono già note all’Agenzia delle Entrate prima ancora di qualsiasi verifica formale . Non esiste più, in pratica, la possibilità di “farla franca” confidando che un reddito non dichiarato passi inosservato: l’incrocio automatizzato dei dati fa emergere quasi tutte le anomalie, e qualora il sistema non bastasse, vi è sempre la possibilità per l’Ufficio di procedere con indagini mirate (richiesta di documenti, questionari, accessi in loco) per chiarire le posizioni dubbie.
Dopo aver visto gli strumenti in mano al Fisco, esaminiamo ora quali tipi di controllo possono interessare specificamente i redditi da lavoro dipendente e quali sono le contestazioni tipiche da parte dell’Amministrazione, così da inquadrare le possibili strategie difensive.
Tipologie di controlli sui redditi di lavoro dipendente
I redditi da lavoro dipendente possono essere oggetto sia di controlli “generali” sulle dichiarazioni (che riguardano tutti i contribuenti) sia di verifiche più specifiche legate alla posizione di lavoratore o datore di lavoro. Di seguito distinguiamo le principali tipologie:
Controllo automatizzato delle dichiarazioni (art. 36-bis DPR 600/1973)
È il controllo di primo livello, effettuato su tutte le dichiarazioni presentate (730, Modello Redditi) mediante procedure informatiche. Per i lavoratori dipendenti, spesso è il 730 precompilato a essere soggetto a questa liquidazione automatica. Il sistema verifica che non vi siano errori di calcolo, che vi sia corrispondenza tra i dati dichiarati e quelli risultanti all’Anagrafe Tributaria e alle comunicazioni dei sostituti. Ad esempio, controlla che il totale dei redditi di lavoro dipendente dichiarati corrisponda alla somma delle Certificazioni Uniche pervenute per quel codice fiscale, al netto di eventuali conguagli già effettuati. Oppure verifica che il saldo IRPEF dichiarato (imposta dovuta o a credito) tenga conto di tutte le ritenute d’acconto risultanti dalle CU e dai versamenti (modelli F24) effettuati .
Se il controllo automatizzato trova differenze, l’Agenzia invia al contribuente una comunicazione di irregolarità (anche nota come avviso bonario ex art. 36-bis) dettagliando gli importi dichiarati, quelli risultanti al Fisco e la differenza in termini di maggior imposta, interessi e sanzioni ridotte. Un caso tipico: il contribuente dimentica di inserire nella dichiarazione una CU relativa a un secondo rapporto di lavoro; il sistema rileva quel reddito mancante (perché il datore l’ha comunicato all’Agenzia) e ricalcola l’IRPEF dovuta aggiuntiva . Nella comunicazione verranno richiesti l’imposta non versata, gli interessi e la sanzione (di solito 30% per omesso versamento, ridotta però a 10% se si paga entro 30 giorni dal ricevimento dell’avviso bonario, come previsto dal D.Lgs. 462/97).
Per il contribuente, questo è un momento importante: la comunicazione di irregolarità non è un atto impositivo definitivo, ma un invito a regolarizzare la posizione . Se la pretesa è corretta, pagare entro i termini comporta il beneficio di sanzioni ridotte (1/3 del 30%, quindi 10% in genere) . Se invece si ritiene che la comunicazione sia infondata (magari per un errore del Fisco, doppi conteggi, ecc.), è possibile segnalare all’ufficio le proprie ragioni o la documentazione mancante. In ogni caso, l’avviso bonario ex 36-bis non è impugnabile direttamente in Commissione Tributaria (non essendo un provvedimento definitivo) ; l’eventuale ricorso potrà essere proposto solo dopo la successiva iscrizione a ruolo e notifica della cartella di pagamento, qualora il contribuente non aderisca alla richiesta.
Controllo formale della dichiarazione (art. 36-ter DPR 600/1973)
È un controllo più mirato, che avviene successivamente al 36-bis e su un campione selezionato di contribuenti considerati a rischio. In sede di controllo formale, l’Agenzia delle Entrate può chiedere al contribuente di esibire o trasmettere i documenti che giustificano quanto indicato in dichiarazione . Per un lavoratore dipendente, ciò può riguardare ad esempio: certificazioni di reddito (CU) in originale, ricevute di spese detraibili (spese mediche, universitarie, funebri, ecc.), quietanze di bonifico per bonus fiscali, contratti di mutuo per detrarre gli interessi, e così via. Contestualmente, l’Ufficio confronterà i dati dichiarati con le informazioni già in suo possesso: ad esempio, verificherà che il cod. fiscale del familiare a carico indicato per le detrazioni corrisponda a un soggetto esistente e non percettore di reddito superiore a soglia, che gli importi di bonifici per ristrutturazioni edilizie corrispondano a quelli comunicati dalle banche, nonché che i redditi da lavoro dipendente dichiarati coincidano con quelli comunicati dal datore nella CU .
Al termine del controllo formale, se emergono difformità, l’Agenzia invia anche in questo caso una comunicazione di esito (avviso bonario ex art. 36-ter). Ad esempio, se risulta che il contribuente ha dichiarato oneri deducibili non spettanti o per importi superiori a quelli documentati, il controllo formale esclude tali oneri dal calcolo e riliquida l’imposta dovuta . Nel caso di redditi di lavoro dipendente, un esempio frequente di contestazione formale riguarda i conguagli fiscali: se due sostituti d’imposta hanno entrambi applicato detrazioni per lavoro dipendente come se fossero l’unico datore, il contribuente ha beneficiato indebitamente di una doppia detrazione. Il controllo formale se ne accorge (perché vede due CU con detrazioni applicate) e richiede la restituzione della detrazione duplicata. Ancora, se un datore ha errato nella CU (es. non ha indicato correttamente le ritenute versate) e il contribuente in base a quella ha chiesto un rimborso IRPEF nel 730, il controllo formale segnalerà l’anomalia: “ritenute non versate dal sostituto per € X” e chiederà al contribuente la relativa imposta. In questi casi, la situazione è delicata: il lavoratore non dovrebbe essere chiamato a pagare imposte già trattenute in busta paga ma non versate dal datore (è il datore inadempiente il responsabile) ; tuttavia, operativamente, l’Agenzia spesso contesta al dipendente il credito d’imposta non versato dal datore, costringendolo a difendersi mostrando le buste paga o la CU e facendo valere che la responsabilità è del sostituto d’imposta. Su questo tema la Cassazione ha chiarito che il dipendente non può essere sanzionato né gli si può negare il credito d’imposta se prova che la ritenuta gli è stata effettivamente operata (ad esempio, trattenuta sullo stipendio) . In sede di controllo formale, dunque, è fondamentale interloquire con l’Ufficio fornendo tutta la documentazione giustificativa e le eventuali memorie, per evitare il passaggio alla fase successiva.
Proprio riguardo al contraddittorio, notiamo che il controllo formale non prevede per legge un obbligo generalizzato di confronto preventivo col contribuente (diversamente dagli accertamenti veri e propri); tuttavia, l’Agenzia di regola invita il contribuente a fornire chiarimenti o documenti prima di emettere l’esito definitivo. Questo avviene spesso tramite lettera o PEC nella quale sono elencati i documenti da inviare. È buona prassi rispondere tempestivamente a tali richieste: se i chiarimenti convincono l’ufficio o sanano l’irregolarità, il controllo si chiude lì. In caso contrario, arriverà la comunicazione di irregolarità ex 36-ter, anche questa non impugnabile direttamente ma suscettibile di definizione agevolata (pagando le somme entro 30 giorni con sanzioni ridotte a 2/3, cioè 20% invece del 30% normale, secondo D.Lgs. 462/97).
Accertamenti “a tavolino” e sintetici (redditometro/evasometro)
Oltre ai controlli sui dichiarativi, per i lavoratori dipendenti (in quanto persone fisiche) può verificarsi un accertamento sintetico del reddito complessivo (ex art. 38 DPR 600/73). Questo strumento, noto al grande pubblico come redditometro, consente all’Amministrazione di determinare il reddito di un contribuente in base al tenore di vita e alle spese sostenute, prescindendo in parte dalle fonti dichiarate. Ad esempio, se un contribuente dichiara solo 15.000 € annui di reddito da lavoro dipendente ma nello stesso anno acquista una villa al mare, un SUV e spende decine di migliaia di euro in viaggi, il Fisco potrebbe presumere che quel contribuente disponga in realtà di redditi non dichiarati (magari derivanti da altre attività in nero). Il nuovo evasometro 2025, come detto, richiede per l’attivazione uno scostamento significativo (≥20% e ≥70.000 €) tra spese/incrementi patrimoniali e reddito dichiarato . Se ciò accade, l’Agenzia invia un invito al contraddittorio al contribuente, elencando le spese note (es. acquisto immobile per 200.000€, leasing auto per tot, ecc.) e chiedendo spiegazioni su come esse siano state finanziate. Il contribuente in sede di contraddittorio potrà difendersi dimostrando, ad esempio, di aver utilizzato redditi di anni precedenti, risparmi accumulati, aiuti familiari (donazioni) o altre entrate esenti/tassate alla fonte per coprire quelle spese . Solo se le giustificazioni non convincono, l’Ufficio emetterà un avviso di accertamento sintetico, attribuendo a quel contribuente un reddito maggiore (su cui calcolare IRPEF e addizionali dovute). È chiaro che questo tipo di controllo colpisce spesso chi ha redditi ufficiali modesti (es. solo stipendio base) ma manifesta un elevato livello di ricchezza. Va ricordato che l’accertamento sintetico non può riguardare periodi d’imposta oltre il quinto anno precedente (in genere il controllo oggi può spingersi fino al 2020, dichiarazione 2021, salvo omessa dichiarazione che estende a 7 anni). Inoltre, è prevista una franchigia: se il contribuente riesce a dimostrare che il reddito sinteticamente accertabile non supera di 2/3 quello dichiarato, l’accertamento non viene effettuato (norma introdotta per tollerare piccoli scostamenti). In ogni caso, il contraddittorio col contribuente è obbligatorio prima di emettere l’accertamento sintetico, pena la nullità dell’atto .
Un’altra forma di controllo “a tavolino” di tipo mirato è l’accertamento bancario. L’Agenzia può (previa autorizzazione interna) richiedere gli estratti conto e i movimenti bancari di un contribuente, e presumere che qualsiasi versamento non giustificato costituisca reddito evaso (per le imprese anche i prelevamenti ingiustificati sono considerati ricavi non dichiarati) . Per i lavoratori dipendenti, questo strumento entra in gioco soprattutto se si sospetta che il contribuente abbia percepito somme “fuori busta” o redditi in nero. Ad esempio, un dipendente potrebbe ricevere bonifici periodici dal datore di lavoro su un conto estero non dichiarato: l’indagine finanziaria lo porterebbe alla luce. In generale, se il lavoratore non è un imprenditore, la giurisprudenza ha limitato le presunzioni sui prelievi bancari (non vengono considerati redditi salvo prove contrarie), mentre sui versamenti non giustificati permane la presunzione di reddito evasivo . Il contribuente può difendersi mostrando la provenienza non reddituale di quei versamenti (ad es. trasferimenti da altri conti propri, donazioni, rimborsi di prestiti, etc.). La Cassazione ha costantemente ribadito che l’onere di fornire una spiegazione incombe sul contribuente una volta che il Fisco ha evidenziato movimenti sospetti .
Verifiche ispettive (accessi e controlli in azienda) e lavoro “nero”
La forma più incisiva di controllo è la verifica fiscale sul campo, condotta presso il luogo di lavoro (aziende, uffici) dai funzionari dell’Agenzia o dalla Guardia di Finanza . In tali casi i verificatori possono ispezionare la contabilità, reperire documentazione non ufficiale (ad es. appunti paralleli, “contabilità nera”), interrogare il personale, effettuare osservazioni dirette. Per quanto attiene ai redditi di lavoro dipendente, uno scenario tipico è la scoperta di uno o più lavoratori in nero durante una verifica. Ciò comporta conseguenze immediate: il datore di lavoro subirà un verbale per omesse ritenute e contributi sui compensi pagati in nero, nonché sanzioni amministrative per violazione delle norme sul lavoro (diffida dell’Ispettorato del Lavoro, maxi-sanzione lavoro nero che va da €1.800 a €43.200 per lavoratore a seconda della durata, etc., sebbene queste ultime escano dall’ambito strettamente tributario). Sul piano fiscale, la presenza di dipendenti non regolari dà luogo in genere a due accertamenti: uno verso il datore per recuperare le ritenute IRPEF non operate né versate su quei redditi da lavoro, e uno (sempre verso il datore) per presumere che se l’imprenditore ha sostenuto costi in nero, li abbia finanziati con ricavi non dichiarati (accertamento induttivo) . In pratica, il fisco ragiona così: se un’azienda ha pagato €10.000 di stipendi in nero, probabilmente ha anche omesso di dichiarare ricavi almeno pari a quella somma (per poter disporre di liquidità occulta). La Cassazione, con l’ordinanza n. 19622/2025, ha confermato che anche un solo lavoratore in nero può costituire un elemento presuntivo grave e preciso sufficiente a legittimare un accertamento induttivo sui maggiori ricavi d’impresa . Tale orientamento supera precedenti più indulgenti secondo cui situazioni episodiche e limitate di lavoro nero non bastavano di per sé a inficiare tutta la contabilità : oggi un solo dipendente non dichiarato, se il fatto appare significativo, può far scattare la ricostruzione del reddito d’azienda e l’inattendibilità delle scritture contabili.
Dal punto di vista del lavoratore in nero, va precisato che egli stesso è tenuto a dichiarare e pagare IRPEF su quanto percepito “fuori busta”. In caso di controlli incrociati, il lavoratore irregolare potrebbe quindi ricevere un avviso di accertamento IRPEF personale per i redditi non dichiarati (oltre a perdere eventuali sussidi o tutele se era disoccupato ufficialmente). Tuttavia, in pratica l’Agenzia spesso concentra l’azione sul datore di lavoro: recuperando a quest’ultimo le ritenute non versate, si finisce per tassare alla fonte quei redditi. Di solito infatti, il recupero delle ritenute IRPEF operato sul datore equivale sostanzialmente all’IRPEF dovuta dal dipendente (che era il beneficiario del reddito). Resta ferma comunque la possibilità di un accertamento diretto sul lavoratore, specie se di importo rilevante o se il lavoratore autonomamente non ha proprio presentato dichiarazione. In tal caso, per il lavoratore scatterebbe un’infedele o omessa dichiarazione con relative sanzioni amministrative (dal 90% al 180% dell’imposta evasa per infedele; 120%–240% per omessa, minimo €250) e potenzialmente penali oltre soglia .
È importante notare che la scoperta di lavoro nero può avvenire anche tramite incroci non fisici: ad esempio, l’INPS potrebbe segnalare all’Agenzia che una persona risulta aver percepito sussidi di disoccupazione o Cassa Integrazione mentre in parallelo veniva retribuita “in nero” da un datore (informazione che può emergere da verifiche incrociate o denunce). In tali situazioni l’Agenzia può intervenire recuperando l’IRPEF sull’indebito percetto. Inoltre, controlli incrociati innovativi riguardano i social network e altre fonti aperte: casi di giurisprudenza recente hanno ammesso l’utilizzo di foto, chat WhatsApp o post Facebook come prove in accertamento , ad esempio per dimostrare l’esistenza di un’attività lavorativa nascosta o di un tenore di vita incongruente.
Riassumendo le tipologie di controllo: – Automatizzati e formali: tutti i contribuenti, rilevano errori/documenti, in caso di redditi dipendenti tipicamente gestiscono incongruenze tra CU e dichiarazione o detrazioni indebite. – Sintetici e indagini finanziarie: persone fisiche con alto scostamento reddito/spese, o movimenti bancari sospetti; per il dipendente si punta a redditi extra non dichiarati. – Verifiche ispettive (GdF): situazioni di evasione conclamata, es. lavoro nero, contabilitá parallela, reati tributari; qui il contraddittorio avviene nel processo verbale di constatazione che il contribuente può contestare entro 60 giorni (Statuto art.12 c.7) prima dell’accertamento definitivo.
Nei prossimi capitoli, ci concentreremo su come difendersi nelle varie fasi in cui questi controlli si concretizzano: dalla lettera di compliance iniziale fino all’eventuale ricorso in contenzioso tributario. Saranno inoltre affrontati separatamente gli approfondimenti tematici promessi (lavoro nero, doppio lavoro, CU false) per offrire risposte specifiche a queste situazioni particolari.
Procedimento di accertamento e difesa del contribuente
Quando un controllo incrociato evidenzia una possibile irregolarità fiscale, il Fisco attiva un procedimento che può articolarsi in più fasi successive, durante le quali il contribuente ha diverse opportunità di difesa o di definizione agevolata. È fondamentale conoscere questi passaggi per reagire tempestivamente e nella maniera più efficace. In generale, possiamo distinguere le seguenti fasi/atti, in ordine di “gravità” crescente:
- Lettera di compliance (invito alla compliance) – Fase non impositiva, preventiva.
- Comunicazione di irregolarità (c.d. avviso bonario) – Esito di controllo automatico/formale, atto amministrativo non definitivo.
- Avviso di accertamento (eventualmente preceduto da invito a comparire o PVC) – Atto impositivo definitivo, impugnabile davanti al giudice.
- Riscossione coattiva (cartella di pagamento o atti conseguenti all’accertamento esecutivo) – Fase esecutiva, se non si paga né impugna.
Vediamo queste fasi nel dettaglio dal punto di vista del contribuente/debitore e le corrispondenti strategie difensive.
Lettera di compliance (segnalazione di anomalia)
Negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate, prima di emettere un avviso di accertamento, invia spesso una “lettera di compliance” al contribuente, segnalando in modo informale una o più anomalie riscontrate . Ad esempio, nel caso di redditi da lavoro dipendente, tipiche lettere di compliance riguardano: omessa presentazione della dichiarazione in presenza di più CU; redditi dichiarati apparentemente incompleti (manca una CU di cui l’Agenzia è a conoscenza); oppure spese rilevanti sostenute a fronte di un reddito modesto dichiarato (sintomo di possibile reddito occulto). La lettera indica l’anno d’imposta, la natura dell’anomalia (es. “risultano percepiti redditi di lavoro dipendente non dichiarati per € XX”) e invita il contribuente a verificare la sua posizione . Spesso viene allegato un prospetto dettagliato e le istruzioni su come regolarizzare (ad es. presentando una dichiarazione integrativa e versando le maggiori imposte con ravvedimento operoso, entro un certo termine) .
La lettera di compliance non è un atto impositivo: non richiede un pagamento immediato né irroga sanzioni sul momento . Non è neppure impugnabile, perché non contiene una pretesa definita . Rappresenta piuttosto una “occasione” concessa al contribuente per correggere spontaneamente eventuali errori od omissioni, beneficiando di sanzioni ridotte. Infatti, se il contribuente aderisce alla compliance, può utilizzare il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/97) pagando le imposte dovute con sanzioni molto ridotte (ad esempio 1/8 del minimo se paga entro un anno dalla violazione, etc.). In molti casi, rispondere alla lettera di compliance con una dichiarazione integrativa e il pagamento dovuto evita del tutto l’avvio di un accertamento formale . Nel 2025 l’Agenzia ha stimato di inviare circa 3 milioni di lettere di compliance, proprio per incentivare il gettito spontaneo e ridurre il contenzioso .
Cosa fare se si riceve una lettera di compliance? Prima di tutto, non ignorarla. Anche se non è obbligatorio rispondere (la lettera stessa chiarisce che non è un atto autoritativo né impone adempimenti coatti ), ignorarla significa probabilmente vedersi recapitare più avanti un accertamento vero e proprio, con sanzioni ben più alte. Conviene dunque analizzare l’anomalia segnalata: se effettivamente c’è stato un errore (es. ci si è dimenticati di un CUD, o di dichiarare un reddito percepito), il ravvedimento è la via migliore. Se invece si ritiene che i dati del Fisco siano sbagliati (può capitare, ad esempio, in caso di omonimie o doppi codici fiscali, o CU inviate erroneamente dal datore), è opportuno contattare l’ufficio o recarsi presso di esso per chiarire la questione, eventualmente con documenti alla mano. Ad esempio, se la lettera indica “redditi non dichiarati €10.000 da datore X”, ma il contribuente sa di non aver mai lavorato per X, potrebbe trattarsi di un errore di codice fiscale su una CU; in tal caso, fornendo prova (contratto, comunicazioni, ecc.) l’ufficio potrà annullare l’anomalia senza conseguenze.
Importante: la lettera di compliance non sospende i termini per ravvedersi. Bisogna quindi agire entro le scadenze ordinarie del ravvedimento (che dipendono dall’anno d’imposta interessato) per avere le riduzioni massime di sanzione. L’invio della comunicazione non “freeza” la posizione, serve solo da stimolo. In alcuni casi la lettera fissa un termine (es. 30 giorni) entro cui si consiglia di regolarizzare per evitare il controllo; tale termine però non è perentorio né previsto da legge, è indicativo.
Ricapitolando, la difesa in fase di compliance consiste nel correggere subito l’errore se c’è (beneficiando di sanzioni minime) oppure nel fornire spiegazioni all’Agenzia se l’anomalia è infondata. Ad esempio, un contribuente con due CU che non ha fatto il 730 nel 2023 potrebbe, ricevuta la lettera, presentare la dichiarazione entro la data indicata e pagare l’IRPEF dovuta con sanzione da omesso versamento ridotta (1/10 del 30% se entro 30 giorni dalla scadenza originaria, oppure 1/8 del minimo se entro un anno, ecc. – nei casi di omessa dichiarazione la sanzione fissa di €250 può ridursi a €25 se entro 90 giorni) . In questo modo eviterà l’accertamento d’ufficio per omessa dichiarazione, che gli costerebbe il 120% di sanzione sul tributo oltre interessi.
Dal punto di vista giuridico, la lettera di compliance come detto non è impugnabile. Non è quindi possibile fare un ricorso contro di essa; solo se dovesse poi sfociare in un atto impositivo (avviso di accertamento o cartella) si potranno contestare in quella sede le motivazioni. Alcune Commissioni Tributarie in passato hanno ritenuto nulla la successiva cartella se l’Agenzia non ha provato di aver inviato la lettera di compliance (violazione dei principi di collaborazione e buona fede); ma si tratta di orientamenti minoritari. In generale, la compliance è una facilitazione: usarla a proprio vantaggio è la scelta più saggia.
Tabella – Lettera di compliance vs Avviso bonario vs Avviso di accertamento :
Caratteristica | Lettera di compliance | Comunicazione di irregolarità (avviso bonario) | Avviso di accertamento |
---|---|---|---|
Contenuto | Segnala possibili errori o omissioni, senza quantificare imposte o sanzioni dovute. Invita a verificare e correggere. | Dettaglia le differenze riscontrate dal controllo (imposta, interessi, sanzioni ridotte). Invita a pagare o a fornire elementi entro 30 giorni. | Contesta formalmente una maggiore imposta dovuta, con relativa sanzione piena e interessi. È un atto impositivo a tutti gli effetti. |
Forma giuridica | Comunicazione informativa (non impugnabile, non vincolante). | Atto amministrativo non definitivo (non direttamente impugnabile; si impugna la cartella se non si paga). | Provvedimento tributario definitivo impugnabile entro 60 gg (salvo sia preceduto da invito con adesione). |
Effetti se ignorato | (Breve periodo) Nessun effetto immediato; possibile avvio successivo di controllo/accertamento. | Iscrizione a ruolo delle somme dopo 30 gg: verrà notificata cartella esattoriale con sanzione piena (se non pagato né chiarito). | Diventa esecutivo dopo 60 gg: se non impugnato né pagato, l’importo viene affidato all’Agente riscossione per l’esecuzione forzata (pignoramenti etc.). |
Benefici in caso di adesione | Possibilità di ravvedimento operoso: sanzioni ridotte (da 1/10 a 1/8 del minimo a seconda dei tempi) e nessun ulteriore provvedimento. | Pagamento entro 30 gg con sanzione ridotta (normalmente 1/3 della sanzione ordinaria). Nessun ulteriore atto (si perfeziona la definizione). | Possibilità di definire con accertamento con adesione (riduzione sanzioni a 1/3) oppure, se ricorso, possibilità di mediazione/conciliazione (sanzioni ridotte al 35% in mediazione o 40% in conciliazione giudiziale). Pagamento rateale possibile. |
Comunicazione di irregolarità (avviso bonario)
Se dal controllo automatizzato o formale emergono differenze e il contribuente non ha già regolarizzato tramite ravvedimento spontaneo, l’Agenzia invia la comunicazione di irregolarità (detta anche avviso bonario). Come visto, nel caso di redditi da lavoro dipendente ciò avviene spesso per omissione di una o più CU in dichiarazione, oppure per disallineamenti fra le ritenute risultanti e quelle dichiarate. La comunicazione indica l’anno d’imposta, i dati dichiarati vs quelli accertati e l’importo della maggiore imposta dovuta, con relative sanzioni calcolate in misura ridotta (di solito 1/3) . Al contribuente viene concesso un termine per pagare (30 giorni dal ricevimento) o per presentare osservazioni/documenti in caso di disaccordo.
Pur non essendo un atto impugnabile, l’avviso bonario è un momento cruciale per la difesa in via amministrativa. È opportuno controllare attentamente il calcolo: a volte le irregolarità possono derivare da errori dell’amministrazione (ad es. una CU duplicata, un pagamento F24 non abbinato correttamente, etc.). In tali casi il contribuente può segnalare l’errore all’ufficio (di persona, via PEC o tramite il cassetto fiscale, dove esiste una funzione di feedback sulle comunicazioni) e chiedere l’annullamento in autotutela totale o parziale della pretesa. Se l’ufficio riconosce l’errore, emetterà una comunicazione integrativa corretta o archivierà la posizione.
Se invece l’avviso bonario risulta corretto e dovuto, il consiglio è di aderire pagando entro i 30 giorni, per usufruire della sanzione ridotta (10% nel 36-bis, 20% nel 36-ter). Qualora la somma richiesta fosse elevata, è possibile chiedere una rateazione all’Agente della Riscossione dopo che l’atto sarà iscritto a ruolo (sulle somme da avviso bonario non è ammesso il pagamento rateale diretto con l’Agenzia, bisogna attendere la cartella). Tuttavia, pagando almeno la prima rata entro i 30 giorni si bloccano le sanzioni piene.
E se non si paga né si contesta? Dopo 30 giorni, l’Agenzia procede con l’iscrizione a ruolo delle somme: in pratica trasforma quella comunicazione in un ruolo esecutivo e la trasmette all’Agente della Riscossione (ex Equitalia). L’Agente notificherà quindi una cartella di pagamento contenente l’importo dovuto con sanzioni intere al 30% (meno quanto eventualmente già versato in acconto). Sarà a quel punto possibile impugnare la cartella dinanzi al giudice tributario, sollevando ovviamente le motivazioni che inficiano la pretesa (errori di calcolo, decadenza dei termini, illegittimità varie). Va detto che la difesa su una cartella derivante da controllo automatizzato è limitata alle questioni formali e di merito del calcolo, non si può contestare nel merito aspetti non rilevabili dal 36-bis (es: in cartella da 36-bis non posso far valere che un reddito è esente se non lo avevo indicato in dichiarazione: dovevo semmai correggere la dichiarazione prima). Si noti che recentemente la Corte di Cassazione ha affermato la nullità della cartella emessa senza che sia stato inviato l’avviso bonario quando questo era dovuto : ciò significa che, almeno per IVA e imposte sui redditi, se il contribuente non ha ricevuto il precedente avviso bonario (e la prova della notifica spetta all’Agenzia), la cartella è impugnabile e annullabile.
Dunque, la strategia difensiva in questa fase è: 1) verificare la correttezza e in caso di errore dell’ufficio, sollecitare correzione in autotutela; 2) se dovuto, pagare subito per chiudere la partita a costi ridotti; 3) se non si può pagare o si ritiene comunque illegittimo l’addebito, prepararsi al ricorso (aspettando la cartella, perché l’avviso bonario di per sé non è impugnabile).
Avviso di accertamento e fasi successive
L’avviso di accertamento è l’atto formale con cui l’Ufficio tributi contesta al contribuente un maggiore reddito imponibile e liquidamente quantifica le maggiori imposte, sanzioni e interessi dovuti. Per i redditi di lavoro dipendente, un avviso di accertamento può originare da diversi scenari: il mancato riscontro a una lettera di compliance su omessa dichiarazione; l’esito di un controllo formale grave non definito a bonario (es. un’onere detratto risultato falso); la conclusione di una verifica o indagine con rilievi (es. redditi in nero accertati); o anche la semplice mancata risposta/adesione a un avviso bonario (in tal caso però di solito si procede con cartella, non con accertamento, salvo l’ipotesi di accertamento parziale ex art. 41-bis DPR 600/73 che consente di emettere accertamenti veloci su singole poste).
Notifica e termini: l’avviso di accertamento deve essere notificato (a mezzo PEC o raccomandata) entro i termini di decadenza previsti dalla legge. Attualmente, per l’anno d’imposta 2019 (dichiarazione 2020) e seguenti, il termine è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (o del sesto se la dichiarazione è omessa) . Ad esempio, per il 2020 dichiarato nel 2021, il termine è 31/12/2026; se omessa dichiarazione 2021, termine 31/12/2027. Termini più lunghi valgono in caso di violazioni penali (raddoppio dei termini se c’è denuncia per reato tributario, ex art. 43 DPR 600). Il contribuente che riceve l’avviso deve anzitutto controllare la data di notifica e l’anno cui si riferisce: se fuori termine, l’atto è inesistente o nullo e andrà eccepito nel ricorso.
L’avviso contiene gli elementi dell’accertamento: imponibile accertato, aliquote, imposta, sanzione (di regola 100% dell’imposta evasa per infedele, che è in fascia 90-180%, ma l’Ufficio spesso applica un punto intermedio), interesse di mora. Importante: dal 2011 gli avvisi di accertamento sono esecutivi, ovvero trascorsi 60 giorni dalla notifica, diventano titolo per la riscossione coattiva, senza bisogno di una cartella successiva. Tuttavia, se il contribuente presenta ricorso, l’esecuzione è sospesa per 1/3 delle imposte accertate fino alla sentenza di primo grado (deve comunque versare tale importo entro 60 giorni come “acconto” sul dovuto, salvo chieda sospensione) . Se non ricorre né paga, dopo 60 giorni l’intero importo è affidato alla riscossione e possono scattare pignoramenti dopo ulteriori 30 giorni di preavviso.
Difendersi dall’avviso di accertamento: qui le opzioni sono principalmente due – definizione per adesione oppure ricorso. Vediamole:
- Accertamento con adesione: È un procedimento deflattivo previsto dal D.Lgs. 218/1997, che consente al contribuente di chiedere un incontro con l’Ufficio per tentare una definizione concordata dell’accertamento prima di fare ricorso. La presentazione dell’istanza di adesione (entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso) comporta automaticamente una sospensione di 90 giorni dei termini per impugnare . Ciò permette di negoziare con calma. Nell’adesione, contribuente e funzionari discutono i rilievi: si può far valere documentazione aggiuntiva, elementi equitativi, etc. Se si raggiunge un accordo, viene formalizzato un atto di adesione in cui normalmente l’imponibile e/o le sanzioni vengono ridotti rispetto all’avviso originario. Uno dei vantaggi chiave dell’adesione è la riduzione delle sanzioni ad 1/3 del minimo previsto per legge . Esempio: su un’imposta evasa di 10.000 € che avrebbe sanzione base 90% = 9.000 €, se accertata in adesione la sanzione scende a 3.000 €. Inoltre, l’importo definito può essere rateizzato fino a 8 rate trimestrali (12 rate se importo > €50.000). L’adesione chiude la partita senza contenzioso e impedisce futuri accertamenti per gli stessi tributi e periodi.
La difesa in adesione è più negoziale che giurisdizionale: vanno portati argomenti convincenti ai funzionari. Ad esempio, se viene contestato un reddito da lavoro dipendente non dichiarato di 20.000 € basato su un movimenti bancari, il contribuente può dimostrare che almeno una parte era un prestito familiare: l’Ufficio potrebbe allora ricalcolare l’imponibile riducendolo. Spesso anche se non ci sono elementi nuovi, si ottiene una riduzione sanzionatoria e talvolta una riduzione delle imposte richieste per evitare il ricorso. È importante presentarsi all’incontro (o memoria scritta) con un atteggiamento collaborativo ma fermo sui punti a favore. Se la trattativa non soddisfa, il contribuente è libero di non sottoscrivere l’adesione e procedere col ricorso (nulla di quanto discusso potrà essere usato contro di lui in giudizio, l’adesione è riservata).
- Ricorso al giudice tributario: Se non si vuole o non si riesce a definire in adesione, si può presentare ricorso alla Commissione Tributaria (ora denominata Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado dopo la riforma del 2022) entro 60 giorni (estesi di 90 in caso di adesione non conclusa). Per importi fino a €50.000 di tributo, è obbligatorio presentare prima un reclamo-mediazione all’Ufficio (ex art. 17-bis D.Lgs. 546/92) contestualmente al ricorso: l’ufficio ha 90 giorni per eventualmente accogliere o proporre una mediazione (con riduzione sanzioni al 35%). Decorso tale termine, il ricorso prosegue in giudizio se non c’è accordo . Nel ricorso, il contribuente potrà far valere tutte le eccezioni di legittimità (vizi procedurali, errori sui termini, difetto di contraddittorio, motivazione carente, ecc.) e di merito (insussistenza del presupposto, prove contrarie, ecc.).
Durante il contenzioso, è fondamentale ricordare alcune regole di onere della prova: in presenza di presunzioni legali (come i dati bancari non giustificati, la presenza di lavoratori in nero, ecc.), la legge e la Cassazione impongono che sia il contribuente a fornire la prova contraria . Ad esempio, se l’ufficio dimostra che Tizio aveva 50.000 € di versamenti non spiegati sul conto, starà a Tizio provare che non erano redditi (bensì, ad esempio, vendite di beni già tassati, donazioni, ecc.), altrimenti l’accertamento verrà confermato. Viceversa, per le sanzioni amministrative, il contribuente può far leva sull’esimente della buona fede o errore scusabile: se dimostra di essere incappato in un errore in buona fede, può chiedere l’annullamento delle sanzioni (cosa però non facile da ottenere). Nel contenzioso tributario conta molto anche la giurisprudenza: citare sentenze di Cassazione pertinenti (soprattutto Sezioni Unite o sez. V tributaria) rafforza le tesi difensive. Nella nostra trattazione abbiamo menzionato varie pronunce, e in calce troverete i riferimenti di quelle più rilevanti.
Il processo tributario attualmente (2025) prevede due gradi di merito (Corte Giust. Tributaria di I grado e di II grado, ex Commissioni provinciali e regionali) e poi il ricorso in Cassazione. I tempi possono essere lunghi (anche anni). Durante il ricorso, se l’importo è elevato, conviene chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato (al presidente della sezione, che la concede se c’è pericolo grave e fondato motivo). In mancanza, come detto, il contribuente deve intanto versare 1/3 e, dopo la sentenza di primo grado se sfavorevole, anche il residuo 2/3 per evitare azioni esecutive, salvo diversa sospensione. Se il contribuente vince, l’atto è annullato (in tutto o in parte) e ha diritto al rimborso di quanto pagato in eccedenza. Se perde, potrà appellare in II grado (entro 60 gg) e infine ricorrere in Cassazione (entro 6 mesi dalla notifica della sentenza di appello). È possibile anche trovare un accordo in corso di causa: la cosiddetta conciliazione giudiziale, che può avvenire in primo o secondo grado con riduzione delle sanzioni al 40% .
In pratica, per un contribuente persona fisica con redditi di lavoro dipendente, il ricorso ha buone chance di successo soprattutto quando l’accertamento presenta vizi evidenti (es. è basato su un errore di persona, o su presupposti smentiti da documenti certi) oppure quando l’ufficio non ha rispettato qualche vincolo procedurale (ad es. mancato invito al contraddittorio in accertamento sintetico ). In altri casi più sfumati (es. redditometro basato su spese, ma il contribuente sostiene che erano sostenute dal coniuge) si tratta di convincere i giudici con le prove fornite.
Autotutela e altri strumenti deflattivi
Merita un cenno lo strumento dell’autotutela: in ogni fase (anche dopo un avviso di accertamento o una cartella definitiva) il contribuente può presentare un’istanza all’Amministrazione chiedendo l’annullamento totale o parziale dell’atto per evidenti errori di fatto o di diritto. L’autotutela è discrezionale per l’ufficio: non sospende termini e non garantisce l’annullamento, ma talvolta è efficace soprattutto in caso di errore palese. Ad esempio, se un accertamento addebita due volte la stessa CU o attribuisce al contribuente redditi di un omonimo, l’autotutela ben impostata (magari con allegati inoppugnabili) può portare l’ufficio a emettere un provvedimento di sgravio senza costringere ad andare in Commissione. Va detto che dal 2022 è possibile (in base alla L.130/2022 di riforma del processo) ottenere in giudizio la compensazione delle spese anche se l’atto viene annullato in autotutela dopo la proposizione del ricorso, quindi l’autotutela non preclude di ricorrere contestualmente per stare nei termini.
Altri strumenti deflattivi sono talvolta disponibili: periodicamente il legislatore introduce definizioni agevolate (cosiddetti condoni o rottamazioni). Ad esempio, nel 2023 è stata prevista la definizione agevolata delle liti pendenti (con pagamento ridotto in base al grado di giudizio) e la regolarizzazione delle dichiarazioni omesse 2019-2021 pagando un forfait del 5%. Queste misure variano di anno in anno: quando presenti, possono offrire un’ulteriore via di uscita meno onerosa, ma esulano dalla trattazione generale (vanno valutate caso per caso in base alla norma vigente).
Casi particolari: lavoro nero, doppio lavoro, Certificazioni Uniche false
In questa sezione approfondiamo tre casistiche particolari – esplicitamente richieste – che coinvolgono i redditi di lavoro dipendente e presentano profili peculiari sia dal lato dell’accertamento sia da quello della difesa.
Lavoro “nero” e pagamenti fuori busta
Scenario: Un lavoratore ha prestato attività lavorativa senza regolare contratto o oltre l’orario dichiarato (straordinari in nero, doppio lavoro non dichiarato), ricevendo compensi non dichiarati né assoggettati a ritenuta. Oppure un datore di lavoro ha tenuto un dipendente del tutto “in nero”, pagandolo integralmente fuori busta.
Come interviene il Fisco: Spesso questi casi emergono da verifiche ispettive o da segnalazioni. Come visto, la GdF o l’Agenzia in sede di accesso in azienda scopre il lavoratore in nero e redige un PVC. Oppure, può esserci un incrocio dati: ad es. l’INPS segnala che il soggetto risulta disoccupato ufficialmente ma ha movimenti finanziari anomali o è stato identificato in attività lavorativa. Ancora, un tipico segnale è quando un’azienda deduce costi per lavoro dipendente incongrui rispetto al numero di dipendenti dichiarati: magari in contabilità figurano pagamenti a personale in appalto fittizi, ecc. Il Fisco può ricostruire il numero di dipendenti effettivi incrociando varie fonti (badge, testimonianze dei clienti, perfino social network se i dipendenti postano foto al lavoro). Una volta accertato il fatto, l’Agenzia emette: – un accertamento verso il datore di lavoro, recuperando le ritenute non operate sui compensi in nero (tecnicamente, tassazione come maggior IRPEF a suo carico, spesso qualificata come sanzione civile ma di fatto viene richiesto l’equivalente dell’IRPEF non versata) ; – un eventuale accertamento verso il datore per i maggiori ricavi occulti destinati a finanziare quei pagamenti (in base all’art. 39 DPR 600) ; – un accertamento IRPEF verso il lavoratore, per il reddito percepito e non dichiarato (imponibile pari al netto percepito “lordizzato” ovvero ricostruendo il lordo che avrebbe generato quel netto).
Difesa dal lato del lavoratore: Il lavoratore in nero, se subisce un accertamento IRPEF, potrà raramente contestare di non aver percepito quei compensi, perché spesso l’accertamento si basa su evidenze (es. dichiarazioni rese, movimenti bancari, altri riscontri obiettivi). Può però contestare l’ammontare: a volte il Fisco stima forfettariamente il reddito in nero (es.: “si presume paga oraria X per tot ore”), il contribuente può provare che la paga era più bassa o le ore minori. Può anche eccepire eventuali vizi di procedimento (es. se non gli è stato notificato il PVC per permettergli controdeduzioni). Se il lavoratore dimostra di essere stato vittima di sfruttamento (pagato pochissimo) ciò può ridurre il suo debito d’imposta, ma non lo elimina. È importante sapere che l’IRPEF sui redditi da lavoro dipendente è dovuta anche se il datore ha omesso le ritenute. Non c’è una norma che esenti il percettore: semmai questi può poi rivalersi civilmente sul datore per le maggiori imposte e sanzioni pagate a causa sua, ma intanto il Fisco pretende il dovuto. Tuttavia, spesso l’Agenzia preferisce recuperare dal datore (più solvibile) tramite le ritenute non versate: se ottiene quelle, di fatto evita la doppia imposizione sul lavoratore (che altrimenti potrebbe configurare un’indebita doppia imposizione). In sede di difesa, il lavoratore potrebbe far leva sull’art. 6 co. 2 del D.Lgs. 472/97, che esclude sanzioni al contribuente “sostituito” se il mancato pagamento è dovuto al sostituto d’imposta: la norma tutela il percipiente in buona fede che ha subito la trattenuta. Quindi, se il lavoratore riesce a provare che il datore gli corrispose l’importo al netto come se avesse trattenuto le imposte (magari mostrando che il netto era in linea col netto di altri dipendenti regolari), potrebbe sostenere di non dover pagare sanzioni (né imposta, che dovrebbe recuperarla interamente al datore). Si tratta però di argomentazioni complesse, difficili da far valere senza un supporto normativo chiaro. Sul piano penale, il lavoratore in nero generalmente non rischia (non è reato non dichiarare redditi, salvo soglie alte), mentre il datore rischia sanzioni penali per omesso versamento se superate soglie (150k).
Difesa dal lato del datore di lavoro: L’azienda accusata di lavoro nero potrà difendersi contestando eventualmente la validità delle prove (es. se i lavoratori negano di aver ricevuto compensi, se erano presenti in azienda per altre ragioni, etc.), oppure minimizzando l’impatto (ad esempio sostenendo che quell’aiuto era saltuario – situazioni “episodiche e limitate” che, come visto, in certi casi non legittimano un accertamento globale ). In Cass. 8018/2025 si è ribadito che il lavoro nero occasionale non sempre inficia tutta la contabilità, specie se l’azienda è grande e l’episodio irrilevante . Quindi se l’Ufficio ha agito in modo sproporzionato (es. un cameriere in nero per 2 giorni e l’Agenzia ricostruisce ricavi evasi enormi), quella presunzione può essere demolita come incongrua. Il datore può inoltre utilizzare gli strumenti deflattivi: l’accertamento con adesione in questi casi spesso porta a transigere su un importo ridotto. Può anche portare in deduzione i costi del personale non dichiarato (in sede penale non sono deducibili, ma ai fini amministrativi talora li considerano come minor utile tassabile). La problematica è articolata e spesso necessita di assistenza legale specializzata.
Doppio lavoro e doppia CU (omessa o infedele dichiarazione per cumulo di redditi)
Scenario: Un contribuente percepisce più redditi di lavoro dipendente (o pensione + lavoro, disoccupazione + lavoro, ecc.) nel medesimo anno, da diversi sostituti d’imposta, e non presenta la dichiarazione dei redditi. Oppure presenta la dichiarazione ma dimentica di indicare uno dei redditi (magari perché non ha ricevuto la CU in tempo, o per errore).
Questa è una situazione comunissima, specie quando si cambia lavoro a metà anno o si percepiscono indennità INPS oltre allo stipendio. In tali casi, ciascun datore/appaltatore trattiene l’IRPEF come fosse l’unico reddito, applicando le detrazioni per lavoro dipendente per intero. Al momento di cumulare i redditi, il contribuente scopre di aver goduto due volte delle detrazioni (o di aliquote più basse su ciascun reddito considerato singolarmente rispetto all’aliquota che avrebbe sul totale). Il risultato è che la dichiarazione con due CU risulta spesso a debito: c’è IRPEF aggiuntiva da versare .
Cosa fa il Fisco: Se il contribuente non presenta il 730/Unico obbligatorio in questi casi, l’anomalia emerge dal controllo automatizzato delle CU: l’Agenzia vede due (o più) CU per quell’anno senza dichiarazione e invia intanto la lettera di compliance (“risulta che non hai presentato la dichiarazione per l’anno X, se hai dimenticato fallo ora…”). Se il contribuente non reagisce, l’Agenzia può procedere con un accertamento d’ufficio per omessa dichiarazione in cui calcola l’IRPEF dovuta sul cumulo dei redditi e la richiede, con sanzione piena per omessa dichiarazione (120% dell’imposta, minimo €250) . In pratica, fanno la dichiarazione al posto suo: sommano i redditi delle CU, calcolano le imposte come da legge, sottraggono le ritenute già subite e chiedono la differenza. Alternativamente, talvolta inviano direttamente una comunicazione di irregolarità ex 36-bis: infatti, se il contribuente pur non avendo presentato dichiarazione aveva avuto ritenute insufficienti, c’è un meccanismo (art. 36-bis co.3) che consente di iscrivere la differenza a ruolo come scaturente dal controllo (anche in assenza di dichiarazione). Ma normalmente, l’omessa dichiarazione porta ad un avviso di accertamento parziale basato sulle CU.
Difesa e soluzioni: Il doppio lavoro non dichiarato è in genere frutto di dimenticanza o ignoranza più che di frode (il Fisco conosce già i redditi, quindi non c’è volontà di nascondere, spesso il contribuente pensa erroneamente che le tasse siano già state “sistemate” dai datori). Per questo, quando l’Agenzia segnala il problema, conviene correre ai ripari subito. Se ancora in tempo, si può presentare la dichiarazione omessa entro 90 giorni dalla scadenza (in tal caso è “tardiva ma valida”) pagando la sanzione fissa minima di €25 con ravvedimento . Se sono passati 90 giorni, la dichiarazione è formalmente omessa ma si consiglia di presentarne comunque una “tardiva” perché l’Agenzia la considererà per determinare il dovuto (anche se resta sanzionabile come omessa). Pagare l’IRPEF dovuta con ravvedimento (sanzione omesso versamento 30% ridotta a 1/8, quindi 3.75%) può chiudere la questione prima che arrivi l’atto.
In caso di arrivo dell’avviso bonario o accertamento: verificare se tutti i calcoli sono esatti (spesso lo sono, trattandosi di somme note). Si può valutare l’opportunità di chiedere un’attenuazione delle sanzioni in via di adesione o in contenzioso, facendo leva sulla buona fede. Non è raro che, dati gli importi spesso modesti in gioco, l’ufficio in adesione riduca un po’ la pretesa sanzionatoria, soprattutto se il contribuente nel frattempo ha pagato il tributo. In giudizio, un’eccezione talvolta sollevata è l’incostituzionalità della sanzione fissa minima di €250 per chi non doveva in realtà pagare molto: ad esempio se uno aveva due CU con 100€ di IRPEF da integrare e non ha dichiarato, paga 100€ + 250€ di multa, ossia il 250%. Tuttavia le Commissioni hanno applicato la norma così com’è, quindi la difesa punta più a chiedere la disapplicazione per obiettiva incertezza (non sempre accolta). Da notare che se uno dei due redditi era molto basso e con ritenuta a titolo d’imposta, può darsi che non vi fosse obbligo di cumulo: es. piccoli redditi da collaborazione occasionale sotto €5.000 con ritenuta al 20% a titolo d’imposta. In quel caso, il contribuente potrebbe difendersi dicendo: “Non ho dichiarato quell’importo perché legalmente non obbligato” – e se ha ragione, l’accertamento va annullato limitatamente a quella parte. Oppure, se aveva diritto a oneri deducibili/detraibili che non ha potuto indicare perché non ha fatto la dichiarazione, può sfruttarli ora in sede di adesione o ricorso per abbassare l’imponibile accertato (recenti aperture giurisprudenziali permettono di far valere in contenzioso le deduzioni non esercitate in dichiarazione, se provate).
In sintesi: la strategia consigliata per il contribuente con doppio lavoro è regolarizzare spontaneamente appena possibile, sfruttando il ravvedimento (che su omessa dichiarazione è ammesso entro termini di accertamento) per ridurre molto le sanzioni. Se già c’è un atto, valutare l’adesione per ridurre ad 1/3 la sanzione da omessa (che da 120% potrebbe scendere a 40%). Nel caso in cui la mancata dichiarazione abbia causato perdita di detrazioni o bonus (es. bonus 80€ che andava restituito in parte e poi non si ha più diritto a quello successivo), c’è una tutela: la Cassazione (ord. n. 20465/2025, sez. lavoro) ha stabilito che se il datore commette errori che fanno perdere al dipendente benefici fiscali (ad es. registrare male le ore in busta paga facendogli superare la soglia per il bonus Renzi), il datore è responsabile e deve risarcire il dipendente . Quindi chi dovesse pagare IRPEF aggiuntiva o restituire bonus per errori altrui, potrebbe agire civilmente per il recupero.
Certificazioni Uniche false o errate
Scenario: Può accadere che la Certificazione Unica emessa dal datore di lavoro riporti dati inesatti o addirittura falsi. Esempi: il datore dichiara di averti pagato più di quanto realmente erogato (magari per coprire ammanchi o per gonfiare costi); oppure attesta di averti corrisposto il TFR che invece non ti ha versato, o di averti trattenuto e versato ritenute che non ha realmente versato. In casi peggiori, ci sono frodi in cui soggetti terzi emettono CU false a nome di aziende inesistenti per far risultare redditi fittizi.
Problemi che ne derivano: Dal lato del lavoratore, un errore nella CU può significare una dichiarazione dei redditi sbagliata, il mancato riconoscimento di un credito o, al contrario, l’emersione di un reddito mai percepito. Ad esempio, se la CU riporta €30.000 di reddito ma tu hai ricevuto solo €25.000, in sede di 730 precompilato risulteranno €5.000 in più. Se non te ne accorgi e confermi, pagherai più imposte del dovuto; se te ne accorgi e correggi, potresti ricevere un controllo perché la tua dichiarazione non combacia con la CU del datore. Nel caso di TFR non pagato ma indicato come pagato, potresti perderci fiscalmente (il Fisco potrebbe tassarti il TFR come se l’avessi avuto, e magari far decadere agevolazioni). In generale, una CU falsata può far scattare controlli incrociati: l’Agenzia vede disallineamenti (contributi INPS che non tornano, ecc.) oppure, anni dopo, se quel datore fallisce, può emergere che certi versamenti non c’erano.
Tutele giuridiche: Innanzitutto, la falsità ideologica in certificazioni uniche è un reato. La Corte di Cassazione penale con sent. n. 36773/2023 ha stabilito che il datore di lavoro che attesta il falso nella CU (ad es. dichiara versato un TFR non versato) commette reato di falsità ideologica in atto privato destinato a un pubblico servizio . Anche se la CU non è atto pubblico, incide su atti pubblici (dichiarazione fiscale) e integra il reato. Quindi, un datore che volontariamente fa una CU falsa rischia grosso penalmente (oltre che civilmente). Inoltre, la Cassazione penale n. 5020/2025 ha chiarito che la semplice messa a disposizione della CU nel cassetto fiscale del dipendente equivale a consegna ai fini di configurare il reato di omesso versamento di ritenute: quindi non può più difendersi dicendo “non gliel’ho consegnata” .
Dal lato civilistico, come accennato, la Cassazione lavoro (ord. 20465/2025) ha sancito che il lavoratore ha diritto al risarcimento se perde benefici fiscali a causa di errori del datore nella CU o busta paga . Nel caso concreto, una dipendente aveva perso un bonus fiscale perché la CU sbagliata la poneva sopra soglia di reddito, e la Corte ha confermato che l’azienda deve risarcire il bonus perso, non potendosi imputare alla lavoratrice una colpa nel non aver scoperto subito l’errore . Questo principio tutela il lavoratore: non c’è un obbligo giuridico per il dipendente di verificare l’operato fiscale del datore , e il datore deve correggere gli errori anche a costo di pagare piccole sanzioni (33€ di ravvedimento per CU corretta entro 60gg) , altrimenti risarcisce il danno.
Difesa in sede fiscale: Se il contribuente riscontra un errore nella CU a suo sfavore (es. reddito sovrastimato), la prima cosa è richiedere al datore di lavoro di emettere una CU correttiva (può farlo inviandola all’Agenzia e consegnandola al dipendente, con sanzioni ridotte se entro 60 giorni) . Se il datore si rifiuta o non è più reperibile, il contribuente può comunque presentare la dichiarazione con i dati reali (discordanti dalla CU ufficiale) e inserire una nota spiegando l’inesattezza. In caso di controllo, dovrà esibire prove (buste paga, movimenti bancari) che attestano quanto realmente percepito. L’Agenzia, dal canto suo, potrebbe inizialmente fidarsi della CU ufficiale e contestare la differenza: ecco perché è importante raccogliere documenti. Se il rapporto di lavoro è ancora in essere, potrebbe essere opportuno coinvolgere un avvocato del lavoro o i sindacati per fare pressione sull’azienda affinché sanino la situazione, eventualmente segnalando anche all’INPS e all’Ispettorato del Lavoro l’irregolarità (il che mette il datore di fronte a rischi maggiori).
Nei casi più gravi di CU completamente false (es. persona che scopre di risultare lavoratore di un’azienda fantasma), il contribuente deve immediatamente informare l’Agenzia delle Entrate (e probabilmente sporgere denuncia per furto d’identità o truffa). Il Fisco procederà a verifiche: se davvero la CU è frutto di frode (ad es. usata per permettere a un finto datore di dedurre costi fasulli), verrà annullata e la posizione del contribuente sarà pulita. Può succedere infatti che malintenzionati usino codici fiscali di ignari cittadini come finti dipendenti per coprire evasioni: in tali casi il cittadino potrebbe ricevere un avviso di accertamento per “omessa dichiarazione di redditi” che in realtà non ha mai percepito. La difesa è dimostrare che non esisteva quel rapporto: contratti, buste paga, ecc. Se un CF è stato carpito, il contribuente dovrebbe evidenziare di non aver mai lavorato lì, magari contattando altri dipendenti o il curatore fallimentare se l’azienda è fallita (spesso queste frodi emergono in fallimenti). In commissione tributaria, testimonianze e documenti saranno cruciali per farsi annullare l’atto.
Un caso particolare: datore che attesta ritenute versate maggiori di quelle effettive (magari per far risultare un credito al dipendente e poi sfruttarlo). Se il dipendente presenta il 730 con quel credito, e poi l’Agenzia scopre che il datore non ha versato, il credito viene sospeso: il dipendente non lo riceve finché la cosa non è chiarita. Qui la difesa del dipendente è provare che in busta paga quelle ritenute erano state effettivamente trattenute: a quel punto, secondo giurisprudenza, il Fisco dovrebbe riconoscergli il credito e rivalersi sul datore per il mancato versamento . È una questione di doppio binario: rapporto d’imposta del dipendente si chiude col prelievo subìto, rapporto d’imposta del datore resta aperto per il versamento omesso.
In conclusione, di fronte a CU errate o false, il contribuente deve: 1) attivarsi verso il datore per la correzione, 2) non accettare supinamente la situazione (es. non rinunciare a un rimborso o pagare tasse su redditi non goduti), 3) fornire al Fisco ogni evidenza della verità, 4) eventualmente, tutelarsi legalmente per il risarcimento del danno subito. Fortunatamente, la legge e i giudici riconoscono che la responsabilità in questi casi è del datore di lavoro, non potendo pretendersi che il dipendente faccia da “controllore” del suo sostituto .
Domande frequenti (FAQ) su controlli incrociati e difesa del contribuente
D. Che cos’è un “controllo incrociato” dell’Agenzia delle Entrate?
R. È una verifica fiscale basata sul confronto di dati provenienti da fonti diverse. In pratica l’Agenzia incrocia le informazioni dichiarate dal contribuente con quelle in suo possesso tramite banche dati o comunicazioni di terzi (datori di lavoro, banche, catasto, ecc.) . Se emergono incongruenze – ad esempio redditi non dichiarati rispetto alle Certificazioni Uniche inviate dai datori – scatta una segnalazione o un accertamento. Tali controlli avvengono in modo automatizzato dai sistemi informatici (es. SERPICO incrocia milioni di dichiarazioni e CU in pochi secondi ) oppure tramite analisi mirata da parte dei funzionari. L’obiettivo è scoprire omissioni o evasioni “incrociando” le informazioni disponibili . Non c’è scampo: oggi quasi ogni dato fiscale è collegato in rete, “non esiste contribuente che si salvi” da questi incroci .
D. Quali dati utilizza il Fisco per controllare i redditi di lavoro dipendente?
R. Principalmente:
– Le Certificazioni Uniche (CU) inviate dai tuoi datori di lavoro o enti pensionistici, che indicano i redditi che hai percepito e le imposte già trattenute .
– La tua dichiarazione dei redditi (730 o Redditi PF), se l’hai presentata, con l’elenco dei redditi e oneri.
– I dati sui versamenti F24 fatti dal datore per le ritenute (cosiddetto mod. 770).
– L’Anagrafe Tributaria e l’Archivio rapporti finanziari: contengono informazioni sui tuoi conti correnti, investimenti, beni immobili e mobili registrati, spese rilevanti (es. ristrutturazioni edilizie) .
– Le banche dati esterne: es. INPS (contributi versati, periodi di lavoro dichiarati), Motorizzazione (veicoli intestati), catasto (case intestate), e così via .
In pratica, se hai uno stipendio, l’Agenzia già lo sa dal datore; se hai due stipendi, lo sa da entrambi; se hai comprato casa o aperto un mutuo, vede anche quello. Incrociando tutto, può ricostruire il tuo profilo fiscale e capire se ciò che hai dichiarato è coerente. Ad esempio, verifica se hai presentato la dichiarazione quando eri obbligato (in presenza di più CU) , se hai chiesto detrazioni spettanti in base al tuo reddito, se le imposte che hai pagato tramite ritenuta sono corrette. Di recente vengono analizzati anche elementi nuovi come i social network (es. se su Facebook ostenti lussi incongruenti col tuo reddito) e persino i dati sulle criptovalute (dal 2025 gli exchange comunicano saldi e movimenti, equiparati a valute estere) . Naturalmente questi ultimi sono usati soprattutto per redditi d’impresa o capitali esteri, ma fanno parte del quadro.
D. Cosa succede se ho cambiato lavoro e ho due (o più) Certificazioni Uniche nello stesso anno?
R. Se hai percepito più di un reddito da lavoro dipendente nello stesso anno, sei tenuto (salvo poche eccezioni) a presentare la dichiarazione dei redditi per cumularli. Il caso tipico è il cambio di azienda a metà anno o la somma di stipendio e disoccupazione/pensione. In assenza di dichiarazione, con molta probabilità risulterà IRPEF a debito, perché le imposte trattenute dai singoli datori potrebbero non coprire il dovuto sul reddito totale . L’Agenzia incrocia automaticamente le CU: se vede due CU e nessun 730, inizierà la procedura di controllo. Prima manda una lettera di compliance (invito bonario a presentare la dichiarazione) ; se non reagisci, può emettere un accertamento per omessa dichiarazione, chiedendo l’imposta mancante, interessi e una sanzione (minimo €250) . Se invece presenti il 730, avrai direttamente il conguaglio: spesso dal 730 risulta un debito d’imposta da versare perché hai goduto due volte di aliquote basse e detrazioni. In sintesi: con doppio (o triplo) lavoro devi sempre controllare se c’è obbligo di dichiarazione. Come evitar problemi? Presentando la dichiarazione l’anno stesso (o ravvedendoti appena possibile) e versando il dovuto. Se l’hai mancata, rispondi alla eventuale lettera di compliance. Nel caso tu ritenga di non dover dichiarare (ci sono eccezioni, es. se uno dei redditi era già tassato a forfait, oppure se il secondo reddito è piccolissimo <€500 e con imposta già a zero), preparati comunque a spiegarlo all’Agenzia perché il controllo scatterà ugualmente (le procedure automatiche non “sanno” delle eccezioni, segnalano e basta).
D. Ho ricevuto una lettera dall’Agenzia che dice “Gentile contribuente, abbiamo rilevato possibili errori…”, è una multa? Cosa devo fare?
R. È la cosiddetta lettera di compliance, non è una multa né un accertamento. Significa che i sistemi del Fisco hanno notato qualcosa di anomalo nella tua posizione fiscale e ti avvisano, dandoti la possibilità di verificare e, se necessario, correggere. Ad esempio, potresti aver dimenticato di dichiarare un reddito, oppure risultano spese mediche detraibili non inserite, o ancora non hai presentato il 730 pur avendo due CU. La lettera non quantifica alcuna somma da pagare , ma elenca l’anomalia e ti invita a controllare. Cosa fare: analizza il caso: se effettivamente hai commesso un errore (es. omesso una CU, dimenticato un affitto, etc.), puoi rimediare con una dichiarazione integrativa e il ravvedimento operoso (pagando le imposte dovute con sanzioni ridotte) . Se invece ritieni che l’Agenzia sbagli (può accadere per dati incompleti o riferiti erroneamente a te), contatta l’ufficio o il tuo intermediario fiscale per fornire spiegazioni. In ogni caso non ignorare la lettera: è un “alert” che ti permette di sistemare le cose prima che scattino sanzioni vere . Non sei formalmente obbligato a rispondere (la lettera non impone termini perentori ), ma se non fai nulla, l’Agenzia potrebbe procedere con un accertamento vero e proprio più avanti. Quindi conviene sfruttare l’opportunità. Se hai dubbi su come procedere (per es. calcolare il ravvedimento), rivolgiti a un CAF o a un professionista.
D. La lettera di compliance indica un possibile errore, ma io credo di avere ragione. Posso contestare subito la lettera?
R. Non esiste un “ricorso” contro la lettera di compliance, perché non è un atto sanzionatorio o impositivo . Tuttavia, puoi certamente comunicare le tue ragioni all’Agenzia. Il modo migliore è tramite il canale indicato nella lettera stessa: spesso invitano ad accedere al portale “l’Agenzia ti scrive” nel tuo cassetto fiscale, dove puoi vedere i dettagli dell’anomalia e inviare un messaggio o documenti. In alternativa puoi scrivere una PEC all’ufficio competente o recarti di persona. Ad esempio, se la lettera dice “Non hai dichiarato redditi per 10.000 € da datore X” ma tu hai un documento che prova che quel reddito era esente (poniamo, una borsa di studio non tassabile), invialo all’Agenzia spiegando la situazione. L’obiettivo è evitare che emettano poi un atto formale basato su dati sbagliati. Se riesci a convincerli, probabilmente archivieranno l’anomalia. Se invece non ti danno ascolto e successivamente arriva un avviso di accertamento, potrai impugnare quell’atto e far valere in giudizio le tue ragioni, compresa la documentazione già prodotta. In sintesi: la lettera in sé non puoi “impugnarla”, ma puoi (e dovresti) interagire con l’Agenzia per chiarire. Questo dialogo preventivo è proprio lo scopo della compliance: evitare il contenzioso fornendo al contribuente la chance di spiegare eventuali malintesi .
D. Ho ricevuto una comunicazione di irregolarità (avviso bonario) che mi chiede di pagare una certa somma. Posso rateizzare? Cosa succede se non pago entro 30 giorni?
R. La comunicazione di irregolarità ti propone di versare una somma dovuta a seguito di controlli automatizzati/formali, con sanzioni ridotte (di solito al 10% o 20%). Entro 30 giorni hai due scelte: pagare (in un’unica soluzione, perché in questa fase l’Agenzia non concede rate) oppure segnalare errori. Se paghi entro 30 giorni, beneficerai della sanzione ridotta e il procedimento si chiude lì, senza ulteriori conseguenze. Se non paghi né contesti, dopo il 30° giorno l’importo viene iscritto a ruolo e ti sarà notificata una cartella di pagamento (dall’Agente della Riscossione) con le sanzioni intere (30%) . A quel punto puoi chiedere la rateizzazione della cartella (di solito fino a 72 rate mensili se ne hai i requisiti). Attenzione: se ritieni che la comunicazione sia sbagliata, puoi evitare di pagare e aspettare la cartella per fare ricorso, ma rischi di perdere il beneficio della sanzione ridotta. Meglio ancora, entro i 30 giorni, contatta l’ufficio: se c’è un errore di calcolo o un dato sbagliato, l’Agenzia può annullare o rettificare l’avviso bonario (in autotutela) evitando la cartella. Alcune volte concedono anche una proroga breve dei 30 giorni se hai presentato documenti e sono in attesa di esaminarli (ma non è un diritto sancito, è a discrezione dell’ufficio). Riassumendo: entro i 30 giorni paga se sei convinto (così risparmi sulle sanzioni); se non sei convinto, segnala subito e preparati eventualmente al ricorso contro la cartella successiva. La rateizzazione anticipata dell’avviso bonario purtroppo non è prevista, però se paghi almeno una parte potrai ridurre l’importo in cartella. Ad esempio, puoi pagare la quota imposte e chiedere magari sgravio delle sanzioni se c’è un errore: la cartella eventualmente rifletterà solo la parte contestata. In ogni caso, ignorarla completamente è sconsigliabile perché porta alla cartella e all’aumento della sanzione al 30%.
D. Cos’è l’accertamento con adesione e mi conviene aderire oppure fare ricorso?
R. L’accertamento con adesione è una procedura facoltativa che ti permette di negoziare con l’Agenzia delle Entrate il contenuto di un avviso di accertamento prima di andare in giudizio . Presentando istanza di adesione (entro 60 gg dalla notifica dell’avviso), ottieni un incontro con l’ufficio durante il quale puoi esporre le tue ragioni, presentare nuovi documenti e cercare un compromesso. Se si raggiunge un accordo, si firma un atto di adesione in cui spesso l’imponibile viene leggermente rivisto a tuo favore e soprattutto le sanzioni sono ridotte ad 1/3 di quelle base . Ad esempio, se ti contestavano €10.000 di imposte evase con sanzione al 100% (€10.000), in adesione la sanzione diventa ~33%. In più puoi rateizzare il dovuto fino a 8 rate trimestrali.
Ti conviene aderire? Dipende: se il caso è limite e pensi di avere alta probabilità di vincere in giudizio (o se vuoi semplicemente giocarti le tue carte in tribunale), potresti rinunciare all’adesione. Però considera i vantaggi: l’adesione evita le spese di giudizio, riduce subito le sanzioni e chiude la vicenda rapidamente e con certezza. Spesso conviene aderire se l’Agenzia mostra apertura a riconoscere alcuni tuoi punti. Puoi anche presentare l’istanza di adesione per prendere tempo (sospende i termini di ricorso di 90 giorni) e durante il contraddittorio valutare cosa offrono. Se non ti soddisfa, sei libero di non firmare e fare ricorso; nulla di ciò che hai discusso potrà esserti pregiudizievole nel processo (le trattative sono riservate).
In sintesi, l’adesione è una transazione fiscale: conviene quando la pretesa dell’Ufficio non è del tutto infondata e vuoi ridurre i danni. Esempio: ti contestano €50k redditi non dichiarati; tu sostieni fossero solo 30k. In adesione potreste accordarvi per tassarne, poniamo, 35k con sanzione ridotta. Se invece il fisco sbaglia proprio soggetto o calcolo (errori macroscopici), a volte l’ufficio in adesione annulla, ma altre volte se non c’è accordo dovrai far valere le tue ragioni in ricorso. Valuta anche l’aspetto economico: il ricorso ha costi (tributo unificato, eventualmente avvocato) e tempi lunghi; l’adesione no (paghi solo quanto concordato). In ogni caso, se hai dubbi, presenta comunque l’istanza di adesione: guadagni 3 mesi e puoi sempre decidere dopo.
D. Durante un controllo, su chi ricade l’onere della prova? Devo essere io a dimostrare qualcosa o il Fisco?
R. In generale, in materia di accertamento tributario vige il principio che il Fisco deve provare i fatti costitutivi della pretesa tributaria; tuttavia, molte volte la legge o la giurisprudenza prevedono presunzioni che spostano l’onere sul contribuente. Ad esempio: se l’Agenzia trova versamenti sul tuo conto non giustificati, per legge può presumere che siano redditi evasi . A quel punto tocca a te provare che non lo sono (ad es. che erano trasferimenti da un tuo altro conto, o un regalo esente) . Similmente, se scoprono un lavoratore in nero in azienda, presumono ricavi non dichiarati: sarà il contribuente a dover provare che non vi furono ricavi extra o che quel lavoratore non incideva sui ricavi .
Viceversa, in situazioni semplici (es. ti contestano di non aver dichiarato una CU), il Fisco ha già la prova (la CU stessa). Se tu neghi, dovresti dimostrare che la CU è sbagliata. In tribunale tributario, il giudice forma il suo convincimento secondo il principio del “più probabile che non” e valuta le prove offerte da ambo le parti. Quindi, pragmaticamente, se hai elementi a tuo favore portali sempre: documenti, testimoni (per iscritto, visto che la testimonianza orale è vietata in Commissione tributaria), perizie. Ad esempio, per contestare un redditometro, puoi portare estratti conto di anni precedenti a mostrare che avevi risparmi, quindi le spese le hai fatte attingendo a quelli. Oppure, se ti imputano redditi da lavoro dipendente in nero per €20k, puoi mostrare che in realtà erano €10k e magari depositare le buste paga “in nero” firmate (capita che i lavoratori si facciano firmare ricevute).
In sintesi: in presenza di presunzioni legali relative, l’onere probatorio è tuo (il Fisco parte avvantaggiato dalla presunzione); in assenza, spetta al Fisco. Comunque in un contenzioso serio conviene sempre non restare passivi: più prove porti a tuo favore, più chance hai che il giudice ti dia ragione o almeno riduca la pretesa.
D. La Guardia di Finanza può aprire un’indagine fiscale su di me senza avvisarmi? Possono controllare i miei conti correnti?
R. Sì, nell’ambito dei controlli incrociati e delle indagini finanziarie la Guardia di Finanza (delegata dall’Agenzia o dalla Procura se c’è reato) ha poteri molto estesi. Può avviare verifiche anche a sorpresa (accessi in azienda, perquisizioni, etc.) , e può ottenere dai tuoi istituti di credito tutti i movimenti e saldi dei tuoi rapporti finanziari, senza bisogno del tuo consenso (basta un’autorizzazione interna, non serve avvisarti prima) . Dal 2005 in poi ogni richiesta di conto corrente fatta dal Fisco alle banche non è più notificata al contribuente, avviene tramite flussi telematici. Quindi sì, possono controllare conti, depositi, titoli, assicurazioni finanziarie e ora anche conti esteri tramite scambio di informazioni , il tutto senza dirtelo prima. Lo scoprirai eventualmente quando ti chiederanno conto di certi movimenti. Ovviamente questi poteri devono essere utilizzati in modo legittimo (devono esserci indizi che giustifichino l’indagine finanziaria) ma in pratica l’attenuazione del segreto bancario fiscale è tale che l’Agenzia può analizzare i nostri conti quasi di routine. Anche l’Agenzia delle Entrate, senza passare per la GdF, ha un accesso massivo ai dati sintetici dei conti (saldo a inizio e fine anno, totale movimenti) tramite l’Archivio dei rapporti finanziari . Questo cosiddetto “risparmiometro” serve per profilare il rischio evasione: se riscontri incongruenze enormi (tipo versamenti per 100mila euro a fronte di dichiarazione da 20mila), può far scattare accertamenti. In conclusione, sì: il Fisco può spiarti finanziariamente. Quanto all’avviso: se parliamo di verifica in azienda, in genere all’inizio del controllo ti rilasciano un ordine di accesso o verba d’inizio verifica (quindi lo sai quando arrivano in ufficio). Se parliamo di indagini a tavolino e controlli incrociati, tu lo sai solo quando ti chiedono chiarimenti o ti notificano un atto. Diritto vuole che ti informino al momento opportuno (es. contraddittorio per redditometro). Ma non c’è obbligo di preavviso “stiamo per guardare i suoi conti”.
D. Se il mio datore di lavoro non mi ha versato le ritenute IRPEF (pur avendomele trattenute dallo stipendio), l’Agenzia può chiedere il pagamento a me?
R. In linea di principio, no, non dovresti pagare due volte. La legge (art. 64 DPR 600/73) dice che il datore di lavoro è responsabile d’imposta per le somme che trattiene al dipendente. Inoltre, la Cassazione ha affermato che il dipendente ha diritto al credito d’imposta per le ritenute subite in busta paga, anche se il datore poi non le ha versate al Fisco . Quindi, se a te in busta paga hanno trattenuto 200 € di IRPEF ogni mese, tu quei soldi li hai di fatto già pagati al Fisco (attraverso il sostituto) e non devi ripagarli. Purtroppo, operativamente cosa succede? Succede che se il datore non versa, l’Agenzia se ne accorge (perché dal mod. 770 risultano versamenti mancanti) e spesso contesta al dipendente il mancato versamento, negandogli per esempio il rimborso o credito risultante dal 730. In tal caso, tu devi dimostrare di aver subìto la ritenuta: esibisci le buste paga, la CU dove risulta la trattenuta, e fai presente che per legge quell’imposta è assolta. L’Agenzia a volte insiste (non vuole “regalare” il credito finché non incassa dal datore), ma la giurisprudenza ti è favorevole. In Commissione Tributaria normalmente queste contestazioni vengono risolte a vantaggio del dipendente, riconoscendo il credito e semmai sollecitando il Fisco a perseguire il datore. Nota: se il datore non ti ha proprio trattenuto nulla (pagandoti tutto in nero), allora è diverso: lì sei tu che non hai versato nulla e il Fisco può legittimamente chiedere a te l’IRPEF su quel reddito. Ma se ti hanno pagato “netto” come se le tasse fossero pagate, tu sei in buona fede e hai diritto di non essere ulteriormente gravato. Infatti, il D.Lgs. 74/2000 punisce penalmente il datore (sostituto) per omesso versamento >150k, mentre non prevede nulla contro il dipendente, a riprova che la colpa è del sostituto. Quindi, in sintesi: in teoria l’Agenzia non dovrebbe chiederti nulla se hai prove delle ritenute; in pratica a volte lo fa, e tu devi difenderti facendo valere i tuoi diritti (anche ricorrendo al giudice se serve, che di norma ti darà ragione ). Un consiglio: se noti che il datore non versa (ad es. ricevi avvisi di questo tipo), tutelati subito: sollecita, mettilo in mora, perché in caso di insolvenza poi recuperare quei soldi dal datore può essere difficile.
D. Ho lavorato in nero. Devo dichiarare quei redditi? E cosa rischio se non l’ho fatto e mi beccano?
R. Sì, legalmente sei tenuto a dichiarare anche i redditi da lavoro dipendente non risultanti da CU (perché comunque sono redditi imponibili IRPEF). Se non lo fai e vieni scoperto, le conseguenze sono: dovrai pagare l’IRPEF evasa, le relative sanzioni amministrative (90-180% se avevi presentato una dichiarazione omettendo quel reddito, oppure 120-240% se non hai proprio presentato dichiarazione) , più interessi. Potresti anche perdere benefici collegati al reddito (ad es. detrazioni per reddito basso, esenzioni ticket, ecc. ottenute dichiarandoti disoccupato). Penalmente, il lavoratore in nero di solito non supera le soglie di punibilità (50k € di imposta evasa) a meno che i compensi fossero altissimi, quindi difficilmente incorre in reati tributari; ma non è escluso in casi eccezionali. Chi invece rischia subito sul penale è il datore, specie se i lavoratori in nero sono più d’uno e gli importi notevoli (reato di omesso versamento di ritenute, se avrebbe dovuto trattenerle e versarle, oltre al reato eventualmente di occultamento di scritture). Dal lato tuo, il rischio concreto è un accertamento sintetico: se per il Fisco risultavi senza reddito ma hai speso o versato soldi (magari perché li hai guadagnati in nero), possono ricostruire sinteticamente il reddito. Ad esempio, reddito zero ma hai mantenuto la famiglia e pagato affitto: da dove venivano i soldi? Classico caso da redditometro.
Se hai lavorato in nero e vuoi regolarizzare, puoi farlo presentando una dichiarazione integrativa spontanea: pagherai il dovuto col ravvedimento (sanzioni ridotte) e almeno ti metti in regola. Se ti hanno già scoperto (es. ti hanno fatto un verbale in azienda), valuta l’adesione quando arriverà l’accertamento: come lavoratore, magari l’imposta sarà calcolata su un importo che puoi ridurre portando qualche giustificazione (es. che in quei mesi hai percepito meno di quanto presumono).
Importante: Il lavoratore in nero ha comunque alcuni diritti: se il rapporto viene accertato dall’Ispettorato, può pretendere contributi previdenziali, ecc. Ma dal fisco non c’è “premio” per essersi autodenunciato. Solo se il datore ti fa causa dicendo che gli hai causato danni fiscali, potresti avere ripercussioni, ma è raro (e in genere il lavoratore viene considerato parte debole). In sostanza, rischi economicamente di dover pagare le tasse arretrate + multa, come qualsiasi evasore. Meglio non evadere, insomma, anche perché come abbiamo visto il Fisco ha molti modi per intercettare anche questi redditi (basti pensare ai controlli incrociati tra le spese sul conto e il reddito dichiarato).
D. Hanno trovato un lavoratore in nero nella mia azienda: l’Agenzia sostiene che allora ho ricavi non dichiarati. Ma non è detto, può essere che lo pagassi con i soldi già tassati. Possono accusarmi lo stesso?
R. Possono, e come. La scoperta di lavoratori in nero è considerata un indizio serio di contabilità parallela non ufficiale . Secondo la Cassazione, anche un solo lavoratore irregolare, se stabilmente impiegato, presume che tu abbia lavoro (e dunque ricavi) nascosti per finanziarne lo stipendio . È una presunzione iuris tantum: tu puoi vincerla dimostrando che magari hai pagato quel lavoratore con risparmi personali su cui avevi già pagato tasse (ad es. avevi utili accumulati non distribuiti, o un finanziamento soci) . Se riesci a provare che i soldi avevano origine lecita e già tassata, allora la presunzione cade. Infatti, come dici tu, non è detto matematicamente che lavoro nero = ricavi in nero, ma è ciò che il fisco presume di default. Starà a te convincerli (prima l’ufficio, poi eventualmente i giudici) che in quel caso specifico il lavoro nero non generava un’ulteriore evasione sui ricavi. Nota però: se parliamo di dipendente in un’attività commerciale, in genere si considera che se ti serviva quel dipendente, avevi vendite che lo giustificano. In casi di lavoro nero “episodico” (tipo ti hanno beccato un giorno un extra aiuto), potresti farla passare come una circostanza isolata che non inficia tutto . Cassazione ha detto che per ritenere inattendibile tutta la contabilità occorre che la violazione non sia episodica e limitata . Quindi difenditi su quello: se era davvero un caso minimo, evidenzia la proporzione (es. un solo lavoratore per 5 giorni su 365). Se però era a tempo pieno e magari più di uno, la presunzione regge e difficilmente verrà esclusa. In tal caso, punta magari a quantificare al minimo i ricavi evasi (es. se il lavoratore in nero ha prodotto 10k di costo, l’ufficio magari presume altrettanto di ricavi: se riesci a provare che il margine nel tuo settore è basso, potresti dire che quei 10k di costo hanno generato solo, poniamo, 5k di utile in più, non 10k. Dipende dal ragionamento). In conclusione: sì, possono accusarti, ma hai spazio per difenderti mostrando che l’apporto del lavoratore nero non implicava vendite aggiuntive o era finanziato da fondi leciti pregressi. La riuscita dipende dalle prove che porti.
D. Se c’è un errore nella Certificazione Unica del mio datore di lavoro (es. importo sbagliato), come posso tutelarmi?
R. Devi agire su due fronti: verso il datore e verso il Fisco. Al datore, chiedi immediatamente la correzione: la legge gli consente di inviare una Certificazione Unica rettificativa (entro 60 giorni senza sanzioni, oppure anche dopo con sanzione di €100) . Molti errori sono in buona fede (es. doppio invio). Se il datore collabora, il problema si risolve: l’Agenzia riceverà la CU corretta e tu farai la dichiarazione con quella. Se il datore non collabora o è irreperibile (fallito, ecc.), allora tu nella dichiarazione indica i dati giusti (quelli che realmente hai incassato) e possibilmente allega una nota o fai scrivere al CAF di annotare l’anomalia. Conserva tutte le prove: buste paga, bonifici dello stipendio, ecc. Così, se il Fisco ti contesta “hai dichiarato meno della CU”, potrai dimostrare che la CU era sbagliata. L’ordinanza Cass. 20465/2025 ha chiarito che il lavoratore non ha colpa se si accorge tardi degli errori del datore , quindi figurati se non se ne accorge proprio: la colpa è del datore. In sede fiscale ciò significa che tu non subisci sanzioni per quell’eventuale discordanza in buona fede. Ovviamente dovrai magari chiarire la questione, ma non venire sanzionato. Se dall’errore ci hai rimesso (come il caso della lavoratrice che ha perso il bonus in Cassazione ), hai diritto al risarcimento: quindi eventualmente fai causa al datore per il danno economico (meglio se prima lo metti in mora formalmente). Un errore comune è il datore che dimentica di inviarti la CU: ricorda che hai comunque diritto ad averla (entro il 16 marzo, e se cessa il rapporto prima, entro 12 giorni su richiesta ). Se non te la danno, puoi segnalare all’Agenzia e intanto usare le buste paga per fare il 730.
Riassumendo, tutela: 1) scrivi subito al datore (raccomandata/PEC) evidenziando l’errore e chiedendo rettifica; 2) se fai la dichiarazione, usa i dati corretti e preparati a spiegare al Fisco; 3) se ti arriva un controllo, rispondi con tutti i documenti che provano l’errore della CU; 4) se ci sono conseguenze (più tasse o meno rimborsi), valuta azione legale contro il datore. Nel caso di CU falsificata (tipo datore disonesto che dichiara TFR pagato quando non è vero), oltre a quanto detto, sappi che è un reato: potresti anche denunciarlo alle autorità (ma di solito conviene farlo solo se c’è un contenzioso più ampio col datore, ad esempio in cause di lavoro). Fortunatamente, i sistemi di controllo incrociato incrociano anche dati contributivi: se in CU c’è TFR pagato, l’INPS dovrebbe avere il versamento del contributo 0,5%. Se non c’è, scatta anomalia. Dunque l’Agenzia potrebbe d’ufficio scoprire la menzogna e allora tu sarai dalla parte della ragione e il datore nei guai. In definitiva: non sei indifeso, ma devi attivarti tu per far valere l’errore, perché il Fisco inizialmente si fida dei dati ufficiali del sostituto d’imposta.
D. Quali sono le sanzioni se il Fisco accerta che non ho dichiarato redditi di lavoro dipendente?
R. Le sanzioni amministrative dipendono da come viene qualificata la violazione:
– Dichiarazione infedele (omissione di redditi in una dichiarazione presentata): sanzione dal 90% al 180% dell’imposta evasa . Esempio: dovevi 2.000 € in più, multa base 1.800 € (90%). Aumenta se ci sono aggravanti (es. uso di documenti falsi); riduce a 1/3 se definisci in adesione.
– Omessa dichiarazione (non presentata proprio la dichiarazione quando obbligatoria): sanzione dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con minimo €250 anche se non c’è imposta . Esempio: avevi due CUD e dovevi 500 € di IRPEF in più, multa 250 € (minimo, perché 120% di 500 € è 600 € ma si applica il minore fra 600 e 250? In realtà no, scatta il minimo di 250 comunque). Se c’era imposta a credito, formalmente sarebbe omessa uguale ma con sanzione fissa €250 riducibile a €50 con ravvedimento entro l’anno (fattispecie un po’ paradossale ma la norma è così). Anche qui, in adesione sconto a 1/3. Nota: se presenti la dichiarazione entro 90 giorni dal termine, è “tardiva” e non omessa, sanzione fissa €250 ridotta a €25 con ravvedimento entro 90 gg .
– Omesso versamento di imposta dovuta (caso: hai fatto il 730 ma non hai pagato la differenza): sanzione 30% dell’importo non versato. Se paghi con ravvedimento entro 90 gg la riduci a 1/9 (3,33% al mese circa).
Queste sono le sanzioni tributarie. Poi ci sono quelle penali: il reato di dichiarazione infedele scatta se l’imposta evasa > €100.000 e l’importo non dichiarato > 2 milioni (non succede quasi mai col solo stipendio); il reato di omessa dichiarazione scatta se imposta evasa > €50.000 . Quindi solo in situazioni estreme (lavoro nero pluriennale con stipendi altissimi) un lavoratore dipendente incorre nel penale per conto suo. Invece per il datore le soglie di punibilità di reati come l’omesso versamento ritenute sono più facilmente superabili se ha tanti dipendenti.
Infine, sanzioni accessorie: se evadi tanto, potresti perdere il rimborso di alcune spese (ad esempio ti contestano detrazioni indebite e non puoi più fruirne). Ma direi che la botta principale sono quelle percentuali. Fortunatamente se sistemi col ravvedimento operoso o avvisi bonari, paghi sanzioni molto ridotte (dal 3% al 20% a seconda dei casi e tempi).
In caso di contenzioso, talvolta le sanzioni possono essere annullate se dimostri di aver agito per “causa di forza maggiore” o in buona fede senza colpa (concetto di errore scusabile). Ad esempio, se non hai dichiarato un reddito perché il CAF ti ha dato un consiglio sbagliato, potresti ottenere l’annullamento delle sanzioni per errore del terzo. Ma sono valutazioni caso per caso dei giudici.
D. Il Fisco può controllare quanti soldi prelevo o verso dal conto? Anche i contanti?
R. Sì. I controlli bancari sono un’arma classica. L’Agenzia delle Entrate può chiedere l’estratto conto completo e lì vede prelievi e versamenti. Per legge: i versamenti su conto non giustificati si presumono redditi (per tutti i contribuenti); i prelevamenti non giustificati si presumono acquisti in nero solo per gli imprenditori (non per i privati dal 2014, grazie a una sentenza della Consulta). Quindi se sei un dipendente senza partita IVA, non devono contestarti i prelievi (es. se prelevi 1.000 € in contanti non possono dire “li hai spesi in nero dunque avevi redditi in nero”, questo vale per le imprese). Però i versamenti sì: se metti sul conto dei contanti o assegni e non è chiaro da dove vengano, possono chiedertelo e se non sai provare l’origine, li tassano come reddito sconosciuto . Tieni traccia di doni, prestiti, vendite di beni usati ecc., perché a distanza di anni potrebbero chiederti conto. Anche movimenti tra tuoi conti: se sposti 5000 € dal conto A a B, spiegalo se te lo chiedono (a volte lo scambiano per entrata nuova, ma se dimostri che è “intercircuito” tuo, lo tolgono).
Quanto al contante fuori dal circuito bancario: se lo spendi, l’Agenzia può vederne gli effetti (es: compri un’auto in contanti, loro vedono l’acquisto al PRA e si chiedono con quali redditi l’hai fatto). O se lo depositi poi in banca, si torna al discorso di prima (versamenti). Diciamo che se hai fatto molti prelievi di contanti e poi li hai usati per spese non tracciate, col redditometro potrebbero incastrarti sulle spese (tipo “hai speso per vacanze X in contanti, ma da dove venivano i soldi se hai reddito basso?”). Lì devi far vedere che provenivano da prelievi di soldi che avevi guadagnato regolarmente in passato (risparmi).
In sintesi: i movimenti sul conto li vedono tutti; i movimenti in contanti possono dedurli guardando cosa compri. La difesa è avere sempre una pezza giustificativa: se ricevi 10k in contanti dal parente, fai scrittura privata di donazione; se vendi la moto e ti danno cash, fai una ricevuta di vendita. Così, se mai ti contesteranno, tiri fuori le prove e chiudi la questione.
D. In conclusione, se subisco un controllo incrociato e ho ragione, come mi difendo? E se ho torto, come minimizzo i danni?
R. Se il Fisco ti contesta qualcosa che ritieni errato o illegittimo, la difesa passa per:
1. Dialogo con l’ufficio: fornisci subito le prove contrarie (documenti, spiegazioni). Molte controversie si risolvono a questo stadio con l’archiviazione o la rettifica in autotutela .
2. Strumenti deflattivi: se emettono un atto bonario/accertamento e sei ancora in disaccordo, usa adesione o mediazione per proporre le tue ragioni. Magari l’ufficio si convince a lasciar perdere o a ridurre (succede se hai argomenti validi).
3. Ricorso: presenta ricorso al giudice tributario entro i termini, argomentando in fatto e diritto la tua innocenza. Porta tutta la documentazione e cita leggi e sentenze a supporto. Se hai ragione sostanziale, hai ottime chance di vincere (statistiche: oltre 30% dei ricorsi dei contribuenti viene accolto totalmente o parzialmente). Nel frattempo puoi chiedere sospensione per non pagare subito.
4. Appello e Cassazione: se in primo grado ti va male ma sei convinto, prosegui nei gradi successivi (valuta costi/benefici però).
Se invece sai di essere nel torto (ad esempio hai effettivamente omesso redditi), il consiglio migliore è:
– Regolarizza il prima possibile: il ravvedimento operoso ti salva da sanzioni pesanti (arrivi a pagare anche solo 1/10 della multa) e spesso evita l’accertamento .
– Se il controllo è già in corso o concluso: valuta l’accertamento con adesione. Potrai ottenere sanzioni ridotte e magari uno “sconto” sul quantum, evitando anche il rischio di costi maggiori in causa.
– Chiedi eventualmente la rateazione per diluire l’esborso se è grosso (l’Agenzia concede fino a 8 rate in adesione, l’Agente Riscossione fino a 72 in cartella).
– Non ostacolare inutilmente: se sai di avere torto marcio e vai in giudizio solo per rinviare, sappi che maturano interessi (oggi circa 3.5%) e potresti dover pagare le spese legali all’erario. In alcuni casi però può valere tentare un ricorso per puntare a una conciliazione in corso di causa (lo sconto sanzioni sale al 40% in conciliazione) o a una definizione agevolata se il legislatore ne offre (ad es. “saldo e stralcio”, ecc.).
In altre parole: colpevole o innocente, la cosa peggiore è ignorare il problema. Meglio affrontarlo, con le vie consentite: collaborazione se hai sbagliato, fermezza se hai ragione. Questa guida, con fonti normative e giurisprudenziali aggiornate, spero ti abbia fornito gli strumenti per capire da che parte stai e come muoverti di conseguenza.
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Fonti e riferimenti: Le informazioni fornite in questa guida si basano sulla normativa italiana vigente (DPR 600/1973, DPR 633/1972, D.Lgs. 74/2000, Statuto del Contribuente L.212/2000, etc.) e sulle più recenti interpretazioni giurisprudenziali e di prassi. Di particolare rilievo:
– Agenzia Entrate – Provvedimenti e guide ufficiali: sito dell’Agenzia, sezioni su [Controlli automatizzati e formali] e documenti sulla compliance (fac-simile lettere) .
– Cassazione civile, sez. trib., ord. n. 8018/2025: limite dell’utilizzo del lavoro nero come presunzione di ricavi .
– Cassazione civile, sez. trib., ord. n. 19622/2025: un solo lavoratore in nero può legittimare accertamento induttivo .
– Cassazione lavoro, ord. n. 20465/2025: responsabilità del datore per errori in busta paga/CU, nessun concorso di colpa del dipendente .
– Cassazione penale, sez. V, sent. n. 36773/2023: falsa attestazione in CU (TFR non pagato) è reato di falso ideologico .
– Cassazione penale, sez. III, sent. n. 5020/2025: consegna telematica CU nel cassetto fiscale equivale a rilascio ai fini del reato di omesso versamento ritenute .
– Circolari e risoluzioni Agenzia Entrate: es. circ. 16/E/2016 sul ravvedimento operoso, circ. 1/2018 sulla compliance.
– Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 8018 depositata il 26 marzo 2025 – La presenza di lavoratori “in nero” non è sempre e comunque idonea a far presumere l’inattendibilità della contabilità, specie quando si tratti di situazioni episodiche e limitate.
Hai ricevuto una comunicazione o un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché dai controlli incrociati emergono differenze nei tuoi redditi da lavoro dipendente? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto una comunicazione o un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché dai controlli incrociati emergono differenze nei tuoi redditi da lavoro dipendente?
Vuoi sapere quali sono i rischi e come puoi difenderti?
L’Agenzia delle Entrate effettua regolarmente controlli incrociati tra i dati dichiarati dal contribuente e quelli trasmessi dai datori di lavoro tramite Certificazione Unica (CU) e modello 770.
Se emergono incongruenze, scatta la contestazione.
👉 Non sempre però l’errore è del contribuente: spesso si tratta di dati errati trasmessi dal datore di lavoro o di semplici omissioni sanabili.
⚖️ Perché scatta la contestazione
- Differenze tra il reddito dichiarato e quello indicato nella Certificazione Unica;
- Mancata inclusione di più CU in caso di più rapporti di lavoro;
- Omissione di redditi da lavoro stagionale, collaborazioni o contratti a termine;
- Errori del datore di lavoro nella trasmissione delle ritenute fiscali;
- Incongruenze tra redditi dichiarati e somme risultanti nei modelli 770.
📌 Conseguenze possibili
- Recupero delle imposte non versate;
- Sanzioni dal 90% al 180% dell’imposta evasa, salvo correzione tempestiva;
- Interessi di mora;
- Nei casi più gravi, accertamenti retroattivi fino a 5 o 7 anni.
🔍 Come difendersi
- Analizza l’avviso ricevuto: individua l’anno e il reddito contestato.
- Recupera la documentazione: CU, buste paga, CUD degli anni precedenti, contratti di lavoro.
- Verifica se l’errore è del datore di lavoro: in tal caso puoi chiedere correzione e nuova CU.
- Dimostra la corretta tassazione: se le ritenute sono state già applicate, il Fisco non può tassare nuovamente lo stesso reddito.
- Predisponi memorie difensive o ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria se la contestazione è infondata.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza l’avviso di accertamento e individua gli errori nei dati incrociati;
- 📌 Ricostruisce i redditi effettivi percepiti tramite buste paga e certificazioni;
- ✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per annullare o ridurre le pretese fiscali;
- ⚖️ Ti assiste nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
- 🔁 Valuta soluzioni alternative, come ravvedimento operoso o definizione agevolata.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in accertamenti su redditi da lavoro dipendente;
- ✔️ Specializzato in contenzioso tributario e difesa da errori di dati CU e 770;
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
I controlli incrociati sui redditi da lavoro dipendente possono generare contestazioni anche quando il contribuente è in regola.
Con una difesa legale mirata puoi dimostrare l’esattezza dei tuoi redditi, correggere eventuali errori del datore di lavoro e ridurre le pretese del Fisco.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro i controlli incrociati dell’Agenzia delle Entrate inizia qui.