Contestazione Di Costi Fittizi In Bilancio: Come Difendersi

Hai ricevuto un accertamento dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata l’iscrizione di costi fittizi in bilancio? Il Fisco, in questi casi, presume che l’impresa abbia gonfiato i costi per ridurre artificiosamente l’utile imponibile e pagare meno tasse. Si tratta di contestazioni molto gravi che possono comportare pesanti conseguenze fiscali e, nei casi più gravi, anche penali.

Quando scattano le contestazioni per costi fittizi
– Se vengono rilevate fatture per operazioni inesistenti registrate come costi
– Se le spese iscritte in bilancio non trovano riscontro in documenti giustificativi
– Se i costi sono ritenuti sproporzionati rispetto all’attività svolta
– Se i pagamenti risultano effettuati a società cartiere o a soggetti privi di struttura reale
– Se il Fisco considera le operazioni come simulate e prive di sostanza economica

Cosa rischi in caso di contestazione
– Recupero delle imposte non pagate per deduzioni considerate indebite
– Sanzioni fiscali fino al 180% dell’imposta accertata
– Interessi di mora sulle somme dovute
– Possibile accusa di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false
– Sequestro o confisca di beni aziendali e personali in caso di procedimenti penali

Come difendersi da una contestazione di costi fittizi
– Dimostrare con documenti la reale esistenza delle operazioni contestate (contratti, ordini, relazioni, consegne)
– Produrre prove della congruità e inerenza delle spese rispetto all’attività d’impresa
– Contestare le presunzioni dell’Agenzia delle Entrate se prive di riscontri oggettivi
– Dimostrare la buona fede dell’impresa e la regolarità dei controlli contabili interni
– Impugnare l’avviso di accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria se l’atto è infondato

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i rilievi del Fisco e la documentazione aziendale contestata
– Predisporre un dossier difensivo con prove concrete della legittimità dei costi
– Contestare la sproporzione delle sanzioni applicate
– Difendere la società e gli amministratori sia in sede tributaria che, se necessario, in sede penale
– Negoziare con l’Agenzia delle Entrate soluzioni transattive per ridurre imposte e sanzioni

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione fiscale
– La riduzione delle imposte, sanzioni e interessi richiesti
– La sospensione delle procedure esecutive collegate all’accertamento
– La tutela del patrimonio societario e personale degli amministratori
– La possibilità di salvaguardare la continuità aziendale senza aggravi indebiti

⚠️ Attenzione: la contestazione di costi fittizi è tra le più gravi per un’impresa, perché può trasformarsi da accertamento fiscale a procedimento penale. Tuttavia, non tutti i costi irregolari sono fittizi: con documentazione solida e una difesa mirata è possibile ribaltare la presunzione del Fisco.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in difesa tributaria e penale-tributaria – ti spiega come affrontare le contestazioni di costi fittizi in bilancio e come difendere la tua azienda da conseguenze sproporzionate.

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Introduzione

costi fittizi in bilancio sono componenti negativi di reddito (spese, oneri) contabilizzati da un’azienda senza che vi sia una reale operazione economica sottostante, oppure con un valore artificiosamente gonfiato rispetto al reale. In pratica si tratta di spese simulate o documentate da fatture false, inserite in contabilità allo scopo di ridurre artificiosamente l’utile imponibile e quindi le imposte dovute . Tali pratiche, spesso utilizzate per creare indebiti vantaggi fiscali (come dedurre costi mai sostenuti o detrarre IVA non dovuta), costituiscono gravi violazioni della normativa tributaria e, in certi casi, illeciti penali. Le conseguenze per chi inserisce costi fittizi in bilancio possono infatti essere molto severe: da un lato l’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate) può recuperare le imposte evase e irrogare pesanti sanzioni amministrative, dall’altro sia l’utilizzo che l’emissione di fatture false integrano specifici reati tributari puniti con la reclusione e altre misure afflittive .

Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – offre un’analisi avanzata su come difendersi efficacemente dalle contestazioni di costi fittizi in bilancio, dal punto di vista del debitore-contribuente (sia esso un imprenditore, un professionista o un legale che lo assiste) che si vede contestare tali irregolarità. Adotteremo un linguaggio giuridico accurato ma con intento divulgativo, così da risultare utile sia al professionista esperto (avvocato, commercialista) sia al privato imprenditore che voglia comprendere a fondo i propri diritti.

Struttura della guida: Inizieremo chiarendo le definizioni chiave di costi fittizi e operazioni inesistenti, distinguendone le tipologie (fatture oggettivamente e soggettivamente false, consulenze simulate, spese generali gonfiate, ecc.). Passeremo poi al quadro normativo di riferimento, in ambito sia tributario che penale, con riferimento alle norme più aggiornate dell’ordinamento italiano e alle più recenti sentenze delle Corti (comprese pronunce del 2024-2025). In particolare, esamineremo i reati tributari collegati (ad es. dichiarazione fraudolenta mediante fatture false) e il reato di falso in bilancio, evidenziando soglie di punibilità e novità introdotte negli ultimi anni.

Successivamente, analizzeremo come avviene in concreto la contestazione fiscale dei costi fittizi: dai controlli e verifiche (spesso avviati dalla Guardia di Finanza) all’emissione dell’avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate. Approfondiremo il tema cruciale dell’onere della prova e delle presunzioni a carico delle parti, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali più recenti (es. Cassazione 2024-2025) . Verranno illustrate le possibili strategie difensive, sia in sede amministrativa (nel corso della verifica e tramite istituti deflattivi come l’adesione o l’acquiescenza) sia in sede contenziosa (ricorso presso le Corti di Giustizia Tributaria, ex Commissioni Tributarie). Forniremo consigli pratici su come documentare l’effettività delle operazioni (quali prove raccogliere) e come gestire il contraddittorio con l’Ufficio, nonché su come prevenire contestazioni future (ad esempio attuando adeguata due diligence sui fornitori sospetti ).

Ampio spazio sarà dato anche ai profili sanzionatori: dettaglieremo le sanzioni amministrative (recupero delle imposte, sanzioni pecuniarie fino al 90% o più dell’imposta evasa, interessi) e le conseguenze penali per gli autori (ad esempio le pene previste per il reato di fatture false e per il falso in bilancio, tenuto conto degli inasprimenti introdotti dal 2015 e delle riforme sopravvenute ). Non mancheremo di evidenziare casi particolari, come la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili non dichiarati in caso di società a ristretta base (presunzione giurisprudenziale che colpisce i soci quando emergono utili “in nero” da costi fittizi o indeducibili ).

Al fine di facilitare la comprensione, includeremo tabelle riepilogative dei punti chiave (ad esempio: differenze tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, confronto tra sanzioni tributarie e penali, riparto dell’onere probatorio, ecc.), nonché alcune simulazioni pratiche di casi reali italiani per mostrare in concreto come impostare la difesa in differenti scenari tipici. Infine, una sezione di Domande e Risposte (FAQ) affronterà i quesiti più comuni in materia, fornendo risposte sintetiche ma autorevoli con riferimento a norme e sentenze pertinenti. L’obiettivo è fornire un quadro completo e aggiornato che consenta al contribuente di conoscere i propri strumenti di tutela e, al professionista, di disporre dei riferimenti normativi e giurisprudenziali più rilevanti per affrontare con successo questo genere di contestazioni complesse.

Definizioni e tipologie di costi fittizi

In ambito fiscale-contabile, si definiscono comunemente “costi fittizi” quei componenti negativi di reddito che vengono iscritti in bilancio pur non trovando riscontro in una reale operazione aziendale. Si parla anche di “operazioni inesistenti” quando la transazione economica documentata non è mai avvenuta nella realtà (o non è avvenuta con i soggetti o alle condizioni indicate). In altre parole, spesso i costi fittizi derivano da fatture false, emesse al solo scopo di creare un costo deducibile finto (e un corrispondente credito IVA indebito) . È utile distinguere le principali categorie di operazioni inesistenti, perché presentano caratteristiche giuridiche e implicazioni difensive diverse:

  • Operazioni oggettivamente inesistenti: sono quelle in cui l’operazione indicata in fattura non è mai avvenuta, neppure in parte. La fattura è totalmente falsa dal punto di vista materiale: documenta una cessione di beni o prestazione di servizi inesistente. Esempio tipico: viene emessa una fattura per una consulenza mai svolta, oppure per la vendita di beni mai consegnati. In questi casi il documento fiscale attesta un evento economico del tutto fittizio. Chi utilizza tali fatture contabilizza un costo fittizio che riduce illegittimamente il reddito imponibile, e spesso ottiene anche un credito IVA non spettante . Chi le emette (la cosiddetta cartiera o un prestanome), di solito dietro compenso, consente al destinatario di evadere le imposte senza alcuna effettiva movimentazione di beni o servizi. Dunque, sotto il profilo tributario, un costo da operazione oggettivamente inesistente è sempre indeducibile: manca del tutto il requisito dell’effettività (oltre che, ovviamente, dell’inerenza) poiché la spesa non è mai stata sostenuta nella realtà.
  • Operazioni soggettivamente inesistenti: in questo caso vi è un’operazione economica reale, ma tra soggetti diversi da quelli indicati in fattura . Tipicamente, uno schema fraudolento diffuso è quello in cui un soggetto interposto emette fattura senza aver svolto realmente la fornitura: il cedente/prestatore reale rimane nell’ombra, mentre la fattura viene emessa da un altro soggetto (spesso una società cartiera priva di struttura) che funge da schermo. Un esempio classico è la cosiddetta frode carosello: il contribuente acquista effettivamente dei beni o servizi, ma invece di ricevere fattura dal vero fornitore, si fa emettere fattura da una società fittizia compiacente. Così ottiene un documento formalmente regolare, ma con fornitore falso. Dal punto di vista fiscale, l’operazione c’è stata (quindi il costo è stato effettivamente sostenuto), ma viene documentata con intestazione fittizia. In questi casi la legge italiana – come vedremo a breve – consente, a certe condizioni, la deducibilità del costo anche se la fattura è soggettivamente falsa, purché il contribuente dimostri che la prestazione c’è stata davvero e che il costo rispetta i requisiti generali (inerenza, certezza, determinabilità) . Resta invece negato il diritto alla detrazione IVA se il contribuente era consapevole della frode (principio della buona fede IVA richiesto dalla normativa UE) . Approfondiremo oltre questo importante distinguo normativo tra costi “oggettivamente” e “soggettivamente” inesistenti.
  • Operazioni parzialmente inesistenti (sovrafatturazione): esistono anche casi in cui l’operazione è avvenuta, ma per un importo inferiore o con modalità diverse da quelle fatturate. Ad esempio, un’azienda riceve realmente un servizio o un bene, ma la fattura viene emessa per un importo volutamente maggiorato rispetto al prezzo reale (sovrafatturazione) . Oppure la descrizione in fattura riporta beni/servizi diversi (e più costosi) di quelli effettivamente forniti, con lo scopo di gonfiare i costi deducibili. In tal caso la fattura è considerata falsa limitatamente alla parte non corrispondente al vero, ossia per la differenza eccedente il reale. Fiscalmente, la prassi assimilata è di contestare come indebiti la quota di costo sovrafatturata e l’IVA ad essa riferita: l’IVA sulla maggiorazione fittizia è indetraibile perché non inerente ad una reale operazione imponibile, e il costo “gonfiato” eccedente il valore normale non è deducibile per carenza di inerenza o perché considerato antieconomico . Occorre tuttavia distinguere tra antieconomicità pura (pagare un prezzo molto alto per una transazione comunque reale, di per sé non costituisce reato né automaticamente implica indeducibilità) e sovrafatturazione artificiosa finalizzata all’evasione. La Cassazione penale ha chiarito di recente che pagare un prezzo incongruo per beni effettivamente acquistati e utilizzati non configura il reato di fatture per operazioni inesistenti, a condizione che vi sia reale consegna dei beni e pagamento effettivo . In altre parole, l’operazione antieconomica in sé (prezzi superiori al mercato) non basta a integrare il reato tributario di frode mediante fatture false . Ciò non toglie, però, che l’Amministrazione possa sindacare la congruità dei prezzi in sede civile/tributaria: prezzi abnormemente fuori mercato tra parti correlate potrebbero essere contestati come comportamenti elusivi o abusivi (es. in ambito di transfer pricing o abuso del diritto) , oppure la parte eccedente potrebbe essere ripresa a tassazione come utili distratti. In definitiva, se vi è sovrafatturazione intenzionale per creare fondi neri o vantaggi fiscali, la porzione fittizia va trattata come costo inesistente ai fini tributari (indeducibile) e la condotta può rilevare come evasione fiscale (seppur non come reato di cui all’art. 2 D.lgs. 74/2000, stando alla sentenza n. 26520/2024) .
  • Altre casistiche: rientrano nei “costi fittizi” anche spese solo apparentemente di competenza aziendale ma in realtà personali o estranee all’attività (si pensi a un bene acquistato dalla società ma in uso privato all’amministratore, camuffando così un’utilità personale come costo d’impresa). In tal caso il costo, pur effettivamente sostenuto, manca di inerenza all’attività e viene considerato indeducibile perché “fittizio” rispetto allo scopo imprenditoriale. Un esempio in giurisprudenza: l’acquisto di uno yacht registrato come bene aziendale ma usato dal socio per fini privati è stato disconosciuto come costo e la relativa spesa riqualificata come utilità ai soci . Situazioni del genere spesso portano non solo al recupero a tassazione del costo indebito, ma anche all’applicazione della presunzione di distribuzione ai soci: se la società è a ristretta base e sostiene costi non inerenti o fittizi che riducono l’utile, l’importo di tali costi può essere considerato utile extracontabile assegnato ai soci (si veda infra la sezione sulle conseguenze per i soci). Anche il caso delle consulenze simulate rientra nelle ipotesi comuni: ad esempio contratti di consulenza con società o professionisti compiacenti, che emettono parcelle per attività mai realmente svolte. Tali compensi fittizi, spesso usati per creare provviste occulte o per spostare utili verso soggetti con regime fiscale più favorevole, sono trattati alla stregua di costi inesistenti: l’Agenzia delle Entrate ne disconosce la deduzione e può attivare sia sanzioni tributarie che denunce per false comunicazioni sociali (se il bilancio è falsato) o dichiarazione fraudolenta.

Riepilogo tipologie: La tabella seguente sintetizza le principali categorie di costi/operazioni fittizi(e), con la relativa natura e trattamento fiscale:

Tipo di operazione/costo fittizioDescrizioneTrattamento fiscaleRischio penale
Operazione oggettivamente inesistenteFattura che documenta operazione mai avvenuta (nessun bene/servizio reale). Esempio: fattura per vendita mai effettuata.Costo indeducibile assoluto (spesa mai sostenuta); IVA indetraibile. Ripresa a tassazione integrale.Reato di frode fiscale (art. 2 D.lgs. 74/2000) se usata in dichiarazione, oltre a possibile falso in bilancio.
Operazione soggettivamente inesistenteOperazione reale avvenuta, ma con fornitore diverso (fattura emessa da terzo fittizio). Esempio: fattura da cartiera per beni effettivamente ricevuti da altro fornitore.Costo deducibile se il contribuente prova effettività, inerenza e certezza della spesa . Altrimenti indeducibile. IVA detraibile solo se contribuente estraneo o ignaro della frode (altrimenti IVA indetraibile).Non integra art. 2 D.lgs. 74 (fatture false) se l’operazione esiste; punibile però l’eventuale associazione a frode caroselloFalso in bilancio possibile se l’operazione fittizia altera i conti.
Sovrafatturazione (parzialmente inesistente)Operazione reale ma fatturata ad importo superiore al valore di mercato o rispetto al realmente fornito. Costo gonfiato.La parte eccedente il valore normale è indeducibile (non inerente/antieconomica) ; IVA sulla maggiorazione indetraibile. Possibile riqualifica come elusione o distribuzione utili occulti.Non art. 2 D.lgs.74 se beni/servizi reali forniti . Tuttavia, possibili reati di false fatturazioni se create ad hoc per frode, oppure abuso del diritto (profilo amministrativo). Falso in bilancio se importi alterati in bilancio.
Costi “fittizi” per mancanza di inerenzaSpesa reale ma estranea all’attività (es. beni ad uso personale del socio, spese private scaricate in contabilità).Indeducibile per difetto di inerenza. Può configurare utili extracontabili (uti soci) tassati in capo ai soci .Eventuale reato dichiarativo (dichiarazione infedele) se supera soglie art.4 D.lgs.74/2000. Possibile responsabilità per appropriazione indebita o illeciti societari se altera il bilancio.
Consulenze fittizie e altri schemiContratti di consulenza o servizi simulati per trasferire utili o creare costi (es. studi di fattibilità mai eseguiti).Indeducibili se la prestazione non è provata come effettiva. L’onere di dimostrarne l’inerenza ed effettività è del contribuente.Falso in bilancio (artt. 2621-2622 c.c.) se il bilancio è alterato da costi finti; possibile dichiarazione fraudolenta (art.3 D.lgs.74) se usati artifici contabili.

(Legenda: per “indeducibile” si intende che il costo non può essere sottratto dal reddito imponibile e viene quindi “recuperato a tassazione”; per “indetraibile” si intende che l’IVA relativa non può essere portata in detrazione.)

Come si vede, la categoria dei costi fittizi è ampia e diversificata. In tutti i casi, tuttavia, al contribuente (società o imprenditore individuale) potrà essere contestata l’indebita riduzione dell’imponibile e richiesto il pagamento delle maggiori imposte dovute, oltre a sanzioni. Nei casi più gravi, queste condotte sconfinano nel penale (frode fiscale, falso in bilancio, ecc.), mentre in altri casi restano nell’ambito amministrativo (es. dichiarazione infedele se l’imposta evasa supera determinate soglie ma non vi è artificio). Nel prosieguo della guida approfondiremo la normativa applicabile e soprattutto gli strumenti di difesa a disposizione del contribuente per ciascuna di queste situazioni.

Normativa italiana di riferimento (profilo tributario)

Per inquadrare la difesa dalle contestazioni di costi fittizi, è fondamentale partire dalle norme tributarie che regolano la deducibilità dei costi e le conseguenze delle operazioni inesistenti. I riferimenti principali sono:

  • Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR, DPR 917/1986): all’art. 109 TUIR sono fissati i requisiti generali perché un costo sia deducibile dal reddito d’impresa. In particolare, il costo dev’essere di competenza dell’esercizio (comma 1 e 2), certo e determinabile (comma 1) e inerente all’attività (principio di inerenza di matrice giurisprudenziale). Il comma 5 del medesimo art. 109 stabilisce poi che “non sono ammesse in deduzione le spese e gli altri componenti negativi… che non risultano da elementi certi e precisi”, disposizione utilizzata in passato per disconoscere costi privi di adeguata documentazione o ritenuti fittizi. In caso di costi da operazioni inesistenti, spesso l’Ufficio contesta proprio la mancanza di elementi certi a supporto, richiamando il combinato disposto degli artt. 109 e 2697 c.c. (onere della prova).
  • D.P.R. 633/1972 (IVA): gli artt. 19 e 21 regolano rispettivamente il diritto alla detrazione IVA sugli acquisti e gli obblighi di fatturazione. L’utilizzo di una fattura per operazione inesistente comporta, ex art. 21 comma 7, che la fattura sia considerata emessa “per operazioni inesistenti” e l’IVA ivi indicata diviene indetraibile per il destinatario (in quanto non afferente a una reale operazione). Se il contribuente ha già detratto quell’IVA, verrà richiesta a rimborso con sanzioni. La detraibilità può essere conservata solo provando la buona fede (ossia che il contribuente non sapeva né poteva sapere della frode): questo principio discende dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale in materia di frode carosello, ed è stato ribadito dalla Cassazione .
  • Legge 537/1993, art. 14 comma 4-bis: è la norma chiave introdotta per i costi “da reato”, più volte modificata. Nella sua formulazione attuale (come da D.L. 16/2012, conv. L. 44/2012) dispone che non sono deducibili i costi e le spese relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo in relazione al quale sia esercitata l’azione penale . Questa previsione è frutto di una ratio evidente: impedire la deduzione di costi legati a comportamenti illeciti (es. tangenti, beni utilizzati per reati, costi fittizi legati ad attività fraudolente). Tuttavia, la modifica del 2012 ha attenuato il previgente divieto generale di deduzione di costi da reato, restringendolo ai soli costi “direttamente utilizzati” per reati non colposi. Di particolare rilievo per il nostro tema è che, a seguito di tale riforma, i costi da operazioni soggettivamente inesistenti sono divenuti deducibili ai fini delle imposte sui redditi, purché rispettino i requisiti generali (effettività, inerenza, competenza) . La logica è che in una frode con fatture soggettivamente false il bene/servizio è effettivo e non viene “utilizzato per commettere un reato” (se non la frode stessa, che però non ricade nel divieto salvo il caso di associazione a delinquere). La Cassazione ha più volte confermato questo principio: “sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (anche se il contribuente era consapevole della frode), salvo che manchino i requisiti di effettività, inerenza, certezza, o che si tratti di beni/servizi usati per reati non colposi” . In pratica, se un costo è realmente sostenuto e pertinente all’attività, non viene negata la deduzione solo perché la fattura era emessa da un soggetto diverso (anche se compiacente): ciò in ossequio al principio che il reddito imponibile deve essere determinato al netto dei costi effettivamente sopportati per produrlo, a meno che il legislatore non ponga un espresso divieto. Resta vietata, invece, la deduzione per costi legati ad atti illeciti “fine a sé stessi” (es. il pagamento di una mazzetta, l’acquisto di beni usati per commettere reati): questi rimangono indeducibili per legge .
  • D.Lgs. 74/2000 (reati tributari): pur essendo una norma penal-tributaria, ha effetti indiretti sul piano fiscale. In particolare l’art. 2 del D.Lgs. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti) prevede che chi utilizza in dichiarazione fatture o altri documenti falsi, inserendo elementi passivi fittizi, commette reato se l’imposta evasa supera 100.000 € annui (soglia elevata a 100.000 € dal 2015) . L’art. 8 punisce l’emissione di tali fatture. Ebbene, nell’applicazione di tali reati, la definizione di “operazioni inesistenti” data dall’art. 1 del D.Lgs. 74/2000 rileva anche in sede fiscale: include non solo le operazioni del tutto inesistenti ma anche la sovrafatturazione (“fatture che indicano corrispettivi o IVA in misura superiore al reale” rientrano nella definizione) . Questo significa che, agli occhi del Fisco, anche la parte gonfiata di una fattura è trattata come fittizia a tutti gli effetti. Inoltre, l’eventuale procedimento penale può condizionare il contenzioso tributario: ad esempio, un provvedimento del giudice penale (sequestro, sentenza) che accerti la falsità delle operazioni costituisce un elemento probatorio utilizzabile nel giudizio tributario. Viceversa, una assoluzione penale perché “il fatto non costituisce reato” (ad esempio in caso di operazioni soggettivamente inesistenti considerate non fraudolente) non vincola il giudice tributario, che potrebbe comunque ritenere indeducibili i costi qualora non provati nella loro effettività.
  • Norme sull’accertamento tributario: il D.P.R. 600/1973 disciplina i poteri istruttori e i metodi di accertamento. In particolare l’art. 39, c.1, lett. d) consente all’Ufficio di desumere il reddito in base a presunzioni semplici, se il conto economico risulta infedele o inattendibile (ad esempio per costi sproporzionati o privi di giustificazione) . Questo è spesso il caso delle contestazioni di costi fittizi: l’Ufficio può procedere in modo analitico-induttivo, rettificando singole voci di spesa ritenute inesistenti sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti . Se poi la contabilità nel complesso è considerata gravemente inattendibile a causa di diffusi costi falsi, si può persino ricorrere all’accertamento induttivo puro (art. 39, c.2) ricostruendo l’intero reddito d’impresa prescindendo dalle scritture . In ogni caso, l’onere probatorio iniziale grava sull’ente impositore, che deve fornire elementi (anche presuntivi) a sostegno della falsità dei costi; successivamente, come vedremo, spetterà al contribuente l’onere di provare la veridicità dei costi contestati. Importante è anche l’art. 40, c.2, D.P.R. 600/1973 che permette accertamenti parziali per singole poste (spesso utilizzato per contestare specifiche fatture).
  • Norme civilistiche sul bilancio: pur non trattandosi di norme tributarie, vanno menzionate le disposizioni del codice civile in tema di redazione del bilancio (artt. 2423 ss. c.c.) che impongono la rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato economico. L’inserimento di costi inesistenti configura violazione di questi principi e può dar luogo, oltre alle sanzioni tributarie, al reato di false comunicazioni sociali (falso in bilancio, art. 2621 c.c. per le non quotate, art. 2622 c.c. per le società quotate), come si vedrà nella sezione penale. La disciplina civilistica è il presupposto per capire che un costo fittizio non è solo un problema di tasse, ma altera il bilancio e può ledere i terzi (soci, creditori) inducendoli in errore sul reale andamento economico.

Deducibilità dei costi da operazioni inesistenti: evoluzione e principi attuali

Vale la pena approfondire il punto cruciale anticipato: quando un costo originato da un’operazione inesistente può considerarsi deducibile e quando invece è senz’altro indeducibile. Fino a qualche anno fa, la prassi dell’Amministrazione finanziaria era di considerare indeducibili tutti i costi relativi a fatture false, in applicazione del citato art. 14, co.4-bis L. 537/1993 (nel testo anteriore al 2012) che escludeva ogni costo da attività qualificabili come reato. In sostanza, se c’era una fattura falsa, vi era un “reato” (frode fiscale) e quindi il costo veniva disconosciuto a priori. Questa impostazione è stata mitigata dalla riforma del 2012, che ha come detto limitato il divieto ai soli costi direttamente utilizzati per il reato.

Cassazione, Sez. Trib., n. 8716/2025: una recente pronuncia ha ribadito in modo chiaro l’orientamento attuale. La Suprema Corte ha affermato che sono deducibili i costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti, a condizione che il contribuente ne dimostri l’effettività, l’inerenza e la certezza; viceversa, è esclusa in via assoluta la deducibilità dei costi relativi a operazioni oggettivamente inesistenti, anche in presenza di documentazione formalmente regolare . Questo principio conferma la netta distinzione:

  • Costo da fattura oggettivamente falsa: mai deducibile, perché manca ontologicamente la spesa. La fattura è un mero artificio contabile e come tale non può diminuire il reddito tassabile. Inoltre, l’utilizzo di tali fatture configura reato ex art. 2 D.lgs.74/2000 se supera la soglia penale.
  • Costo da fattura soggettivamente falsa: deducibile se, e solo se, si prova che la transazione è avvenuta realmente (anche con un diverso fornitore) e che il relativo costo risponde ai criteri di deducibilità. In pratica, il contribuente deve fornire prove sostanziali (non solo la fattura) dell’effettiva esecuzione della prestazione e dell’utilità per l’impresa. Se riesce in ciò, il costo viene riconosciuto deducibile ai fini IRES/IRAP in base all’art. 14, co.4-bis vigente . Se invece non riesce a provare la reale esistenza dell’operazione (o se emergono elementi contrari), il costo viene disconosciuto.

Va sottolineato che la deducibilità del costo non significa affatto che sia “tutto a posto”: il contribuente potrebbe comunque incorrere in violazioni IVA (per la detrazione indebita) o in sanzioni per infedele dichiarazione se, pur avendo sostenuto la spesa, era consapevole di partecipare a un meccanismo fraudolento. Tuttavia, sul piano delle imposte sui redditi, la ratio attuale è: tassare il reddito reale al netto dei costi effettivi. Se un costo fittizio in realtà corrisponde a una spesa effettivamente sostenuta (p.es. beni acquistati “in nero” e fatturati da terzi), allora quel costo concorre comunque a formare il reddito e dunque va riconosciuto (salve sanzioni per l’irregolarità). Un limite importante a questa “apertura” è previsto per i costi relativi a beni/servizi usati per commettere delitti non colposi: questi restano indeducibili per espressa previsione (art. 14 co.4-bis ultima versione) . Ad esempio, il costo di un bene acquistato allo scopo di realizzare un reato (si pensi a strumenti usati per una truffa) non è mai deducibile, perché estraneo a una lecita attività d’impresa.

Un’altra considerazione: costi fittizi e sopravvenienze attive. Quando l’Amministrazione scopre a posteriori un costo inesistente già dedotto in anni precedenti, talvolta qualifica il venir meno di quel costo come sopravvenienza attiva tassabile nell’anno della scoperta (ex art. 88 TUIR). Ma la Cassazione ha chiarito che ciò vale solo se il costo era inizialmente reale e poi è venuto meno; se invece il costo era originariamente inesistente, non si parla di sopravvenienza ma di rettifica dell’anno d’imposta originario . In altre parole, un costo fittizio genera reddito evaso nell’anno in cui fu dedotto indebitamente, e non un sopravvenuto “guadagno” nell’anno in cui lo si scopre. La corretta procedura è quindi riaprire (in termini accertativi) l’anno in cui il costo fu dedotto, non tassare come sopravvenienza attiva l’anno della scoperta . Questa precisazione (da Cass. n. 19945/2023) evita una duplicazione e colloca correttamente gli effetti temporali.

Riassumendo, dal punto di vista normativo tributario: un costo inesistente non può abbattere il reddito imponibile. Se però la spesa c’è stata (caso delle operazioni soggettivamente inesistenti), la legge consente di tenerne conto a certe condizioni. Questo equilibro normativo, frutto di evoluzioni legislative e giurisprudenziali, definisce il campo da gioco entro cui si muoverà la difesa del contribuente.

Profili penalistici: reati in caso di costi fittizi e falso in bilancio

Dal punto di vista del diritto penale italiano, l’inserimento di costi fittizi in bilancio può integrare diverse fattispecie di reato, a seconda delle modalità e finalità. È essenziale che il difensore (e lo stesso contribuente) ne sia consapevole, perché la strategia difensiva dovrà tener conto anche di possibili implicazioni penali oltre che tributarie. I principali reati da considerare sono:

1. Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. 74/2000): è il reato “classico” della frode fiscale documentale. Si configura quando un contribuente – al fine di evadere le imposte – indica in una dichiarazione fiscale elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture o altri documenti falsi. Le soglie di punibilità: l’imposta evasa deve superare 100.000 € per ciascun periodo d’imposta (soglia abbassata a 100mila euro dalla L. 157/2019), oppure i componenti fittizi devono superare una certa percentuale dell’imponibile (5%) o un ammontare assoluto (2 milioni di euro) – questi ultimi limiti però attengono al diverso reato di dichiarazione fraudolenta “mediante altri artifici”, art. 3. Per l’art. 2 basta il superamento della soglia d’imposta evasa e l’uso di documenti falsi. La pena edittale attuale per l’art. 2 è la reclusione da 4 anni a 8 anni (dopo l’inasprimento del 2015, poi ulteriormente ritoccato). Esempio tipico: l’azienda contabilizza fatture per operazioni inesistenti per €500.000 + IVA in un anno, riducendo l’IRES dovuta di €120.000; se ciò emerge, scatta il reato art. 2. Notare che non rileva per il reato che l’operazione sia soggettiva od oggettiva: l’art. 2 include entrambe (anzi, anche la mera sovrafatturazione è contemplata come visto) . Ciò che conta è che la fattura sia “non veritiera” e che sia utilizzata in dichiarazione per frodare il Fisco.

*Profilo difensivo:* in ottica penale, un possibile argomento difensivo (ove le operazioni fossero soggettivamente inesistenti ma reali) è sostenere che **manca l’elemento della fraudolenza** in quanto il costo era genuino e l’intento evasivo assente (ad esempio, il prezzo era di mercato, l’IVA versata dal fornitore reale, etc.). Tuttavia, giurisprudenza di legittimità è rigorosa: anche in caso di operazioni soggettivamente false, se si prova la *consapevolezza* dell’imprenditore di partecipare a una frode (es. giro di fatture), il reato sussiste comunque . È dunque difficile in sede penale far leva sul fatto che “il bene c’era davvero” se l’intento era comunque evasivo. Diverso è il caso, ad esempio, di una vittima inconsapevole di una frode carosello: se l’imprenditore dimostra di aver agito in buona fede, può andare esente da responsabilità penale (mancando il dolo). In generale, la difesa in questi procedimenti penali punterà a dimostrare l’**assenza di dolo specifico di evasione**, evidenziando magari che l’operazione aveva ragioni economiche reali e il contribuente non era conscio del disegno fraudolento più ampio.

2. Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000): speculare al precedente, punisce chi emette o pone in circolazione fatture false (oggettive o soggettive) al fine di consentire a terzi l’evasione. La soglia penale per l’emissione non c’è: il reato sussiste a prescindere dall’importo. La pena è da 4 a 8 anni (ridotta fino a 6 anni se l’importo fittizio è inferiore a 100.000 € per periodo). Questo reato può riguardare il soggetto “fornitore” che abbia accettato di fare da cartiera. Dal punto di vista del debitore contribuente che difendiamo in questa guida, solitamente egli è l’utilizzatore (non l’emittente), quindi l’art. 8 non lo riguarda direttamente. Tuttavia, bisogna fare attenzione: se l’imprenditore sotto accertamento emetteva anch’egli fatture false (ad esempio scambi di fatture con altre società per gonfiare costi reciprocamente), potrebbe risponderne. In ogni caso, l’esistenza di indagini per art. 8 verso altri soggetti (i fornitori) può complicare il quadro probatorio.

3. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D.Lgs. 74/2000): è la fattispecie residuale di frode fiscale senza utilizzo di fatture false, punisce chiunque, avvalendosi di mezzi fraudolenti diversi dalle fatture, indica in dichiarazione elementi passivi fittizi. Ad esempio, la creazione di simulazioni contabili complesse (sovrastime di rimanenze, false scritture di magazzino, doppia contabilizzazione di ammortamenti inesistenti, ecc.) può rientrare in questo reato. Se i costi fittizi sono stati realizzati senza documenti di terzi falsi (cioè “in casa”, con artifici contabili interni), l’accusa potrebbe qualificarli sotto l’art. 3 invece che art. 2. Le soglie per l’art. 3 (dichiarazione fraudolenta “altri artifici”) sono: imposta evasa > 30.000 € e elementi attivi sottratti all’imposizione > 1,5 milioni oppure elementi passivi fittizi > 5% dell’imponibile o > 1,5 milioni. Pena da 3 a 8 anni. Nel nostro contesto, l’art. 3 potrebbe rilevare per schemi come false valutazioni di bilancio o operazioni simulate prive di fatture d’acquisto false. Esempio: l’amministratore fa figurare in contabilità una finta perdita su crediti con una società estera inesistente, riducendo così l’utile. Non c’è fattura, ma è un artificio. Questo rientra nell’art. 3.

4. Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): se l’utilizzo di costi fittizi non avviene con artifici o documenti falsi, ma semplicemente dichiarando meno reddito del dovuto (magari con costi non spettanti di minore entità, senza superare soglie più alte), può configurarsi la dichiarazione infedele. Soglie: imposta evasa > 100.000 € e elementi attivi non dichiarati > 2 milioni o > 10% dell’attivo dichiarato. Pena da 2 a 4.5 anni (post riforma 2015). Ad esempio, se un imprenditore deduce costi personali per 300.000 €, evadendo 90.000 € di IRES (sotto soglia reato art.2 perché non usa fatture false, ipotizziamo siano solo spese non inerenti) allora potrebbe configurarsi art. 4 se le soglie di 100k imposta e 2M imponibile sono superate. L’art. 4 richiede comunque che non si sia in presenza di altri reati più gravi; spesso è residuale.

5. False comunicazioni sociali (art. 2621 – 2622 c.c.): questo è il reato di falso in bilancio. L’inserimento consapevole di costi inesistenti nel bilancio di esercizio di una società costituisce alterazione dei dati contabili con l’intento di ingannare i soci o il pubblico sulla situazione economica. Dopo la riforma del 2015, il falso in bilancio per società non quotate (art. 2621 c.c.) è punibile se i fatti falsificati sono rilevanti e superano determinate soglie qualitative/quantitative (la legge parla di “fatti materiali significativi” e introduce soglie percentuali sul patrimonio/risultato). La pena va da 1 a 5 anni (non è più prevista la querela di parte per le non quotate, dopo la riforma). Per le società quotate (2622 c.c.) le pene sono più alte (3-8 anni) e non vi sono soglie di non punibilità. Ora, un costo fittizio in bilancio è per definizione un “fatto materiale non rispondente al vero” inserito consapevolmente. Quindi potenzialmente configura falso in bilancio. Tuttavia occorre che sia significativo: se i costi finti sono piccoli e non alterano in modo apprezzabile il bilancio, il fatto può essere considerato non punibile per particolare tenuità (per le non quotate). Al contrario, plurime fatture false o importi ingenti di costi inesistenti sicuramente integrano il reato. Ad esempio, presentare un bilancio con 500.000 € di consulenze inesistenti incide sul risultato ed è un’ipotesi tipica da art. 2621. Questo reato è indipendente dalle vicende tributarie: anche se l’utile fosse comunque in perdita e non c’è evasione fiscale, si può avere falso in bilancio per aver esposto poste fittizie. Dal punto di vista difensivo, spesso in questi casi si valuta l’eventuale applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità (art. 2621-bis c.c., introdotto nel 2015, che esclude punibilità per falsità lievi nelle non quotate) – ma attenzione: la tenuità non si applica se l’inganno ha portato un vantaggio patrimoniale (come l’evasione di imposte). Inoltre, se il procedimento penale fiscale e quello per falso in bilancio riguardano gli stessi fatti (ad es. stesse fatture false), occorre coordinare le difese e valutare il rischio di concorso apparente di reati: in linea di principio i due reati coesistono (frode fiscale tutela l’erario, falso in bilancio tutela i soci/terzi) e la Cassazione esclude assorbimenti . Quindi un imprenditore potrebbe subire sia il processo per frode fiscale sia quello per falso in bilancio per la medesima condotta.

6. Altri reati possibili: a margine, si segnala che costi fittizi finalizzati a distrarre denaro dalla società verso soggetti collegati potrebbero configurare anche reati societari come infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c., l’amministratore che danneggia la società traendone vantaggio per sé o altri) se la società ha subito un danno dalla fittizia operazione (es. ha pagato per un servizio mai avuto, arricchendo un terzo). Inoltre, nei casi di frodi organizzate su larga scala, può ravvisarsi l’associazione per delinquere finalizzata all’evasione (art. 416 c.p. aggravato dall’art. 5 D.lgs. 74/2000). Infine, va ricordato il D.Lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti: alcuni reati tributari (dich. fraudolenta, emissione di fatture false) sono stati inseriti nel 231 dal 2019, e il reato di false comunicazioni sociali c’era già. Quindi se una società trae vantaggio dalle condotte illecite di dirigenti o dipendenti (es. evasione fiscale, falso in bilancio), può essere soggetta a pesanti sanzioni pecuniarie e interdittive ex D.Lgs. 231. Dal punto di vista del debitore contribuente ciò significa che, oltre alla difesa personale in sede penale, occorre considerare un eventuale procedimento 231 a carico dell’azienda (con necessità di adottare modelli organizzativi idonei a prevenire simili illeciti come esimente).

In sintesi, sul fronte penale: l’utilizzo di costi fittizi apre scenari di rischio multipli. La difesa dovrà: i) verificare se vi sono procedimenti penali pendenti o potenziali comunicazioni di notizia di reato (spesso una verifica fiscale con PVC che constata fatture false viene trasmessa alla Procura); ii) nel merito, valutare se esistono margini per escludere il fatto tipico (es. mancanza di dolo, errore incolpevole, inconsapevolezza del meccanismo fraudolento) oppure per ricondurre la condotta a ipotesi meno gravi (dichiarazione infedele anziché fraudolenta, tenuità del falso in bilancio, ecc.); iii) eventualmente attivare strategie come il pagamento del debito tributario prima del dibattimento, che per alcuni reati tributari comporta cause di non punibilità o attenuanti (ad esempio l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede la non punibilità per taluni reati se si paga tutto il dovuto con sanzioni e interessi – però attenzione: la riforma 2019 ha escluso questa non punibilità per i reati più gravi come l’art. 2 se l’evaso supera 100.000 €, inoltre una recente Cassazione 2025 ne ha limitato l’applicabilità in caso di debiti molto elevati ). In definitiva, sul piano penale occorre una difesa tecnica specialistica coordinata con quella tributaria, per evitare che ammissioni o prove in un campo pregiudichino l’altro.

Contestazione fiscale dei costi fittizi: accertamento e onere della prova

Passando alla prospettiva procedurale tributaria, occorre capire come l’Agenzia delle Entrate (spesso a seguito di verifiche della Guardia di Finanza) contesta concretamente i costi fittizi e come il contribuente può difendersi in sede amministrativa e contenziosa. I punti focali qui sono: modalità di accertamentoriparto dell’onere probatorio e mezzi di prova ammissibili, nonché le strategie difensive già nella fase pre-contenziosa.

Modalità di accertamento e rilievi tipici

Una contestazione di costi inesistenti può emergere in vari modi: verifiche fiscali in azienda (con acquisizione di documentazione e controlli incrociati), segnalazioni da parte di altri enti (es. fornitori “fantasma” scoperti in altre indagini), analisi di rischio basate su anomalie (ad esempio, indici di bilancio antieconomici: se un’azienda mostra costi eccessivi rispetto ai ricavi, può insospettire il Fisco ). Spesso tutto parte da un Processo Verbale di Constatazione (PVC) redatto dalla Guardia di Finanza, dove vengono elencate le fatture ritenute false o i costi non giustificati, con le relative prove (es. verifica bancaria che mostra retrocessione di denaro, accertamenti presso il fornitore inesistente, etc.). Sulla base del PVC, l’Agenzia emette un Avviso di Accertamento motivato che notifica al contribuente le riprese fiscali: in pratica, aumenta il reddito imponibile riaggiungendo i costi indebitamente dedotti e ricalcolando le imposte (IRES, IRAP, IVA) dovute, più sanzioni e interessi.

È importante sapere che l’accertamento di costi fittizi può avvenire con metodo analitico-induttivo: l’ufficio non rifà tutto il reddito, ma colpisce le singole poste incriminate, motivando il perché le ritiene inesistenti, spesso tramite presunzioni. Ad esempio: “Si disconosce il costo XY contabilizzato, in quanto la società fornitrice risulta inesistente (soggetto inattivo, senza dipendenti né mezzi) e pertanto la relativa fattura è da considerarsi ideologicamente falsa”. Questo è un tipico rilievo. In certi casi però, se i costi fittizi sono massivi, la contabilità viene definita globalmente inattendibile, legittimando un accertamento induttivo puro (ex art. 39, c.2 DPR 600/73) dove il Fisco ricostruisce l’intero reddito con metodo extracontabile, liberandosi dagli importi contabili dichiarati . Quest’ultimo è scenario peggiore per il contribuente, perché significa che la controparte fiscale rigetta in toto le scritture (considerandole infette da troppe falsità) e determina il reddito con stime, margini standard, ecc. – difendersi da un accertamento induttivo puro è più complesso, poiché occorre ripristinare la credibilità della propria contabilità.

Nel nostro contesto, spesso l’ufficio rimane su un piano analitico: contesta cioè singole fatture o blocchi di fatture provenienti da taluni fornitori sospetti. Esempi di elementi usati dal Fisco per provare la fittizietà:

  • Fornitore che non ha struttura: la società X che ha emesso fattura risulta priva di sede operativa effettiva, senza personale né beni strumentali, con amministratori prestanome; inoltre non ha presentato dichiarazioni o ha omesso versamenti IVA . Questi elementi inducono a ritenere che X sia una cartiera, quindi le fatture emesse siano false.
  • Incongruenze logistiche: ad esempio fatture per acquisto di materiali che però, per quantità o peso, sarebbero impossibili da movimentare coi mezzi del fornitore; oppure fatture per lavori edili svolti in tempi incompatibili (un cantiere che non poteva essere realizzato nei tempi dichiarati con le risorse note).
  • Movimenti finanziari anomali: la società cliente paga la fattura con bonifico, ma poi i soldi ritornano in contanti all’amministratore attraverso prelievi da terzi; oppure il fornitore versa gli importi su conti esteri immediatamente dopo, ecc. Ciò evidenzia che il pagamento era circolare e la spesa fittizia serviva a creare fondi occulti.
  • Riscontri esterni: se la GdF va presso il luogo dove la fattura dice essere avvenuta la consegna dei beni e scopre che nulla è arrivato; oppure sente persone informate (dipendenti) che negano di aver visto quei fornitori in azienda; oppure ancora trova che il bene fatturato non compare nel magazzino o nei cespiti.

Tutti questi elementi vengono riportati nel PVC e poi nell’accertamento. Spesso l’Agenzia procede a contestare non solo l’indebita deduzione, ma anche la mancata registrazione di una sopravvenienza attiva (se il costo era stato stanziato in bilancio come passivo poi rivelatosi insussistente) – come visto però questa impostazione è sbagliata se la falsità è originaria , ma può comparire e va eccepita dal contribuente. Inoltre, in caso di società a ristretta base, l’accertamento di prassi include l’applicazione della presunzione di utili extra distribuiti ai soci: ad esempio “disconosciuti €100.000 di costi, si presume maggior utile distribuìto al socio unico ai fini IRPEF” . Ciò comporta che, a cascata, non solo la società deve pagare più IRES, ma anche il socio viene raggiunto da un avviso per redditi di capitale non dichiarati (dividendi occulti). Questo aspetto amplia il fronte del contenzioso (spesso occorre difendere sia la società sia i soci).

Riparto dell’onere della prova e presunzioni

Chi deve provare cosa in un giudizio tributario su costi fittizi? Questa è la domanda cruciale. La giurisprudenza è oramai consolidata su un principio: spetta all’Amministrazione finanziaria fornire, anche a mezzo presunzioni semplici, la prova iniziale della inesistenza dell’operazione; una volta fornita tale prova (anche indiziaria, ma grave, precisa e concordante), spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate . Non basta quindi, per il Fisco, il mero sospetto: deve portare elementi concreti (es. la prova che il fornitore è una cartiera, o che è stato accertato altrove che la fattura era fittizia). Ma una volta superata questa soglia, il contribuente non può più limitarsi a opporre il formalismo (esibire la fattura regolare, il pagamento, etc.): serve prova sostanziale.

La Cassazione – in linea anche con la Corte di Giustizia UE in tema IVA – ha più volte affermato che la regolarità formale dei documenti e dei pagamenti non è idonea a dimostrare la realtà dell’operazione se l’Ufficio ha provato che il fornitore è una cartiera . Questo perché nelle frodi organizzate è normale predisporre documentazione perfettamente in ordine (fatture, bonifici) proprio per far apparire reale un’operazione fittizia . Dunque, non ci si può difendere dicendo “ho le fatture a posto, ho pagato con assegno, quindi l’operazione è vera”: è necessario andare oltre.

Un altro aspetto importante riguarda l’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. 546/1992, introdotto dalla riforma del processo tributario del 2022. Tale norma ha codificato il principio che l’onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa spetta all’Amministrazione, salvo presunzioni legali di legge. Alcuni contributi avevano ipotizzato che questa norma “nuova” spostasse qualcosa negli oneri probatori. In realtà la Cassazione (ord. 16493/2024) ha chiarito che la nuova disciplina non ha innovato i principi previgenti in materia di onere della prova, e inoltre ha natura sostanziale e non si applica retroattivamente . Dunque, anche alla luce del 2024, vale quanto sopra: il Fisco deve provare la falsità (anche per presunzioni semplici), il contribuente deve provare la realtà effettiva.

Riassumendo:

  • Fisco: deve dimostrare la fittizietà delle operazioni contestate. Ciò può avvenire anche tramite presunzioni semplici (non servono prove “certe” al 100%, bastano indizi forti) . Esempi: prova che il fornitore non aveva capacità operativa, che non ha dichiarato quei ricavi, che c’è legame con frodi, ecc. Oppure presunzioni tratte dall’antieconomicità macroscopica (spese sproporzionate possono costituire indizio di falsità). La legge non richiede che l’Ufficio individui “chi sarebbe stato il vero fornitore” o “dove sono finiti i soldi”, anche se ovviamente se lo fa la prova è ancora più solida. Basta che renda verosimile l’inesistenza.
  • Contribuente: se l’Ufficio ha raggiunto quella soglia di prova presuntiva, il contribuente per vincere deve provare l’effettiva esistenza delle operazioni. E qui torna il discorso di prima: deve fornire elementi concreti e sostanziali, non meramente formali . Ad esempio, portare contratti, documenti di trasporto, prove fotografiche o tecniche dell’esecuzione, e possibilmente terze parti indipendenti che confermino (nel processo tributario non c’è giuramento testimoniale, ma si possono produrre dichiarazioni rese in altri procedimenti o ottenere CTU per accertare fatti). Deve insomma convincere il giudice che, al di là delle presunzioni del Fisco, la prestazione è avvenuta.
  • Cosa succede se il contribuente non fornisce controprova: il giudice, in presenza di presunzioni forti dell’Ufficio non smentite, confermerà l’accertamento. La mancanza di collaborazione del contribuente in sede di verifica (es. fornitore fittizio e contribuente non dà informazioni) inverte di fatto l’onere e lo pone in posizione soccombente se non prova il contrario .

Un caso giurisprudenziale illustrativo: Cass. 16493/2024 – l’Agenzia contestava costi per lavori con fornitori inesistenti; la CTR aveva richiesto al contribuente di provare l’effettività delle prestazioni, ritenendo sufficiente la prova indiziaria dell’Ufficio sulla natura artificiosa delle ditte. Il contribuente ricorre in Cassazione lamentando inversione dell’onere della prova. La Cassazione ha respinto il ricorso, confermando che una volta che l’Erario dimostra con presunzioni l’inesistenza oggettiva, sta al contribuente provare l’effettiva esistenza . E ha aggiunto che l’art. 7, co.5-bis (nuovo) non cambia questo schema e non si applica retroattivamente comunque.

Infine, attenzione: esistono anche presunzioni legali a carico del contribuente in certi casi. Ad esempio la presunzione di distribuzione utili ai soci è legale relativa (derivante dalla giurisprudenza consolidata, quindi di fatto avallata come principio generale): in società a ristretta base, si presume che i maggiori utili (da costi inesistenti disconosciuti) siano stati distribuiti . Questa è una presunzione a carico del contribuente-socio, che può solo provare il contrario (ad es. che l’utile è rimasto in azienda o è stato perso). Un’altra quasi-presunzione a carico del contribuente è quella sull’antieconomicità: la Cassazione dice che comportamenti gravemente antieconomici (es. pagare sistematicamente servizi a un prezzo triplo del mercato) sono indizio di intenti evasivi, e il contribuente deve spiegare perché ha agito così, altrimenti l’ufficio può desumere un reddito non dichiarato . Non è una presunzione legale in senso stretto, ma la giurisprudenza la considera valida (presunzione semplice). Anche la recente Cassazione penale sul prezzo incongruo (26520/2024) pur assolvendo dal reato penale, mette in guardia che “ciò non è sempre penalmente irrilevante” , segno che se il sovrapprezzo è chiaramente strumentale, può essere indice di reato o quantomeno di evasione.

Mezzi di prova del contribuente: come dimostrare l’effettività dei costi

Quando ci si trova a dover dimostrare la realità di un costo contestato, è fondamentale raccogliere e presentare tutti i mezzi di prova documentale e tecnica utili allo scopo. Nel processo tributario vigono regole particolari sulla prova: non sono ammessi testimoni a discarico in udienza (art. 7 D.Lgs. 546/92 lo vieta), però si possono utilizzare le dichiarazioni rese in altri procedimenti o allegare dichiarazioni sostitutive. Inoltre, il giudice tributario può disporre consulenza tecnica d’ufficio (CTU) se ci sono aspetti che richiedono competenze tecniche (per es. per verificare se un’opera sia stata eseguita). Ecco alcuni mezzi di prova tipici che il contribuente può (e dovrebbe) utilizzare:

  • Documenti contrattuali e tecnici: presentare i contratti, ordini, preventivi relativi all’operazione contestata. Se c’è un progetto, un capitolato, dei rapporti tecnici (es. relazione di consulenza, progetto ingegneristico consegnato, ecc.), vanno prodotti per mostrare che qualcosa è stato effettivamente realizzato.
  • Documentazione di trasporto e logistica: per cessioni di beni contestate come inesistenti, esibire DDT (documenti di trasporto), ricevute di spedizionieri, registro di carico/scarico magazzino, eventuali foto o video di consegne, email di conferma spedizione, ecc. Se il bene era un macchinario, provare che ora è in azienda e funziona (matricola, data installazione).
  • Tracciabilità dei pagamenti e flussi finanziari: se il pagamento al fornitore risulta effettuato, ma l’ufficio sospetta che i soldi siano rientrati, occorre fornire spiegazioni. Ad esempio, dimostrare che il fornitore poi ha usato quei fondi per pagare subfornitori o acquisto materiali destinati proprio al lavoro contestato (il che proverebbe che l’attività c’è stata). In mancanza di tali evidenze, almeno mostrare che il fornitore ha dichiarato e versato l’IVA su quelle fatture (se ciò è avvenuto, indebolisce l’ipotesi di frode). Nei limiti del possibile, seguire il flusso del denaro per escludere retrocessioni: se la GdF non l’ha già fatto, la difesa può farsi carico di analizzare estratti conto dei soggetti coinvolti per mostrare che i soldi non sono tornati indietro al cliente.
  • Prove indirette dell’esecuzione della prestazione: ad esempio, se si contesta una consulenza come fittizia, il contribuente può portare prove dell’esistenza di risultati di tale consulenza: report consegnati, corrispondenza email o lettere con il consulente durante il progetto, badge di ingresso nei locali aziendali, testimonianze scritte di dipendenti che hanno interagito col consulente. Anche se il giudice tributario non sente testimoni oralmente, può considerare dichiarazioni scritte rese e sottoscritte, o verbali di sommarie informazioni rese ad altri organi (es. se in penale un teste ha confermato l’esecuzione, trasporre quella dichiarazione negli atti tributari).
  • Perizia o consulenza tecnica di parte: specie in contestazioni complesse (opere edilizie, impianti, perizie di stima), può essere utile allegare una relazione tecnica redatta da un esperto indipendente che, esaminati i luoghi o i beni, certifichi che effettivamente i lavori sono stati eseguiti o che i beni sono presenti. Il giudice può a sua volta nominare un CTU se ritiene la questione dubbia e tecnica: ad esempio, in un caso di fatture per opere edili che il Fisco dice mai eseguite, la difesa può chiedere una CTU per accertare se quei lavori risultano fatti (magari guardando l’immobile, comparando con progetti, ecc.).
  • Coinvolgimento del fornitore: se il fornitore esiste ancora e non è totalmente sparito, farlo intervenire con le sue scritture contabili, per mostrare che ha registrato la vendita, che magari ha acquistato a sua volta il materiale per fornirlo, ecc. Talvolta le cause di fatture false vedono le due parti contrapposte (il cliente a cui contestano l’indebito, il fornitore magari sanzionato per operazione fittizia). Se c’è la possibilità, coordinarsi col fornitore onesto per presentare una difesa coerente. Viceversa, se il fornitore era una cartiera collusa, potrebbe non convenire chiamarlo (potrebbe peggiorare la situazione ammettendo la frode).
  • Buona fede e diligenza: nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, un aspetto particolare è provare la buona fede se si vuol salvare la detrazione IVA. Bisogna dimostrare di aver adottato tutte le cautele: es. aver verificato il VIES (partita IVA comunitaria) del fornitore, aver chiesto visura camerale, aver preteso documenti d’identità di chi rappresentava la ditta, insomma di non aver colposamente ignorato segnali di allarme. Inoltre mostrare eventuali circostanze che ingannerebbero chiunque (es. il fornitore aveva un sito web plausibile, un ufficio di facciata). Questo può non bastare se emergono elementi di consapevolezza, ma è meglio di nulla.

Da quanto sopra, emerge che la difesa richiede un approccio proattivo e documentale. Non ci si può limitare a criticare le prove del Fisco; bisogna costruire una contro-narrazione fattuale supportata da evidenze. Un errore da evitare è restare passivi sperando che il giudice ritenga insufficienti le prove dell’Erario: se queste raggiungono la soglia delle presunzioni gravi, il contribuente deve controbattere fattualmente.

Un altro strumento utile è il contraddittorio anticipato: oggi, per molti accertamenti, l’Agenzia convoca il contribuente prima di emettere l’atto (specie se l’accertamento nasce da induttivo o da parametri). Nelle contestazioni di frode, a volte vi è un contraddittorio (ad esempio se l’ufficio notifica un PVC conseguente dando 60 giorni per osservazioni, obbligatorio in alcune ipotesi). Usare quella sede per fornire subito le prove e memorie dettagliate è consigliabile: se si riesce a convincere l’ufficio in quella fase, si può evitare l’atto o ottenerne una versione attenuata. Anche se l’ufficio non recede, quelle memorie e documenti depositati saranno la base della futura difesa e mostrano al giudice la propria diligenza.

Difesa in sede amministrativa: strumenti deflattivi

Prima di arrivare al giudice, ci sono alcune opzioni per definire la controversia o ridurre il danno in sede amministrativa:

  • Ravvedimento operoso: se il contribuente, prima di qualsiasi controllo, si accorge di aver inserito costi fittizi (magari su consiglio del professionista che segnala il rischio), può presentare una dichiarazione integrativa a sfavore e pagare spontaneamente le imposte dovute e le sanzioni ridotte. Ravvedersi dopo un PVC o un accertamento notificato non è possibile (formalmente il ravvedimento è ammesso finché non vi sia notifica di accessi o atti impositivi per quella violazione). Comunque, nella pratica, di rado un contribuente “si pente” di costi fittizi senza essere scoperto, ma è uno strumento astrattamente esistente. Va detto che se i costi fittizi integrano reati (frodi), il ravvedimento non estingue il reato, ma può costituire un attenuante ed evitare il sequestro preventivo.
  • Adesione all’accertamento (accertamento con adesione): dopo la notifica dell’avviso di accertamento (o anche prima, su PVC), il contribuente può chiedere di definire la questione in via concordata con l’Ufficio. Nell’adesione si discute la pretesa e si può arrivare a un accordo sulle somme dovute. In materia di fatture false, l’ufficio è di solito poco incline a sconti se ha prove solide, ma può concedere riduzioni di sanzioni (l’adesione per legge riduce le sanzioni a 1/3 del minimo) e talvolta riconoscere parzialmente alcune voci (es. potrebbe riconoscere la deduzione di costi “soggettivi” se il contribuente porta documenti in quell’occasione, salvando l’IRES ma non l’IVA). L’adesione inoltre sospende i termini per ricorrere, dando più tempo per la valutazione. Per un contribuente che sa di avere la peggio probatoriamente, aderire può essere conveniente per limitare danni (sanzioni ridotte e pagamento rateale fino a 8 rate).
  • Acquiescenza: qualora non si voglia o possa contestare, pagare entro 60 giorni l’accertamento con sanzioni ridotte del 1/3 evita il processo. È una scelta che di solito si sconsiglia se ci sono aspetti penali pendenti, perché l’acquiescenza è ammissione implicita e potrebbe costituire elemento a sfavore nel penale. Ma in casi minori, può essere valutata.
  • Autotutela: è sempre possibile fare istanza di autotutela presentando elementi nuovi all’Ufficio, chiedendo l’annullamento (totale o parziale) dell’atto. Se ad esempio emergono documenti che l’ufficio non aveva visto e che dimostrano la reale prestazione, si può tentare la carta dell’autotutela (che è a discrezione dell’ufficio). Non sospende termini, dunque va comunque predisposto ricorso entro 60 giorni dall’atto per sicurezza.
  • Definizione penal-tributaria (art. 13 D.Lgs. 74/2000): se l’accertamento riguarda importi elevati e c’è un procedimento penale per frode fiscale avviato, il contribuente può valutare il pagamento integrale di imposte, sanzioni e interessi per ottenere la causa di non punibilità penale (in caso di dichiarazione fraudolenta, però, la non punibilità scatta solo se il debito tributario incluso sanzioni è pagato prima del dibattimento – requisito stringente – e solo se l’imposta evasa non supera 200.000 €, soglia introdotta nel 2019, e se il contribuente non è recidivo). Questo strumento rientra nelle valutazioni difensive, ma implica appunto pagare tutto il dovuto; spesso in situazioni di costi fittizi di grande entità, l’importo evaso supera 200k, quindi non rientra nella causa di non punibilità ma resta come attenuante importante.

La difesa amministrativa, in sostanza, consiste nel giocare le carte migliori prima possibile, per eventualmente convincere l’ufficio o per mitigare le sanzioni. Se però il disaccordo rimane, allora si passa al contenzioso vero e proprio.

Impugnazione e processo tributario

Se il contribuente ritiene infondato (in tutto o in parte) l’accertamento sui costi fittizi, deve presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (nuova denominazione dal 2022 delle ex Commissioni Tributarie Provinciali) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Data la complessità della materia, il ricorso dovrà essere molto dettagliato, contenere l’esposizione dei fatti, i motivi di diritto e soprattutto l’indicazione specifica dei mezzi di prova offerti (documenti, CTU, ecc.). Ricordiamo alcuni aspetti procedurali rilevanti:

  • Giurisdizione tributaria esclusiva: le controversie relative a tributi (imposte) e relative sanzioni rientrano nelle Commissioni (ora Corti) tributarie. Anche questioni connesse, come la presunzione di utili ai soci, fanno parte dello stesso giudizio o giudizi riunibili. Il giudice tributario può conoscere incidentalmente di fatti rilevanti penalmente, ma il suo accertamento ha fini fiscali e non penali.
  • Sospensione: visto che spesso gli importi sono alti, si può chiedere la sospensione dell’atto impugnato per evitare di pagare subito 1/3 delle imposte accertate. Occorre dimostrare sia il fumus boni iuris (motivi fondati di ricorso) sia il periculum (danno grave dall’esecuzione). Se il contribuente ha ragionevoli prove, la sospensione potrebbe essere concessa per evitare effetti irreversibili (pignoramenti, ecc.).
  • Svolgimento del processo: dal 2023 è attiva la figura del giudice monocratico per cause sotto 3.000€, ma nel nostro caso sono importi maggiori, quindi la corte decide in composizione collegiale. Il processo è prevalentemente scritto, ma la difesa può chiedere pubblica udienza per illustrare. È essenziale depositare tutta la documentazione probatoria entro i termini (20 giorni prima dell’udienza, ultimi documenti per il ricorrente, oltre non si può salvo sia controprove a nuovi documenti del fisco).
  • Onere della prova in giudizio: come già detto, l’onere iniziale è dell’ente impositore. Quindi, nel ricorso conviene evidenziare eventuali lacune probatorie dell’Ufficio: ad esempio, se l’accertamento si basa su mere supposizioni o non allega il PVC integrale, eccepire la carenza di prova. Tuttavia, parallelamente, come strategia prudente, il ricorso offrirà comunque le prove contrarie del contribuente (per non affidarsi solo a eccezioni procedurali). Va anche sottolineato se l’Ufficio ha violato eventuali regole, ad esempio mancato contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio (in certe materie è richiesto, in frodi IVA transfrontaliere ad esempio, ma in generale il contraddittorio interno non è sempre obbligatorio a pena di nullità). Se le prove del Fisco sono presuntive, il ricorso deve spiegare perché non sono gravi precise e concordanti, magari fornendo una spiegazione alternativa a quegli indizi.
  • Appello e giudizio di legittimità: qualora in primo grado l’esito sia sfavorevole, si può proporre appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex CTR). In appello non si possono introdurre nuove domande ma si possono produrre nuovi documenti fino a 20 giorni prima dell’udienza d’appello (cosa importante: se ci si procura prove nuove dopo il primo grado, c’è ancora chance di farle valutare in appello). La corte d’appello tributaria riesamina sia i fatti che il diritto. Infine, contro la sentenza d’appello si può ricorrere in Cassazione per motivi di legittimità (errore di diritto o vizio motivazionale grave). La Cassazione recente è intervenuta spessissimo su questi temi, quindi esistono molte pronunce di principio che vincolano i giudici di merito; citarle e farle valere già nei ricorsi di merito è utile. Ad esempio citare Cass. 8716/2025 sul principio di deducibilità costi soggettivi , Cass. 16493/2024 su onere della prova , Cass. 26520/2024 su irrilevanza penale della sovrafatturazione ecc., aiuta ad orientare il giudice di merito.
  • Durata e esito: il processo tributario può durare a lungo, specie su materie complesse come questa. Se in parallelo c’è un processo penale, può capitare che una parte chieda di sospendere in attesa dell’esito penale (ma in generale i due procedimenti viaggiano separati e il giudice tributario non è obbligato ad attendere quello penale, anzi con le riforme recenti tende a proseguire indipendentemente). Spesso capita che l’esito penale arrivi dopo quello tributario. Se il contribuente vince in tributario dimostrando la realtà del costo, questo può giovare nel penale come elemento di prova a discarico; viceversa, se viene accertata l’indebita deduzione in tributario, nel penale è un segnale negativo ma non prova il reato (che richiede dolo).

Un aspetto peculiare delle liti sui costi fittizi è che si tratta di cause con alto tasso tecnico-probatorio. Non è solo questione di interpretare la norma, ma di convincere il giudice sui fatti. Negli ultimi anni si è registrata una certa apertura mentale dei giudici tributari: ad esempio, hanno iniziato a riconoscere casi in cui, pur essendo soggettivamente false le fatture, il costo era effettivo e andava ammesso in deduzione . Oppure hanno annullato accertamenti basati solo su mere liste di soggetti fittizi senza prova specifica sulla transazione del contribuente. Pertanto, un contenzioso ben preparato può portare a successi, ma richiede un dossier probatorio robusto e argomentazioni giuridiche precise.

Conseguenze fiscali e strategie post-giudizio

In caso di soccombenza definitiva, il contribuente dovrà pagare le imposte evase più sanzioni amministrative. Le sanzioni per deduzione di costi inesistenti rientrano di solito nell’alveo delle sanzioni per infedele dichiarazione: pari al 90% della maggiore imposta o della differenza di credito (D.Lgs. 471/97 art. 1, co.2) aumentabile fino al 180% in caso di frode. Se però viene qualificata come dichiarazione fraudolenta (reato), le sanzioni tributarie restano ma poi si coordinano con l’eventuale confisca penale (non si può duplicare la punizione, l’eventuale confisca del profitto del reato sostituisce il pagamento? La questione è complessa e in evoluzione giurisprudenziale, cfr. Cass. SSUU 2021 sul ne bis in idem interno). In ogni caso, l’Erario cercherà di riscuotere. Se l’importo è ingente, potrebbe esserci iscrizione ipotecaria o sequestro a garanzia (soprattutto se c’è procedimento penale possono scattare sequestri preventivi sul valore dell’evaso).

Dal punto di vista del debitore imprenditore, quindi, oltre alla difesa nel merito, va pianificata la gestione finanziaria del rischio: ad esempio, predisporre piani di rateazione (si possono chiedere piani fino a 6 anni all’Agente della Riscossione), valutare definizioni agevolate (il legislatore talvolta introduce condoni o definizioni – nel 2023 c’è stata la rottamazione quater, ma riguardava ruoli già emessi; chissà in futuro).

Se invece la controversia viene vinta (annullamento accertamento), il contribuente ha diritto al rimborso di eventuali somme pagate in pendenza (ad es. acconti, terzo delle imposte versato per non moratoria) e, se provata malafede o eccesso dell’ufficio, potrebbe valutare richiesta di risarcimento danni per lite temeraria (rarissimo in ambito tributario, di norma non vi è responsabilità salvo errori gravi).

Un capitolo delicato è la posizione del professionista (commercialista o consulente fiscale) che abbia eventualmente avallato o non impedito la contabilizzazione di costi fittizi: il cliente/debitore potrebbe rivalersi se ritiene di aver agito su consiglio errato; viceversa, in sede penale il professionista potrebbe essere co-indagato per concorso. Questo esula dalla nostra guida, ma il quadro mostra come tali vicende abbiano implicazioni a catena.

Passiamo ora a casi pratici esemplificativi, per concretizzare l’applicazione di questi principi, e successivamente affronteremo le FAQ con domande e risposte.

Esempi pratici di contestazioni e difesa

Di seguito presentiamo alcuni scenari basati su situazioni ricorrenti, per comprendere come impostare in pratica la difesa di fronte a contestazioni di costi fittizi.

Caso 1: Fatture per consulenze mai effettuate (operazione oggettivamente inesistente).
Scenario: La società Alfa Srl, nel settore commerciale, riceve un avviso di accertamento per l’anno 2022 in cui l’Agenzia delle Entrate contesta €80.000 di costi per “consulenze di marketing” dedotti da Alfa. Tali costi risultano documentati da 4 fatture emesse da Beta Sas (società di consulenza). L’Ufficio, basandosi su un PVC della GdF, sostiene che Beta Sas sia una società cartiera: ha sede presso uno studio di commercialisti senza uffici propri, zero dipendenti, rappresentante legale irreperibile; inoltre Beta non ha versato l’IVA di quelle fatture né presentato dichiarazione per il 2022. La GdF non ha trovato alcuna traccia di report o attività svolte da Beta per Alfa. Pertanto, l’accertamento disconosce l’intero costo di €80.000 come fittizio (operazione oggettivamente inesistente) e recupera €17.600 di IRES (22% di 80k) più IVA indetraibile €17.600, con sanzioni 90% sull’IRES evasa (€15.840) e 90% sull’IVA indebitamente detratta (€15.840). Inoltre, essendo Alfa a ristretta base (due soci 50%-50%), l’ufficio presume distribuito ai soci un utile extra di €80.000 (50% a ciascuno) tassandoli per dividendi. Difesa: In questo scenario, Alfa Srl intende difendersi sostenendo che i servizi di consulenza sono stati davvero resi. La difesa raccoglie: copie delle email intercorse con il consulente Beta (da cui emergono scambi di informazioni e bozze di piani marketing), una chiavetta USB con presentazioni PowerPoint prodotte da Beta, testimonianze scritte di due dipendenti di Alfa che hanno partecipato a riunioni con Beta (attestando che il consulente di Beta ha effettivamente fatto delle analisi di mercato poi utilizzate). Si scopre però che il consulente che svolgeva il lavoro era in realtà un free-lance che Beta “utilizzava” ma pagava in nero. In pratica Beta fungeva da schermo: l’attività c’era, ma Beta non la dichiarava. La difesa quindi argomenta che l’operazione è soggettivamente inesistente ma non oggettivamente: Alfa ha ricevuto un servizio (di fatto dal free-lance), e Beta ha solo fatto da intermediario fittizio. Chiede pertanto che il costo sia riconosciuto deducibile ex art. 14 co.4-bis L.537/93, perché effettivamente sostenuto e inerente (Alfa può provare di aver pagato i bonifici a Beta e di aver ricevuto l’opera, come da documenti prodotti). Ammette invece la indetraibilità IVA perché, stante la frode di Beta, Alfa non era del tutto ignara (avrebbe dovuto insospettirsi). Esito possibile: Il giudice, valutati i documenti, potrebbe dare ragione parziale ad Alfa: riconoscere che, grazie alle prove portate (report prodotti, email, dichiarazioni), Alfa ha dimostrato l’effettività del servizio . Quindi confermare la deducibilità degli €80.000 a fini IRES. Contestualmente però potrebbe confermare la sanzione IVA (Alfa perde il credito IVA su 80k, a meno che provi totale buona fede). Le sanzioni per infedele dichiarazione IRES verrebbero annullate (non c’è più evasione IRES). Resterebbero forse sanzioni minori per irregolarità formali. Questo caso mostra come provare l’effettività può salvare la situazione fiscale sul reddito, sfruttando la norma del 2012, pur subendo magari le conseguenze IVA e penali residue (Beta e forse Alfa hanno comunque commesso un illecito IVA). Se Alfa non avesse raccolto quelle prove, avrebbe perso totalmente la deduzione.

Caso 2: Fatture di acquisto beni con sovrafatturazione (parziale inesistenza).
Scenario: Gamma SpA acquista materie prime (acciaio) dalla società Delta SRL. Durante una verifica, la GdF nota che il prezzo pagato da Gamma a Delta (es. 1.200 €/tonnellata) è del 30% superiore ai prezzi di mercato dell’acciaio in quel periodo (~900 €/tonnellata). Inoltre Delta SRL risulta essere partecipata al 100% da un parente del titolare di Gamma. Il sospetto è che Gamma stia gonfiando i costi per trasferire utili a Delta (con fiscalità diversa) o creare provviste. L’Agenzia contesta dunque la sovrafatturazione per 300 €/tonnellata come costo non inerente, riprendendo a tassazione la differenza su tutto l’acciaio acquistato (supponiamo 100 tonnellate, quindi €30.000 di costi disconosciuti). Non viene contestata l’IVA (perché l’operazione c’è ed è nazionale, IVA assolta). Ma parte segnalazione per possibile abuso del diritto. Difesa: Gamma sostiene che il prezzo più alto era giustificato da particolari servizi accessori forniti da Delta (consegna just-in-time, packaging speciale) e dalla volontà di mantenere forniture stabili evitando fluttuazioni – insomma motivi commerciali. Porta in giudizio analisi di costo che mostrano come Delta offriva anche un servizio di stoccaggio per Gamma incluso nel prezzo, e testimonianze scritte di dirigenti che attestano la qualità migliore dell’acciaio fornito. Esito possibile: Questo è un caso borderline: non c’è fattura falsa in senso classico (beni arrivati, fornitore reale). Il giudice potrebbe valutare se il comportamento è antieconomico e finalizzato a elusione. Se ritiene che Gamma non ha giustificato adeguatamente il delta prezzo, potrebbe confermare l’indeducibilità della quota eccedente, qualificandola come spesa non inerente (o come distribuzione occulta di utili a parti correlate). Non essendoci un reato specifico di per sé (nessuna fattura falsa ideologicamente, solo prezzo “alto”), sul piano penale non ci sarebbe frode. Del resto, Cassazione penale dice che questo caso non configura operazione inesistente penalmente . Tuttavia fiscalmente c’è spazio per contestare l’inerenza. È una tipica lite su transfer pricing domestico mascherato. La difesa in tali casi può anche argomentare che l’Agenzia non può sindacare l’economicità se non prova artificiosità (principio: il Fisco non è organo di controllo della gestione, salvo abuso). Non di rado queste liti si chiudono con un compromesso in adesione (es. Gamma accetta un certo abbattimento costi e paga un po’ di imposte, per chiuderla lì).

Caso 3: Spese personali imputate a costo aziendale (fittizio per difetto di inerenza).
Scenario: Il sig. Rossi, amministratore di Omega SRL, fa acquistare alla società un’auto di lusso e la contabilizza tra i costi d’impresa (ammortamenti e spese di gestione), quando in realtà l’auto è usata quasi esclusivamente da lui e dalla sua famiglia. L’Agenzia, in sede di controllo, rileva che il veicolo non è strumentale (Omega SRL costruisce software, non ha attività che giustifichino quell’auto) e che mancano giustificazioni per l’uso aziendale. Disconosce quindi i relativi costi (diciamo €20.000 tra ammortamento e spese carburante annuali) come non inerenti, e li tassa come utilità in natura al socio/amministratore. Sanzioni per infedele dichiarazione su Omega (per l’IRES risparmiata) e avviso al sig. Rossi per redditi da capitale non dichiarati (utili extracontabili presunti). Difesa: Omega può sostenere che l’auto veniva usata anche per rappresentanza con clienti, quindi un minimo di inerenza c’era. Ma se le evidenze (registro utilizzo, etc.) mancano, è difficile. Potrebbe puntare sul fatto che comunque quell’auto era prevista come fringe benefit al socio (se avessero deliberato ciò, fiscalmente il trattamento sarebbe diverso, ma qui paiono non averlo fatto). Esito possibile: In genere queste contestazioni sono difficili da vincere per il contribuente, perché effettivamente manca inerenza oggettiva. Il risultato probabile è la conferma dell’indeducibilità. Al più si può trattare sulla qualificazione: se l’utilizzo privato non era deliberato come dividendo ma come fringe benefit, si potrebbe chiedere di riqualificarlo come compenso in natura da lavoro (deducibile per la società entro certi limiti, e tassato in capo all’amministratore come reddito di lavoro). Ma se non c’è delibera né busta paga che lo includa, è arduo. Questo scenario evidenzia come non tutti i costi fittizi siano fatture false: a volte è uso personale di beni sociali. La difesa in tali casi è più tecnica (riqualificazione) che fattuale.

Caso 4: “Carosello” IVA con frode scoperta – posizione del cessionario in buona fede.
Scenario: La società Sigma acquista merce intracomunitaria tramite un fornitore italiano Pi Srl. Si scopre che Pi Srl era una cartiera che fungeva da buffer: comprava dalla Germania senza applicazione IVA, rivendeva a Sigma con IVA, ma poi spariva senza versare l’imposta. Sigma deduce il costo e detrae l’IVA. Arriva un accertamento che contesta a Sigma l’IVA indetraibile e il costo indeducibile, sostenendo che Sigma era parte consapevole della frode. Difesa: Sigma produce documentazione che attesta di aver fatto controlli su Pi (VIES attivo, iscrizione camerale, nulla di anomalo apparente), e dimostra che i prezzi pagati erano in linea col mercato (dunque non c’era un guadagno sospetto per Sigma dall’operazione). Inoltre fornisce email dove Pi Srl comunicava in modo professionale come qualsiasi fornitore. Insomma, Sigma invoca la buona fede: non poteva sapere del carosello. Esito: Se Sigma convince su questo, l’IVA potrebbe essere considerata detraibile (in base a giurisprudenza UE sulla buona fede) e – quanto al costo – essendo comunque merce ricevuta e usata, la deducibilità dovrebbe essere accordata (questo indipendentemente dalla consapevolezza, come già visto per costi soggettivamente inesistenti). Il punto focale era l’IVA: qui davvero la differenza la fa provare di aver agito diligentemente. Se invece emergesse che Sigma doveva accorgersi (es. prezzi anormalmente bassi netti IVA, o contatti personali col cartiere), allora verrebbe punita su entrambi i fronti.

Questi esempi, pur semplificati, mostrano come ogni situazione abbia le sue peculiarità. La chiave di successo è adattare la strategia difensiva al tipo di contestazione: negare il fatto con prove solide se l’operazione c’è stata, minimizzare il dolo se si rischia sul penale, oppure transigere in fretta se l’errore è palese (come l’auto personale) per evitare guai peggiori.

Domande e Risposte frequenti (FAQ)

D: Cosa si intende esattamente per “costo fittizio” in bilancio?
R: Un costo fittizio è un componente negativo di reddito (costo, spesa o perdita) riportato nelle scritture contabili e nel bilancio di un’azienda che in realtà non corrisponde ad un’effettiva uscita economica o che è stato artificiosamente gonfiato. In pratica, è una spesa “di carta”, spesso documentata con fatture o altri atti falsi, inserita allo scopo di ridurre l’utile tassabile o creare fondi neri. Esempi: una fattura per servizi mai resi, l’acquisto mai avvenuto di beni, oppure spese personali mascherate da costi aziendali. In gergo giuridico si parla anche di “elementi passivi fittizi” .

D: Come fa l’Agenzia delle Entrate a scoprire i costi fittizi?
R: Di solito attraverso le attività di controllo e verifica fiscale. La Guardia di Finanza svolge ispezioni in azienda, esaminando contabilità, fatture e movimentazioni finanziarie. Possono emergere indizi come fornitori sconosciuti o incoerenti (es. società neo-costituite che emettono grosse fatture), incongruenze tra acquisti e produzione, indici antieconomici (costi troppo elevati rispetto ai ricavi) . Spesso la scoperta avviene grazie a controlli incrociati: ad esempio un fornitore viene verificato e risulta essere una cartiera, quindi si risale ai clienti; oppure tramite le comunicazioni IVA (esterometro, listing) l’Agenzia vede transazioni anomale. Anche le banche dati incrociate (Spesometro, fatturazione elettronica) oggi aiutano: individuano pattern sospetti (come lo stesso soggetto che fattura a molti contribuienti importi simili, tipico di cartiere). In sintesi, il Fisco incrocia dati, effettua accessi, controlla i conti bancari e se trova incongruenze documentali o operative parte la contestazione.

D: Quali sono le sanzioni tributarie se vengono contestati costi fittizi?
R: Le conseguenze fiscali immediate sono: recupero delle maggiori imposte dovute (IRES, IVA, IRAP se applicabile) e applicazione di sanzioni amministrative. In particolare, l’utilizzo di costi inesistenti configura una dichiarazione infedele: la sanzione ordinaria è il 90% della maggior imposta o del minor credito risultante . Se però l’uso di fatture false è qualificato come fraudolento, la sanzione può salire al 135% – 270% (il doppio della base). Ad esempio, se un costo fittizio ha ridotto l’IRES di 50.000 €, la sanzione base è 45.000 €. Inoltre c’è il recupero di interessi per il ritardo nel pagamento. Per l’IVA indebitamente detratta, stessa logica: sanzione 90% dell’IVA. Se il contribuente aderisce o paga subito, alcune sanzioni possono ridursi (adesione: 1/3, acquiescenza: 2/3). Oltre a ciò, se la società è a ristretta base, l’Ufficio presume utili ai soci: significa che anche i soci possono ricevere cartelle per IRPEF su dividendi occulti, con relative sanzioni (spesso 30% per omessa dichiarazione di quei redditi). Infine, un aspetto “indiretto”: se il bilancio è stato falsato da costi fittizi, in caso di fallimento l’amministratore potrebbe essere chiamato a rispondere per irregolarità contabili.

D: Quali reati si rischiano inserendo costi fittizi?
R: Principalmente due ambiti: reati tributari e reati societari. Sul versante tributario, se vengono usate fatture false per abbattere il reddito, scatta il reato di dichiarazione fraudolenta mediante fatture false (art. 2 D.lgs. 74/2000), punito con reclusione fino a 8 anni , purché l’imposta evasa superi 100.000 €. Anche senza fatture, ma con artifici contabili, può configurarsi la dichiarazione fraudolenta con altri artifici (art. 3). Se gli importi evasi sono più contenuti potrebbe configurarsi la dichiarazione infedele (art. 4). In ogni caso, l’inserimento di elementi passivi inesistenti in dichiarazione oltre soglia è penalmente rilevante. Sul fronte societario, l’amministratore che approva un bilancio con costi fittizi commette il reato di falso in bilancio (art. 2621 c.c. per non quotate) se la falsità è rilevante. La pena va fino a 5 anni (non è di poco conto). Quindi, si rischiano sia condanne penali personali sia sanzioni pecuniarie come la confisca del profitto (equivalente alle imposte evase). Va aggiunto che l’azienda rischia sanzioni ex D.Lgs. 231/2001 se il reato rientra tra quelli previsti (oggi i reati fiscali fraudolenti sì, il falso in bilancio pure). In breve: rischi penali elevati per amministratori e complici, specialmente nelle frodi più strutturate.

D: In caso di accertamento per costi fittizi, su chi ricade l’onere della prova?
R: In linea generale, inizialmente sull’Amministrazione finanziaria. È il Fisco che deve contestare e provare che un certo costo è inesistente. Tuttavia, come spiegato, questa prova può essere data anche tramite presunzioni (non serve “la pistola fumante”). Una volta che l’Ufficio ha portato elementi seri (ad es. prova che il fornitore è inesistente, o che l’operazione è irrealistica), l’onere si sposta sul contribuente che deve dimostrare il contrario, cioè che l’operazione è reale . In pratica, si forma una sorta di doppio onere: prima il Fisco deve fornire indizi validi di frode, poi il contribuente deve fornire le prove dell’effettività. Se il Fisco non porta nulla di concreto (cosa rara in questi casi), allora l’accertamento verrebbe annullato per carenza probatoria. Ma se porta presunzioni gravi, il contribuente che non le smonta rischia di perdere. Dunque il contribuente deve essere pronto a provare la legittimità dei propri costi con documenti, contratti, evidenze pratiche, non potendo rifugiarsi dietro “ho la fattura, quindi è tutto ok”, perché la Cassazione esclude che la sola fattura assolva l’onere .

D: Posso dedurre un costo se la fattura è intestata a un fornitore diverso da quello reale?
R: Sì, a condizione di soddisfare alcuni requisiti. Dopo la modifica normativa del 2012, i costi da operazioni soggettivamente inesistenti (cioè dove la prestazione c’è stata, ma il fatturante non è quello vero) sono deducibili ai fini delle imposte sui redditi se e solo se il costo è effettivo, inerente e determinato . In altre parole, se dimostro che la mia azienda ha effettivamente sostenuto quella spesa e ne ha avuto beneficio economico, la deduzione è ammessa anche se la fattura proveniva da un soggetto diverso. Non importa nemmeno se sapevo della frode: la Cassazione ha confermato che la deducibilità IRPEF/IRES vale “anche qualora il contribuente sia consapevole del meccanismo fraudolento” (il che potrà avere guai penali, ma fiscalmente il costo resta deducibile, salvo i limiti di legge). Attenzione però: restano fuori i costi direttamente usati per reati (es. se la transazione stessa è un reato fine, ma non è il caso tipico delle fatture soggettive). Quindi, ad esempio, se ho comprato veramente della merce ma la fattura era di un’altra società “schermo”, potrò dedurre il costo (merce pagata) ma non detrarrò l’IVA se ero consapevole. E dovrò fornire prove dell’effettività. Riassumendo: sì, il costo rimane deducibile (salvo difetti di competenza o inerenza) – è un importante scudo per il contribuente onesto che si è trovato in un carosello, e anche un principio di equità (pago tasse sul reddito al netto di costi reali, non al lordo solo perché c’era una frode altrui).

D: Se accerto costi fittizi, possono davvero tassare anche i soci per utili occulti?
R: Sì, succede frequentemente nelle società di capitali con pochi soci (definite a “ristretta base”). La logica è: se la società ha abbattuto l’utile con costi finti, in realtà ha conseguito un utile maggiore; e siccome pochi soci di solito si dividono i proventi non contabilizzati, il Fisco presume che quell’utile extra sia finito a loro. È una presunzione giurisprudenziale consolidata : la Cassazione ha detto che non c’è differenza tra maggiori ricavi non dichiarati e costi inesistenti, in entrambi i casi la società ha più utili di quanto dichiarato e, se pochi soci, li si presume assegnati pro quota . È una presunzione relativa: il socio può provare che non ha ricevuto nulla (cosa non facile). Se non prova, verrà tassato sull’importo come dividendo in capo a lui (aliquota dipende dall’anno, oggi dividendi percepiti da persone fisiche su società non quotate concorrono al 58,14% in IRPEF). Questo comporta un secondo livello di tassazione. Ad esempio, se una SRL con due soci al 50% aveva €100k di costi fittizi, quell’importo una volta ripreso a tassazione IRES genera €27.500 di IRES e parallelamente €100k presunti utili ai soci: ciascun socio 50k come reddito di capitale da dichiarare. In passato c’è dibattito dottrinale se sia giusto tassare utili mai distribuiti (specie se in realtà i soldi sono serviti a pagare chissà chi). Ma ad oggi la prassi lo consente. Quindi, difendendosi, bisogna considerare anche questo fronte: spesso conviene riunire il ricorso dei soci a quello della società e far presente al giudice che la tassazione socio dipende dall’esito sulla società. Se il costo fittizio viene confermato, la presunzione colpirà i soci; se il costo viene riammesso, cade anche quella.

D: Cosa devo fare se mi accorgo di aver inserito costi inesistenti in passato?
R: La cosa migliore sarebbe attivarsi prima che il Fisco se ne accorga. In altre parole, valutare un ravvedimento operoso: presentare dichiarazioni integrative per correggere gli anni in cui si è dedotto indebitamente, pagando le imposte relative e le sanzioni ridotte. Questo riduce molto le penalità e soprattutto, se fatto tempestivamente, potrebbe evitare un procedimento penale (perché se sistemi tutto prima che parta un controllo, difficilmente ci sarà denuncia, e comunque pagare prima del dibattimento in molti casi salva dal carcere). Ovviamente ciò comporta esborso finanziario e ammissione dell’errore, ma a conti fatti è preferibile che essere scoperti. Se ormai è tardi (già c’è stato un PVC o un accertamento), si può ancora aderire all’accertamento cercando magari di limitare i danni. Dal lato penale, se c’è un procedimento, sanare il debito tributario aiuta molto (può far venir meno la punibilità per alcuni reati minori, o attenuare la pena per i maggiori). Inoltre, conviene attivare subito un check interno: raccogliere tutti i documenti, identificare eventuali email, testimoni, tutto ciò che può servire a dimostrare almeno parzialmente la realtà delle operazioni. L’approccio “nascondere la testa sotto la sabbia” è pericoloso: meglio consultare subito un avvocato tributarista e un penalista per impostare la strategia (che sia collaborazione o difesa). In sintesi: se sei in difetto e non sei ancora nel mirino, ravvediti; se sei già nel mirino, prepara la miglior difesa possibile e valuta soluzioni transattive.

D: Ho dedotto costi relativi a pagamenti “in nero” (senza fattura). È un costo fittizio?
R: Paradossalmente, è il caso inverso: un costo reale ma privo di fattura non è un costo fittizio (perché i soldi sono usciti davvero), ma fiscalmente è indeducibile comunque, perché manca il documento fiscale. Ad esempio, se pago un lavoratore in nero €10.000, non posso dedurlo (oltre al fatto che è illecito lavoro nero). E se me lo deduco lo stesso come “fittizio”, incappo in sanzioni per infedele dichiarazione. In sede penale, un costo “non documentato” fittiziamente iscritto potrebbe configurare dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (perché sto simulando un costo). Quindi ha effetti simili. Quindi, attenzione: per essere deducibile un costo deve risultare da elementi certi e precisi (art. 109 TUIR) e con documentazione idonea. Un pagamento occulto, anche se erogato, se poi me lo invento come “spese generali” senza pezze d’appoggio, viene tolto. In sintesi: costo in nero = costo non deducibile, e se lo infilo comunque in conti, diventa un costo fittizio agli occhi del Fisco.

D: Una volta contestato un costo fittizio, posso patteggiare o risolvere la questione senza andare in giudizio?
R: Sì, ci sono alcune opzioni. Come detto, accertamento con adesione è la via principale: si tratta con l’Agenzia delle Entrate per trovare un accordo sull’importo da pagare. Se la prova del Fisco è molto solida, difficilmente rinuncerà all’imponibile, ma a volte in sede di adesione si ottengono sconti sulle sanzioni e rateazioni comode. Un’altra possibilità, se il caso rientra, è la mediazione tributaria (obbligatoria per importi fino a €50.000, il che può includere contestazioni minori di costi fittizi): si presenta un reclamo-mediazione e l’ufficio potrebbe proporre una riduzione sanzioni al 35% se si chiude lì. Inoltre, esistono talvolta definizioni agevolate di legge: ad esempio, la “pace fiscale” o rottamazioni. Nel 2023 c’era la definizione agevolata degli avvisi di accertamento non impugnati, con sanzioni ridotte al 3%: se capitasse di nuovo una norma simile, potrebbe convenire aderire e pagare solo un minimo di sanzione. Sul fronte penale, c’è il patteggiamento o la messa alla prova, ma questo entra nella fase giudiziaria penale. Per il contribuente l’obiettivo è evitare di arrivare a sentenza: se riesce a transare prima (pagando il dovuto), spesso anche il penale viene meno (perché per alcuni reati tributari pagare estingue, per altri rende non conveniente procedere). Quindi sì, si può risolvere evitando un lungo contenzioso, ma comporta quasi sempre accettare di pagare almeno in parte e perdere magari qualche beneficio (deduzione IVA, ecc.). È una scelta strategica che va ponderata caso per caso, valutando chance di vittoria e costi.

D: In tribunale (Corte tributaria) posso far testimoniare qualcuno a mio favore?
R: Non nel senso classico: il processo tributario non ammette la prova testimoniale orale (art. 7 D.Lgs. 546/92). Questo spesso sorprende i non addetti, ma il legislatore ha escluso i testimoni per timore di abusi. Tuttavia, è possibile aggirare in parte il limite: si possono produrre dichiarazioni scritte rese da terzi (per esempio dichiarazioni sostitutive di atto notorio, o verbali di dichiarazioni resi alla Guardia di Finanza durante la verifica). Il giudice tributario può valutarle liberamente, anche se l’Agenzia spesso le contesta come non contraddittorie. Inoltre, come dicevamo, se serve può disporre una consulenza tecnica. Quindi, se avevi un cliente o un fornitore che può confermare la realtà di una prestazione, la cosa migliore è farsi rilasciare da lui una dichiarazione dettagliata (con copia documento) da allegare. Non sarà un esame testimoniale, ma è meglio di niente. Nel processo penale invece, se attivato, quei soggetti potranno essere sentiti come testimoni veri e propri davanti al giudice penale.

D: Le fatture false vengono sempre scoperte?
R: Non sempre, ma l’evoluzione dei controlli fiscali rende questo rischio sempre più probabile. Negli anni ‘90-2000 molte piccole frodi la facevano franca; oggi con la fatturazione elettronica e le banche dati incrociate, è diventato più difficile. Il Fisco riesce a vedere se un soggetto emette tante fatture e poi sparisce, se non versa IVA, se i margini di un’azienda sono anomali. Inoltre, la Guardia di Finanza conduce operazioni mirate su intere filiere (ad esempio, edilizia, rottami, logistica – settori a rischio) individuando network di cartiere. Ciò detto, l’appetibilità di usare costi fittizi purtroppo permane per alcuni, specie perché riduce il carico fiscale immediato. Ma va soppesato che, se scoperti, il conto sarà molto salato (imposte, sanzioni, penale). Possiamo dire che il rischio di scoperta oggi è abbastanza alto nelle frodi strutturate (cartiere seriali, caroselli): lì quasi sempre prima o poi la GdF arriva. Nei casi isolati (es. un imprenditore si fa fare due fatture false dall’amico): qui può sfuggire più a lungo, ma magari verrà fuori in caso di controlli incrociati sull’amico o se quell’amico un giorno “canta” per salvare sé stesso. Insomma, la non scoperta non può essere data per certa, anzi. Le norme antiriciclaggio, lo spesometro, l’informatizzazione, hanno ridotto di molto il buco nero dove prima le operazioni in nero si perdevano.

D: Quali sono le difese “di rito” che un avvocato tributarista valuta in questi casi?
R: Oltre al merito (prove effettive etc.), ci sono una serie di possibili eccezioni procedurali che il difensore esperto verifica sempre: per esempio, vizi formali dell’accertamento (motivazione insufficiente? Allegati mancanti? Termine di decadenza rispettato? Firma digitale regolare?), vizi nel contraddittorio (se obbligatorio, l’ufficio l’ha concesso? Un esempio: negli accertamenti basati su PVC, deve attendere 60 giorni dalla notifica del PVC prima di emettere atto, pena nullità salvo urgenza – art. 12 c.7 L.212/2000). Un’altra eccezione tipica: il difetto di motivazione sul presupposto penalmente rilevante. La Cassazione ha chiesto che l’Ufficio motivi bene quando c’è frode (cioè spiegare in atto perché ritiene false le fatture): se l’accertamento è apodittico potrebbe essere annullabile. Anche la sproporzione della pretesa a volte si eccepisce (ad es. se tassano come utili ai soci somme che oggettivamente non potevano essere distribuite perché perse altrove: il giudice potrebbe limitare la portata della presunzione). Insomma, un buon difensore setaccia l’atto e il procedimento per trovare appigli. Non di rado, ad esempio, emergono errori nella notifica (che se tardiva fa saltare tutto). Oppure l’ufficio non ha considerato che il contribuente aveva presentato una domanda di interpello sui costi da reato (oggi possibile) e non ha atteso la risposta. Ogni caso è a sé, ma sicuramente le difese di rito si affiancano a quelle di merito.

D: Se vinco in giudizio e si riconosce che non erano costi fittizi, posso chiedere i danni all’Agenzia delle Entrate?
R: In teoria è previsto che in caso di “soccombenza aggravata” si possano chiedere le spese e anche il risarcimento del danno per lite temeraria (art. 96 c.p.c.). Nei fatti, è molto difficile ottenere un risarcimento dal Fisco per un accertamento risultato infondato, a meno di casi di evidente malafede o negligenza grave. La maggior parte delle volte ci si deve accontentare dell’annullamento e della rifusione delle spese di lite (poche migliaia di euro secondo tariffe). Tuttavia, se un contribuente subisce un danno grave e concreto (ad es. ha dovuto chiudere l’attività per un sequestro rivelatosi ingiusto, ha perso opportunità), può tentare un’azione risarcitoria in sede civile o amministrativa contro l’Amministrazione. Non è terreno facile: bisogna provare errore inescusabile del Fisco. Diciamo che, più che i danni, la vera vittoria è vedersi annullare tutto e poter recuperare le somme eventualmente pagate. Le energie di solito sono spese per quello, più che per improbabili rivalse economiche.

D: Cosa posso fare per prevenire contestazioni di costi fittizi?
R: La prevenzione migliore è non porre in essere operazioni opache. Se, ad esempio, qualcuno propone “ti faccio avere fatture così abbassi le tasse”, rifiutare: nel medio termine costeranno molto di più. In termini pratici, un imprenditore può adottare procedure di controllo dei fornitori: verificare che esistano davvero, richiedere DURC (nel caso di appalti), controllare la storia aziendale. Evitare transazioni antieconomiche senza giustificazione. Usare sistemi di contabilità interna trasparente: ogni costo deve avere un giustificativo e una spiegazione di business. Se proprio ci si trova in situazioni borderline (tipo operazioni infragruppo a rischio transfer pricing), formalizzare adeguatamente con studi di settore o perizie che supportino i valori. Inoltre, tenersi aggiornati con un buon consulente fiscale: oggi l’abuso del diritto è dietro l’angolo anche per operazioni che paiono lecite, quindi va valutato l’impatto fiscale di scelte come spostare utili a società diverse. Infine, un consiglio concreto: conservare con cura tutta la documentazione di ciò che si compra o paga. Spesso le contestazioni arrivano anni dopo, e avere in archivio contratti, ddt, email, rende molto più facile difendersi. Se un fornitore fallisce o sparisce, avere almeno copie di quello che scambiavate è fondamentale. Quindi archiviazione e tracciabilità sono grandi alleate. In sintesi, onestà e documentazione sono i pilastri: se tutti i tuoi costi sono reali e li puoi dimostrare, dormirai sonni più tranquilli.

Fonti e riferimenti selezionati:

  • Codice Civile, artt. 2423-2428 (principi di bilancio) e art. 2621 c.c. (false comunicazioni sociali, falso in bilancio).
  • D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, art. 109 (criteri di deducibilità dei costi) e art. 88 (sopravvenienze attive da insussistenze sopravvenute) .
  • Legge 24 dicembre 1993 n. 537, art. 14, comma 4-bis (deducibilità dei costi da reato, come modificato dal D.L. 16/2012) .
  • D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, artt. 2, 3, 4, 8, 13 (reati tributari di dichiarazione fraudolenta, infedele, emissione di fatture false, e circostanze attenuanti) .
  • Cassazione Civile, Sez. Trib., sent. n. 8716/2025 (operazioni soggettivamente inesistenti: costi deducibili se effettivi; oggettivamente inesistenti indeducibili) .
  • Cassazione Civile, Sez. Trib., ord. n. 16493/2024 (onere della prova in caso di fatture per operazioni inesistenti; art. 7 co.5-bis D.Lgs.546/92 non retroattivo) .
  • Cassazione Civile, Sez. V, sent. n. 19945/2023 (sopravvenienze attive da costi inesistenti originari; onere prova su AdE, tempo decorso insufficiente a provar inesistenza) .
  • Cassazione Penale, Sez. III, sent. n. 26520/2024 (fatture gonfiate ma pagate: non costituiscono reato di operazione inesistente se beni effettivi e pagamenti reali – distinzione condotta antieconomica vs frode) .
  • Cassazione Civile, Sez. Trib., ord. n. 25322/2022 (presunzione di distribuzione ai soci di utili extracontabili derivanti da costi fittizi o indeducibili in società a ristretta base) .
  • Cassazione Civile, Sez. V, sent. n. 17788/2018 (deducibilità costi soggettivamente inesistenti anche se contribuente consapevole, salvo mancanza requisiti o costi per reati) .
  • Corte di Giustizia UE, cause C-80/11 e C-142/11 (Mahagében)C-277/14 (PPUH Stehcemp) – principi sulla detraibilità IVA e buona fede del cessionario in frodi carosello .
  • Circolare Agenzia Entrate n. 1/2018 (commento alle modifiche art. 14 co.4-bis L.537/93 e impatto su deducibilità costi da reato).
  • Cassazione 25332/2022 –
  • Corte di Cassazione sentenza n. 19945 depositata il 12 luglio 2023 – L’art. 88, cit., inserisce tra le sopravvenienze attive da dichiarare anche “la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritti in bilancio in precedenti esercizi”, dovendosi da tale definizione evincere che la sopravvenienza deve essere dichiarata (e tassata) nell’esercizio in cui si manifesta solo se la posta passiva sia stata già iscritta in precedenti bilanci e se la sua insussistenza sia sopravvenuta e non originaria

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché nel bilancio della tua impresa sarebbero presenti costi fittizi? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché nel bilancio della tua impresa sarebbero presenti costi fittizi?
Vuoi sapere quali sono i rischi e come puoi difenderti da questa accusa?

I costi fittizi sono spese che il Fisco ritiene inesistenti, gonfiate o comunque non inerenti all’attività d’impresa. Si tratta di una delle contestazioni più gravi in ambito societario e tributario, perché può portare non solo a recuperi fiscali molto pesanti, ma anche a conseguenze penali per dichiarazione fraudolenta.

👉 Non sempre però la contestazione è fondata: molte spese considerate “fittizie” hanno in realtà una giustificazione economica e documentale.


⚖️ Perché scatta la contestazione

  • Fatture considerate false o riferite a operazioni inesistenti;
  • Spese ritenute sproporzionate o non inerenti all’attività aziendale;
  • Costi di consulenza o prestazioni di servizi senza documentazione adeguata;
  • Gonfiamento artificioso di spese per ridurre l’utile imponibile;
  • Rapporti con società ritenute “cartiere” o prive di reale operatività.

📌 Conseguenze possibili

  • Indeducibilità dei costi contestati e recupero delle imposte;
  • Sanzioni fiscali dal 90% al 180% delle imposte evase;
  • Interessi di mora;
  • Nei casi più gravi, procedimenti penali tributari per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri artifici;
  • Possibile responsabilità degli amministratori per mala gestio.

🔍 Come difendersi

  1. Esamina l’accertamento ricevuto: individua i costi specificamente contestati.
  2. Raccogli la documentazione di supporto: fatture, contratti, ordini, report, relazioni tecniche, prove dell’effettiva esecuzione delle prestazioni.
  3. Dimostra l’inerenza delle spese all’attività aziendale, anche quando non producono immediati benefici economici.
  4. Contesta le presunzioni del Fisco: la semplice sproporzione di un costo non prova la sua fittizietà.
  5. Predisponi memorie difensive o ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

  • 📂 Analizza i costi contestati e la motivazione dell’Agenzia delle Entrate;
  • 📌 Ricostruisce la documentazione a sostegno delle spese aziendali;
  • ✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per ottenere il riconoscimento della deducibilità;
  • ⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con il Fisco e nei giudizi tributari;
  • 🔁 Valuta soluzioni alternative, come adesioni o definizioni agevolate, per ridurre sanzioni e interessi.

🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

  • ✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e fiscalità d’impresa;
  • ✔️ Specializzato in accertamenti su costi fittizi e rapporti con società cartiere;
  • ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.

Conclusione

Le contestazioni sui costi fittizi in bilancio sono molto gravi, ma non sempre fondate: spesso il Fisco interpreta in modo restrittivo spese legittime.
Con una difesa legale mirata puoi dimostrare l’effettività e l’inerenza delle spese, ridurre le pretese dell’Agenzia delle Entrate e proteggere l’impresa e i suoi amministratori.

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