Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché hai applicato il regime forfettario in modo non corretto? Questo regime agevolato è molto vantaggioso perché prevede una tassazione ridotta e l’esenzione dall’IVA, ma comporta regole precise da rispettare. Se il Fisco ritiene che tu non avessi diritto a utilizzarlo o che lo abbia applicato in maniera errata, può recuperare le imposte dovute con sanzioni e interessi.
Quando scattano le contestazioni sul regime forfettario
– Se il contribuente ha superato i limiti di ricavi o compensi previsti dalla legge
– Se non sono stati rispettati i requisiti soggettivi o oggettivi (es. partecipazioni societarie non consentite)
– Se il contribuente ha svolto attività escluse dal regime agevolato
– Se l’IVA è stata erroneamente esclusa in operazioni che ne prevedevano l’applicazione
– Se non sono stati rispettati gli obblighi di fatturazione elettronica quando richiesto
Cosa rischi in caso di utilizzo errato del regime forfettario
– Decadenza dal regime agevolato con effetto retroattivo
– Recupero dell’IVA non applicata e delle imposte ordinarie dovute
– Sanzioni dal 90% al 180% delle imposte accertate
– Addebito di interessi di mora
– Contestazioni anche per gli anni precedenti se l’irregolarità viene ritenuta continuativa
Come difendersi da una contestazione sul regime forfettario
– Dimostrare la correttezza dei requisiti soggettivi e oggettivi per l’accesso al regime
– Contestare eventuali errori dell’Agenzia delle Entrate basati su interpretazioni restrittive
– Dimostrare che le irregolarità sono solo formali e non hanno comportato evasione
– Presentare dichiarazioni integrative o memorie difensive per correggere gli errori commessi
– Impugnare l’avviso di accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria per ridurre o annullare la pretesa
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la contestazione e verificare la legittimità della decadenza dal regime agevolato
– Raccogliere la documentazione utile a dimostrare la spettanza del forfettario
– Contestare la sproporzione delle sanzioni applicate
– Difendere il contribuente nel contraddittorio con il Fisco e in sede giudiziale
– Valutare soluzioni conciliative o definizioni agevolate per ridurre l’impatto economico
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– La conferma della validità del regime forfettario se spettante
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione di sanzioni e interessi applicati
– La sospensione delle procedure esecutive collegate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto
⚠️ Attenzione: il regime forfettario è molto vantaggioso, ma anche soggetto a controlli severi. Non sempre le contestazioni del Fisco sono fondate: spesso si basano su interpretazioni rigide che possono essere ribaltate con una difesa ben strutturata.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in difesa tributaria e regimi fiscali agevolati – ti spiega cosa fare se l’Agenzia delle Entrate ti contesta l’uso errato del regime forfettario e come difenderti in modo efficace.
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Introduzione
Contestazione IVA e regime forfettario: Il regime forfettario è un regime fiscale agevolato italiano che consente a professionisti e piccole imprese di non addebitare l’IVA ai clienti né subire ritenute d’acconto sui compensi, in cambio di un’imposta sostitutiva ridotta (15% o 5%) sul reddito imponibile . Tuttavia, questi benefici si applicano solo se il contribuente rispetta rigorosamente i requisiti previsti dalla normativa (limiti di ricavi, assenza di cause di esclusione, ecc.). In caso contrario, l’utilizzo indebito del regime forfettario può portare l’Amministrazione finanziaria a riqualificare la posizione fiscale del contribuente e a contestare l’IVA non applicata sulle operazioni effettuate. In altre parole, se un soggetto emette fatture senza IVA perché si ritiene forfettario, ma in realtà non aveva diritto al regime, il Fisco potrà richiedere a posteriori l’IVA non addebitata (con relativi interessi e sanzioni) come se il contribuente fosse sempre stato in regime IVA ordinario.
Dal punto di vista del contribuente (debitore) che si trova a ricevere un avviso dal Fisco, la situazione può sembrare allarmante: si prospetta il pagamento di imposte non versate (IVA in primis, ma anche maggiori imposte sui redditi) e di sanzioni elevate per le irregolarità commesse . È fondamentale però sapere come reagire e quali sono gli strumenti di tutela a disposizione. Questa guida, aggiornata ad agosto 2025, fornirà un quadro avanzato e dettagliato della normativa italiana sul regime forfettario, illustrando le condizioni di accesso e permanenza, i possibili errori e cause di decadenza, nonché le strategie difensive per chi riceve lettere di compliance, avvisi bonari o cartelle esattoriali dall’Agenzia delle Entrate. Il taglio sarà giuridico ma divulgativo, rivolto sia a professionisti del settore (avvocati tributaristi, commercialisti) sia a imprenditori e privati cittadini che vogliono comprendere i propri diritti e obblighi.
Tra gli elementi chiave trattati troveremo: i requisiti del regime forfettario e le cause ostative; le conseguenze fiscali dell’applicazione errata (con particolare focus sull’IVA); le procedure di controllo adottate dal Fisco (dalle lettere di compliance agli avvisi di accertamento); le varie fasi del procedimento (accertamento con adesione, ricorso tributario, ecc.); le sanzioni applicabili e come eventualmente ridurle; infine, consigli pratici su cosa fare immediatamente dopo aver ricevuto una contestazione, con esempi di domande e risposte frequenti e tabelle riassuntive. Il tutto sempre dal punto di vista del contribuente, per massimizzare le chance di difesa e minimizzare l’impatto economico del contenzioso.
Il regime forfettario: vantaggi e condizioni essenziali
Prima di affrontare gli errori e le contestazioni, è utile riepilogare in breve cosa sia il regime forfettario e quali condizioni bisogna rispettare per poterne beneficiare. Il regime forfettario (disciplinato dai commi 54–89 della legge 190/2014 e successive modifiche) è nato come regime “naturale” per le persone fisiche con partita IVA di piccole dimensioni, offrendo importanti semplificazioni fiscali :
- Imposta sostitutiva ridotta: il reddito dell’attività (impresa o lavoro autonomo) è tassato con un’unica imposta sostitutiva IRPEF (e addizionali, e IRAP) al 15%. Per le nuove attività è previsto il 5% per i primi 5 anni, se rispettate specifiche condizioni di start-up .
- Determinazione forfetaria del reddito: invece di dedurre i costi effettivi, si applica al totale dei ricavi/compensi un coefficiente di redditività predeterminato in base al codice ATECO. Ad esempio, un consulente con coefficiente 78% che incassa €30.000 avrà un reddito imponibile di €23.400 (il 78% di 30.000) . I costi sono quindi riconosciuti in misura forfetaria (il restante 22% in questo esempio) e non analitica.
- Semplificazioni IVA: il forfettario non addebita l’IVA in fattura (operazioni non imponibili per regime di vantaggio) e non detrae l’IVA sugli acquisti . È esonerato dalle liquidazioni periodiche e dalla dichiarazione IVA annuale. In fattura va indicata un’apposita dicitura di esclusione IVA e di non applicazione della ritenuta d’acconto . Dal 2022-2024 l’obbligo di fatturazione elettronica è stato esteso progressivamente anche ai forfettari (prima solo sopra €25.000 di fatturato, poi dal 1° gennaio 2024 a tutti senza limiti) .
- Niente ritenute d’acconto subite: i compensi dei forfettari non subiscono la classica ritenuta d’acconto del 20%. Per ottenere ciò, il forfettario rilascia ai clienti una dichiarazione in cui attesta di rientrare nel regime agevolato e quindi di non essere soggetto a ritenuta (art. 1 co.67 L.190/2014) . Di contro, il contribuente in regime forfettario non opera a sua volta ritenute sui pagamenti che effettua (non agisce da sostituto d’imposta, salvo casi particolari per contributi INPS artigiani/commercianti e pochi altri) .
- Contabilità semplificata: sono fortemente ridotti gli obblighi contabili: niente registri IVA, niente scritture contabili complesse, né studi di settore/ISA, solo la conservazione dei documenti ricevuti/emessi e la compilazione del quadro LM nel Modello Redditi per dichiarare i ricavi e calcolare l’imposta sostitutiva dovuta .
Questi vantaggi rendono il regime forfettario estremamente appetibile. In cambio, il legislatore impone precisi limiti e requisiti di accesso e permanenza: basta il mancato rispetto di uno solo di essi perché il contribuente decada dal regime e debba adottare il regime ordinario . Vediamo quindi quali sono tali condizioni.
Limite di ricavi: soglia di accesso e permanenza
Il requisito quantitativo principale è il limite di ricavi o compensi annui. Occorre distinguere tra il periodo antecedente il 2023 e quello successivo, alla luce di recenti modifiche normative:
- Fino al 2022: la soglia di ricavi/compensi percepiti nell’anno precedente era €65.000 (unica per tutte le attività, soglia unificata dalla L.145/2018) .
- Dal 2023: la Legge di Bilancio 2023 (L.197/2022) ha elevato il limite a €85.000 annui . Dunque, ad esempio, se un professionista ha incassato €80.000 nel 2022, può applicare (o continuare ad applicare) il regime forfettario nel 2023, essendo sotto €85.000.
Esempio pratico: Maria, consulente, nel 2022 ha percepito compensi per €70.000. Poiché tale importo è sotto €85.000, Maria può aderire o rimanere nel forfettario per il 2023. Se invece nel 2022 avesse incassato €90.000, avrebbe superato la soglia: dal 2023 Maria non potrebbe essere forfettaria e dovrebbe applicare il regime ordinario, con IVA in fattura e tassazione IRPEF standard.
Il limite va considerato globalmente su tutte le attività esercitate dal contribuente. Se si svolgono più attività con diversi codici ATECO, si sommano tutti i ricavi e compensi percepiti ai fini della soglia . Inoltre il calcolo avviene su base di cassa: contano gli importi effettivamente incassati nell’anno solare di riferimento (non la competenza economica) .
Superamento del limite: se il contribuente supera la soglia di ricavi, la legge prevede la fuoriuscita dal regime agevolato. Le modalità di uscita differiscono a seconda di quanto si supera il limite, con una novità importante dal 2023:
- Se si superano i €85.000 ma si rimane entro €100.000, la cessazione del regime avviene dall’anno successivo. In pratica si perde il regime forfettario dall’anno seguente, continuando ad applicarlo per l’anno in corso .
- Se invece si superano i €100.000, scatta la decadenza immediata già nel corso dell’anno in cui si eccede. Questa regola – introdotta dalla L.197/2022 – comporta un cambio di regime in corso d’anno, con obbligo di applicare l’IVA da subito nel momento in cui si supera la soglia . Lo vedremo in dettaglio più avanti (sezione “Superamento di 100.000: decadenza immediata”).
Nota: la soglia va monitorata in base ai ricavi “percepiti”. Ciò significa che ad esempio incassi ricevuti a gennaio relativi a fatture emesse l’anno prima contano nell’anno di incasso. Questo principio di cassa può creare situazioni in cui il contribuente sfora la soglia non per aver lavorato di più, ma magari perché ha incassato in ritardo pagamenti arretrati. Purtroppo, ai fini del regime ciò rileva comunque.
Limite alle spese per personale e collaboratori
Un ulteriore requisito riguarda l’impiego di lavoro altrui. Chi si avvale di dipendenti o collaboratori deve contenere tali costi entro un certo importo, altrimenti viene escluso dal regime:
- Spese per il personale < €20.000: nell’anno precedente, il totale delle spese per lavoro dipendente e assimilato non deve superare €20.000 lordi . Nel conteggio rientrano stipendi di dipendenti, compensi a collaboratori, collaborazioni occasionali, compensi ad associati in partecipazione con apporto di solo lavoro, ecc.
Ad esempio, se nel 2024 un professionista forfettario assume un dipendente pagando €25.000 di retribuzione lorda annua, supera la soglia: di conseguenza dal 2025 non potrà più adottare il regime forfettario . Questo limite fu introdotto originariamente con la legge 190/2014 (in misura di €5.000, poi elevata a €20.000 con L.145/2018), ed è tuttora vigente.
Cause ostative: chi non può aderire al forfettario
Oltre ai limiti quantitativi (ricavi e costi del personale), la legge elenca una serie di cause ostative che escludono dal regime forfettario anche se le soglie economiche sono rispettate. Tali cause, previste dall’art. 1 comma 57 L.190/2014 (come modificato nel tempo), mirano a evitare usi impropri del regime agevolato. In sintesi, NON possono avvalersi (o decadono) dal regime forfettario i seguenti soggetti :
- Soggetti che applicano regimi IVA speciali o forfettari per altre attività. Ad esempio agricoltori in regime IVA agricolo, rivenditori di beni usati in regime del margine, associazioni sportive dilettantistiche in regime L.398/1991, ecc. Non è consentito applicare il forfettario per un’attività che rientra in un regime speciale IVA o avere due regimi agevolati contemporaneamente .
- Non residenti (in Italia): regola generale, i non residenti non possono essere forfettari. Eccezione: residenti in Paesi UE/SEE con accordo di cooperazione fiscale che producono almeno il 75% del reddito complessivo in Italia . In pratica, uno straniero residente all’estero può aderire solo se stabilito fiscalmente in Italia per la quasi totalità del reddito.
- Attività particolari nel campo immobiliare/veicoli: chi effettua in via esclusiva o prevalente cessioni di fabbricati o terreni edificabili, oppure cessioni di mezzi di trasporto nuovi, è escluso. Si tratta di operazioni già soggette a regimi IVA speciali o a peculiarità, che il legislatore ha voluto tenere fuori dal forfettario .
- Partecipanti in società di persone, associazioni o imprese familiari: l’imprenditore individuale o professionista che sia contemporaneamente socio di una società di persone (snc, sas), membro di un’associazione professionale, o componente di un’impresa familiare non può essere forfettario . Questa causa mira a evitare che si frammentino attività tra società e individuale per usufruire del regime.
- Titolari di controllo in SRL con attività riconducibile: introdotta dalla L.145/2018, la causa ostativa forse più insidiosa riguarda chi controlla direttamente o indirettamente una società a responsabilità limitata la quale esercita attività economiche riconducibili a quelle svolte dal contribuente forfettario . In pratica, il socio di controllo di una SRL che svolge la stessa attività (o settore Ateco) della sua partita IVA individuale non può essere forfettario. La ratio è evitare che attraverso la SRL si accumulino ricavi oltre soglia, godendo del 15% sul resto. Va notato che la decorrenza di questa causa è nell’anno stesso di applicazione del regime (non conta solo l’anno precedente). L’Agenzia Entrate, con circolare 9/E del 10 aprile 2019, ha chiarito che servono due condizioni congiunte: 1) il controllo (anche di fatto) della SRL e 2) la sovrapposizione o riconducibilità delle attività economiche svolte . Inoltre, per “controllo” si richiama la definizione civilistica dell’art. 2359 c.c., includendo anche il controllo di fatto (ad es. essere unico o prevalente fornitore della SRL di cui si è soci può configurare controllo di fatto) . Questa interpretazione amplia la portata della causa ostativa: ad esempio, un professionista socio al 30% di una SRL potrebbe comunque essere considerato controllante di fatto se quella SRL fattura per la gran parte a lui stesso. Caso pratico: un grafico ha la sua ditta individuale in forfettario e possiede il 50% di una SRL che svolge attività simile. Se la SRL ha clienti propri e non interagisce col grafico, potrebbe non applicarsi la causa; ma se la SRL riceve dal grafico la maggior parte dei servizi (o viceversa), allora scatta l’esclusione .
- Rapporti di lavoro “mascherati”: dal 2020 è stata reintrodotta (L.160/2019, comma 57 lett. d-bis) la causa ostativa per chi fattura prevalentemente verso ex datori di lavoro o soggetti riconducibili. In particolare, non può accedere (o decade) dal forfettario chi svolge attività autonoma prevalentemente (oltre il 50% dei ricavi) nei confronti di un committente che è stato suo datore di lavoro nei due anni precedenti (o è un suo attuale datore) . L’unica eccezione è per chi avvia una nuova attività successivamente a un periodo di praticantato obbligatorio presso un datore di lavoro (tipico per professioni ordinistiche) . Questa norma mira a evitare le cosiddette “false partite IVA” create per continuare di fatto un rapporto di lavoro dipendente in forma autonoma. È importante notare che tale causa fu eliminata nel 2019 ma poi ripristinata dal 2020: ciò ha creato confusione in alcuni contribuenti.
- Redditi di lavoro dipendente o pensione > €30.000: sempre la L.160/2019 ha introdotto dal 2020 una causa ostativa secondo cui chi, nell’anno precedente, ha percepito redditi da lavoro dipendente e assimilati (o pensione) sopra €30.000 perde il diritto al forfettario . L’idea è che chi ha già un reddito alto da lavoro dipendente non possa godere di una tassazione di favore su un’attività parallela. Questa causa non si applica se il rapporto di lavoro dipendente è cessato (licenziamento) prima dell’avvio dell’attività autonoma: in sostanza, se uno lascia il lavoro e apre la partita IVA, può essere forfettario anche se l’anno prima aveva uno stipendio alto, purché il lavoro sia terminato . Va fatto però attenzione: se la cessazione è simulata o si tratta dello stesso datore (vedi causa precedente), potrebbero comunque sorgere contestazioni.
Tabella riassuntiva – Principali cause di esclusione dal regime forfettario
Causa ostativa | Descrizione e soglia | Riferimento normativo (L.190/2014) |
---|---|---|
Ricavi superiori a €85.000 | Se > €85.000 (fino €100.000) ➜ fuoriuscita l’anno successivo; se > €100.000 ➜ decadenza immediata in corso d’anno | Commi 54 e 71 (mod. da L.197/2022) |
Spese per personale > €20.000 | Costi lavoro dipendente e assimilati oltre 20k nell’anno precedente ➜ esclusione/decadenza | Comma 57, lett. b) (mod. da L.145/2018) |
Non residente (no 75% redditi in ITA) | Contribuenti non fiscalmente residenti in Italia (salvo UE/SEE con ≥75% reddito in Italia) | Comma 57, lett. a) |
Attività particolari IVA | Cessioni immobili/terreni edificabili, mezzi nuovi ➜ esclusi | Comma 57, lett. e) e f) |
Partecipazione in società di persone/associazioni | Soci di società di persone, associati in associazioni professionali, imprese familiari ➜ esclusi | Comma 57, lett. c) |
Controllo di Srl con attività riconducibile | Controllo diretto/indiretto di Srl che svolge attività riconducibile a quella del contribuente ➜ esclusione | Comma 57, lett. d) (introdotta da L.145/2018) |
Fatturato prevalente da ex datore | Oltre 50% dei ricavi verso ex datore di lavoro degli ultimi 2 anni (o attuale datore) ➜ esclusione | Comma 57, lett. d-bis) (introdotta da L.160/2019) |
Redditi di lavoro dipendente > €30.000 | Se nel precedente anno solare oltre 30k di redditi dipendenti/pensione ➜ esclusione (salvo lavoro cessato prima) | Comma 57, lett. d-ter) (introdotta da L.160/2019) |
Soddisfare i requisiti di accesso/permanenza è essenziale. In mancanza anche di uno solo di essi, il contribuente non ha diritto al regime forfettario e dovrebbe applicare il regime ordinario. Purtroppo, non tutti sono pienamente consapevoli di queste regole o talvolta si verificano situazioni limite e dubbi interpretativi. Nella prossima sezione vedremo alcuni errori tipici nell’applicazione del regime, per poi affrontare le conseguenze fiscali (soprattutto in termini di IVA) di un regime forfettario indebitamente utilizzato.
Errori comuni nell’applicazione del regime forfettario
Nonostante la relativa semplicità normativa, nella pratica molti contribuenti commettono errori o si trovano inconsapevolmente in condizioni che li escludono dal regime forfettario. Alcuni scenari tipici di uso errato o abuso involontario del regime includono:
- Superamento della soglia di ricavi non gestito correttamente: ad esempio, il contribuente incassa più di €85.000 in un anno ma continua ad applicare il regime forfettario anche nell’anno seguente, omettendo di passare al regime ordinario. Oppure – caso nuovo dal 2023 – supera €100.000 in corso d’anno ma non inizia ad addebitare l’IVA immediatamente, proseguendo come se nulla fosse. Queste situazioni comportano violazioni IVA (mancata fatturazione dell’IVA dovuta) e saranno oggetto di contestazione .
- Mancata verifica delle cause ostative personali: classico il caso di un contribuente che apre partita IVA forfettaria mentre contemporaneamente è socio di una società di persone o controlla una Srl attiva nello stesso campo, o ancora che fattura quasi solo al suo ex datore di lavoro. Spesso questi aspetti vengono trascurati o mal compresi. Un esempio: Tizio nel 2021 avvia una ditta individuale in forfettario, ma è anche socio al 50% di una SNC; non sapendo della causa ostativa, emette fatture senza IVA. In caso di verifica, l’Agenzia contesterà l’indebito accesso al regime.
- Errata valutazione dei redditi di lavoro dipendente/pensione: un contribuente potrebbe non rendersi conto che avere avuto un reddito da lavoro dipendente di €35.000 l’anno scorso (ancorché magari part-time) lo esclude dal forfettario. Oppure pensa – erroneamente – che basti dimettersi dal lavoro a gennaio per poter aprire la partita IVA a febbraio in forfettario (dimenticando che conta l’anno precedente salvo cessazione effettiva).
- False partite IVA (lavoro autonomo fittizio): casi in cui il contribuente, magari su indicazione del datore di lavoro, si mette in partita IVA forfettaria ma continua di fatto a lavorare come dipendente esclusivamente per quell’azienda. Qui, al di là della questione giuslavoristica, fiscalmente scatta la causa ostativa (prevalenza ex datore) se >50% ricavi da lì. Questo è un uso distorto del regime che il Fisco ha dichiaratamente nel mirino .
- Mancata compilazione dei dati obbligatori in dichiarazione: un aspetto formale, ma indicativo: molti forfettari hanno omesso di compilare nel Modello Redditi il quadro RS con le informazioni sul regime (causa di esclusione, ecc.). L’Agenzia ha inviato nel 2023 migliaia di lettere di compliance per l’anno d’imposta 2021 proprio su questa omissione . Sebbene la sanzione per tale violazione formale sia modesta, l’aver trascurato questi adempimenti può scatenare controlli più approfonditi sui requisiti reali .
- Confusione dopo cambi normativi: come accennato, le regole del forfettario sono cambiate più volte (2019, 2020, 2023). Alcuni contribuenti potrebbero essersi trovati in regola un anno e non più l’anno seguente senza saperlo. Ad esempio: Caio nel 2019 era in forfettario e fatturava quasi solo al suo ex datore (all’epoca le norme lo consentivano perché la causa ex datore era stata abrogata). A fine 2019 la legge di bilancio 2020 reintroduce quella causa dal 2020: Caio nel 2020/21 continua per abitudine a operare come forfettario, ignorando di essere diventato incompatibile. In caso di controllo, l’Agenzia contesterà il regime indebito per il 2021 (anno in cui la causa era in vigore), richiedendo IVA e imposte di quell’anno come se fosse ordinario.
- Superamento soglia con coesistenza di regimi in anno di transizione: questa è nuova dal 2023. Il professionista che incassa ad esempio €110.000 nel 2024 avrebbe dovuto applicare l’IVA dal momento del superamento €100.000. Se non l’ha fatto (continuando tutto l’anno senza IVA in fattura), la violazione è peculiare: fino a quando stava sotto €100k le fatture erano corrette, dopo no. Molti potrebbero ignorare il meccanismo di “split” annuale introdotto e trovarsi esposti a recuperi d’imposta su parte dell’anno (v. sotto la sezione dedicata a questo caso).
In tutti questi casi, il denominatore comune è che il contribuente ha operato come forfettario senza averne diritto. Le fatture emesse senza IVA e senza ritenuta risultano quindi irregolari, e il Fisco – una volta scoperta l’anomalia – procederà a recuperare le imposte non versate. La contestazione principale riguarda l’IVA non applicata sulle operazioni, ma spesso coinvolge anche le imposte dirette (maggiori redditi tassati ad IRPEF) e le ritenute non operate.
Nel prossimo capitolo esamineremo proprio le conseguenze fiscali dell’indebita applicazione del regime forfettario, con particolare attenzione alla componente IVA: cosa succede alle fatture emesse, come il Fisco ricalcola l’IVA dovuta e quali sanzioni vengono previste.
Conseguenze fiscali dell’uso indebito del regime (focus IVA)
Quando l’Agenzia delle Entrate accerta che un contribuente non aveva titolo per operare in regime forfettario in un certo periodo d’imposta, le conseguenze sono sostanzialmente le seguenti:
- Decadenza dal regime agevolato per l’anno (o gli anni) in questione: il contribuente viene considerato come se fosse stato in regime ordinario. Ciò significa, in primis, che sulle operazioni attive avrebbe dovuto applicare l’IVA e che il suo reddito andava tassato con i normali scaglioni IRPEF (al netto di costi deducibili effettivi) invece che con imposta sostitutiva.
- Recupero dell’IVA non addebitata: tutte le fatture emesse senza IVA (ritenute non imponibili erroneamente) vengono considerate come fatture “irregolari” ai fini IVA. L’Ufficio procederà a determinare quanta IVA sarebbe stata dovuta e a chiederne il versamento, oltre a interessi e sanzioni. Ad esempio, se in un anno X il contribuente in regime forfettario ha fatturato €50.000 senza IVA ma non aveva i requisiti, il Fisco richiederà il 22% di IVA su quei €50.000 (supponendo aliquota ordinaria), quindi €11.000, salvo che alcune operazioni fossero soggette ad altra aliquota o esenti di natura (poco probabile nel contesto).
- Recupero delle imposte sui redditi e addizionali: oltre all’IVA, l’errore comporta anche che il contribuente ha pagato solo il 15% (o 5%) di imposta sostitutiva sul suo reddito, mentre avrebbe dovuto pagare IRPEF progressiva + addizionali (e IRAP, se applicabile). Pertanto, l’Ufficio calcolerà la differenza d’imposta sui redditi. In pratica ricalcola il reddito imponibile in modo analitico (ricavi meno costi effettivi, oppure in sede di accertamento può anche utilizzare metodi induttivi) e applica le aliquote IRPEF ordinarie. La differenza rispetto a quanto versato come imposta sostitutiva viene richiesta come maggiore IRPEF dovuta, anch’essa con interessi e sanzioni per dichiarazione infedele.
- Recupero delle ritenute d’acconto non operate: se il contribuente indebitamente forfettario è un lavoratore autonomo, i suoi clienti (sostituti d’imposta) non gli hanno applicato la ritenuta del 20% sui compensi, in forza della dichiarazione resa di essere in regime agevolato. Quando emerge che il regime non spettava, teoricamente quelle ritenute sarebbero state dovute. Chi ne risponde? La prassi e la normativa (art. 6 D.Lgs 472/1997) tendono a non punire il sostituto se ha agito senza colpa (avendo ricevuto l’autocertificazione) , ma il contribuente stesso risponde delle sanzioni per le ritenute non subite . Inoltre dovrà versare le imposte corrispondenti: di fatto, la maggiore IRPEF chiesta all’indebito forfettario su cui sopra include ciò che sarebbe stato coperto da ritenute. In sostanza, il Fisco recupera l’IRPEF mancante direttamente dal contribuente. Il cliente/sostituto potrà essere tenuto a versare tardivamente le ritenute solo in alcune circostanze (specie se il contribuente non regolarizza) e comunque può evitare sanzioni se prova di non aver potuto sapere della non spettanza del regime .
Va subito chiarito che, per l’Erario, l’IVA è dovuta a prescindere dal fatto che il contribuente l’abbia incassata dai clienti. Il meccanismo dell’IVA infatti lega il cedente/prestatore (fornitore) e lo Stato: se un’operazione era imponibile, il fornitore deve versare allo Stato l’IVA corrispondente, anche se erroneamente non addebitata al cliente . L’eventuale recupero dell’IVA dal cliente (rivalsa) è un rapporto civilistico privato tra le parti, che non incide sull’obbligo fiscale . In pratica, il contribuente che ha sbagliato deve pagare l’IVA non applicata di tasca propria, salvo poi provare a farsela dare dal cliente – cosa non sempre facile.
Esempio pratico: Marco, in regime forfettario nel 2022 (erroneamente, perché non aveva requisiti), emette fatture per €40.000 senza IVA al cliente Alfa, che paga €40.000. Nel 2024 l’Agenzia scopre l’irregolarità e notifica a Marco un avviso di accertamento chiedendo €8.800 di IVA (22% di 40k) + sanzioni e interessi. Marco dovrà versare l’IVA allo Stato anche se da Alfa ha incassato solo 40k (senza IVA). Potrà chiedere ad Alfa di corrispondergli ora quei €8.800 (emettendo fattura integrativa o nota di debito), ma Alfa potrebbe rifiutare. La legge tutela lo Stato, non il rapporto interno: Marco resta debitore verso l’Erario a prescindere . Solo se Alfa venisse escusso legalmente e risultasse inadempiente (procedura esecutiva infruttuosa) Marco avrebbe diritto a emettere una nota di variazione ex art. 26 DPR 633/72 per recuperare quell’IVA , ma è un caso limite.
Le sanzioni applicabili
L’utilizzo indebito del regime forfettario comporta violazioni tributarie multiple, ciascuna sanzionata dalla normativa (D.Lgs. 471/1997, D.Lgs. 472/1997) in modo piuttosto severo. Elenchiamo le principali sanzioni che tipicamente entrano in gioco:
- Sanzione per fatturazione irregolare (IVA non addebitata): l’omessa indicazione dell’IVA in fattura quando dovuta equivale a una omessa fatturazione dell’imposta. La sanzione prevista è dal 90% al 180% dell’IVA non documentata correttamente . Quindi, se ad esempio €10.000 di IVA non sono stati addebitati, la sanzione va da €9.000 a €18.000. Questa è la sanzione base (art. 6 co.1 D.Lgs.471/97). In caso di più fatture, può applicarsi il cumulo per ciascun documento, ma spesso il Fisco contestualizza l’intero periodo come violazione continuata. Si noti che se la mancata fatturazione non incide sulla liquidazione IVA (ipotesi particolari, non questo caso), c’è una sanzione fissa minima di €500 .
- Sanzione per omesso versamento IVA e omessa dichiarazione IVA: il forfettario non presentando la dichiarazione IVA annuale (né versando l’imposta) incorre nella sanzione per omessa dichiarazione ai fini IVA, pari al 120% – 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di €500 . Tuttavia, se il contribuente presenta comunque una dichiarazione IVA entro il termine dell’anno successivo (dichiarazione “tardiva” ma entro l’anno), la sanzione è ridotta al 60% – 120% (minimo €200) . Nel caso in esame, però, il forfettario generalmente non compila affatto la dichiarazione IVA, quindi si ricade nel caso peggiore (dichiarazione omessa). Da notare: se la dichiarazione IVA è omessa, non è possibile ravvedimento operoso una volta trascorso il termine dell’anno successivo .
- Sanzione per dichiarazione infedele sui redditi: poiché nella dichiarazione dei redditi il forfettario ha indicato il reddito imponibile forfettariamente (potenzialmente inferiore al reddito effettivo) e pagato un’imposta sostitutiva minore dell’IRPEF dovuta, la dichiarazione dei redditi risulta infedele. La sanzione per dichiarazione infedele (art. 1 co.2 D.Lgs.471/97) va dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta (IRPEF, addizionali) o della differenza di credito utilizzato. Questa sanzione si cumula con quelle IVA. In sede di accertamento con adesione o acquiescenza, è prevista la riduzione delle sanzioni del 1/3.
- Sanzione per omessa/tardiva applicazione ritenute (sostituto d’imposta): se il contribuente era lavoratore autonomo e ha “chiesto” al cliente di non operare ritenuta presentandosi come forfettario, si configura una violazione nell’ambito delle ritenute d’acconto. La normativa stabilisce che il sostituto d’imposta che omette di effettuare la ritenuta è soggetto a sanzione amministrativa pari al 20% dell’ammontare non trattenuto (art.14 D.Lgs.471/97), oltre all’obbligo di versare la ritenuta non fatta. Nel nostro caso però, come detto, l’Agenzia tende a rivalersi sul contribuente stesso: secondo le Risposte AE nn.499 e 500/2019, è il lavoratore autonomo che ha dichiarato il falso regime a dover pagare sanzioni sia per l’IVA non versata che per le ritenute non subite . In pratica, il committente che non ha operato la ritenuta può evitare sanzioni se prova di aver agito senza colpa (avendo ricevuto l’attestazione dal percipiente) . Resta però l’obbligo di regolarizzare: l’Agenzia ha chiarito che il sostituto dovrà, se il periodo è ancora recuperabile, operare e versare ora quelle ritenute tardive con interessi, e inviare le Certificazioni Uniche/770 integrativi . Questo qualora le fatture vengano regolarizzate (stornate e riemesse) e il forfettario risulti in regime ordinario retroattivamente.
Rischio penale: va evidenziato che se gli importi evasi superano certe soglie, possono scattare anche ipotesi di reato tributario (D.Lgs. 74/2000). Ad esempio, l’omessa dichiarazione IVA è penalmente rilevante se l’imposta evasa supera €50.000 per periodo d’imposta (art.5 D.Lgs.74/2000); la dichiarazione infedele è reato sopra €150.000 di imposta evasa e 10% dell’imponibile (art.4); l’omesso versamento IVA è reato sopra €250.000 (art.10-ter). Nel caso di un forfettario indebito, se i volumi sono importanti potrebbe configurarsi il reato di omessa dichiarazione (non avendo presentato dichiarazione IVA affatto) se l’IVA non versata > 50k . In tali situazioni, oltre al percorso sanzionatorio amministrativo, si aprirebbe un procedimento penale. È quindi fondamentale non sottovalutare contestazioni con importi elevati.
Tabella riassuntiva – Violazioni e sanzioni (utilizzo indebito forfettario)
Violazione commessa (per anno d’imposta) | Norma violata | Sanzione base prevista | Note/Riduzioni possibili |
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IVA non addebitata in fattura (fatturazione irregolare) | art. 6 co.1 D.Lgs. 471/97 | 90% – 180% dell’IVA non documentata | Minimo €500 se violazione senza impatto sul debito IVA . Ravvedimento operoso: riduzione sanzione fino a 1/9 del minimo (se versamento immediato) |
Omessa dichiarazione IVA (se forfettario non presentava LIPE e dich. IVA) | art. 5 D.Lgs. 471/97 | 120% – 240% dell’IVA dovuta (min €500) | Se dichiarazione presentata entro 1 anno (tardiva): sanzione 60% – 120% (min €200) . Ravvedimento non ammesso dopo anno |
Dichiarazione infedele redditi (indebita imposta sostitutiva) | art. 1 D.Lgs. 471/97 | 90% – 180% della maggior IRPEF/IRAP dovuta | Minimo €250. Riduzione 1/3 con accertamento con adesione (art.2 D.Lgs.218/97) o acquiescenza (art.15 D.Lgs.218/97). Ravvedimento: sanzione ridotta da 1/8 a 1/5 (a seconda del tempo) |
Omesso versamento ritenute (committente) | art. 14 D.Lgs. 471/97 | 20% dell’importo non trattenuto e versato | Il committente può evitare sanzione ex art.6 co.1 D.Lgs.472/97 se errore non dipende da sua colpa . In tal caso sanzioni richieste al percipiente. Se percipiente ha dichiarato il reddito, sanzione al sostituto ridotta a 3% (circ. AE 180/98). |
Nota: le sanzioni amministrative sopra indicate, in caso di definizione agevolata o conciliazione giudiziale, possono essere ulteriormente ridotte (anche al 50% in caso di vittoria parziale del contribuente, ecc.). Inoltre, il D.Lgs.472/97 consente l’applicazione del cumulo giuridico se le violazioni ripetute costituiscono una stessa condotta. Ad esempio, l’omessa fatturazione IVA su più operazioni in un anno può essere sanzionata con una sanzione unica pari alla violazione più grave aumentata da 1/4 al doppio (art.12), anziché sommare 90–180% per ogni fattura.
Regolarizzazione spontanea: possibilità di rimediare all’errore
Se il contribuente stesso si accorge dell’errore (di aver applicato il forfettario indebitamente) prima che intervenga formalmente il Fisco, è altamente consigliabile procedere a una regolarizzazione spontanea, utilizzando gli strumenti del ravvedimento operoso. Le Risposte a interpello n.499 e 500/2019 dell’Agenzia delle Entrate hanno delineato le procedure per rimediare all’indebita fruizione del regime . In particolare, vi sono due opzioni operative relative alle fatture emesse senza IVA:
- Emettere note di variazione in aumento (art. 26 co.1 DPR 633/1972) per integrare le fatture originarie, addebitando l’IVA a titolo di rivalsa al cliente e indicando ora la ritenuta d’acconto . Questa soluzione comporta l’emissione di una sorta di “fattura integrativa” per ciascuna fattura errata, che aggiunge l’IVA dovuta.
- Emettere note di variazione in diminuzione e nuove fatture corrette: in pratica stornare integralmente le fatture originarie emesse in regime forfettario tramite note di credito (art. 26 co.2 DPR 633/72), e contestualmente emettere nuove fatture sostitutive, con addebito IVA e ritenuta . Questa soluzione “annulla e riscrive” le operazioni come se fossero state fatte correttamente in regime ordinario.
L’Agenzia ha confermato che entrambe le soluzioni sono valide . La scelta dipende anche dalla tempistica degli incassi. Ad esempio, in un caso concreto (interpello 245/2023) un professionista che aveva superato i limiti nel 2021 ha adottato entrambe le soluzioni: per fatture 2021 già incassate nel 2021 ha emesso nel 2022 note di variazione in aumento dell’IVA, mentre per fatture 2021 (e inizio 2022) incassate nel 2022 ha stornato e riemesso le fatture . Così ha potuto addebitare correttamente IVA e ritenute ai suoi clienti e versare il dovuto.
Una volta sistemate le fatture, il contribuente deve poi presentare una dichiarazione integrativa sia ai fini IVA che reddituali per l’anno interessato, ricalcolando tutto come ordinario, e versare le maggiori imposte con il ravvedimento operoso (che riduce molto le sanzioni) . Ad esempio, se riguarda l’anno 2022, presenterà un Modello IVA 2023 integrativo e un Modello Redditi PF 2023 integrativo (quadro RF anziché LM), versando IVA, IRPEF, addizionali e interessi, con sanzione ridotta (1/8 o 1/10 a seconda di quando lo fa).
Vantaggi della regolarizzazione spontanea: il ravvedimento operoso consente sanzioni ridotte (es. a 1/8 del minimo se l’errore è sanato entro un anno dalla scadenza, a 1/5 oltre un anno, etc., art.13 D.Lgs.472/97). Inoltre, se si sistema tutto prima che l’Ufficio notifichi atti di accertamento, si evitano le sanzioni piene e anche possibili implicazioni penali (ravvedimento esclude punibilità penale per quei reati tributari). L’Agenzia talvolta, nelle lettere di compliance, suggerisce essa stessa al contribuente di regolarizzare con integrativa e ravvedimento , segno che preferisce il rientro spontaneo.
Attenzione: se l’errore riguarda anni ormai chiusi o quasi in scadenza per accertamento, potrebbe non essere possibile ravvedersi (ad esempio, ravvedimento è ammesso finché la violazione non sia già stata contestata). Tuttavia, c’è stata nel 2023 una misura straordinaria, il “ravvedimento speciale” (L.197/2022) che permetteva di sanare violazioni relative fino all’anno d’imposta 2021 con sanzioni ridotte a 1/18 (circa 5%) . Tale finestra si è chiusa il 30 settembre 2023 . Chi non l’ha sfruttata dovrà tornare al normale ravvedimento ordinario.
Riassumendo: utilizzare il regime forfettario senza averne diritto comporta il recupero integrale delle imposte non versate (IVA, IRPEF, ecc.) e l’applicazione di sanzioni molto salate. È però possibile limitare i danni agendo per tempo e collaborando con il Fisco (ravvedimento, adesione). Nei paragrafi successivi vedremo come l’Agenzia delle Entrate scopre queste situazioni (controlli e procedure) e soprattutto come difendersi se si riceve una contestazione formale (lettera, avviso bonario, accertamento o cartella).
Controlli fiscali sui forfettari: come e quando scattano
L’Amministrazione finanziaria ha sviluppato, negli ultimi anni, una serie di strumenti per individuare le anomalie nelle posizioni dei contribuenti in regime forfettario. Nonostante la semplificazione del regime, i forfettari non sono affatto “invisibili” al Fisco, anzi vi sono specifiche analisi di rischio e incroci di dati mirati a loro . Vediamo quali aspetti sono monitorati e in che modo possono iniziare le verifiche.
Obiettivi dei controlli e profili sotto esame
Le verifiche sul regime forfettario si concentrano su alcuni punti chiave che riflettono i requisiti normativi già esaminati :
- Sforamento della soglia di ricavi (€85.000): l’Agenzia controlla se il contribuente ha superato il limite di fatturato senza abbandonare il regime . Grazie ai dati delle fatture elettroniche e dei corrispettivi telematici, il Fisco può facilmente sommare i ricavi dichiarati e incassati. Particolare attenzione è posta anche al superamento di €100.000 in corso d’anno e alla corretta gestione di tale situazione (cioè se il contribuente ha iniziato ad applicare IVA da quel momento) .
- Limite di €20.000 per lavoro dipendente: tramite le Certificazioni Uniche (CU) e il quadro dei redditi di lavoro dipendente in dichiarazione, l’Agenzia verifica se il forfettario ha sostenuto costi per dipendenti/collaboratori sopra soglia .
- Redditi da lavoro dipendente > €30.000: incrociando le dichiarazioni, si individuano forfettari che nello stesso anno percepiscono stipendi/pensioni oltre 30k . Si controlla in particolare l’anno precedente l’ingresso nel regime per chi ha avviato l’attività da poco, così da vedere se avevano un lavoro dipendente di livello troppo elevato (causa ostativa reintrodotta).
- Rapporti con ex datori di lavoro: il Fisco cerca segnali di “false partite IVA”. Incrociando i dati delle fatture emesse, può vedere se oltre il 50% del fatturato proviene da un unico cliente che risulta anche ex datore di lavoro (negli ultimi 2 anni) . Un’anomalia del genere genera un alert, se non ci sono spiegazioni (ad es. il cliente è una società collegata ma formalmente non proprio ex datore – casi limite).
- Partecipazioni societarie: tramite il Registro delle Imprese, l’Agenzia verifica se il contribuente risulta socio di società di persone o se possiede quote di SRL. In caso affermativo, controlla l’attività di tali società per valutare se scatta la causa ostativa (attività riconducibile, controllo) .
- Aliquota start-up 5%: anche la fruizione dell’aliquota ridotta per nuove attività è sotto esame. Si controlla che chi dichiara il 5% ne avesse effettivamente diritto, esaminando la posizione pregressa: esistenza di precedenti attività simili, eventuale prosecuzione di attività di familiari, rapporto con ex datore se previsto tirocinio, ecc. .
- Completezza dichiarativa (Quadro RS/LM): come accennato, molti forfettari in passato hanno omesso dati informativi obbligatori nelle dichiarazioni. Ad esempio, fino al 2019 c’era il quadro RS da compilare per dichiarare l’assenza di cause ostative. La mancata compilazione di questi campi, pur essendo violazione formale minore, viene utilizzata come indizio: nel 2023 l’Agenzia ha inviato migliaia di lettere di compliance ai forfettari che nel Modello Redditi 2022 (anno 2021) avevano omesso tali informazioni . Solo il 4,4% ha regolarizzato spontaneamente; di conseguenza, il Fisco ha annunciato accessi brevi presso i restanti per verificare di persona la documentazione . Ciò dimostra che anche un dettaglio formale può dare spunto per controlli più estesi.
- Incrocio banche dati esterne: molte verifiche nascono dall’incrocio con l’Anagrafe tributaria e altre fonti. Ad esempio, come riportato da alcune testate (Money.it), l’Agenzia ha inviato inviti a forfettari per incongruenze tra i dati dichiarati e quelli risultanti all’Anagrafe tributaria . Un caso tipico: differenze tra il fatturato dichiarato nel quadro LM e le somme indicate nelle Certificazioni Uniche dei clienti (può capitare se il cliente ha erroneamente indicato ritenute su un forfettario, o importi lordi diversi). Oppure omissioni di comunicazioni estere (esterometro) da parte di forfettari che operano con l’estero .
In sintesi, l’Amministrazione finanziaria dispone oggi di strumenti molto efficaci per individuare possibili irregolarità nel regime forfettario. L’obbligo di fatturazione elettronica (ora generalizzato) fa sì che tutti i ricavi siano immediatamente visibili e aggregabili dal Fisco . La tracciabilità bancaria (incassi su conti, segnalazioni di movimenti anomali) e gli incroci tra dichiarazioni permettono di costruire profili di rischio dettagliati . Attualmente (2024-2025) l’attenzione è focalizzata sugli anni d’imposta 2021 e seguenti : chi ha iniziato nel 2019 con soglia 65k potrebbe averla sforata nel 2021/2022; chi nel 2020 aveva redditi dipendenti elevati potrebbe essere entrato indebitamente; molti non hanno compilato il quadro RS. Sono proprio queste le situazioni nel mirino delle campagne di controllo.
Modalità dei controlli: inviti, lettere e accertamenti
Come può concretamente iniziare un controllo? Le procedure possono essere diverse, con vari livelli di formalità e gravità :
- Lettera di compliance (o invito a regolarizzare): è la modalità più “soft” e frequente quando il Fisco riscontra anomalie non certe. Si tratta di una comunicazione preventiva, generalmente inviata via PEC o raccomandata, in cui l’Agenzia segnala al contribuente la possibile irregolarità e invita a fornire chiarimenti o a sistemare la situazione . Ad esempio, possono chiedere di trasmettere:
- Copia di tutte le fatture emesse nell’anno X (per controllare importi e clienti) .
- Contratti con i principali clienti, per verificare se sono ex datori di lavoro .
- Estratti conto bancari dell’anno, per incrociare gli incassi con le fatture (e vedere se ci sono entrate non fatturate) .
- Documenti che provino l’assenza di cause ostative, es. lettera di licenziamento se c’era un lavoro dipendente >30k poi cessato .
- Prospetti del personale o F24 contributi per vedere l’ammontare delle spese per dipendenti .
Nella lettera spesso si cita la normativa di riferimento (ad es. DPR 633/1972 per l’IVA), lasciando intendere che si sospetta l’obbligo di applicare l’IVA in luogo del regime forfettario . Viene di solito assegnato un termine (15 o 30 giorni) per ottemperare. Se dai documenti forniti risulta effettivamente che il contribuente non aveva diritto al regime, l’ufficio inviterà il contribuente a “riliquidare” spontaneamente la propria posizione per quell’anno, cioè a correggere le dichiarazioni e pagare il dovuto (IVA, imposte, ecc.) . In alcuni casi, nella lettera si suggerisce esplicitamente di procedere con ravvedimento operoso . La lettera di compliance non è un atto impositivo e non è impugnabile (non rientra negli atti elencati dall’art.19 D.Lgs.546/92) , ma ignorarla è molto pericoloso: se il contribuente non risponde né regolarizza, si passa alle maniere forti (accertamento).
- Avviso bonario (controllo automatizzato ex art.36-bis): da distinguere rispetto alla lettera di compliance, l’avviso bonario è una comunicazione che scaturisce da controlli automatici sulle dichiarazioni presentate. Ad esempio, se un contribuente ha presentato il quadro LM come forfettario ma l’Agenzia ha dati certi che non poteva (es. CU con 40k di stipendio), potrebbe emettere un avviso di irregolarità in cui ricalcola le imposte. Più comunemente, l’avviso bonario riguarda imposte dichiarate e non versate o incongruenze aritmetiche. Nel nostro contesto, non sempre il 36-bis è lo strumento usato per la non spettanza del regime (spesso serve un accertamento ad hoc), ma è possibile ricevere un avviso bonario per, ad esempio, omessa presentazione della dichiarazione IVA (il sistema vede che dovevi presentarla? Anche qui se hai presentato redditi ma non IVA, generi anomalia). L’avviso bonario quantifica le maggiori imposte dovute e le sanzioni ridotte (generalmente al 10% anziché 30% per tributi da liquidazione automatica) e dà 30 giorni per pagare con quella sanzione ridotta . Se si riceve un avviso bonario, è segno che il controllo è già in fase avanzata. Occorre:
- Verificare se i dati sono corretti (ad es. l’Agenzia potrebbe avere commesso un errore nell’incrocio).
- Se l’avviso è corretto, conviene pagare entro 30 giorni per beneficiare delle sanzioni ridotte a 1/3 (art.2 D.Lgs.462/97) e chiudere la partita .
- Se si ritiene l’avviso infondato, si può presentare una comunicazione di risposta all’Agenzia segnalando gli elementi correttivi (in genere c’è un modulo di segnalazione allegato). L’ufficio esaminerà e può annullare in autotutela l’addebito se fondato.
L’avviso bonario è comunque una fase amministrativa: se non si paga né si risponde, dopo 30 giorni l’Agenzia iscrive a ruolo le somme e verrà notificata una cartella esattoriale. Va evidenziato che l’avviso bonario 36-bis è impugnabile solo insieme alla successiva cartella (non essendo atto di accertamento definitivo), quindi non si fa ricorso immediato ma si attende l’atto successivo se si vuole contestare formalmente.
- Accertamento automatico “in palese”: quando la violazione appare evidente e basata su dati certi, l’Agenzia può bypassare la fase di invito bonario e procedere direttamente con un avviso di accertamento vero e proprio . Ciò avviene ad esempio se:
- Il contribuente ha presentato la dichiarazione indicando il regime forfettario, ma dalle banche dati risulta inequivocabilmente escluso. Casi tipici: risultano oltre €30.000 di redditi di lavoro dipendente nel precedente anno (violazione certa), oppure appare socio di società non compatibili, o ancora ha dichiarato compensi oltre €65.000 avendo soglia 65k . In situazioni del genere l’ufficio considera la “non spettanza” del regime talmente palese da non richiedere spiegazioni. Procede quindi a emettere un avviso di accertamento in cui ricalcola le imposte dovute in regime ordinario per l’anno contestato, con contestuale applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele e omesso versamento IVA .
- Il contribuente non ha presentato affatto la dichiarazione dei redditi, pur avendo operato come forfettario (magari pensando di non doverla presentare, il che è un errore: il forfettario deve presentare il modello Redditi). La mancata dichiarazione fa perdere comunque il diritto al regime (poiché la fruizione dell’agevolazione è subordinata alla dichiarazione annuale) . In questo caso il Fisco considera dovute le imposte con aliquote ordinarie su tutto il reddito e notifica un accertamento per omessa dichiarazione con sanzioni molto gravi (120-240% imposta) e, se l’imposta evasa supera le soglie penali, scatta anche la denuncia per reato di omessa dichiarazione .
- Accessi brevi e verifiche sul campo: in alcuni casi, funzionari dell’Agenzia (o militari della Guardia di Finanza) possono effettuare accessi mirati presso il contribuente – ad esempio presso l’ufficio/studio – con preavviso minimo, per verifiche immediate . Questi controlli “flash” puntano in particolare a:
- Controllare che il contribuente stia emettendo correttamente le fatture (se c’è obbligo di elettroniche, verificare che usi la corretta dicitura, ecc.) .
- Verificare la presenza della documentazione minima: ad esempio che conservi le fatture di acquisto, gli estratti conto, in modo da poter riscontrare entrate e uscite e individuare eventuali ricavi non fatturati o costi del personale non dichiarati .
- Redigere un processo verbale di constatazione (PVC) se emergono irregolarità significative, oppure sollecitare il contribuente a fornire ulteriori elementi.
Negli accessi, data la natura semplificata del regime forfettario (niente scritture contabili), l’attenzione si concentra su estratti conto e movimentazioni finanziarie: in mancanza di contabilità formale, se emergono incoerenze, l’accertamento può assumere la forma di accertamento induttivo puro (art.39 co.2 DPR 600/73), ricostruendo il reddito in base ai flussi finanziari e ad eventuali presunzioni (versamenti non giustificati = ricavi in nero) . Questo è estremo ma possibile se si riscontrano entrate sui conti non riconciliate con fatture.
In generale, possiamo dire che il primo step del Fisco è spesso dialogico (lettere di compliance, inviti) per spingere il contribuente a regolarizzarsi da solo. Se però l’anomalia è chiara o il contribuente non collabora, si passa agli atti formali (accertamenti).
Best practice del contribuente durante il controllo
Dal punto di vista del contribuente (debitore) che viene sottoposto a verifica, è fondamentale adottare un atteggiamento proattivo e trasparente in sede di controllo . Alcuni consigli pratici:
- Rispondere tempestivamente a qualsiasi invito o richiesta documentale dell’Agenzia . Nei limiti concessi (di solito 15 o 30 giorni) è bene fornire quanto richiesto. Se serve più tempo per reperire dati, è preferibile chiedere una proroga motivata piuttosto che non rispettare i termini. Ignorare la lettera quasi sicuramente porterà a un accertamento d’ufficio più sfavorevole .
- Fornire documenti completi e attendibili: inviare copia di tutte le fatture, degli estratti conto evidenziando gli incassi professionali, copie di contratti con clienti che spieghino la natura dei rapporti . Una presentazione ordinata e trasparente dà un segnale di collaborazione e può indurre l’ufficio a essere più cauto nelle sanzioni.
- Accompagnare i documenti con spiegazioni scritte: è consigliabile allegare una memoria esplicativa in cui, punto per punto, si forniscono chiarimenti sugli aspetti richiesti . Ad esempio, se l’anomalia è “redditi di lavoro dipendente 2020 > 30k”, spiegare che quel lavoro è cessato prima di aprire la partita IVA (allegando lettera di licenziamento) . Oppure se un cliente ha emesso CU con ritenuta per errore, spiegarlo e magari allegare una dichiarazione del cliente che conferma l’errore. Una memoria ben fatta può chiarire equivoci e talvolta far chiudere lì la questione.
- Verificare i dati delle controparti: spesso le incongruenze nascono da dati dichiarati da terzi. Se ad esempio un cliente ha indicato in CU importi diversi, contattatelo per capire e fargli eventualmente rettificare la CU o rilasciare una dichiarazione che attesti l’errore (es. potrebbe aver indicato compensi comprensivi di rivalsa INPS, gonfiando il numero rispetto a quanto voi avete dichiarato) .
- Richiedere un contraddittorio orale: oltre alla risposta scritta, il contribuente può chiedere di discutere il caso di persona con i funzionari (in genere presso l’ufficio locale). Pur non essendo sempre obbligatorio per legge il contraddittorio prima di un accertamento su imposte dirette, nella prassi è utile: consente di dialogare, fornire chiarimenti a voce, e magari convincere l’ufficio a soprassedere o ridimensionare la contestazione .
- Considerare il ravvedimento operoso guidato: se dalla verifica emergono effettivamente errori, può essere opportuno manifestare la volontà di regolarizzare spontaneamente . Come detto, spesso l’ufficio è disponibile a “guidare” il contribuente nel ravvedimento (soprattutto se l’errore è palese) invece di formalizzare subito l’accertamento . Ad esempio, proporre: “ho compreso di aver sforato la soglia, posso presentare integrativa e pagare il dovuto con sanzioni ridotte”. Questo atteggiamento collaborativo in genere porta a evitare il pesante avviso di accertamento con sanzioni piene, risolvendo la questione con costi minori.
Mostrando buona fede e collaborazione, spesso il contribuente può ottenere un trattamento sanzionatorio più mite (ad esempio evitando il cumulo di sanzioni o beneficiando di riduzioni per adesione) . Viceversa, atteggiamenti passivi, reticenti o ostili sono sconsigliabili: se c’è stato un abuso sostanziale del regime, i documenti (fatture, conti) parleranno chiaro e opporre resistenza non farà che irrigidire l’Ufficio e far perdere eventuali opportunità di definizione agevolata.
Dall’avviso di accertamento alla cartella: come difendersi
Poniamo che il controllo si sia concluso negativamente: l’Agenzia delle Entrate ritiene che in un dato anno il contribuente ha applicato il regime forfettario indebitamente e non si è ravveduto. A questo punto si passa alla fase accertativa vera e propria, con l’emissione di un atto impositivo formale (tipicamente un Avviso di Accertamento o, dopo un 36-bis ignorato, direttamente una cartella esattoriale). In questa sezione analizziamo cosa aspettarsi e quali strumenti di difesa sono disponibili, prima e dopo la notifica di tali atti.
Termini di notifica degli avvisi di accertamento
Anzitutto, va ricordato che l’Agenzia ha dei termini decadenziali entro cui può notificare accertamenti per un certo anno d’imposta . Per le annualità recenti i termini sono:
- Dichiarazione presentata: l’accertamento va notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. Esempio: per l’anno d’imposta 2021 (dichiarazione Redditi 2022) il termine è il 31 dicembre 2026 . Per il 2022 si andrà al 31/12/2027, e così via.
- Dichiarazione omessa (o nulla): i termini si allungano a 7 anni successivi. Ad esempio, se per il 2021 non è stata presentata la dichiarazione, l’accertamento può arrivare fino al 31 dicembre 2028 .
- Eccezioni e proroghe: va considerato che occasionalmente vi sono state proroghe (es. COVID per l’anno 2019 + 85 giorni) e definizioni agevolate che hanno esteso i termini. Ad esempio, il DL 34/2023 (“tregua fiscale”) ha prorogato di 3 mesi i termini in scadenza al 31/12/2022 . In pratica però, per semplicità, si può assumere che il 2021 sarà accertabile fino a fine 2026 (salvo omessa dich.) , il 2022 fino a fine 2027, ecc.
Questi termini incidono sulle strategie: se si è quasi alla scadenza, il contribuente potrebbe tentare di attendere la decadenza (rischioso). Nel caso di errori forfettario, è raro che l’Agenzia “dimentichi” di accertare in tempo, specie se ha inviato già compliance nel 2023.
Avviso di accertamento: caratteristiche e opzioni
L’Avviso di Accertamento è l’atto con cui l’Agenzia formalizza le maggiori imposte accertate e le relative sanzioni. Dal 2020, gli avvisi di accertamento sono “impo-esecutivi”: trascorsi 60 giorni dalla notifica diventano esecutivi e dopo altri 30 giorni le somme vengono affidate all’Agente della Riscossione (non serve più la vecchia cartella, salvo notificarne una di pagamento se necessario). Quindi tempi stretti.
Quando si riceve un avviso di accertamento relativo alla contestazione del regime forfettario (di solito per un singolo anno, ma talvolta possono accertare più anni insieme):
- Contenuto: l’atto dettaglierà i motivi (es: “Superamento soglia ricavi – regime forfettario non spettante”), il ricalcolo delle imposte (IVA dovuta €X, IRPEF €Y, ecc.), le sanzioni applicate (con indicazione degli articoli di legge) e il totale da pagare comprensivo di interessi. Indicherà inoltre le modalità e i termini per eventuale pagamento o impugnazione.
- Importo da versare in pendenza di ricorso: se non si fa nulla entro 60 giorni, l’accertamento diventa definitivo e l’importo va pagato integralmente (rateazione possibile su richiesta). Se invece il contribuente intende fare ricorso, normalmente è comunque tenuto a versare, entro 60 giorni, un importo pari ad 1/3 delle imposte accertate (senza sanzioni) a titolo provvisorio, salvo chiedere sospensione . La riforma 2022 della giustizia tributaria ha mantenuto questa regola (il mancato pagamento di 1/3 non preclude il ricorso, ma espone a iscrizione a ruolo).
- Opzioni prima del ricorso: il contribuente ha alcune possibilità alternative al ricorso immediato:
- Istanza di accertamento con adesione (Adesione del contribuente): è un procedimento di natura amministrativa di “conciliazione” con l’ufficio. Va presentata entro 60 giorni dall’avviso (sospende i termini di ricorso per 90 giorni). Consente di discutere con l’Ufficio e magari trovare un accordo su un importo ridotto (ad esempio togliere una parte di sanzioni o riconoscere qualche costo in più). Se si trova un accordo, si firma un atto di adesione: il contribuente paga le somme concordate (anche in rate) e le sanzioni sono ridotte a 1/3 per legge. L’adesione è vantaggiosa se si riconosce in gran parte il debito e si vuole solo uno sconto sanzioni. Se la trattativa non va a buon fine, si può comunque proporre ricorso entro i nuovi termini prorogati.
- Acquiescenza: se il contribuente condivide (o comunque accetta) in toto l’accertamento, può evitare il contenzioso e pagare entro 60 giorni: in tal caso, le sanzioni sono ridotte a 1/3 automaticamente (art.15 D.Lgs.218/97). Nel nostro caso, ad esempio, una sanzione IVA del 120% scenderebbe al 40%. Questa scelta ha senso solo se il contribuente ritiene che l’accertamento sia corretto e vuole chiudere subito risparmiando sulle sanzioni.
- Autotutela: in qualsiasi momento, anche prima di un ricorso, si può presentare un’istanza di autotutela all’ufficio evidenziando errori palesi dell’atto e chiedendone l’annullamento o la rettifica. Ad esempio, se l’Agenzia ha calcolato male l’IVA dovuta, o se ha applicato una causa ostativa inesistente. L’autotutela però non sospende i termini di ricorso: va fatta comunque entro 60 giorni. Se l’ufficio la rigetta o non risponde, bisognerà fare ricorso.
Difendersi dall’avviso in via amministrativa: Il contribuente, entro i 60 giorni, può combinare le opzioni: ad es. presentare istanza di adesione e parallelamente una memoria in autotutela, oppure puntare solo all’adesione. Se però l’Ufficio non concede un risultato soddisfacente, occorre passare al ricorso giudiziario.
Il ricorso in Commissione Tributaria (Corte di Giustizia Tributaria)
Se non si trova accordo con l’Agenzia o non si intende aderire, l’unica strada è il ricorso alla giustizia tributaria. Dal 2023, le Commissioni Tributarie sono state ridenominate Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado (in attuazione della riforma L.130/2022).
Presentazione del ricorso: il ricorso va notificato all’ufficio che ha emesso l’atto entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento (termine perentorio) . Nel calcolo dei 60 giorni non si conteggia il periodo feriale dall’1 al 31 agosto (sospensione feriale) . Se si è presentata istanza di adesione, il termine dei 60 giorni è sospeso per un massimo di 90 giorni: quindi il nuovo termine per il ricorso sarà 60+90. Il ricorso deve contenere i motivi in diritto e in fatto per cui si contesta l’accertamento, e può contenere eventuale richiesta di sospensione dell’atto (se si vuole sospendere la riscossione in pendenza di giudizio).
Pagamento provvisorio: come detto, normalmente entro 60 gg. bisogna pagare 1/3 delle imposte accertate. Tuttavia, se la situazione finanziaria del contribuente è precaria e/o l’accertamento appare chiaramente errato, si può chiedere al giudice tributario la sospensione dell’atto (ex art.47 D.Lgs.546/92), ottenendo di non pagare in attesa della sentenza di primo grado. Per la sospensione serve dimostrare sia il fumus boni iuris (motivi validi del ricorso) sia il periculum in mora (danno grave e irreparabile dal pagamento).
Processo tributario di merito: nel giudizio di primo grado, a partire dal 2023, ci sono alcune novità: – Le controversie fino a €3.000 di valore sono decise dal giudice monocratico; sopra, da un collegio di 3 giudici. – È stata abolita la mediazione tributaria obbligatoria che esisteva fino al 2022 per cause sotto €50.000 (ora si può andare direttamente in causa, sebbene nulla vieti di conciliare dopo). – Si può tuttora giungere a una conciliazione giudiziale in udienza: ad esempio, l’ufficio potrebbe offrire una riduzione delle sanzioni al 50% se il contribuente rinuncia al ricorso, oppure accordarsi su un importo. La conciliazione, se formalizzata, chiude la lite con sanzioni ridotte al 1/3 (o 1/2 se in secondo grado) e possibilità di rateazione. – Dal 16 settembre 2022 le sentenze di primo grado possono essere appellate davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex CTR) entro 60 giorni dalla notifica della sentenza (o 6 mesi dalla pubblicazione se non notificata) . L’appello non sospende automaticamente la sentenza di primo grado, ma lo si può chiedere.
Strategie difensive nel merito del ricorso: a seconda del motivo per cui l’Agenzia ha contestato il regime forfettario, le linee di difesa possono variare . Eccone alcune possibili, da adattare al caso concreto:
- Contestare i presupposti di fatto: ad esempio, se l’ufficio sostiene che il contribuente ha superato €65.000 di ricavi, ma il contribuente dimostra che una parte di incassi erano rimborsi spese fuori campo IVA, oppure che l’importo in più era competenza di un altro anno (principio di cassa male interpretato). Oppure, se l’ufficio dice che c’era controllo di una Srl, si può dimostrare che la Srl in realtà era inattiva o svolgeva attività diversa e quindi la causa ostativa non ricorreva . Ad esempio, una sentenza della CTR Sicilia del 2021 ha annullato un accertamento ritenendo che la partecipazione in una società di persone escluda il forfettario solo se la società svolge attività riconducibile a quella del contribuente, non in caso di attività completamente diversa . Questo per dire che non sempre l’interpretazione dell’Agenzia è incontestabile: si possono far valere elementi fattuali a proprio favore.
- Sostenere la buona fede e l’assenza di dolo: purtroppo l’errore sul regime non evita il pagamento delle imposte, ma può influire sul trattamento sanzionatorio. Si può far leva sul principio di proporzionalità delle sanzioni e sul fatto che il contribuente ha agito in base a interpretazioni ragionevoli. Ad esempio, se la norma è cambiata in corsa (come l’ex datore reintrodotto nel 2020) si può argomentare che vi fosse incertezza normativa: lo Statuto del Contribuente (L.212/2000) prevede all’art.10 che non sono sanzionabili fatti dovuti a obiettive condizioni di incertezza sulla portata della norma. Alcune Commissioni in passato hanno accolto tesi di “errore scusabile” riducendo le sanzioni. Anche la circostanza di essersi affidati a un commercialista che ha sbagliato potrebbe essere usata come esimente parziale.
- Verificare il calcolo dell’IVA e il diritto alla detrazione: un punto tecnico: se il contribuente, risultando in ordinario, avrebbe avuto diritto a detrarre l’IVA sugli acquisti, l’Ufficio dovrebbe considerarlo. L’Agenzia tende a richiedere l’IVA sulle vendite ma spesso ignora l’IVA sugli acquisti non detratta. Se il contribuente può documentare gli acquisti con IVA inerenti all’attività, può chiederne il riconoscimento in sede contenziosa (o l’applicazione del “pro-rata” detraibile). La Cassazione ha chiarito che i costi deducibili forfettariamente per le imposte dirette non implicano automaticamente un credito IVA, perché la detrazione IVA richiede prova analitica dei costi e della loro inerenza . Tuttavia, se tali prove ci sono (fatture di acquisto) e l’unico motivo per cui non fu detratta era l’adesione al regime, in giudizio si può sostenere che nessun vantaggio indebito doveva derivare: l’IVA dovuta andrebbe calcolata al netto dell’IVA sugli acquisti detraibile. Questo può ridurre notevolmente il debito. È una linea complessa, ma da valutare soprattutto se le spese sostenute erano ingenti. In mancanza, l’Ufficio sta di fatto tassando il contribuente sull’imponibile lordo, il che può essere eccessivo e censurabile.
- Invocare il principio di affidamento e buona fede: qualora vi sia stato un comportamento dell’Amministrazione che ha ingenerato fiducia nel contribuente (circostanza rara, ma ad esempio se in passato un interpello aveva dato esito positivo poi contraddetto, o se lo stesso Fisco ha tardato a contestare – lasciando pensare fosse tutto ok), si può invocare l’art.10 L.212/2000 per chiedere l’annullamento delle sanzioni o dell’atto in ragione dell’affidamento legittimo. Ad esempio, se un contribuente aveva chiesto informalmente all’Agenzia e ottenuto rassicurazioni sbagliate, potrebbe esibire quella corrispondenza. È difficile, ma non impossibile.
- Prescrizione delle sanzioni: verificare se per caso le sanzioni pecuniarie amministrative siano state irrogate oltre il termine (5 anni). Di solito coincidendo con l’accertamento no, ma se ci fossero state fasi separate, controllare.
- Errori formali nell’atto: ad esempio, vizi di notifica, carenza di motivazione (se l’avviso non spiegasse bene perché il regime non spettava), mancato contraddittorio se era obbligatorio (per IVA in ambito di tributi armonizzati l’assenza di contraddittorio potrebbe essere eccepita, ma la giurisprudenza italiana è oscillante su ciò). Ogni vizio procedurale va segnalato nel ricorso perché potrebbe portare all’annullamento dell’atto.
L’obiettivo del ricorrente sarà idealmente ottenere l’annullamento integrale dell’accertamento. Ma, se la violazione c’è stata, realisticamente il migliore risultato ottenibile potrebbe essere un alleggerimento: ad esempio, convincere la Corte che il contribuente aveva i requisiti sostanziali salvo un vizio formale, oppure ottenere una riduzione sensibile delle sanzioni (applicando per esempio la continuazione, escludendo il cumulo di sanzioni per IVA e imposte dirette come duplicative in parte). Ci sono stati casi in cui i giudici hanno ridotto la sanzione al minimo edittale riconoscendo la buona fede. Ad esempio, giudici di pace (in contenziosi minori) hanno talora annullato sanzioni per omessa comunicazione del quadro RS, ritenendola violazione meramente formale – segnale che, se ben impostata, la difesa può far leva sul principio del favor rei.
Dopo la sentenza di primo grado: appello e Cassazione
Sia il contribuente sia l’Agenzia possono appellare la sentenza di primo grado se sfavorevole (totalmente o parzialmente). L’appello va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado (o entro 6 mesi dalla pubblicazione in assenza di notifica). L’appello si propone alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale). In appello non si possono introdurre motivi nuovi rispetto al primo grado, salvo quelli derivanti dalla sentenza stessa.
Dopo l’appello, è possibile il ricorso per Cassazione (avverso la sentenza di appello) per motivi di diritto. Da notare: la Cassazione è giunta di recente anche su casi riguardanti il regime forfettario, ad esempio in tema di detrazione IVA e costi forfetari , o su aspetti procedurali. Le Sezioni Unite si sono pronunciate a fine 2024 (sent. n.27905/2024) su questioni di abuso del diritto in operazioni di aggiramento della norma sul forfettario , segno dell’importanza sistematica del tema. Tuttavia, arrivare fino in Cassazione è lungo e costoso: auspicabilmente, il contenzioso troverà soluzione già nei primi gradi.
La cartella esattoriale: quando arriva e come reagire
La cartella di pagamento (detta anche cartella esattoriale) è l’atto con cui l’Agente della Riscossione (oggi Agenzia Entrate-Riscossione, ex Equitalia) richiede il pagamento di somme iscritte a ruolo. Nel contesto del regime forfettario indebito, una cartella può arrivare in diverse circostanze:
- Cartella a seguito di avviso di accertamento non pagato: come detto, gli accertamenti dal 2018 in poi sono già esecutivi: dopo 60 giorni senza ricorso, o se il ricorso è avvenuto ma non si è ottenuta sospensione, l’importo viene affidato al riscossore che emette una cartella/avviso di pagamento. Spesso però si notifica un semplice avviso di intimazione (non una cartella tradizionale, per gli atti impo-esecutivi). In ogni caso, se il contribuente non ha pagato volontariamente quanto dovuto, si troverà notificato un atto della riscossione.
- Cartella a seguito di mancato pagamento di avviso bonario: se il contribuente ha ignorato l’avviso bonario 36-bis, trascorsi i 30 giorni, l’importo (imposta + 30% sanzione) viene iscritto a ruolo e notificato in cartella. In tal caso la cartella contiene per la prima volta la richiesta formale di pagamento e può essere impugnata nel merito, eccependo i motivi che si sarebbero fatti valere contro l’avviso bonario.
- Cartella per omessa dichiarazione (liquidazione d’ufficio): in alcuni casi di omessa dichiarazione, l’Agenzia può iscrivere a ruolo provvisoriamente un’imposta stimata e notificare direttamente una cartella senza passare per l’accertamento formale (è raro, ma legalmente previsto come “accertamento d’ufficio”). Sarebbe una cartella da omessa dichiarazione.
Cosa fare se arriva una cartella esattoriale legata al forfettario indebito:
- Verificare la fonte della cartella: controllare attentamente il dettaglio del ruolo allegato alla cartella per capire a quale atto si riferisce. Se c’è un numero di avviso di accertamento, significa che la cartella è conseguenza di un accertamento non pagato (forse perché non impugnato o perso in giudizio). Se c’è riferimento a controllo automatizzato (36-bis), la cartella origina da avviso bonario ignorato.
- Controllare i termini di notifica: anche le cartelle hanno termini (di regola devono essere notificate entro la fine del secondo anno successivo a quello di consegna a riscossione). Se la cartella è tardiva, può essere nulla.
- Se la cartella segue un avviso di accertamento definitivo: in tal caso, non si possono più contestare nel merito le imposte, perché l’avviso è definitivo. Si possono però verificare vizi della cartella (errore nei calcoli, mancata notifica dell’avviso presupposto, ecc.). Un motivo frequente di ricorso è la mancata notifica dell’avviso di accertamento: se il contribuente non ha mai ricevuto l’atto originario (magari per problemi di notifica), può impugnare la cartella contestando di non aver potuto difendersi. Se il giudice accerta la mancata notifica, annulla la cartella e l’Agenzia dovrà notificare l’atto iniziale (che, se ormai fuori termine, non può più essere emesso).
- Se la cartella segue un avviso bonario mai ricevuto o contestato: qui il contribuente può, con la cartella, discutere nel merito la pretesa tributaria sottostante. Ad esempio, se aveva ragione nel ritenersi forfettario e l’Agenzia ha sbagliato, può farlo valere ora. Si presenta ricorso entro 60 giorni dalla notifica della cartella alla Corte di Giustizia tributaria, chiedendo l’annullamento delle somme.
- Valutare la definizione agevolata se disponibile: al 2025, per le cartelle notificate entro il 30/6/2022 era possibile aderire alla Rottamazione-quater (pagando il debito senza sanzioni né interessi di mora). Ma per cartelle più recenti (es. 2023-2025) non c’è una rottamazione in corso. Tenere d’occhio eventuali nuove “pace fiscali”. Ad esempio, la L.197/2022 ha previsto la definizione agevolata delle somme da controlli automatici 2019-20 con sanzioni ridotte al 3%. Se la cartella riguarda quell’ambito e non è stata ancora pagata, forse si poteva aderire. Tuttavia, a metà 2025 non risultano nuove definizioni per questi atti.
- Richiedere una rateazione: se la cartella è dovuta e si intende pagarla ma non si hanno le disponibilità immediate, è possibile chiedere all’AdE-Riscossione un piano di rateizzazione. Per debiti fino a €120.000 si possono ottenere fino a 72 rate mensili automaticamente; per importi superiori (o richieste fino a 120 rate) serve documentare temporanea difficoltà. La domanda di rateazione, se accolta, sospende le azioni esecutive a patto di pagare le rate.
- Chiedere eventualmente sospensione della riscossione: se si presenta ricorso contro la cartella, si può chiedere al giudice tributario la sospensiva, analogamente all’accertamento. Inoltre, in caso di vizi evidenti (es: pagamento già avvenuto, prescrizione), si può chiedere all’Agente della Riscossione la sospensione in autotutela presentando le prove (la legge consente una sospensione immediata se l’istanza è fondata).
In definitiva, la cartella esattoriale è l’ultimo step: se si è arrivati a questo punto, significa che o non si è fatto opposizione prima o le si è perse. La difesa sarà quindi limitata a questioni formali o a riaprire il merito solo se quell’atto è il primo suscettibile di ricorso (come nel caso di cartella da 36-bis).
Strategie difensive e consigli finali dal punto di vista del contribuente
Affrontare una contestazione IVA per regime forfettario indebitamente utilizzato richiede un mix di competenza tecnica e di strategia pratica. Dal punto di vista del debitore, è importante:
- Capire esattamente la violazione contestata: superamento soglia, causa ostativa, omessa dichiarazione, ecc. Ognuna ha sfaccettature diverse su cui costruire la difesa (come abbiamo visto).
- Agire tempestivamente: i termini in ambito fiscale sono stringenti. Non lasciarsi mai scadere i 60 giorni di un avviso senza fare nulla. Anche per le lettere bonarie, agire entro il termine indicato.
- Valutare costi e benefici del contenzioso: se l’importo contestato non è enorme e la violazione è oggettiva, talvolta può convenire aderire e pagare con sanzioni ridotte, chiudendo lì la questione. Altre volte invece, specie se ci sono punti difendibili, vale la pena fare ricorso (considerando però spese di giudizio e parcella del professionista).
- Documentare tutto: una buona difesa si basa su prove. Raccogliere contratti, email, documenti che possano supportare la propria versione (es. che quell’unico cliente non era ex datore ma un committente qualsiasi, ecc.). Se ci sono sentenze o circolari a proprio favore, citarle negli scritti difensivi.
- Utilizzare lo Statuto del Contribuente: ricordare agli uffici i diritti del contribuente (art. 6 Statuto: diritto al contraddittorio; art.10: non sanzionabilità per obiettiva incertezza; art.8: sanzioni ridotte se fatti imputabili a terzi, come il consulente). Non sempre “attacca”, ma segnala ai funzionari e ai giudici che si conoscono le tutele.
- Richiedere l’autotutela in casi di evidente errore dell’Agenzia: capita che l’AE sbagli (ad esempio scambi omonimi, oppure consideri superata una soglia per un doppio conteggio). In questi casi, una ben argomentata istanza di annullamento in autotutela può risolvere rapidamente senza dover andare in causa.
- Non trascurare gli aspetti previdenziali: fuori tema fiscale stretto, ma ricordiamo che se uno era forfettario e diventa “ordinario”, può doversi iscrivere alla gestione INPS commercianti/artigiani (se ditta individuale) o gestione separata (se professionista) e potrebbe dover contributi aggiuntivi perché come forfettario versava sul minimale. Questo non viene contestato nell’avviso fiscale, ma è un effetto collaterale da sistemare eventualmente con l’INPS.
- Valutare procedure di sovraindebitamento se importi insostenibili: se, malgrado tutto, il contribuente si ritrova con cartelle esattoriali per importi molto alti che non può pagare, esistono procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (Legge 3/2012 e Codice della crisi) che permettono, in casi estremi, di proporre un saldo e stralcio dei debiti, inclusi quelli fiscali, davanti a un giudice civile. È l’ultima spiaggia, ma è bene sapere che c’è per tutelare la dignità del debitore onesto ma sfortunato.
In conclusione, chi riceve contestazioni IVA per un regime forfettario applicato erroneamente non deve disperare, ma nemmeno minimizzare. Ogni caso ha le sue peculiarità: a volte l’Agenzia ha ragione piena (e allora conviene negoziare il miglior accordo possibile), altre volte il contribuente può avere solide ragioni per opporsi (e allora bisogna farle valere con determinazione).
L’importante è essere informati sui propri diritti, attivi nel farli valere, e possibilmente farsi assistere da professionisti esperti in contenzioso tributario. Il punto di vista del debitore deve sempre emergere chiaramente: mostrare la propria buona fede, la volontà di rimediare e, se vi sono state incertezze normative, sottolinearle. Giudici e funzionari, di fronte a un contribuente collaborativo e preparato, saranno più inclini a concessioni (come riduzioni sanzioni) o a valutare con attenzione le prove favorevoli.
Di seguito, proponiamo alcune Domande & Risposte frequenti sul tema, per chiarire ulteriormente i dubbi.
Domande Frequenti (FAQ)
Domanda: Ho ricevuto una “lettera di compliance” dall’Agenzia delle Entrate che mi contesta l’applicazione del forfettario per il 2021. Non è un accertamento, ma mi chiedono documenti. Cosa dovrei fare?
Risposta: La lettera di compliance è un invito bonario a verificare e correggere eventuali errori . Non ignorarla! Entro il termine indicato, raccogli la documentazione richiesta (fatture, estratti conto, contratti, ecc.) e inviala all’ufficio . Accompagna i documenti con una lettera esplicativa dove chiarisci la tua posizione (es. spiega perché ritenevi di avere i requisiti, o segnala se effettivamente ti sei accorto di un errore) . Se ti rendi conto di aver sbagliato, esprimi la disponibilità a regolarizzare spontaneamente (es. tramite dichiarazione integrativa e ravvedimento) . La compliance non è un atto impugnabile, quindi lo scopo è prevenire un accertamento: collaborando potrai forse evitare le sanzioni più gravi o ottenere dal funzionario indicazioni su come sistemare (spesso suggeriscono il ravvedimento operoso) . In sintesi, rispondi nei tempi, fornisci tutto e sii propositivo. Se invece ritieni che l’anomalia segnalata sia infondata, usa la risposta per spiegare dettagliatamente le tue ragioni e allega prove (ad esempio, se contestano superamento soglia ma una fattura era un rimborso spese, documentalo). Ignorare la lettera porterebbe quasi sicuramente a un avviso di accertamento “duro” .
Domanda: Mi è arrivato un avviso bonario 36-bis per l’anno 2021: dice che non ho versato IVA per €5.000 e chiede il pagamento con sanzione ridotta del 10%. Io in effetti nel 2021 non ho presentato dichiarazione IVA perché pensavo di essere forfettario, ma a questo punto temo di aver sbagliato. Cosa mi conviene fare?
Risposta: L’avviso bonario indica che il controllo automatico ha trovato discrepanze – probabilmente hanno rilevato che avevi operazioni imponibili (magari da esterometro, o da CU dei clienti) senza dichiarazione IVA. Se riconosci l’errore, la via migliore è aderire: paga l’importo indicato entro 30 giorni per usufruire della sanzione ridotta a 1/3 (il 10% invece del 30%) . In questo modo sistemi l’IVA dovuta per il 2021 con penalità limitate. Contestualmente, presenta anche la dichiarazione IVA 2022 per il 2021 (se richiesta dall’avviso) e valuta di fare una dichiarazione dei redditi integrativa per ricalcolare IRPEF e addizionali di quell’anno. Potrai ravvederti anche su quelle imposte. Se invece ritieni che l’avviso sia errato (casi rari, ma possibile: es. hai presentato la dichiarazione e l’hanno persa, oppure l’IVA non era dovuta per qualche motivo), puoi segnalare l’errore all’ufficio (entro 30 gg) usando le modalità indicate nell’avviso bonario. L’Agenzia riesaminerà e, se hai ragione, annullerà o correggerà la pretesa. Però attenzione: se non paghi né fai sapere nulla entro 30 giorni, l’importo verrà iscritto a ruolo e ti arriverà una cartella con sanzione piena (30%). Quindi, in mancanza di palese errore dell’Agenzia, è consigliabile pagare subito con lo sconto . In ultimo, dopo il pagamento, rimane la questione del regime: se nel 2021 non avevi requisiti, correggi anche la tua dichiarazione dei redditi di conseguenza (altrimenti potrebbero accertarti a parte l’IRPEF). Magari rivolgiti a un commercialista per sistemare tutti gli aspetti contestualmente.
Domanda: L’Agenzia mi contesta che nel 2023 ho superato i 100.000€ di compensi e quindi avrei dovuto applicare l’IVA da quel momento. Io ho incassato una grossa fattura a fine novembre 2023 che ha portato il totale a 110.000€, ma non sapevo di dover cambiare regime “al volo”. Cosa succede ora?
Risposta: La norma introdotta dal 2023 stabilisce la decadenza immediata dal forfettario al superamento di €100.000 incassati nell’anno . Ciò significa che dal giorno in cui hai incassato la fattura che ha fatto sforare la soglia (nel tuo caso, a novembre 2023) dovevi iniziare ad addebitare l’IVA in fattura per tutte le operazioni successive . Inoltre, la fattura stessa che ha causato il superamento – se era già stata emessa senza IVA – va rettificata integrando l’IVA su tutto l’importo . Le fatture emesse prima, invece, rimangono legittimamente senza IVA (non vanno “spacchettate”) . Nel tuo caso, quindi, l’Agenzia ti contesterà presumibilmente l’IVA su quella fattura di fine novembre e su quelle emesse dopo (dicembre 2023) se ne hai fatte senza IVA. Come rimediare? Puoi ancora emettere note di variazione adesso: emetti una nota di debito al tuo cliente per quella fattura, calcolando l’IVA al 22% sull’intero importo . Dovrai versare quell’IVA all’Erario (meglio se prima che arrivi l’accertamento, magari con ravvedimento). Avverti il cliente che, essendo oltre soglia, quella prestazione era imponibile: se il cliente è soggetto IVA potrà detrarla, se è privato cercherai un accordo (non sei legalmente obbligato ma spesso si trova un compromesso commerciale per non perderlo). Per il futuro, ricorda: superare 100k in corso d’anno provoca uno switch immediato a regime ordinario ex-nunc . Superare invece 85k ma restare sotto 100k fa decadere dal forfettario solo dall’anno successivo. È una novità complessa, tanto che l’AE l’ha spiegata nella circolare 32/E dicembre 2023 con esempi . Nel tuo caso specifico, sarà importante nella difesa mostrare la buona fede (norma nuova e poco chiara) per cercare almeno di ridurre le sanzioni. Ma l’IVA su quella parte “sopra soglia” purtroppo è dovuta.
Domanda: Ho scoperto di non avere i requisiti per il forfettario nel 2022 (avevo una partecipazione in una SAS). Nel 2023 ho quindi adottato il regime ordinario. Però per tutto il 2022 ho emesso fatture senza IVA. Posso fare qualcosa ora per evitare sanzioni?
Risposta: Sì. Anche a posteriori (prima che ti contestino formalmente) puoi correggere le fatture 2022 e versare il dovuto, sfruttando il ravvedimento operoso. In base ai chiarimenti AE , hai due strade: 1. Emissione di note di variazione in diminuzione per stornare tutte le fatture 2022 e contemporanea emissione di nuove fatture riferite al 2022, con IVA e ritenuta d’acconto indicate . Praticamente rifai la fatturazione come se fossi stato in ordinario. 2. In alternativa, emissione di note di variazione in aumento su ogni fattura 2022, per aggiungere l’IVA mancante e la ritenuta d’acconto .
Entrambe vanno inviate ai clienti. Se i clienti accettano, ti pagheranno l’IVA (e se sostituti ti tratterranno la ritenuta). Se qualche cliente rifiuta le nuove fatture (può succedere, anche se legalmente non dovrebbe opporsi) , tu comunque dovrai versare l’IVA e regolare le ritenute. L’Agenzia, infatti, ha chiarito che se il cliente rifiuta le fatture rettificative, purtroppo non avrai diritto a credito per le ritenute non subite né potrai non versare l’IVA (il meccanismo di rivalsa/compensazione non scatta se il cliente non paga) . Quindi potrebbe essere un tuo costo. Tuttavia, meglio pagare spontaneamente ora con ravvedimento (sanzione ridotta ad esempio 1/8) che attendere un accertamento con sanzioni al 90-180%. Dovrai poi presentare una dichiarazione IVA 2023 per l’anno 2022 (anche se tardiva) e un Redditi integrativo 2023 cambiando il quadro da LM a RF. Pagherai l’IVA, la differenza IRPEF e le ritenute non versate (in genere, se i clienti non hanno trattenuto nulla, pagherai quella parte di IRPEF direttamente). Ti consiglio di farti seguire da un commercialista per questi adempimenti. In parallelo, potresti informare i clienti che se non accettano le fatture corrette e non pagano l’IVA, dovrai rivalerti legalmente su di loro: questo a volte li convince, specie se sono aziende che comunque l’IVA la recuperano a credito. In definitiva: sì, puoi rimediare. Emissione di note di credito e nuove fatture o note di debito integrative, poi ravvedimento versando IVA + imposte + interessi + sanzioni ridotte . Così eviti il peggio (accertamenti e sanzioni piene) e torni in carreggiata.
Domanda: Il mio ex datore di lavoro è diventato nel 2021 il mio principale (e unico) cliente. Io, su suggerimento del consulente, ho aperto partita IVA in regime forfettario dopo essermi dimesso. Ora però mi dicono che non potevo fare il forfettario perché fatturo tutto a lui. Rischia qualcosa anche il mio ex datore?
Risposta: La normativa sul forfettario prevede la causa ostativa se l’attività autonoma è svolta prevalentemente verso ex datori di lavoro degli ultimi due anni . Quindi, purtroppo, a meno che tu non riesca a dimostrare che quel cliente non è “ex datore” (ma mi pare lo sia) o che non era prevalente (ma se è unico, è certamente prevalente), l’Agenzia potrebbe contestarti l’indebito regime. Dal lato del tuo ex datore, ora committente: in qualità di sostituto d’imposta lui non ti ha applicato ritenute d’acconto sui compensi, basandosi sulla tua dichiarazione di essere forfettario . Se emergerà che non ne avevi diritto, teoricamente quelle ritenute dovevano essere fatte. Che succede? La prassi (Interpello 245/2023) dice che il lavoratore autonomo (tu) è responsabile delle sanzioni per le ritenute non subite, mentre il sostituto (ex datore) non sarà sanzionato se prova di aver agito senza colpa (cioè ha creduto legittimamente alla tua attestazione) . In pratica, l’azienda non verrà punita se poteva ragionevolmente non sapere. Dovrà però versare adesso le ritenute tardive se le fatture verranno regolarizzate (emetterai note di variazione, ecc.) . Quindi, il tuo ex datore probabilmente dovrà pagare le ritenute arretrate (20% dei compensi) più interessi, ma eviterà le sanzioni dimostrando che tu avevi dichiarato di essere forfettario . Tu invece dovrai pagare le imposte non versate (l’IRPEF su quei compensi) e le sanzioni relative, anche per le ritenute non subite . È una situazione spiacevole e abbastanza comune (false partite IVA). Ti conviene parlare col tuo ex datore e spiegargli la situazione: dovrete coordinare la regolarizzazione. Forse l’azienda preferirà in futuro assumerti o instaurare una collaborazione diversa, perché fiscalmente questo scenario viene visto male. In sintesi: tu rischi di pagare IVA e imposte retroattive + sanzioni; il tuo ex datore rischia al più di dover versare tardivamente le ritenute senza sanzioni, quindi è relativamente coperto . Chiaramente, se non collabori a regolarizzare, l’Agenzia potrebbe rivalersi anche su di lui per le ritenute, ma poi lui avrebbe diritto di rivalsa su di te. Meglio prevenire arrivando insieme a un accordo di sistemazione spontanea.
Domanda: Ho ricevuto una cartella esattoriale per €15.000: riguarda IVA e IRPEF del 2018, perché dicono che non potevo stare nei minimi (forfettari). Io però non ho mai ricevuto prima l’accertamento. Cosa posso fare ora?
Risposta: Se davvero non ti è mai stato notificato un avviso di accertamento per il 2018 e la prima cosa che vedi è la cartella, c’è probabilmente un vizio di notifica. Occorre verificare: la cartella dovrebbe riferire un numero di atto presupposto (avviso) e la data di notifica di quell’avviso. Potrebbe essere che l’abbiano notificato a un vecchio indirizzo o ci sia stato un errore. In tal caso, puoi fare ricorso contro la cartella entro 60 giorni, sostenendo la nullità della cartella per omessa notifica dell’atto presupposto. I giudici tributari in genere annullano la cartella se l’accertamento non risulta correttamente notificato. Attenzione: l’Agenzia potrebbe in teoria ritentare la notifica dell’atto, ma se ormai i termini (vedi decadenza 2018: di norma 31/12/2024) sono passati, tu avresti un vantaggio. Dunque la linea di difesa è: impugna la cartella chiedendo l’annullamento di tutto per difetto di notifica dell’avviso. Contemporaneamente, in subordine, puoi contestare nel merito la pretesa (cioè dire che anche nel merito eri in forfettario legittimamente, se è così). Ma spesso, se manca la notifica, i giudici decidono solo su quello senza entrare nel merito. Ricorda di chiedere la sospensione della cartella se l’importo è elevato per te – spieghi che non avendo saputo nulla prima, pagare subito ti creerebbe danno grave. Il giudice valuterà. Se invece dall’estratto di ruolo emerge che un accertamento fu notificato (magari a un indirizzo PEC?), allora la cartella è legittima come atto finale. In tal caso, se l’accertamento è definitivo perché non hai fatto ricorso a suo tempo, purtroppo il merito non puoi più discuterlo (sei decaduto). Potresti solo far valere vizi formali della cartella o chiedere dilazione. Riassumendo: verifica bene gli atti presupposti. Se davvero mai notificati, hai ottime chance di far annullare la cartella per vizio procedurale. Muoviti subito con un avvocato tributarista che acceda eventualmente anche agli atti di AE-Riscossione per conferma notifica. Non pagare senza aver chiarito questo aspetto. Se vinci sul vizio, €15.000 risparmiati (anche se l’ufficio potrebbe tentare di rinotificarti l’atto ora per allora, ma se i termini sono scaduti non potrà).
Domanda: È vero che l’Agenzia delle Entrate sta facendo controlli mirati sui forfettari in questi anni? Come faccio a sapere se sono “nel mirino”?
Risposta: Sì, è vero. Ci sono state dichiarazioni ufficiali e notizie di stampa sul fatto che migliaia di partite IVA forfettarie sono sotto controllo per utilizzo irregolare del regime . In particolare, come detto, i periodi 2019-2021 sono stati oggetto di analisi di rischio. Ad esempio, a fine 2023 si parlava di oltre 4.000 forfettari individuati con accesso irregolare (fonti Brocardi.it citano Cass. n.25859/2023 a riguardo) . Ci sono vari campanelli di allarme: se hai omesso di compilare campi in dichiarazione, se hai ricevuto (o stai per ricevere) una lettera di anomalia, se il tuo fatturato è esploso oltre i limiti, o se hai situazioni note (es. socio SRL, redditi da lavoro elevati) è probabile che tu sia nel target. Non c’è un modo certo per saperlo in anticipo, ma alcuni segnali: ad esempio molti hanno ricevuto PEC intorno a giugno-luglio 2023 per le anomalie quadro RS 2021 . Se non l’hai ricevuta e sai di aver omesso quei dati, potresti essere nella prossima tranche di controlli sul campo (l’AE ha annunciato accessi brevi perché solo pochi hanno risposto spontaneamente) . Diciamo che se sai di avere qualche vulnerabilità, preparati: magari consulta un esperto e raccogli in anticipo i documenti che ti giustificano. Ad esempio, se avevi un ex datore e ora cliente prevalente, predisponi eventuali spiegazioni (tipo: il rapporto era diverso, o quell’ex datore in realtà è diventato partner, ecc.). Oppure se hai sforato di poco il limite, assicurati di avere ben chiaro quanto hai incassato e se puoi rettificare. Purtroppo, non c’è un elenco pubblico dei soggetti a rischio. Ma possiamo confermare che l’Agenzia sta incrociando i dati delle fatture elettroniche, delle CU, dell’INPS e delle Camere di Commercio per scovare incongruenze . In pratica, se hai qualcosa fuori posto, lo scopriranno con buona probabilità. Il consiglio è: se sai di avere torto, ravvediti prima che bussino. Se pensi di essere in regola, comunque tieni ben ordinata la documentazione e non sottovalutare eventuali comunicazioni in arrivo.
Domanda: Ho aderito al regime forfettario nel 2022, ma a fine 2022 mi sono accorto di aver sforato i 65.000 (all’epoca era la soglia). Ho comunque fatto la dichiarazione 2023 come forfettario. Adesso che la soglia è 85.000, pensavo non succedesse nulla per il 2022. Possono farmi qualcosa?
Risposta: Sì, purtroppo per il 2022 la soglia era €65.000 (poi elevata dal 2023). Se tu nel 2022 hai incassato ad esempio €70.000, avresti dovuto uscire dal forfettario dal 2023, ma per il 2022 stesso la norma previgente (allora non c’era la decadenza in corso d’anno, valeva dall’anno dopo) ti consentiva comunque di restare forfettario per il 2022, dato che non avevi uno sforamento oltre il 50%. Attenzione: nel regime in vigore fino al 2022, qualunque superamento comportava cessazione dall’anno seguente (non più in corso d’anno). Quindi formalmente nel 2022 eri ancora forfettario legittimo, solo che poi dal 2023 non avresti potuto. Dici: hai fatto la dichiarazione 2023 come forfettario, ma nel 2023 la soglia è salita a 85k. Eri a 70k l’anno prima, quindi sotto 85k, quindi in teoria per la nuova norma saresti ok nel 2023. C’è però un caveat: la legge di Bilancio 2023 non credo abbia sanato situazioni pregresse di sforamento 65k. Questo è un punto sottile. Tendenzialmente, l’Agenzia potrebbe contestare che per la legge vigente nel 2022 tu nel 2023 non potevi stare in forfettario (perché avevi superato 65k nel 2022, attivando l’uscita). Il fatto che la soglia sia poi stata innalzata a 85k dal 2023 potrebbe essere invocato come ius superveniens favorevole (principio del favor rei, in ambito sanzionatorio si applica norma più favorevole). Non è chiarissimo, è una situazione borderline. Personalmente, credo che se hai incassato 70k nel 2022, la norma nuova ti avvantaggia perché dice che sotto 85k sei nei limiti. Ma bisogna vedere se l’hanno scritta retroattiva. In genere no, vale dal 2023. Quindi la tua posizione 2023 è controversa. Potresti spontaneamente chiedere un interpello all’Agenzia (ma ormai è tardi, l’anno è passato). Oppure attendere: se non ti contestano nulla, bene. Se ti contestano, si aprirà la discussione se la soglia 85k vale anche per valutare il 2022 per permanere nel 2023. In ogni caso, per sicurezza, prepara eventuali soldi da parte nel caso dovessi pagare IVA 2023 perché ti dicono che non potevi starci. È un caso fine. Probabilmente, l’Agenzia guarderà ai dati: vedono che hai dichiarato 70k 2022 e 2023 hai applicato regime, ma 70k è <85k, forse non si accorgeranno del problema perché i sistemi ora considerano 85k (speculazione). Se arrivasse un avviso, la difesa sarebbe: favor rei e nuova norma ti consentono di beneficiare del regime. Non ci sono precedenti noti su questa specifica situazione di soglia cambiata. Quindi incrocia le dita. Se vuoi stare tranquillo, potresti tu ora fare integrativa 2024 (per il 2023) ricalcolando ordinario, e ravvederti. Ma sarebbe iperprudente e forse inutile. Tieni presente però: se aspettano oltre il 2025 a contestarti, magari la faranno franca perché tu intanto continui. Insomma, qui non c’è una risposta certa.
Domanda: In caso di contestazione del regime forfettario, quali costi devo considerare per difendermi? Ne vale la pena o meglio pagare e basta?
Risposta: Dipende dall’importo in gioco e dalla solidità delle tue argomentazioni. I costi da considerare: – Consulenza e assistenza legale/tributaria: se ti affidi a un commercialista o avvocato tributarista, questi avranno un costo (può essere a forfait per l’intera pratica o a fasi: istanza adesione, ricorso, ecc.). Per un ricorso tributario su questioni del genere, i costi possono variare da poche centinaia di euro (per controversie minori) a qualche migliaio se è complesso e pluriennale. Informati con un preventivo dettagliato. – Contributo unificato tributario: per proporre ricorso in Commissione devi pagare un contributo unificato che dipende dal valore della lite (es: per valore fino a 5.000 euro è 30€, fino a 25k è 60€, poi cresce, max 1.500€ oltre 200k). – Eventuale consulenza tecnica, spese vive: di solito limitate (fotocopie, notifiche).
D’altra parte, se fai accertamento con adesione potresti risparmiare il ricorso, ma comunque quasi certamente avrai bisogno di un professionista per negoziare efficacemente.
La valutazione “ne vale la pena?” si fa così: confronta l’importo che potresti risparmiare vincendo o ottenendo sconti vs i costi certi di difesa vs la probabilità di successo. Ad esempio: ti chiedono €30.000 tra imposte e sanzioni. Se hai buoni argomenti per ridurre le sanzioni del 50% e magari qualche imposta, potresti risparmiare, diciamo, €10.000-15.000. Val la pena spendere magari €3.000 di difesa per provarci, direi di sì. Se invece ti contestano €3.000 e sai di avere torto marcio, forse meglio pagare subito con sanzioni ridotte (magari €2.000 totali) piuttosto che spendere quasi la stessa cifra in spese legali e rischiare di perdere comunque. Ricorda anche che in caso di vittoria totale, il giudice può condannare l’Agenzia a rimborsare le spese di lite (di solito parzialmente, raramente totali). In caso di vittoria parziale, spesso ognuno si tiene le proprie spese. In caso di soccombenza tua, potresti dover pagare un piccolo rimborso spese all’ufficio (ma non succede sempre).
In definitiva: fai due conti. Se la cifra contestata è elevata o reputi l’azione dell’Agenzia ingiusta, difendersi è opportuno. Se l’importo è modesto e la violazione evidente, valuta soluzioni deflative (adesione, ravvedimento) che ti fanno risparmiare senza andare in giudizio. Tieni presente che l’Agenzia spesso in sede di adesione può trattare sulle sanzioni, quindi anche senza ricorso potresti ottenere uno sconto pagando qualcosa in più subito ma chiudendo la questione.
Domanda: Ma l’Agenzia delle Entrate non dovrebbe anche riconoscermi i costi forfettari se mi toglie il regime? Cioè, se ero forfettario avevo un reddito imponibile già ridotto. Può ora tassarmi come se non avessi costi?
Risposta: Bella domanda. In teoria, ricalcolando in regime ordinario, l’Ufficio dovrebbe considerare i costi deducibili effettivi che hai sostenuto, non può ignorarli. Il problema è che molti forfettari non tengono traccia analitica dei costi (non essendoci obbligo). Quindi l’Agenzia tende a ricostruire i ricavi e poi applicare a forfait magari lo stesso coefficiente inverso, o nei casi peggiori tassare tutto come ricavo netto. Tuttavia, c’è giurisprudenza (Corte Costituzionale e Cassazione) che dice: in accertamento induttivo si possono riconoscere costi in modo forfettario ai fini IRPEF (es. percentuale sui ricavi) , ma per l’IVA, come da altra FAQ, no, servono prove. Quindi per i redditi potresti pretendere almeno il riconoscimento di un margine di costo. Se, ad esempio, in attività di consulenza avevi un coefficiente di redditività 78%, implicitamente 22% di costi. In assenza di meglio, potresti sostenere che almeno quelli vadano considerati. C’è un precedente di Cassazione 2025 (ord. n.5486/2025) che in pratica afferma: ok riconoscere forfettariamente costi per imposte dirette se li presumiamo, ma per IVA no . Quindi l’Agenzia deve riconoscerti costi (anche forfettari) sul reddito se rifà i conti, altrimenti tasserebbe più del dovuto violando il principio di capacità contributiva. In pratica, se non hai tenuto contabilità, cerca di ricostruire almeno le spese principali (beni strumentali, materiali, eventuali fatture di acquisto): presentale in sede di adesione o ricorso e fatti abbattere il reddito imponibile. Non sempre l’ufficio lo fa spontaneamente, sta un po’ a te evidenziarlo. Non è automatico che applichino il “coefficiente contrario” del regime – spesso no, perché legalmente non è previsto. Ma tu puoi trattare dicendo: “guardate, i miei costi medi erano circa il 22%, applichiamolo per evitare di litigare”. Ciò può rientrare in un accordo.
Domanda: Dopo quanto tempo si prescrivono queste imposte? Se l’Agenzia non mi contesta nulla per tot anni, sono al sicuro?
Risposta: Come spiegato, l’Agenzia ha tempo fino al quinto anno successivo (dichiarazione presentata) o settimo (omessa) per notificarti un accertamento . Perciò, se parliamo del 2020 (dichiarazione 2021), la scadenza era 31/12/2025 (perché nel 2020 c’erano regole COVID, ma semplificando). Se passata quella data non ti è arrivato nulla, in teoria l’anno è salvo – non possono più accertarlo (decadenza). C’è da dire: se uno non ha presentato proprio dichiarazione, il termine è più lungo. E le sanzioni amministrative una volta irrogate si prescrivono in 5 anni dal passaggio in giudicato dell’atto. Comunque sì, trascorsi i termini di accertamento, non possono più chiederti quelle imposte. Attenzione però: se hai presentato dichiarazione infedele, dopo la decadenza delle imposte possono ancora notificare una sanzione autonoma entro l’anno successivo (si discute, ma la legge prevede per infedele dichiarazione la notifica entro fine anno successivo a quello di decadenza accertamento). È un tecnicismo poco noto. Comunque, se l’Agenzia non ti contesta nulla entro 5 anni, molto probabilmente non succederà più. Esempio: sul 2017 oramai non possono farti nulla (termine scaduto al 31/12/2023, considerando anche proroghe). Sul 2018 scade fine 2024. Sul 2019 scade fine 2025, e così via. Quindi, una volta trascorso il tempo, sei “protetto” dalla decadenza. Non esiste un’automatica prescrizione più breve per le imposte in questo contesto – vale la decadenza accertativa. Per le cartelle esattoriali, se emesse, la prescrizione del credito IVA è 10 anni (in generale, per tributi erariali decennale). Quindi, ad esempio, se hai una cartella definitiva, lo Stato può riscuotere per 10 anni (salvo atti interruttivi) prima che cada in prescrizione.
Riferimenti normativi e di prassi principali:
- Legge 23 dicembre 2014 n.190, commi 54-89: Regime forfetario (come modificato da L.145/2018, L.160/2019, L.197/2022).
- D.P.R. 633/1972, art.26: Note di variazione IVA (comma 1 aumento, comma 2 diminuzione) .
- D.Lgs. 471/1997: sanzioni tributarie (art.5 omessa dichiarazione, art.6 violazioni IVA fatturazione , art.1 infedele dichiarazione, art.14 omessa ritenuta).
- D.Lgs. 472/1997: principi generali sanzioni (art.6 buona fede del contribuente – esclude sanzioni per errore non colpevole ; art.13 ravvedimento operoso).
- D.Lgs. 546/1992: processo tributario (ricorso, sospensione, conciliazione, art.19 atti impugnabili – avvisi bonari e compliance non impugnabili).
- Circolare AE 9/E del 10.4.2019: chiarimenti su cause ostative forfettario (es. controllo Srl) .
- Circolare AE 32/E del 5.12.2023: gestione superamento €100.000 in corso d’anno (decadenza immediata) .
- Risposte a interpello AE n.499 e 500/2019: rimedi per fatture emesse erroneamente senza IVA da finto forfettario .
- Risposta interpello AE n.245/2023: responsabilità sostituto d’imposta in caso di regime forfettario non spettante (lavoratore autonomo responsabile sanzioni, sostituto esente se in buona fede) .
- Statuto del Contribuente (L.212/2000): art.10 (tutela dell’affidamento e buona fede, non sanzionabilità se incertezza normativa), art.6 (diritto al contraddittorio), art.8 (sanzioni proporzionate e rapporto con violazioni formali).
- Giurisprudenza: Cass. civ. Sez. V, ord. n.5486/2025 (no deduzione forfetaria costi ai fini IVA in accertamento induttivo) ; Cass. ord. n.21965/2023 (forfettari e giudicato esterno, caso su soci trasparenti); CTR Sicilia sent. n.9965/2021 (partecipazione società di persone con attività diversa: niente esclusione dal regime) ; Cass. SS.UU. n.27905/2024 (abuso del diritto e regime forfettario, principi generali).
Conclusione: trovarsi a fronteggiare una contestazione IVA per utilizzo improprio del regime forfettario è sicuramente complesso, ma con una buona conoscenza delle regole (o affidandosi a professionisti preparati) è possibile difendersi efficacemente. In molti casi, si riesce a evitare il pagamento di sanzioni esorbitanti e, se vi sono margini, anche a far valere le proprie ragioni di merito. L’importante è agire con tempestività, fornire trasparenza all’Amministrazione e utilizzare tutti gli strumenti normativi a tutela del contribuente. Dal punto di vista dell’imprenditore o professionista “debitore”, mantenere un atteggiamento collaborativo ma fermo sui propri diritti è la chiave per gestire al meglio la situazione e magari trasformare un potenziale disastro finanziario in una vertenza risolta con equilibrio.
Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché ti accusano di aver applicato il regime forfettario in modo errato, evitando così l’IVA? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché ti accusano di aver applicato il regime forfettario in modo errato, evitando così l’IVA?
Vuoi capire quali sono le conseguenze e come puoi difenderti?
Il regime forfettario è un regime agevolato che prevede l’esenzione IVA e imposte sostitutive ridotte, ma può essere utilizzato solo se si rispettano precisi requisiti di accesso e permanenza.
Quando l’Agenzia delle Entrate ritiene che tali requisiti non siano rispettati, può contestare l’uso scorretto del regime e recuperare IVA e imposte.
👉 Non sempre però la contestazione è fondata: ci sono situazioni interpretative e margini di difesa che possono ridurre o annullare la pretesa.
⚖️ Perché scatta la contestazione
- Superamento della soglia di ricavi/compensi prevista per il regime (85.000 € annui);
- Presenza di cause di esclusione (partecipazioni in società di persone o Srl, rapporti di lavoro dipendente prevalenti, attività esercitate con regimi speciali IVA);
- Errata classificazione dell’attività svolta;
- Controlli su fatture emesse senza IVA quando invece sarebbe stato dovuto il regime ordinario;
- Accertamenti su movimentazioni bancarie incoerenti con i ricavi dichiarati.
📌 Conseguenze possibili
- Recupero dell’IVA non addebitata ai clienti, con obbligo di versamento a carico del contribuente;
- Ricalcolo delle imposte dovute con aliquote ordinarie;
- Sanzioni dal 90% al 180% delle imposte non versate;
- Interessi di mora;
- Nei casi più gravi, rischio di accertamenti retroattivi per più annualità.
🔍 Come difendersi
- Verifica i requisiti del regime: analizza ricavi, spese e condizioni di esclusione per l’anno contestato.
- Raccogli la documentazione: fatture emesse, registri contabili, certificazioni uniche, estratti conto.
- Dimostra la buona fede: eventuali errori possono derivare da interpretazioni controverse della normativa.
- Contesta gli errori del Fisco: non sempre l’Agenzia interpreta correttamente i limiti o le cause di esclusione.
- Predisponi memorie difensive o ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria se l’accertamento è infondato o sproporzionato.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza l’accertamento e i motivi per cui il regime forfettario è stato considerato errato;
- 📌 Verifica la corretta applicazione della normativa in base alla tua posizione;
- ✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per ridurre o annullare le pretese del Fisco;
- ⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari;
- 🔁 Suggerisce soluzioni alternative, come adesione o definizioni agevolate, per limitare sanzioni e interessi.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in regimi fiscali agevolati e IVA;
- ✔️ Specializzato in contenzioso tributario e difesa da accertamenti sul regime forfettario;
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni sull’uso errato del regime forfettario possono avere conseguenze pesanti, ma non sempre sono corrette.
Con una difesa legale mirata puoi dimostrare la correttezza della tua posizione, ridurre le pretese fiscali e proteggere la tua attività.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro le contestazioni sul regime forfettario inizia qui.