Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate o dall’Ispettorato del Lavoro per collaborazioni non registrate? Quando i rapporti di lavoro o collaborazione non vengono formalizzati con contratti regolari, il Fisco e gli enti previdenziali presumono che si tratti di attività “in nero”. In questi casi, oltre al recupero delle imposte, possono scattare sanzioni pesanti e responsabilità per il datore di lavoro.
Quando scattano le contestazioni sulle collaborazioni non registrate
– Se vengono trovati lavoratori o collaboratori privi di contratto durante ispezioni o verifiche
– Se i compensi corrisposti non risultano dalle scritture contabili o dai modelli fiscali
– Se i pagamenti emergono dai movimenti bancari ma non sono stati dichiarati
– Se il rapporto di collaborazione è stato qualificato come occasionale ma in realtà aveva carattere continuativo e abituale
– Se mancano versamenti di contributi previdenziali e assicurativi
Cosa rischi in caso di contestazione
– Recupero delle imposte non versate sui compensi corrisposti
– Sanzioni fiscali dal 90% al 180% dell’imposta accertata
– Sanzioni amministrative in materia di lavoro per l’impiego di collaboratori irregolari
– Obbligo di versare i contributi previdenziali e assicurativi arretrati
– Possibile responsabilità penale in caso di violazioni gravi o sistematiche
– Azioni esecutive (pignoramenti, sequestri) in caso di mancato pagamento
Come difendersi da una contestazione
– Dimostrare la natura realmente occasionale della collaborazione, se non ricorrevano i requisiti di abitualità
– Presentare documentazione (ricevute, corrispondenza, contratti) che giustifichi i rapporti contestati
– Contestare gli errori dell’Agenzia delle Entrate nella ricostruzione dei compensi
– Dimostrare che alcune somme non costituiscono compensi (rimborsi spese, anticipi)
– Impugnare l’avviso di accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e difendersi anche in sede ispettiva
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la contestazione e verificare la legittimità dell’accertamento
– Valutare la reale natura dei rapporti di collaborazione
– Predisporre un dossier difensivo per ridurre o annullare la pretesa fiscale e contributiva
– Difendere l’imprenditore in sede tributaria, civile e penale-lavoristica
– Negoziare soluzioni con l’Agenzia delle Entrate o con l’INPS per ridurre sanzioni e rateizzare i debiti
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione di imposte, sanzioni e contributi richiesti
– La sospensione delle procedure esecutive collegate
– La tutela del patrimonio aziendale e personale
– La possibilità di regolarizzare i rapporti senza compromettere definitivamente l’attività
⚠️ Attenzione: le collaborazioni non registrate sono tra le irregolarità più attenzionate dal Fisco e dagli organi ispettivi. Tuttavia, molte contestazioni si basano su presunzioni: con documenti e prove concrete è possibile ribaltare le accuse.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in difesa tributaria e diritto del lavoro – ti spiega come affrontare le contestazioni sulle collaborazioni non registrate e come difenderti da conseguenze fiscali e contributive sproporzionate.
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Introduzione
Le collaborazioni non registrate – comunemente note come lavoro “in nero” o rapporti di lavoro celati sotto forme contrattuali improprie – costituiscono una delle problematiche più insidiose nel diritto del lavoro italiano. Si tratta di situazioni in cui una persona presta la propria attività lavorativa senza che il datore di lavoro abbia eseguito le comunicazioni obbligatorie di instaurazione del rapporto o senza un corretto inquadramento contrattuale. Questo fenomeno interessa sia i rapporti subordinati tradizionali sia le forme parasubordinate (ad esempio collaborazioni coordinate e continuative, prestazioni di lavoro autonomo occasionale) e può coinvolgere contesti familiari, societari o professionali.
Dal punto di vista dell’ordinamento italiano, l’omissione di regolarizzazione di un rapporto di lavoro attiva una serie di conseguenze sanzionatorie (amministrative e contributive) e di possibili contenziosi giudiziari. Il datore di lavoro (debitore) – colui che viene chiamato a rispondere delle omissioni – deve conoscere a fondo la normativa per potersi difendere efficacemente. Questa guida, pensata a un livello avanzato per avvocati, imprenditori e privati, fornisce un quadro completo e aggiornato ad agosto 2025 sulle strategie difensive in caso di contestazioni relative a collaborazioni non registrate. Il taglio è giuridico ma divulgativo, con riferimenti normativi puntuali, sentenze recenti e linee guida ufficiali, presentati in modo chiaro. Troverete inoltre tabelle riepilogative, sezioni domande e risposte (Q&A) e simulazioni pratiche riguardanti il contesto italiano. L’obiettivo è fornire strumenti utili per affrontare un’eventuale ispezione dell’Ispettorato del Lavoro, una richiesta di contributi da parte dell’INPS o un giudizio promosso da un lavoratore, dal punto di vista del datore di lavoro (debitore) che deve difendersi.
Quadro normativo di riferimento
Per difendersi adeguatamente, è essenziale conoscere le norme chiave che regolano l’instaurazione e la gestione dei rapporti di lavoro in Italia, distinguendo tra le varie tipologie contrattuali e i conseguenti obblighi a carico del datore. Di seguito riepiloghiamo la normativa pertinente alle comunicazioni obbligatorie, alle diverse forme contrattuali (subordinate, parasubordinate, occasionali) e alle sanzioni previste.
- Obbligo di comunicazione preventiva: Qualunque rapporto di lavoro subordinato deve essere comunicato al Centro per l’Impiego (CO) entro le ore 24 del giorno precedente l’assunzione . Questa comunicazione (UniLAV) è fondamentale per regolarizzare il lavoratore. L’omissione configura il cosiddetto lavoro sommerso (lavoratore subordinato senza comunicazione preventiva) ed espone il datore alla “maxi-sanzione” amministrativa. Come vedremo, la maxi-sanzione è graduata in base alla durata del lavoro irregolare e punisce l’impiego di lavoratori subordinati non risultanti da comunicazioni obbligatorie . È importante sottolineare che la maxi-sanzione si riferisce soltanto a lavoratori subordinati non registrati – restano escluse prestazioni di natura diversa, come rapporti societari o familiari genuini oppure collaborazioni davvero autonome.
- Rapporto di lavoro subordinato (Art. 2094 c.c.): È caratterizzato da eterodirezione (il lavoratore è sottoposto alle direttive e al potere disciplinare del datore), continuità della prestazione e inserimento nell’organizzazione altrui. La subordinazione implica, come elemento naturale, la retribuzione del lavoratore. In generale, il nostro ordinamento presume l’onerosità della prestazione lavorativa : tanto il lavoro subordinato quanto quello autonomo hanno natura sinallagmatica, prevedendo un corrispettivo in denaro per l’attività svolta. La legge (art. 36 Cost. e art. 2099 c.c.) garantisce al lavoratore subordinato una retribuzione proporzionata e sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa. Dunque, svolgere attività lavorativa senza retribuzione costituisce un’eccezione da giustificare (ad esempio con finalità affettive o di benevolenza in ambito familiare). In assenza di tali circostanze, l’onerosità è la regola e l’ordinamento tende a qualificare come rapporti di lavoro quei contesti in cui una persona presta stabilmente attività a favore di un’altra, dietro direzione di quest’ultima .
- Rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.): Si tratta di forme parasubordinate (art. 409 c.p.c.) caratterizzate da una collaborazione personale, continuativa, coordinata con l’attività del committente ma senza vincolo di subordinazione gerarchica. Questi rapporti richiedono anch’essi una comunicazione obbligatoria al Centro per l’Impiego (dal 2008 le comunicazioni preventive sono state estese oltre ai dipendenti anche ai parasubordinati e ad altre forme contrattuali) . La riforma attuata con il D.Lgs. 81/2015 (c.d. Jobs Act) ha però profondamente limitato l’utilizzo lecito delle co.co.co.: a partire dal 1° gennaio 2016 “si applica la disciplina del lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro personali, continuative e organizzate dal committente” (c.d. collaborazioni etero-organizzate) . In pratica, ogni qual volta la collaborazione presenti i tratti della subordinazione (continuità, personalità della prestazione, inserimento nell’organizzazione e rispetto di direttive), essa viene riqualificata ex lege come lavoro subordinato. Fanno eccezione solo alcune ipotesi tassative previste dalla legge: ad esempio collaborazioni disciplinate da accordi collettivi specifici per esigenze di settore, collaborazioni rese da professionisti iscritti ad albi (esercizio di professioni intellettuali), nonché altre situazioni particolari (organi di amministrazione e controllo di società, partecipanti a imprese familiari, attività di volontariato o sportive dilettantistiche, ecc.). Oltre questi ambiti, l’instaurazione di una co.co.co. priva di effettiva autonomia espone al rischio di riqualificazione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato . È fondamentale che il datore/committente, se utilizza collaborazioni genuine, rispetti gli obblighi formali (lettera d’incarico, comunicazione al centro per l’impiego, pagamento dei contributi alla Gestione Separata INPS) per non incorrere in contestazioni di “collaborazione fittizia”.
- Prestazioni di lavoro autonomo occasionale: Con questa espressione ci si riferisce alle collaborazioni episodiche e di breve durata, rese da lavoratori autonomi senza Partita IVA, disciplinate dall’art. 2222 c.c. (contratto d’opera) e soggette a limiti di compenso annuo e durata. La normativa recente (art. 14 D.Lgs. 81/2015 come modificato dal D.L. 146/2021 conv. in L. 215/2021) ha introdotto l’obbligo di comunicazione preventiva anche per i lavoratori autonomi occasionali. Dal gennaio 2022, infatti, il committente che intende avvalersi di una prestazione autonoma occasionale deve darne comunicazione all’Ispettorato del Lavoro competente, tramite PEC o tramite il portale ministeriale, prima dell’inizio della prestazione . La mancata o tardiva comunicazione è punita con una sanzione amministrativa da €500 a €2.500 per ciascun lavoratore autonomo occasionale interessato . Tuttavia, questa violazione non integra la “maxi-sanzione” per lavoro nero a meno che la prestazione, in realtà, mascheri un rapporto di lavoro subordinato ancora in essere al momento dell’accertamento . In altre parole, se il committente omette di comunicare un’attività realmente autonoma e occasionale (ad esempio un incarico di poche ore) potrà subire la sanzione amministrativa pecuniaria suddetta, ma non le ben più gravi conseguenze previste per il lavoro subordinato sommerso. Se invece quella collaborazione occasionale era solo nominale e nascondeva di fatto un lavoro alle dipendenze del committente, allora l’Ispettorato potrà contestare l’illecito di lavoro nero, applicando la maxi-sanzione, purché non siano già stati assolti gli ulteriori obblighi fiscali/previdenziali idonei a escludere il carattere “sommerso” della prestazione .
- Altre forme contrattuali flessibili: Nel panorama del lavoro non standard rientrano anche i tirocini formativi, il lavoro accessorio (PrestO – Prestazioni Occasionali tramite Libretto Famiglia o contratto di prestazione occasionale ex art. 54-bis D.L. 50/2017) e rapporti associativi (ad es. impresa familiare, associazione in partecipazione con apporto di lavoro). Queste situazioni hanno regole proprie ma possono essere utilizzate in modo distorto per eludere l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato. Ad esempio, l’impresa familiare (art. 230-bis c.c.) è un istituto che tutela il familiare che lavora stabilmente nell’azienda di famiglia garantendogli una partecipazione a utili e beni dell’impresa, ma non è un rapporto di lavoro subordinato né autonomo: il familiare collaboratore non ha una “retribuzione” mensile, bensì diritti di partecipazione economica e di mantenimento. Se i requisiti dell’impresa familiare non sono rispettati, quel lavoro in ambito familiare potrebbe essere ricondotto nell’alveo del lavoro subordinato. Analogamente, l’associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro da parte dell’associato è stata di fatto vietata dalle riforme (già la L. 92/2012, art. 1 commi 28-29, e poi il D.Lgs. 81/2015 hanno disposto la nullità dei nuovi contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, salvo che in ambito familiare). Di conseguenza, tentare oggi di mascherare un rapporto di lavoro continuativo mediante un’associazione in partecipazione è operazione ad alto rischio di nullità e di riqualificazione come subordinazione. Anche il contratto di apprendistato o il tirocinio extra-curriculare se simulati (ovvero se al tirocinante/apprendista non viene dato effettivo addestramento ma impiegato come normale dipendente) possono portare a contestazioni: in tali casi l’ispettore può riconoscere il rapporto di lavoro subordinato in frode alla legge con relative sanzioni e obblighi contributivi.
- Normativa sanzionatoria: La lotta al lavoro sommerso è presidiata da un complesso di norme sanzionatorie. La principale è la già citata maxi-sanzione per lavoro “nero”, introdotta originariamente dal D.L. 12/2002 (conv. L. 73/2002) e più volte modificata (dal D.L. 223/2006, dalla L. 183/2010 e da ultime dalla L. 145/2018 e D.L. 19/2024). Attualmente (dopo le modifiche del Decreto PNRR-quater, D.L. 19/2024, in vigore dal 2 marzo 2024), le sanzioni amministrative per l’impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto sono articolate come segue :
- Impiego sino a 30 giorni di lavoro effettivo non dichiarato: sanzione da €1.950 a €11.700 per ciascun lavoratore irregolare .
- Impiego da 31 a 60 giorni: sanzione da €3.900 a €23.400 per ciascun lavoratore .
- Impiego oltre 60 giorni: sanzione da €7.800 a €46.800 per ciascun lavoratore .
Tali importi “base” sono aumentati del 20% nei casi aggravati di impiego di: minori in età non lavorativa, stranieri privi di permesso, percettori di Reddito di Cittadinanza o (dal 2023) beneficiari di Assegno di inclusione/Supporto formazione lavoro . Inoltre, in caso di recidiva (datore già sanzionato in via definitiva per lavoro nero nei 3 anni precedenti), la maggiorazione è raddoppiata (passa quindi al 60% in più) . Questo significa, ad esempio, che un datore recidivo che ha impiegato un lavoratore in nero per oltre 60 giorni potrebbe subire una sanzione fino a €46.800 * 1,60 = €74.880 per quel singolo lavoratore. Come deterrente aggiuntivo, la legge prevede anche il cumulo con altre sanzioni amministrative: se il lavoratore in nero veniva retribuito in contanti (violando il divieto di pagamento stipendio cash per importi dovuti al dipendente, ex art. 1 comma 913 L. 205/2017), il datore incorre sia nella maxi-sanzione che nella sanzione per mancata tracciabilità della retribuzione .
Esistono casi di esclusione dalla maxi-sanzione, espressamente indicati dalle norme e dalla prassi amministrativa :
- Regolarizzazione spontanea: se il datore di lavoro, prima dell’ispezione o comunque prima di ricevere convocazioni o accertamenti formali, regolarizza spontaneamente il rapporto di lavoro sommerso (comunicando l’assunzione e versando contributi per l’intero periodo prestato in nero), la maxi-sanzione non si applica affatto . È un forte incentivo all’adempimento spontaneo: ad esempio, se un datore si rende conto di avere un collaboratore non dichiarato, è consigliabile che provveda immediatamente a metterlo in regola per evitare il pesante regime sanzionatorio in caso di controllo.
- Differente qualificazione del rapporto: la maxi-sanzione colpisce l’omessa comunicazione di un rapporto subordinato. Se però il lavoratore era registrato come qualcos’altro (ad es. come co.co.co., come tirocinante, come socio lavoratore) e l’Ispettorato contesta che in realtà avrebbe dovuto essere assunto come dipendente, non si è in presenza di “lavoro sommerso” in senso stretto. In questi casi – riqualificazione di un rapporto già formalmente instaurato in altra forma – la prassi ministeriale esclude l’applicazione diretta della maxi-sanzione . Ci potranno essere altre conseguenze (sanzioni minori, recupero contributivo, conversione del contratto), ma non la multa piena prevista per il nero. Su questo punto torneremo diffusamente, poiché costituisce un’importante linea difensiva: dimostrare che il rapporto contestato non era completamente nascosto, ma almeno formalizzato in un’altra forma, può evitare l’accusa di lavoro nero e ricondurre la vicenda a un difetto di qualificazione contrattuale.
- Impossibilità temporanea di comunicazione: la legge scusa i casi in cui il datore di lavoro non abbia potuto effettuare la comunicazione Unilav per cause eccezionali, ad esempio la chiusura, anche per ferie, dello studio di consulenza del lavoro incaricato dell’assunzione, a condizione che il datore abbia inviato un fax con modello UniUrg nei termini . Questa è un’ipotesi abbastanza specifica: serve a evitare sanzioni nel caso in cui, per ragioni organizzative documentabili, la comunicazione non sia partita in tempo pur essendoci la volontà di assumere regolarmente il lavoratore. Ovviamente va provato che l’unico ostacolo era tecnico-organizzativo e che la comunicazione è stata inviata non appena possibile.
- Periodo di ultrattività di un contratto a termine: se un lavoratore a tempo determinato continua a lavorare dopo la scadenza del contratto, la legge consente una prosecuzione di fatto per un breve periodo (fino a 30 o 50 giorni, a seconda della durata originaria, con maggiorazioni retributive) senza necessità di nuova comunicazione . Durante questo periodo di tolleranza (“ultrattività” del contratto a termine, ex art. 21 D.Lgs. 81/2015), la mancata comunicazione di proroga non è punita come lavoro nero. Se però il rapporto prosegue oltre tale periodo senza formalità, si configura un nuovo rapporto a tutti gli effetti, e quindi dall’ultimo giorno utile in poi scatta il lavoro nero se non c’è stata comunicazione . Attenzione: in sede di ispezione, se viene trovato un ex-temporaneo che ha continuato a lavorare ben oltre la scadenza, l’ispettore applicherà la maxi-sanzione sin dal primo giorno di ripresa, trattandolo come un nuovo rapporto irregolare. Inoltre, se la ripresa è avvenuta entro 10 (o 20) giorni dalla scadenza del precedente termine, la legge impone la trasformazione a tempo indeterminato di quel rapporto (art. 21 c.2 D.Lgs. 81/2015); di conseguenza, l’eventuale diffida in questi casi dovrà prevedere obbligatoriamente l’instaurazione di un contratto a tempo indeterminato per regolarizzare la posizione .
Va infine ricordato che oltre alle sanzioni amministrative possono sorgere profili penali in alcune situazioni: assumere lavoratori stranieri privi di permesso, ad esempio, costituisce reato (art. 22 c.12 D.Lgs. 286/1998) oltre a comportare l’aggravante del 20% sulla maxi-sanzione . Anche l’omesso versamento di contributi previdenziali oltre una certa soglia (€10.000 annui) costituisce reato (art. 2 comma 1-bis D.L. 463/1983 conv. L. 638/1983), sebbene in caso di lavoro nero di solito il recupero contributivo avviene in sede civile/amministrativa e il penale scatti solo se il datore, pur avendo denunciato il rapporto, non versa i contributi dovuti. Ancora, l’impiego di minori in età non lavorativa può far scattare imputazioni penali. Questi aspetti esulano in parte dal tema principale, ma è bene aver presente che lavorare con personale non in regola espone a rischi trasversali. Nelle prossime sezioni ci concentreremo sulle possibili contestazioni e sui mezzi di difesa, focalizzando l’attenzione sul punto di vista del datore di lavoro che si trova accusato di avere una collaborazione non registrata.
Di seguito una tabella riepilogativa degli obblighi chiave e relative sanzioni in materia di rapporti di lavoro non registrati, per una rapida consultazione:
Situazione | Obbligo legale | Violazione | Conseguenze/Sanzione |
---|---|---|---|
Assunzione lavoratore subordinato | Comunicazione al Centro Impiego entro il giorno prima | Omessa o tardiva comunicazione | Maxi-sanzione lavoro nero se lavoratore impiegato senza alcuna comunicazione (vedi importi); se tardiva ma prima di un accertamento, sanzione amministrativa fissa (da €100 a €500 a lavoratore, importi minori) |
Collaborazione coordinata (co.co.co.) | Comunicazione al Centro Impiego (Unilav) alla instaurazione; contratto scritto con progetto (se richiesto in passato) | Omessa comunicazione; contratto assente/irregolare | Se il rapporto è etero-organizzato = applicazione disciplina lavoro subordinato (riqualificazione); no maxi-sanzione se comunque c’era un contratto/co.co.co. formalmente avviato ; possibile sanzione per omessa comunicazione (500 € circa) e recupero contributi Gestione Separata/INPS differenziali. |
Lavoro autonomo occasionale (no P.IVA) | Comunicazione preventiva all’INL (dal 2022) | Omessa comunicazione preventiva | Sanzione amministrativa da €500 a €2.500 per lavoratore ; maxi-sanzione solo se la collaborazione era in realtà lavoro subordinato sommerso e non risultano altre tutele attivate . |
Tirocinio/Stage | Convenzione e progetto formativo; divieto mansioni produttive sostitutive personale | Abuso del tirocinio (uso come normale lavoratore) | Riqualificazione come lavoro subordinato con obbligo contributivo e differenze retributive; eventuale sanzione amministrativa regionale (variabile). |
Impresa familiare (art. 230-bis c.c.) | Iscrizione del familiare come coadiuvante (INPS artigiani/commercianti); diritti di partecipazione utili | Familiare impiegato senza inquadramento né impresa familiare formale | Contestazione di lavoro subordinato in nero (se emergono etero-direzione, continuità e onerosità) con relative sanzioni; oppure riconduzione a impresa familiare di fatto (con rivendicazione di quote di utili). |
Socio di società impiegato in azienda | Se socio lavoratore: iscrizione gestione INPS di riferimento (es. gestione commercianti per socio di SNC); eventuale contratto di lavoro se previsto | Socio di fatto trattato come dipendente senza assunzione | In genere esclusione maxi-sanzione (rapporto societario) ma l’INPS può richiedere contributi come socio lavoratore; se il socio era di minoranza e agiva come dipendente, possibile contenzioso sulla natura del rapporto. |
Utilizzo voucher (PrestO/Libretto) | Registrazione preventiva sulla piattaforma INPS e attivazione prima della prestazione | Lavoro occasionale pagato fuori dal portale (voucher “fittizio”) | Trattamento come lavoro nero subordinato se emergono caratteristiche di etero-direzione e continuità; maxi-sanzione e recupero contributi. |
(Tabella 1: Obblighi di comunicazione/inquadramento e relative sanzioni in caso di omissione o uso improprio)
Accertamento ispettivo e contestazione: cosa succede?
Quando un rapporto di collaborazione non è regolarmente registrato, la scoperta può avvenire principalmente in due modi: (a) attraverso un’ispezione degli organi di vigilanza sul lavoro (Ispettorato Nazionale del Lavoro – INL, spesso in sinergia con INPS e INAIL), oppure (b) su segnalazione o azione del lavoratore stesso (ad esempio, un lavoratore “in nero” che si rivolge a un sindacato, fa vertenza o denuncia la situazione). Esaminiamo brevemente come si svolgono le verifiche e quali atti di contestazione può ricevere il datore di lavoro.
- Ispezione dell’Ispettorato del Lavoro (INL): Gli ispettori del lavoro hanno poteri di accesso presso le aziende, cantieri, esercizi commerciali, studi professionali, ecc. per controllare l’osservanza della normativa sul lavoro. In caso di accesso ispettivo, chiedono al datore di esibire il Libro Unico del Lavoro, le comunicazioni obbligatorie e la documentazione relativa al personale. Se trovano persone che lavorano e che non risultano dalle documentazioni esibite, scatta la presunzione che siano lavoratori in nero. Gli ispettori raccolgono dichiarazioni sul posto sia dai lavoratori (che vengono intervistati circa da quanto tempo lavorano, con quali orari, con che compenso e chi impartisce loro istruzioni) sia dal datore o suoi rappresentanti. Tutti questi elementi confluiscono nel Verbale di accertamento.
- Verbale unico di accertamento e notificazione: Al termine dell’istruttoria, gli ispettori redigono un verbale nel quale descrivono i fatti accertati e contestano formalmente le violazioni di legge riscontrate. Nel caso di lavoratori in nero, il verbale conterrà la contestazione della maxi-sanzione amministrativa (con indicazione della somma dovuta per ciascun lavoratore irregolare, calcolata in base ai giorni di lavoro accertati) e l’eventuale contestuale “diffida” obbligatoria a regolarizzare. Il verbale viene notificato al datore di lavoro. Da questo momento decorrono i termini sia per ottemperare alla diffida (in genere 120 giorni per completare la regolarizzazione) sia per eventuali impugnative.
È importante comprendere che, giuridicamente, l’illecito di lavoro sommerso è considerato un illecito omissivo istantaneo con effetti permanenti: in altre parole, si perfeziona nel momento in cui sarebbe dovuta partire la comunicazione di assunzione e questa non è stata effettuata . Ciò ha due implicazioni pratiche: (1) la legge applicabile (e quindi i massimali della sanzione) è quella vigente al momento dell’inizio del rapporto non dichiarato, non quella della cessazione ; (2) la competenza territoriale per l’adozione dell’ordinanza-ingiunzione è della sede INL del luogo dove ha sede legale l’azienda, poiché lì si è “consumato” l’illecito omissivo (anche se il lavoratore in nero è stato trovato presso una sede operativa diversa) .
Dopo la notifica del verbale, il datore può scegliere di regolarizzare tramite diffida oppure di presentare difese/ricorsi (vedremo a breve). In mancanza di ottemperanza alla diffida o di pagamento in sede amministrativa, l’Ispettorato emanerà la formale ordinanza-ingiunzione con cui ingiunge il pagamento della sanzione (ridotta o integrale a seconda dei casi). L’ordinanza-ingiunzione è il provvedimento amministrativo esecutivo contro cui si può fare opposizione in sede giudiziaria.
- Denuncia o azione giudiziaria del lavoratore: In altri casi è il lavoratore stesso a far emergere il rapporto non registrato, ad esempio presentando una denuncia all’Ispettorato/INPS o, più spesso, promuovendo una causa di lavoro davanti al Tribunale del Lavoro. Tipicamente, ciò avviene quando il rapporto si interrompe e il lavoratore rivendica in giudizio di essere stato di fatto un dipendente: chiede quindi il riconoscimento di un rapporto subordinato a tempo indeterminato a partire da una certa data, con condanna del datore a pagare differenze retributive (tredicesime, TFR, straordinari, ferie, ecc.) e a versare i contributi relativi. In questa ipotesi, l’iniziativa parte dal lavoratore e la vertenza si svolgerà in sede civile. Va evidenziato che la presentazione di una domanda giudiziale da parte del lavoratore non impedisce (anzi, spesso innesca) l’accertamento contributivo da parte dell’INPS: il giudice del lavoro, se accerta l’esistenza di un rapporto subordinato non registrato, invia gli atti all’INPS per il calcolo e la riscossione dei contributi evasi. Tuttavia, rispetto al procedimento amministrativo sanzionatorio, il processo civile ha logiche probatorie e tempistiche diverse, come approfondiremo.
- Contestazione da parte dell’INPS: L’INPS può agire di propria iniziativa (ad esempio tramite i propri funzionari ispettivi, oppure incrociando dati contributivi) oppure a seguito di un verbale INL o di una sentenza, per recuperare i contributi previdenziali non versati sui rapporti irregolari. In tal caso, l’INPS notifica al datore un Avviso di Addebito con valore di titolo esecutivo, indicante gli importi dovuti a titolo di contributi omessi, sanzioni civili e interessi. L’avviso di addebito ha sostituito la tradizionale cartella esattoriale: una volta notificato, se non viene impugnato entro i termini, l’INPS può attivare direttamente il recupero forzoso (pignoramenti, ecc.) trascorsi 60 giorni .
Riassumendo, le possibili contestazioni che il datore potrebbe trovarsi ad affrontare sono:
- Verbale ispettivo INL con maxi-sanzione (e diffida) – procedimento amministrativo sanzionatorio.
- Richiesta contributiva INPS (avviso di addebito) – procedimento amministrativo di recupero crediti previdenziali.
- Causa civile promossa dal lavoratore – giudizio in Tribunale per riconoscimento del rapporto di lavoro e diritti connessi.
Ciascuno di questi ambiti ha peculiarità proprie in termini di onere della prova, termini e strategie difensive. Nel prosieguo, esamineremo separatamente come difendersi efficacemente in ognuno di essi, assumendo sempre la prospettiva del datore di lavoro (cioè di colui che viene accusato di avere instaurato una collaborazione non regolare, e che quindi è “debitore” di sanzioni, contributi o pretese economiche del lavoratore).
Difendersi dalla maxi-sanzione dell’Ispettorato (ambito amministrativo)
Nel momento in cui l’Ispettorato contesta un lavoratore in nero, il datore di lavoro ha davanti a sé un procedimento amministrativo sanzionatorio. Le possibili linee di difesa in questa sede sono di due tipi: (A) evitare o ridurre la sanzione attraverso gli strumenti deflattivi (in primis la diffida obbligatoria), e (B) contestare il merito dell’illecito, dimostrando che non sussistono i presupposti per la maxi-sanzione (ad esempio, che il lavoratore non era in realtà un “subordinato” oppure che era stato comunque formalmente registrato in altro modo). Analizziamo entrambe le prospettive.
A) Ottemperare alla diffida per ridurre la sanzione
La diffida obbligatoria (art. 13 D.Lgs. 124/2004 e art. 22 D.Lgs. 151/2015) è uno strumento che permette al datore di regolarizzare la posizione lavorativa irregolare entro un certo termine, beneficiando in cambio di una riduzione della sanzione al minimo edittale. Nel caso della maxi-sanzione per lavoro sommerso, la diffida è sempre impartita dagli ispettori se al momento dell’accesso il lavoratore in nero è ancora “in forza” presso il datore. Anche quando il lavoratore non è più presente, viene normalmente concessa diffida per la regolarizzazione contributiva del periodo pregresso . Vediamo cosa comporta ottemperare alla diffida:
- Regolarizzazione del rapporto: se il lavoratore lavora ancora per il datore, quest’ultimo deve procedere ad assumere il lavoratore con un contratto di lavoro subordinato. Le opzioni ammesse sono: un contratto a tempo indeterminato (anche part-time, ma con orario almeno al 50% del tempo pieno) oppure un contratto a tempo determinato di durata non inferiore a 3 mesi, a tempo pieno . La legge richiede inoltre che il lavoratore così regolarizzato venga mantenuto in servizio per almeno 3 mesi (90 giorni di calendario) successivi . In altre parole, non basta fare un contratto e licenziare subito dopo: per avere lo sconto di sanzione bisogna dare al lavoratore una continuità minima di tre mesi (che rappresentano una sorta di “sanatoria” del periodo pregresso). Se il lavoratore nel frattempo ha già lasciato l’azienda o era stato successivamente assunto regolarmente prima dell’ispezione, la diffida riguarderà solo la regolarizzazione retroattiva del periodo di nero (in tal caso non vi è obbligo di mantenimento, perché il lavoratore non è più alle dipendenze al momento dell’accesso) .
- Effetti retroattivi e adempimenti: la regolarizzazione avviene con effetto retroattivo. Significa che nel contratto/lettera di assunzione si dovrà indicare come data di inizio del rapporto il primo giorno di lavoro effettivo accertato in nero . Il periodo pregresso dovrà essere sistemato come se il lavoratore fosse stato assunto regolarmente sin dall’inizio: ciò implica la compilazione o rettifica del Libro Unico del Lavoro con tutte le voci retributive dovute per quel periodo, il pagamento delle retribuzioni arretrate (in base ai minimi del CCNL applicabile) e il versamento dei relativi contributi e premi assicurativi (INPS, INAIL) . Il principio da rispettare è quello di effettività: bisogna corrispondere retribuzioni e contributi in base al lavoro realmente svolto dal lavoratore in nero . Ad esempio, se il lavoratore prestava 4 ore al giorno, si regolarizzerà quel monte ore, non è necessario pagare per 8 ore se non le faceva (il requisito del 50% dell’orario riguarda solo il nuovo contratto per i prossimi 3 mesi, non la copertura retroattiva ).
- Pagamento della sanzione ridotta: ottemperando a tutti gli obblighi (assunzione/trasformazione, mantenimento, pagamenti arretrati e contributi), il datore di lavoro ha diritto a pagare la maxi-sanzione nella misura minima edittale . Dalle cifre viste prima, significa €1.950 per lavoro fino 30gg, €3.900 fino 60gg, €7.800 oltre 60gg (importi cui si aggiungono le eventuali maggiorazioni del 20% per casi particolari, ma sempre calcolate sul minimo). Il vantaggio economico della diffida è evidente se pensiamo che, senza diffida, la sanzione può arrivare fino al quintuplo. La diffida quindi consente di chiudere il procedimento sanzionatorio al minimo costo, purché si adempia puntualmente. Attenzione: se il datore non completa tutti gli adempimenti entro il termine (generalmente 120 giorni dalla notifica del verbale ), perderà il beneficio e l’ispettorato procederà con l’ordinanza-ingiunzione per l’importo pieno. Inoltre, se anche uno solo dei punti richiesti non è soddisfatto (es. durata della nuova assunzione inferiore a 90 giorni, contributi non versati interamente, o mancato pagamento della sanzione minima), la diffida è considerata non ottemperata. Conviene quindi, se si sceglie questa strada, farlo con precisione e magari farsi assistere da un consulente del lavoro per evitare errori procedurali.
Ottemperare alla diffida può non essere facile – soprattutto il mantenere in servizio il lavoratore per 3 mesi può risultare oneroso se magari l’attività lavorativa era di carattere temporaneo. Tuttavia, spesso è la soluzione più conveniente per chi è effettivamente in difetto: evita un contenzioso prolungato, mette in regola la posizione (eliminando anche futuri problemi contributivi e assicurativi) e abbatte la sanzione al minimo. Dal punto di vista strategico, aderire alla diffida non equivale ad ammettere legalmente la subordinazione in un eventuale futuro giudizio con il lavoratore (ha efficacia amministrativa, non pregiudica la qualificazione giuridica in altre sedi), ma di fatto consolida il rapporto come subordinato regolare da quel momento in poi. Pertanto, se il datore ha intenzione di negare recisamente che si trattasse di un dipendente, la strada della diffida potrebbe essere vista come incoerente con tale tesi. Nel paragrafo seguente vedremo infatti l’opzione alternativa: impugnare la sanzione sostenendo che l’ispettorato ha valutato male le circostanze.
B) Contestare la subordinazione o la prova dell’illecito
In sede amministrativa (e successivamente giudiziale, nell’opposizione all’ordinanza-ingiunzione) il datore di lavoro può difendersi sul merito della contestazione. L’idea è dimostrare che mancano gli estremi del lavoro subordinato sommerso, ossia sostenere che:
- il rapporto con la persona trovata al lavoro non era di natura subordinata, oppure
- non vi è prova sufficiente che quella persona lavorasse alle dipendenze del datore per il periodo contestato.
Queste due linee difensive spesso si intrecciano. In pratica si mette in discussione l’esito dell’accertamento ispettivo, cercando di creare dubbio sulla ricostruzione fornita dagli ispettori. Occorre qui ricordare che, nel giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative, vige il regime probatorio delineato dalla L. 689/1981: spetta all’Amministrazione provare la sussistenza dell’illecito, mentre l’opponente può limitarsi a contestare gli elementi raccolti. Se la prova dell’Ispettorato è carente o contraddittoria, il giudice può annullare la sanzione per difetto di prova.
Quali argomenti può utilizzare il datore? Dipende molto dalle circostanze. Vediamo i casi tipici:
- Il lavoratore era un autonomo/fornitore: Una difesa classica è sostenere che la persona trovata non era un dipendente, bensì un lavoratore autonomo, magari con propria partita IVA o incaricato per un appalto/servizio specifico. Ad esempio: “Non è un mio dipendente, è un idraulico esterno venuto a fare una riparazione”, oppure “È un consulente che collabora in modo indipendente”. Se questa tesi è credibile e supportata da evidenze (un contratto d’opera, una fattura, il possesso di P.IVA, testimonianze sulla sua autonomia), può smontare l’elemento della subordinazione e quindi far venir meno l’illecito di lavoro nero. Attenzione però: dichiarare il falso è controproducente. Se gli ispettori hanno colto il lavoratore mentre svolgeva mansioni ordinarie all’interno dell’azienda (es. un commesso al bancone, un operaio alla macchina), sostenere che fosse un fornitore esterno risulta poco convincente, a meno che non si tratti di situazioni effettivamente borderline (come un agente di commercio, un consulente presente solo per un progetto, ecc.). L’ispettorato spesso raccoglie elementi oggettivi (orari rispettati, organizzazione del lavoro, istruzioni date) per qualificare il rapporto; il datore per ribaltare questa qualificazione dovrà produrre prove concrete dell’autonomia: ad es. mostrare che quella persona prestava attività per conto di più clienti, che non aveva orari fissi imposti, che veniva pagata a risultato e non a tempo, che magari aveva un proprio rischio d’impresa.
- Era un aiuto occasionale / amicizia: Nel contesto di piccole attività può capitare di far leva sulla tesi che la persona presente stesse aiutando a titolo di cortesia, senza compenso, magari per un breve periodo. Esempio classico: “Era mio amico/parente, mi stava dando una mano occasionalmente, non è un lavoratore”. Questa linea rientra nella categoria del lavoro gratuito o volontario. La legge non vieta che un’attività possa essere resa a titolo gratuito, ma – come accennato – lo considera un caso eccezionale, specie se l’attività è continuativa. In ambito familiare, la giurisprudenza tradizionale parlava di “presunzione di gratuità” per le prestazioni rese tra stretti congiunti per vincoli affettivi (il cosiddetto affectio vel benevolentiae causa, cioè per motivi di affetto, spirito di solidarietà familiare e non per un obbligo contrattuale). Tuttavia, la Cassazione più recente tende a superare questa presunzione, affermando che il lavoro subordinato tra familiari è lecito e possibile: ciò che conta sono gli elementi fattuali di subordinazione e onerosità, la cui presenza può essere provata in giudizio . Gli indici rivelatori che la Corte ha individuato sono: la corresponsione di una retribuzione, la presenza regolare e continuativa del familiare nell’attività, il rispetto di un orario di lavoro, il ricevere direttive come un dipendente e l’effettivo inserimento stabile nell’organizzazione aziendale . Se questi elementi ci sono, il rapporto tra parenti viene considerato a tutti gli effetti un rapporto di lavoro subordinato (come avvenuto nella sentenza Cass. 4535/2018) . D’altra parte resta vero che un’attività lavorativa in ambito familiare può essere gratuita, ma solo quando è fornita per meri motivi affettivi o di mutuo aiuto, senza alcuna aspettativa di compenso e senza un inserimento organico nell’impresa familiare . In sostanza: aiutare sporadicamente il marito in negozio la domenica per fare un piacere è un conto; lavorare tutti i giorni alla cassa è un altro (anche se sei la moglie). Dunque il datore di lavoro che in sede di ricorso voglia sostenere la gratuità dovrà dimostrare un contesto di saltuarietà e assenza di vincoli tipici del lavoro: ad esempio provare che quella persona ha un’altra occupazione principale e ogni tanto passa ad aiutare, oppure che non percepiva alcun compenso (aspetto chiave: se gli ispettori trovano evidenza di pagamenti, anche “a rimborso”, l’onerosità è dimostrata). Una difesa riuscita di questo tipo è più probabile quando c’è effettivamente un rapporto di parentela o amicizia stretta e la presenza al lavoro era occasionale. In alcuni casi la giurisprudenza ha dato ragione al datore: si segnalano ad esempio pronunce di Tribunali di merito in cui la maxi-sanzione è stata annullata perché l’ispettorato non aveva provato in modo rigoroso la subordinazione del familiare. Un caso pratico: il Tribunale di Foggia, con sentenza del 21 giugno 2024, ha annullato un’ordinanza-ingiunzione dove si contestava lavoro nero, rilevando che permanevano dubbi consistenti sulla natura del rapporto – non bastava aver trovato la persona nel locale, mancavano prove chiare che fosse un dipendente retribuito, e inoltre non era certa l’estensione temporale della pretesa violazione . In situazioni del genere il giudice, a fronte di lacune o contraddizioni probatorie nel verbale ispettivo, non conferma la sanzione. Ciò insegna che, per difendersi, si può puntare a evidenziare ogni incertezza o errore nella ricostruzione dell’ispettore (es.: il lavoratore ha dichiarato cose differenti, oppure non ci sono elementi sull’eventuale paga, ecc.).
- Formalità rispettate in parte: A volte la difesa può consistere nel dimostrare che non si trattava di un rapporto totalmente nascosto. Ad esempio: il lavoratore poteva essere stato regolarmente assunto solo pochi giorni dopo l’ispezione (magari per mera sfortuna l’ispezione è avvenuta nel giorno di prova non ancora formalizzato), oppure il lavoratore risultava assunto da un’altra ditta (e si sostiene fosse lì in trasferta o distacco regolare), o ancora era socio/tirocinante regolarmente iscritto. Se si riesce a portare evidenza di queste circostanze, può venir meno l’ambito di applicazione della maxi-sanzione (caso di differente qualificazione). Ad esempio, se un soggetto è in possesso di una lettera di incarico come collaboratore coordinato con data anteriore all’ispezione, e magari era stata solo omessa la comunicazione UNILAV, l’illecito vero sarebbe l’omessa comunicazione (sanzione minore) e non il lavoro nero in senso pieno. Su questo, la Nota INL n. 1156/2024 ha ribadito che la maxi-sanzione non si applica per la mera omessa comunicazione quando la prestazione rientra in un rapporto di natura diversa (societario o familiare) . In tal caso, il datore in opposizione argomenterà che al più c’è stata una violazione formale ma non l’occultamento di un lavoratore subordinato. Se tale tesi viene accolta, la maxi-sanzione dev’essere esclusa (potrebbero eventualmente essere comminate sanzioni minori residuali, come appunto la multa da €100-€500 per comunicazione tardiva, ma parliamo di importi irrisori rispetto alle decine di migliaia di euro della maxi-sanzione).
- Errori procedurali: Un’altra difesa possibile è verificare se il verbale e l’ordinanza-ingiunzione presentano vizi formali (errori nella notifica, nell’identificazione del trasgressore, prescrizione dei termini, ecc.). Ad esempio, la legge 689/1981 prevede che l’ordinanza debba essere emanata entro un certo termine dal rapporto ispettivo: se il provvedimento arriva tardivamente, potrebbe essere annullabile. Oppure, errori nel computo della sanzione (es. applicata fascia errata di giornate). Questi aspetti richiedono un controllo tecnico da parte del legale, ma rientrano certamente nelle difese da dispiegare.
Onere della prova – È opportuno sottolineare che, nei giudizi di opposizione a sanzione, la Pubblica Amministrazione gode del fede privilegiata del verbale limitatamente ai fatti constatati direttamente dal pubblico ufficiale. Ad esempio, il fatto che un soggetto sia stato trovato intento a svolgere una certa attività è prova fino a querela di falso. Ma sulla qualificazione giuridica di quei fatti (era lavoro subordinato o no?) il giudice può valutare liberamente. Se l’ispettorato in giudizio produce solo il verbale e magari le dichiarazioni raccolte, spetta poi al giudice stabilire se da quei elementi risulta provato il lavoro nero contestato. Se sussiste incertezza, il beneficio va all’opponente e la sanzione va annullata (in dubio pro reo, applicabile anche agli illeciti amministrativi). Un esempio di Cassazione illuminante è dato dalla vicenda dell’autolavaggio: la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza n. 29608 dell’11 ottobre 2022, ha confermato l’annullamento di una maxi-sanzione comminata a un gestore di autolavaggio sorpreso con alcuni lavoratori irregolari, perché la Corte d’Appello aveva rilevato insufficienza del materiale probatorio portato dall’Ispettorato . In particolare, non era stato chiarito con certezza il tipo di rapporto (la sola presenza di lavoratori nei locali non basta a qualificarli come dipendenti senza ulteriori riscontri) e c’erano dubbi sulle date esatte di inizio e fine della prestazione, elementi determinanti per l’entità della sanzione . La Cassazione in quella sede ha ritenuto corretto l’operato della Corte d’Appello nel richiedere una prova rigorosa e nell’annullare la sanzione in mancanza di essa. Questo precedente evidenzia come la mancanza di prova della subordinazione sia un valido motivo di opposizione: “Maxi sanzione per ‘lavoro nero’ e mancanza di prova della subordinazione” è il titolo esplicativo di un commento a quella decisione, che sottolinea come il giudice del lavoro, in assenza di elementi certi, non possa confermare la sanzione .
In sintesi, per difendersi in sede amministrativa/giudiziale contro la maxi-sanzione, il datore di lavoro dovrebbe:
- Raccogliere e presentare ogni prova documentale a suo favore (contratti di collaborazione, fatture, e-mail che mostrino autonomia, registrazioni di eventuali inquadramenti alternativi, ecc.).
- Far testimoniare, se possibile, persone che confermino la sua versione (es. altri lavoratori che dichiarino che il soggetto veniva solo ogni tanto, o clienti/fornitori che attestino che era un collaboratore esterno).
- Evidenziare le contraddizioni o lacune nelle prove ispettive (es.: assenza di indicazione di un orario di lavoro preciso nel verbale; dichiarazioni del lavoratore generiche o smentite da altri elementi; mancanza di ritrovamento di attrezzi personali ecc.).
- Inquadrare giuridicamente la vicenda in una categoria esente da maxi-sanzione (rapporto familiare di aiuto gratuito, rapporto societario, prestazione d’opera, ecc.), coerentemente con i fatti.
- Verificare la correttezza formale del procedimento (notifiche, termini, competenza).
È consigliabile, per queste operazioni, l’assistenza di un legale esperto in diritto del lavoro, poiché si tratta di predisporre un’opposizione all’ordinanza-ingiunzione entro 30 giorni dalla notifica della stessa (il termine è breve). La competenza a giudicare sulle opposizioni a sanzioni del lavoro è del Tribunale in funzione di giudice del lavoro. Sul punto, va ricordato che fino a qualche tempo fa c’era incertezza su quale giudice adire (Giudice di Pace o Tribunale) in base all’importo, ma data la materia specialistica e i valori in gioco elevati, la giurisprudenza ha stabilito la competenza del Tribunale Lavoro per le maxi-sanzioni.
In caso di successo dell’opposizione, l’ordinanza-ingiunzione viene annullata e nulla è dovuto. In caso di rigetto, si potrà eventualmente appellare la sentenza sfavorevole; tuttavia, le sanzioni non pagate possono nel frattempo essere iscritte a ruolo. È bene sapere che il pagamento ridotto ai sensi dell’art.16 L.689/81 (oblazione amministrativa) non è ammesso per la maxi-sanzione lavoro nero, in quanto essa è esplicitamente diffidabile: o si adempie alla diffida o si deve pagare l’intero importo (salvo appunto farla annullare in giudizio).
Simulazione pratica (difesa in ambito ispettivo) – Immaginiamo un caso concreto: Mario, titolare di un’officina, riceve una visita ispettiva. Viene trovato al lavoro Luca, suo nipote ventenne, che aiuta abitualmente lo zio in officina dopo la scuola, senza contratto. L’ispettore acquisisce dichiarazioni: Luca riferisce di dare una mano quasi tutti i pomeriggi, di ricevere magari piccole somme dallo zio “quando c’è da pagarsi la pizza” ma non un vero stipendio, e di non avere altre occupazioni. L’ispettore qualifica Luca come lavoratore in nero, contestando a Mario la maxi-sanzione per 60+ giorni di lavoro irregolare. Mario vuole difendersi perché sostiene che Luca non era un dipendente ma solo un aiuto saltuario per imparare il mestiere. Cosa può fare?
- Valutare la diffida: Se Luca effettivamente da quel giorno continuerà a lavorare in officina, forse tanto vale regolarizzarlo come apprendista o dipendente. Mario potrebbe assumere Luca (magari con apprendistato se rientra, data l’età) e aderire alla diffida, pagando la sanzione minima (€3.900 ad esempio se considerati 45 giorni) e chiudendo la faccenda. Perdiamo però l’ipotesi difensiva pura.
- Contestare senza diffida: Mario decide di opporsi. Nel ricorso evidenzia che Luca è un familiare, che non c’era un vero compenso (solo paghe occasionali e non documentate), che Luca veniva per sua formazione personale e non come lavoratore stabile. Cerca un testimone, magari un amico comune, che confermi che Luca non aveva obblighi, veniva quando voleva e spesso andava via presto, ecc. Magari produce l’iscrizione scolastica/universitaria di Luca per mostrare che non poteva fare troppe ore. Questa linea punta a dimostrare la gratuità e occasionalità. L’esito in giudizio dipenderà da come il giudice valuterà gli elementi: se le dichiarazioni di Luca agli ispettori erano troppo precise (es. “vengo tutti i giorni, orario 15-19, prendo 100 euro a settimana”), allora la difesa regge poco perché emergono onerosità e continuità. Se invece c’è margine (dichiarazioni vaghe, nessuna prova di pagamenti), il giudice potrebbe riconoscere il beneficio del dubbio e annullare la sanzione. Ad esempio, se viene fuori che Luca era formalmente iscritto come collaboratore nell’impresa familiare (ipotesi: Mario aveva registrato all’Agenzia delle Entrate l’impresa familiare con il nipote) allora non è lavoro nero, ma al più un’irregolarità contributiva di impresa familiare.
In conclusione su questo punto: difendersi dall’accusa di lavoro nero è possibile, ma richiede un’analisi attenta di fatti e norme. La difesa migliore resta sempre la prevenzione, ovvero regolarizzare prima o usare istituti leciti (assunzione regolare, impresa familiare, stage formativo, contratti a chiamata se possibili, etc.) per inquadrare chi presta attività nell’azienda. Se però la contestazione arriva, il datore ha strumenti per far valere le proprie ragioni, specialmente se la realtà era meno grave di come appare su carta.
Difendersi dalle richieste contributive dell’INPS
Parallelamente (o successivamente) alla fase sanzionatoria amministrativa, il datore di lavoro potrebbe dover fronteggiare l’aspetto previdenziale: il pagamento dei contributi non versati per il periodo di lavoro irregolare. Quando un rapporto di lavoro subordinato in nero viene accertato, l’INPS procederà a quantificare i contributi dovuti e a richiederli al datore, insieme alle relative sanzioni civili (interessi e somme aggiuntive per omesso versamento).
La forma tipica di questa richiesta è l’Avviso di Addebito INPS, un documento che notifica il debito contributivo e ha efficacia di titolo esecutivo immediato . L’avviso indica l’importo totale da pagare entro 60 giorni. Trascorso tale termine senza pagamento o impugnazione, l’INPS può attivare la riscossione forzata (affidando l’avviso all’Agente della Riscossione) .
Come può difendersi il datore da un avviso di addebito INPS relativo a lavoro non dichiarato? Vi sono alcuni punti da considerare:
- Termini per il ricorso: Il datore (contribuente) ha solo 40 giorni dalla notifica dell’avviso di addebito per presentare ricorso al Giudice del Lavoro . Si tratta di un termine di decadenza previsto dall’art. 24 del D.Lgs. 46/1999 e ribadito dall’INPS stesso nelle comunicazioni allegate agli avvisi . L’atto introduttivo va depositato in Tribunale (sezione lavoro) e notificato all’INPS. È fondamentale rispettare questo termine: decorso inutilmente, l’avviso diventa definitivo e non più contestabile. Contestualmente al ricorso, si può chiedere al giudice la sospensione dell’esecuzione dell’avviso in presenza di gravi motivi (ad esempio se il pagamento integrale metterebbe a rischio la continuità aziendale) .
- Motivi di opposizione: Nel merito, le possibili difese riflettono in parte quelle viste per la maxi-sanzione, ma adattate all’ambito contributivo. Il datore può contestare l’esistenza stessa dell’obbligo contributivo, negando che quel lavoratore fosse un suo dipendente per il periodo indicato. Ad esempio, può sostenere che l’INPS pretende contributi per un periodo in cui il lavoratore non ha in realtà lavorato (magari l’ispettore ha supposto un inizio a gennaio ma il lavoratore era arrivato a marzo). Oppure che il lavoratore era un autonomo (quindi eventualmente iscritto a altra gestione, o con obblighi contributivi propri e non dipendenti) e non andavano versati contributi da lavoro dipendente. Se c’è già stato un giudicato (ad es. il Tribunale in un caso promosso dal lavoratore ha accertato il rapporto di lavoro subordinato dal tale al tal giorno), l’INPS avrà gioco facile: il datore in tal caso potrà solo discutere di dettagli (ammontare, calcolo). Se invece la base è solo un verbale amministrativo non definitivamente accertato, il giudice del lavoro in sede di opposizione all’avviso potrà riesaminare tutta la questione. Anzi, spesso il ricorso contro l’avviso di addebito e l’opposizione a ordinanza-ingiunzione vengono riuniti se pendono contemporaneamente, poiché vertono sugli stessi fatti (il giudice può decidere insieme la sanzione e i contributi).
Esempio di motivi specifici: – Prescrizione: i contributi previdenziali si prescrivono in 5 anni (art. 3, commi 9-10, L. 335/1995). Se l’INPS richiede nel 2025 contributi per periodi antecedenti di oltre 5 anni (non già oggetto di accertamento interruttivo), il datore può eccepire la prescrizione. Attenzione però: la prescrizione potrebbe essere sospesa se c’è stata la contestazione amministrativa o ricorsi pendenti. Va valutato caso per caso. – Calcolo errato: verificare se l’INPS ha calcolato i contributi sul giusto imponibile e per i giusti mesi. Ad esempio, se il lavoratore era part-time di fatto, ma l’INPS calcola come se fosse full-time, si può contestare l’eccedenza. Oppure verificare se sono state detratte eventuali somme già versate (talvolta il lavoratore in nero potrebbe aver avuto coperture alternative per qualche periodo, es. versamenti volontari o disoccupazione, che l’INPS deve tenere in conto). – Qualificazione diversa: ribadire che il rapporto era autonomo o parasubordinato. In tal caso l’INPS comunque potrebbe chiedere contributi alla Gestione Separata, ma sarebbero importi minori e soprattutto se i compensi erano inferiori a certe soglie e già tassati, alcuni contributi potrebbero non essere dovuti (ad es. sotto 5.000 € annui le prestazioni occasionali non generavano obbligo contributivo in Gestione Separata, in passato). – Errori formali dell’avviso: anche qui, se l’avviso di addebito non contiene gli elementi essenziali (intestazione errata, difetto di motivazione su come sono determinati gli importi) si può chiedere l’annullamento per vizi propri.
- Svolgimento del giudizio: La causa contro l’INPS segue il rito del lavoro. INPS di solito si costituisce con propri funzionari o avvocati, difendendo la legittimità del credito. Il giudice valuterà se effettivamente il rapporto di lavoro era sussistente e, in caso affermativo, confermerà il debito contributivo (eventualmente rideterminando le somme se qualcosa è errato). Se invece ritiene che il lavoratore non fosse da considerare dipendente, annullerà l’avviso (integralmente o parzialmente). Importante: anche se il lavoratore fosse realmente un dipendente, il datore potrebbe contestare l’importo sostenendo ad esempio che il lavoratore percepiva meno di quanto l’INPS ha imputato. Questo perché l’INPS, in assenza di buste paga, spesso calcola i contributi presumendo la retribuzione minima contrattuale del livello più basso o sulla base di dichiarazioni del lavoratore. Se il datore prova che il lavoratore guadagnava meno (magari perché era apprendista di fatto, o perché lavorava poche ore, etc.), il debito contributivo va ricalcolato su quel minore imponibile. Ad esempio, se in nero gli venivano dati €600 al mese e il CCNL ne prevede 1200 per full-time, e se risulta che faceva mezza giornata, i contributi andranno conteggiati su €600 (part-time 50%). Con la diffida ciò si fa in sede amministrativa, ma senza diffida bisogna farlo valere in giudizio come riduzione del dovuto (principio di effettività).
- Rapporti con il lavoratore: È utile precisare che il versamento dei contributi all’INPS a seguito di accertamento è un obbligo verso l’INPS stesso. Il lavoratore in sé non può “pretendere” direttamente dal datore i contributi (non potrebbe ad esempio fare un decreto ingiuntivo per i contributi, perché il credito contributivo è dell’ente previdenziale). Il suo interesse è però indiretto: ottenere l’accredito contributivo per pensione e tutele. In giurisprudenza, la Cassazione ha chiarito che “il lavoratore non può richiedere all’INPS l’accredito dei contributi non versati dal datore” , nel senso che il lavoratore non può agire al posto del datore per costringere l’INPS a coprire i contributi se il datore non li ha pagati. Deve essere l’INPS a recuperarli e poi accreditarli. Questo significa che se il datore perde la causa e paga i contributi, il lavoratore avrà finalmente i contributi accreditati; se invece per un qualche motivo i contributi restano impagati (ad es. datore insolvibile), il lavoratore rischia di perdere quella copertura a meno di interventi del Fondo di Garanzia per alcune prestazioni. In ogni caso, dal punto di vista difensivo del datore, non è rilevante il rapporto diretto con il dipendente per i contributi, se non per coordinare eventuali definizioni transattive globali (vedi oltre).
- Possibilità di definizione amministrativa: Diversamente dalle sanzioni, per i contributi l’INPS non offre vere “sanatorie” se non quelle disposte per legge (es. condoni o rottamazioni che occasionalmente possono includere contributi). L’INPS però può concedere la rateazione del debito una volta divenuto definitivo (previa domanda anche in costanza di giudizio, se si intende riconoscere il debito). La rateazione tuttavia di norma richiede una rinuncia alle liti o comunque l’accettazione dell’importo. In fase di ricorso giudiziale, è possibile che l’INPS, tramite i suoi legali, se il caso è dubbio, si dichiari disponibile a ridurre qualcosa o a accettare un accordo (non è frequente, ma accade se magari c’è un processo parallelo col lavoratore). Ad esempio, se il datore trova un accordo transattivo con il lavoratore in cui riconosce parte delle pretese, l’INPS potrebbe aderire a calcolare i contributi solo su quanto concordato. Si tratta comunque di situazioni specifiche.
Esempio pratico (difesa avviso INPS) – Caso: la ditta XYZ riceve dall’INPS un avviso di addebito di €50.000 per contributi omessi riferiti a 3 lavoratori in nero trovati in un controllo del 2023. La ditta aveva impugnato l’ordinanza-ingiunzione (maxi-sanzione) sostenendo che uno dei tre non era dipendente ma socio, e che per gli altri due l’attività era durata meno di quanto l’ispettore credeva. Nel frattempo arriva l’avviso contributi. La ditta deve: 1. depositare ricorso al Tribunale entro 40 giorni contestando l’avviso;
2. chiedere la riunione con la causa già pendente sulla sanzione (così un solo giudice deciderà tutto);
3. nel ricorso evidenziare che: il socio non è soggetto a contribuzione come dipendente (semmai come socio lavoratore, ma quello è altro inquadramento), quindi niente contributi dipendenti per lui; per gli altri due, indicare che la durata va ridotta (es. uno lavorò 2 mesi non 6, l’altro part-time 20 ore settimanali e non full-time). Magari allegare registrazioni (es. badge ingressi, se ci fossero, o altre prove) a supporto delle minori durate.
4. In giudizio, se il giudice conferma che il socio effettivamente era tale (cioè se viene ritenuto un rapporto societario genuino), esclude quei contributi. Sugli altri, se viene riconosciuta una minore durata, l’INPS ricalcolerà in base a quanto stabilito. Il giudice quindi potrebbe ridurre il dovuto da €50.000 a, ipotizziamo, €25.000. A quel punto la ditta, ottenuta la sentenza, potrà pagare (o rateizzare con l’INPS) l’importo ridotto.
Va notato che vincere sul fronte contributivo ma perdere su quello sanzionatorio (o viceversa) non è inusuale: ad esempio un datore potrebbe convincere il giudice a togliere la sanzione (per vizio formale) ma non i contributi (perché il fatto costitutivo del lavoro c’è). Oppure, se il giudice del lavoro in causa con il dipendente stabilisce che era lavoro subordinato, l’ordinanza-ingiunzione potrebbe essere stata annullata solo per un vizio procedurale senza mettere in dubbio il merito, e l’INPS potrà comunque riscuotere i contributi. Sono partite collegate ma distinte: la sanzione amministrativa e i contributi previdenziali colpiscono due “debiti” diversi del datore (uno verso lo Stato, l’altro verso la previdenza). Quindi il datore deve valutarle entrambe.
Consiglio pratico: spesso, la soluzione più efficiente per il datore che ammette l’irregolarità è cercare di transigere globalmente con il lavoratore e con gli enti. Ad esempio, in sede di conciliazione con il lavoratore, prevedere che parte delle somme pattuite vadano a copertura dei contributi (magari pagando il netto al lavoratore e facendogli accettare che lordi e contributi vengono versati all’INPS). Questo può aiutare a chiudere vertenze e talvolta convincere l’INPS a non infierire con sanzioni civili (che in caso di pagamento spontaneo dei contributi prima di notifica avviso possono essere ridotte). Tuttavia, è una materia delicata che va seguita con assistenza professionale.
In termini di domande e risposte sul tema contributivo, anticipiamo qualche FAQ: “Posso evitare di pagare i contributi se il lavoratore era in nero e non mi ha mai chiesto niente?” – No, se il rapporto è accertato come subordinato, l’obbligo contributivo verso l’INPS è oggettivo e indipendente da una richiesta del lavoratore. “E se il lavoratore non andrà mai in pensione o non rivendica nulla?” – Non importa, i contributi servono a finanziare il sistema previdenziale e devono essere versati (pena, come visto, azioni legali). L’unica vera via per evitare il pagamento è dimostrare che quel rapporto non era lavoro dipendente (o che non esiste affatto). Anche il fallimento o cessazione dell’azienda non elimina il debito: l’INPS sarà creditore nel passivo. Dunque, la difesa migliore è sempre sul fatto (negare il rapporto, o ridurlo nella portata). Suggeriamo di rileggere la sezione precedente sulle strategie probatorie, che si applicano in gran parte anche qui.
Difendersi nelle controversie con il lavoratore (ambito giudiziale civile)
L’ultimo scenario da considerare è quello in cui è il lavoratore (o presunto tale) ad agire in giudizio contro il datore di lavoro, sostenendo di aver lavorato senza regolare contratto e chiedendo il riconoscimento dei propri diritti economici e normativi. In questi casi il datore di lavoro assume il ruolo di convenuto in una causa di lavoro e deve difendersi dall’accusa di aver intrattenuto una collaborazione di fatto subordinata non registrata. Si tratta di cause di lavoro ordinarie (ex art. 414 c.p.c. ricorso del lavoratore), soggette al rito del lavoro, dinanzi al Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro.
Tipiche pretese del lavoratore: possono variare. Spesso il lavoratore chiede di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dall’inizio della collaborazione non registrata, con conseguente condanna del datore: – a versargli tutte le differenze retributive rispetto a quanto percepito (se era pagato in nero magari ha ricevuto meno di quanto dovuto da CCNL, quindi chiede la differenza per straordinari, ferie, tredicesima, TFR, ecc.); – a riconoscergli l’anzianità di servizio e i contributi (anche se per i contributi, come detto, la condanna in sentenza è di regola “di pagare i contributi all’INPS” più che al lavoratore stesso); – in alcuni casi, se il rapporto si è interrotto, il lavoratore può anche chiedere una indennità risarcitoria per illegittimo licenziamento. Come è possibile? Se un lavoratore in nero viene “allontanato”, in giudizio spesso formula una domanda di “licenziamento orale” o “licenziamento inefficace” (poiché non gli è stata data alcuna lettera di licenziamento, obbligatoria per legge). L’art. 18 Statuto Lavoratori (per le aziende sopra i 15 dipendenti) e il D.Lgs. 23/2015 (nelle tutele crescenti) prevedono che il licenziamento privo di forma scritta sia nullo/inefficace, con diritto a risarcimento e nelle vecchie regole anche alla reintegrazione. Per aziende piccole, può chiedere l’indennità prevista per licenziamento illegittimo. Insomma, il lavoratore cerca di massimizzare le tutele facendo valere il periodo di lavoro nero come un normale rapporto di lavoro finito in modo scorretto. Questa è una evenienza molto delicata: il datore si trova esposto non solo a pagare quanto dovuto, ma anche a possibili condanne risarcitorie (che in teoria potrebbero includere anche retribuzioni per il periodo successivo al licenziamento, se disposto reintegro: in pratica, un lavoratore in nero potrebbe venir reintegrato con sentenza – è raro, ma teoricamente possibile in aziende grandi – o comunque ottenere mensilità aggiuntive come indennizzo per il licenziamento illegittimo).
Come difendersi quindi in una causa del genere? I profili difensivi, in parte già trattati, qui assumono una dimensione ancora più spiccatamente probatoria. In giudizio contro il lavoratore, infatti, l’onere della prova segue le regole ordinarie: il lavoratore-attore deve provare i fatti costitutivi della sua domanda, ossia deve convincere il giudice che, oltre ogni verosimiglianza, egli ha effettivamente lavorato alle dipendenze del datore per il periodo indicato e alle condizioni che descrive. Il datore di lavoro potrà limitarsi – sul piano formale – anche a contestare, senza dover provare un bel nulla (rimanendo inerte e obbligando il lavoratore a dimostrare). Ovviamente, se il datore ha delle prove contrarie, le porterà, ma tecnicamente il rischio di perdere la causa per il datore c’è solo se il lavoratore fornisce una prova sufficiente delle sue affermazioni. In mancanza, la domanda del lavoratore va rigettata.
Questo principio è stato recentemente riaffermato dalla Corte di Cassazione: con l’ordinanza n. 22424/2025 (che richiama orientamenti costanti), la Suprema Corte ha statuito che “l’onere della prova per dimostrare la natura subordinata di un rapporto di lavoro formalmente qualificato come collaborazione spetta interamente al lavoratore” . Nel caso di specie alcuni collaboratori scolastici sostenevano di essere stati di fatto dipendenti; la Cassazione ha dato loro torto perché non avevano prodotto sufficienti evidenze (contratti, testimonianze) a supporto, confermando quindi il rigetto delle loro domande . La pronuncia sottolinea come “se un lavoratore afferma che un contratto di collaborazione dissimulava un lavoro subordinato, è suo preciso dovere dimostrarlo in giudizio” . Non basta allegare di aver lavorato: servono prove concrete (documenti, testi) sulle modalità di svolgimento che integravano la subordinazione (orari, direttive, assoggettamento gerarchico). Nel caso concreto, i lavoratori avevano vinto in primo grado ma poi perso in appello perché non avevano depositato i contratti di collaborazione né insistito sulle testimonianze; la Cassazione ha confermato che quella mancanza probatoria era fatale .
Dunque, in una causa promossa dal lavoratore, la strategia difensiva del datore sarà spesso di mettere in luce le lacune probatorie dell’avversario. Ecco alcuni punti chiave:
- Contestare dettagliatamente i fatti: sin dalla memoria difensiva (costituzione in giudizio) il datore deve contestare punto per punto le affermazioni del lavoratore che non rispondono a verità o che non può dimostrare. Ad esempio, se il lavoratore sostiene di aver lavorato 8 ore al giorno dal 2019 al 2021, e in realtà magari veniva in modo discontinuo, il datore lo deve eccepire (“Non è vero che lavorava tutti i giorni, solo occasionalmente veniva, e comunque non alle mie dipendenze”). La contestazione specifica impedisce che quei fatti si diano per ammessi.
- Sfruttare le contraddizioni: Spesso in queste cause il lavoratore presenta qualche testimonianza (un ex collega, un vicino) ma tali testimonianze possono essere generiche (“lo vedevo lì lavorare ogni tanto”). Il datore deve incalzare su eventuali contraddizioni: differenze tra quanto detto dal lavoratore e dai suoi testi, oppure incongruenze logiche (es.: il lavoratore dice di aver lavorato 12 ore al giorno ma contemporaneamente era iscritto all’università in un’altra città; oppure si dichiara dipendente fisso però nello stesso periodo risultava percettore di NASpI – cosa che verrebbe fuori da certificati). Trovare contraddizioni mina la credibilità e la solidità della prova.
- Produrre controprove documentali: Se il datore ha elementi per smentire, deve usarli. Esempio: il lavoratore allega un calendario in cui segna le presenze. Il datore può produrre i tabulati di accesso ai locali, se esistenti, per mostrare che in diverse date non c’era. Oppure se il lavoratore ha inviato email o messaggi da libero professionista (magari firmandosi come collaboratore esterno), queste possono aiutare a sostenere che non era trattato da dipendente. Altra situazione: il datore potrebbe avere ricevute di pagamento che il lavoratore gli fece (paradosso: se era in realtà un autonomo con ricevuta per prestazione occasionale, ciò sarebbe una prova a suo favore). Ogni documento che collochi il rapporto fuori dallo schema subordinato è utile.
- Dimostrare assetto organizzativo alternativo: Ad esempio, se il datore aveva una ditta individuale e il lavoratore era suo figlio, può mostrare di aver dichiarato un’impresa familiare all’epoca, pagato eventualmente i contributi come coadiuvante. Ciò testimonierebbe che non c’era occultamento ma volontà di inquadrare come familiare, e si può discutere se ciò esclude il subordinato. Oppure se era socio di una società, presentare l’atto costitutivo e l’elenco soci, per dire “era socio, non dipendente”. Questo non chiude la questione (un socio può anche essere dipendente se c’è atto separato), ma getta un dubbio sulla natura del rapporto (un giudice potrebbe ritenere, ad esempio, che un socio al 50% difficilmente è un subordinato del suo co-socio, specie in una SNC o SAS).
- Invocare decadenze: se il lavoratore impugna il “licenziamento orale” dopo molto tempo, potrebbe essere decaduto dalla possibilità di farlo (i termini variavano, ma oggi se applicabile la legge Fornero o il Jobs Act, ci sono 60 giorni per impugnare un licenziamento e 180 per depositare ricorso in certi casi). Un lavoratore in nero formalmente non ha lettera di licenziamento, ma la giurisprudenza spesso dice che se non c’è lettera non c’è decadenza, tuttavia il datore può provare che il lavoratore era consapevole della cessazione e ha aspettato troppo. Sono questioni tecniche da valutare.
- Offrire pagamenti transattivi: non è esattamente una difesa giudiziaria, ma in corso di causa spesso conviene valutare una conciliazione. Soprattutto se emergono rischi di condanna, un accordo può limitare i danni (ad es. pagare al lavoratore un forfait a saldo di ogni pretesa, incluso TFR, straordinari ecc., facendosi firmare una rinuncia a qualsiasi ulteriore azione). Ovviamente questo va fatto con l’assistenza di un legale e possibilmente in sede protetta (es. commissione di conciliazione), per avere efficacia tombale.
Family & Co.: un focus su cause in ambito familiare – Un numero non trascurabile di cause riguarda parenti che, dopo anni di aiuto nell’attività di famiglia, rivendicano il trattamento da lavoratore subordinato (magari a seguito di liti familiari). In questi casi, come visto, la giurisprudenza recente è meno indulgente con la tesi del “tutto gratis per affetto”. Ad esempio, un caso concreto: Tribunale di Napoli sentenza n. 7319/2024, in cui un figlio ha citato il padre titolare di officina, ottenendo il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato . Il figlio aveva lavorato in maniera stabile e retribuita nell’officina, e il padre si difendeva dicendo che era impresa familiare e poi era divenuto contitolare. Il Tribunale, però, riscontrati gli indici tipici (lavoro stabile, orario preciso, compenso), ha concluso per la subordinazione . Interessante un passaggio: “in ambito familiare, l’eterodirezione si esprime in forma attenuata… essendo sufficiente a sostanziare la natura subordinata del rapporto il pieno e stabile inserimento nell’organizzazione di lavoro” . Quindi non occorre che il padre comandasse a bacchetta il figlio con ordini perentori; è bastato che il figlio lavorasse lì stabilmente come parte dell’organizzazione per qualificare il rapporto come dipendenza. Inoltre, è stato affermato il principio generale già detto: “vige la presunzione di onerosità della prestazione lavorativa” anche tra familiari , e la gratuità è da escludere una volta provati gli elementi tipici della subordinazione uniti all’onerosità . Per vincere una causa del genere, il genitore-datore dovrebbe portare prove davvero solide che il figlio lo aiutava per hobby o interesse proprio, senza paga (nel caso in questione, probabilmente c’erano tracce di compensi, oppure testimoni che confermavano l’impegno quotidiano). Invece, se il figlio avesse solo “frequentato per imparare il mestiere” per qualche mese, magari senza contributo essenziale nell’impresa, si poteva difendere come tirocinio informale o impresa familiare.
Caso socio vs dipendente – Altro esempio: un socio di una s.n.c. recede dalla società e poi fa causa dicendo di essere sempre stato in realtà un dipendente occulto. In linea di massima, un socio di società di persone non può essere anche dipendente per la stessa attività, perché come socio è già titolare dell’impresa (specie se amministratore). Tuttavia, se era socio al 5% e lavorava come tutti gli altri, la giurisprudenza talvolta riconosce il rapporto di lavoro (magari dichiarando simulata la partecipazione societaria). Il datore in quel caso punterà sul fatto che la partecipazione societaria era reale: l’interessato partecipava alle perdite, prendeva utili (documentando distribuzioni utili se avvenute), aveva poteri decisionali da socio. Più la figura risulta socio vero, meno convincente sarà la tesi del lavoro subordinato (perché non c’è quell’assoggettamento gerarchico: tra soci c’è parità o comunque coreponsabilità).
Onere contributivo in sentenza – Se il giudice del lavoro accerta il rapporto, come detto, normalmente condannerà il datore a pagare al lavoratore le differenze retributive e a versare all’INPS i contributi corrispondenti (spesso con formula “per quanto di competenza del lavoratore”, essendo il lavoratore legittimato a ottenere quei contributi indirettamente). Qualora il datore paghi poi al lavoratore in esecuzione della sentenza, il lavoratore dovrà denunciare quelle somme e l’INPS potrà da lì calcolare i contributi, se non sono stati nel frattempo recuperati dall’avviso di addebito. In pratica, la causa civile può definire l’obbligo contributivo in modo analogo alla causa di opposizione avviso, e le due cose vanno coordinate.
In definitiva, la miglior difesa in un giudizio del genere è aver predisposto sin dall’inizio (quando il rapporto iniziò) una documentazione chiara che inquadri il rapporto come non subordinato, se tale era l’intenzione. Ad esempio, stipulare un contratto di collaborazione scritto, in cui il collaboratore accetta quella natura, può costituire elemento dissuasivo per eventuali cause future e comunque un documento da opporre. Sebbene un giudice possa guardare oltre il contratto (se l’esecuzione è difforme), avere qualcosa di firmato dal collaboratore (specie se magari certificato da una Commissione di Certificazione ex D.Lgs. 276/2003) aiuta enormemente la difesa. Non a caso l’art. 2 D.Lgs. 81/2015 stesso prevedeva la possibilità di far certificare l’assenza dei requisiti di subordinazione da un’apposita commissione : ciò a scopo preventivo, per mettersi al riparo da contestazioni. In assenza di tali precauzioni, il datore nel processo dovrà agire più reattivamente.
Simulazione pratica (controversia lavoratore) – Immaginiamo: un fotografo professionista fa causa a un celebre studio fotografico sostenendo di aver lavorato 3 anni come dipendente sotto forma fittizia di “freelance”. Chiede €100.000 di differenze e danni da licenziamento. Il titolare dello studio nega, dicendo che il fotografo era un collaboratore esterno con partita IVA, libero di rifiutare servizi. Come si difenderà?
- Procurerà tutte le fatture emesse dal fotografo (per mostrare che veniva pagato a lavoro, non a stipendio fisso).
- Mostrerà che il fotografo aveva altri clienti (magari profili social e siti dove risulta lavorare anche altrove).
- Porterà testimonianze di altri collaboratori che confermino che egli gestiva il suo tempo.
- Evidenzierà che il fotografo stesso aveva chiesto quel tipo di collaborazione per avere flessibilità (magari c’è una email iniziale).
- Se l’azienda ha email in cui il fotografo rifiuta un incarico o propone un proprio orario, quelle saranno preziose per smentire l’eterodirezione.
- Quanto al licenziamento: il datore dirà che non c’è stato alcun licenziamento, semplicemente non hanno più rinnovato il contratto di prestazione d’opera (che però era verbale…). Manca lettera perché non c’era assunzione: potrà eccepire che la tutela contro il licenziamento non si applica a chi non era assunto – ma se il giudice poi lo qualifica come dipendente, questo cade.
Sarà una causa incerta: molto dipenderà dalle testimonianze. Se il fotografo porta clienti che dicono “era sempre lì fisso come un impiegato”, e il datore non ha testimoni forti, potrebbe perdere. Se invece vien fuori che il fotografo in quegli anni partecipava a concorsi altrove o figurava con propria attività, può vincere il datore. La bilancia probatoria è fondamentale.
Una riflessione finale su questo scenario: a differenza della sede amministrativa, dove comunque il datore se perde paga una sanzione amministrativa fissa, nella sede giudiziale con il lavoratore le conseguenze economiche possono essere notevoli perché comprendono retribuzioni non pagate, TFR, ferie, contributi, risarcimenti. Spesso queste cause portano importi superiori alle stesse maxi-sanzioni. È quindi cruciale valutarne il rischio.
Suggerimento: se il datore capisce di avere poche chance (perché effettivamente il lavoratore ha tante prove, magari email interne che lo trattavano da staff), può essere saggio cercare un accordo transattivo prima che il giudice emetta sentenza. A volte, offrire al lavoratore un importo equo (magari il 50-60% di quanto chiede, subito e in netta) può evitare un esborso maggiore e i costi di soccombenza. Viceversa, se il datore è sicuro di avere ragione e il lavoratore prova a bluffare, conviene resistere e fargli capire che non avrà vita facile nel provare le sue accuse.
Collaborazioni in ambito familiare: come difendersi
Abbiamo già toccato più volte il tema delle collaborazioni non registrate tra familiari, ma data la sua delicatezza gli dedichiamo una sezione specifica. Le attività lavorative svolte in famiglia (coniuge, figli, fratelli, altri parenti) sono diffusissime nelle piccole imprese e creano non pochi contenziosi.
Normativa di riferimento: L’ordinamento riconosce espressamente l’impresa familiare (art. 230-bis c.c.) come forma di coinvolgimento del coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo, nell’impresa del titolare. I familiari partecipanti hanno diritto al mantenimento e a una parte degli utili proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, oltre che ai beni conferiti. Questa figura giuridica non configura un rapporto di lavoro subordinato, bensì una forma di lavoro parasubordinato sui generis: il familiare lavoratore non è un dipendente (non ha un salario contrattuale né orario definito per contratto), ma neppure un semplice volontario – ha precisi diritti economici e un vincolo di collaborazione stabile. L’impresa familiare è spesso usata per giustificare l’apporto lavorativo di moglie/marito e figli nell’impresa del coniuge/genitore. Però, per avere piena validità, richiede alcuni adempimenti: idealmente un atto pubblico o scrittura che dichiari la costituzione dell’impresa familiare, l’iscrizione alla Camera di Commercio come impresa familiare, e l’iscrizione dei collaboratori familiari alle gestioni previdenziali appropriate (ad es. gestione commercianti o artigiani per i familiari coadiuvanti). In mancanza di ciò, e con presenza di lavoro sistematico del parente, l’INPS tende a presumere che quello sia un lavoratore subordinato non dichiarato (come raccontavamo, l’INPS storicamente presumeva gratuità, ma negli ultimi anni è più incline a vedere la subordinazione, paradossalmente in controtendenza) .
Come difendersi se viene contestato lavoro nero a un familiare? Ci sono due scenari: difesa amministrativa (verso INL/INPS) e difesa giudiziale (verso il familiare stesso se fa causa).
- Difesa verso INL/INPS: Bisogna convincere gli organi di controllo che l’apporto del familiare rientra o in un rapporto diverso dal lavoro subordinato (impresa familiare, collaborazione gratuita) oppure che, pur essendo lavoro retribuito, non era nascosto (ad es. se era impresa familiare formalizzata, non c’è omissione fraudolenta). Una mossa vincente è esibire eventuali iscrizioni INPS come coadiuvante familiare: se il familiare era iscritto e i contributi pagati, l’INPS non può dire che era in nero (era in regola, anche se non come dipendente). Al più potrebbe eccepire che andava assunto come dipendente perché svolgeva mansioni da dipendente – ma qui entriamo nel conflitto di qualificazione. In genere, se c’è iscrizione come coadiuvante, la maxi-sanzione non trova applicazione (perché quel lavoratore “risulta da altra documentazione obbligatoria”, ovvero dagli iscritti Inps) . Semmai, l’INPS potrebbe successivamente chiedere differenze contributive se ritiene che andava assoggettato a altra gestione, ma niente maxi multa. Se invece non c’è nessuna formalità, come già spiegato, la difesa classica è sostenere la gratuità/occasionalità con argomenti di fatto: “viene solo ogni tanto, non lo pago se non con vitto alloggio, ha altra attività, etc.”. Portare prove a supporto: ad esempio, presentare lo stato di famiglia se risulta che convive (per suffragare lo spirito di aiuto domestico), o testimonianze di altri familiari. Un’altra mossa può essere dire: “Sì aiutava, ma era impresa familiare di fatto”. L’art. 230-bis c.c. non prevede espressamente l’impresa familiare di fatto, però la Cassazione ha riconosciuto che anche senza atto scritto un familiare può vantare i diritti di quell’articolo se prova di aver lavorato continuativamente nell’impresa del parente . Paradossalmente, quell’azione è spesso usata dal familiare contro il titolare (per chiedere la sua quota di utili), ma il titolare potrebbe strumentalmente invocarla per dire: “Non c’è subordinazione, era impresa familiare non formalizzata, al limite gli spetta una quota di utili, non un salario”. L’INPS e INL potrebbero non accettare appieno questa tesi, ma almeno sposta il discorso fuori dal lavoro nero doloso.
- Difesa verso il familiare in causa: In un’eventuale causa promossa dal familiare (es. moglie che chiede differenze come dipendente), il titolare potrà eccepire che non c’era un contratto di lavoro bensì, appunto, una collaborazione familiare ex lege 230-bis c.c. Se il familiare non ha già richiesto in subordine tale qualifica, il giudice potrebbe anche non attribuirla d’ufficio, ma certamente è un argomento difensivo. In pratica: il datore ammette che il coniuge ha lavorato nell’impresa, ma sostiene fosse nei limiti dell’impegno familiare, senza subordinazione stringente, e rimarca che il coniuge partecipava anche a decisioni straordinarie (ad esempio, se ci sono prove che la moglie partecipava alle scelte di gestione, quello è tipico dell’impresa familiare dove i familiari hanno voce nelle decisioni più importanti). La Cassazione ha affermato che “dallo stesso art. 230-bis c.c. risulta evidente il carattere residuale dell’impresa familiare rispetto al lavoro subordinato o autonomo, al punto che se la collaborazione del coniuge assume i caratteri della subordinazione, ci si trova fuori dall’archetipo dell’impresa familiare e si sconfina nel lavoro gratuito” (Cass. 15 giugno 2020 n. 11533, citata in dottrina) . Questa frase è un po’ complessa, ma sembra dire: se la collaborazione del familiare ha tutti i crismi di un lavoro subordinato, allora non è impresa familiare, e se non c’è stato un contratto è di fatto un lavoro gratuito (nel senso che il familiare ha agito per affectio, senza pretendere diritti se non quelli di partecipazione eventualmente). Non è molto favorevole al familiare lavoratore: è come dire “o era subordinata regolare o era impresa familiare; se era subordinata ma non regolarizzata, per la legge quell’accordo era nullo e resta solo un aiuto gratuito”. Tuttavia, altre sentenze (come visto) ormai riconoscono direttamente il rapporto di lavoro subordinato. Quindi c’è un po’ di conflitto nella giurisprudenza. Sta di fatto che il datore convenuto può usare in via subordinata la linea: “Se proprio ha diritto a qualcosa, è la quota di utili come impresa familiare, non lo stipendio”. E potrebbe persino depositare un conteggio di quanto gli sarebbe spettato come impresa familiare (di solito molto meno di un salario ordinario). Questo può portare il giudice magari a concedere meno di quanto chiesto.
Casi particolari: Impiego di coniuge: la moglie (non formalmente socia) che aiuta il marito. Prima si dava per scontato fosse gratis salvo patto contrario. Oggi no, ma se il marito vuol difendersi dirà: “Era un contributo in relazione al nostro rapporto coniugale, non avevamo mai pattuito una retribuzione”. Può anche citare l’art. 143 c.c. (dovere di contribuzione nell’interesse della famiglia) per rafforzare l’idea che il coniuge collaborava come espressione di vita familiare. Non c’è una risposta univoca su come i giudici decidono: alcune Corti riconoscono il lavoro subordinato anche del coniuge, altre no. Ad esempio, “Il coniuge non è lavoratore subordinato se è presente in azienda sporadicamente… tra persone legate da vincolo di coniugio c’è presunzione di gratuità salvo prova rigorosa contraria” (principio affermato in passato) . Dunque, la difesa è: sporadicità e gratuità. Se però la moglie stava lì ogni giorno alla cassa, molto difficile convincere.
Suggerimento pratico: Qualora si voglia coinvolgere stabilmente un familiare nell’impresa, la scelta migliore è formalizzarlo: o assumerlo con regolare contratto (sì, si può assumere la moglie/marito, non c’è divieto; certo, l’INPS verificherà che non sia fittizio, ma se lavora davvero è lecito), oppure costituire un’impresa familiare registrata, o farlo socio dell’azienda. Qualsiasi cosa è meglio del limbo. Questo non solo mette al riparo da sanzioni INL (che come detto non applica maxi-sanzione se il familiare è socio o coadiuvante) , ma evita poi rivendicazioni inattese. Perché a volte finché i rapporti familiari vanno bene nessuno si lamenta, ma se si deteriorano, il familiare potrebbe chiedere soldi per anni di lavoro. Prevenirlo con un inquadramento (anche minimale) è saggio.
Collaborazioni in ambito societario e professionale: criticità e difese
Le contestazioni di collaborazioni non registrate possono emergere anche in contesti societari (srl, cooperative, ecc.) e professionali (studi professionali, associazioni). Questi meritano una trattazione specifica:
Ambito societario
Spesso nelle società di persone o di capitali di piccole dimensioni accade che uno o più soci lavorino operativamente nell’azienda senza un formale contratto di lavoro. Ad esempio, due fratelli costituiscono una SNC e lavorano insieme: si considerano imprenditori, non uno dipendente dell’altro, e magari non versano contributi come lavoratori dipendenti ma solo come soci autonomi (gestione commercianti/artigiani). Questo di per sé è lecito: il socio lavoratore di una SNC o SAS non è obbligato a essere dipendente, anzi generalmente non può essere dipendente della propria società se ha poteri di amministrazione, perché mancherebbe il vincolo di subordinazione (non si può essere subordinati a sé stessi o comunque si confonderebbero i ruoli). Quindi in tali casi non c’è lavoro nero. Tuttavia, situazioni più borderline: socio minoritario lavoratore. Se un socio detiene una quota minima e di fatto svolge mansioni esecutive come un dipendente, potrebbe rivendicare di essere stato in realtà un dipendente (magari perché la sua partecipazione era meramente simbolica, decisa dal socio di maggioranza per evitare assunzioni). L’INL di solito su questo non interviene spontaneamente (non vanno a sindacare gli assetti societari se i soci risultano come tali), ma un socio uscito potrebbe fare causa.
Altra ipotesi: amministratore di società. L’amministratore unico di una SRL che lavora anche come operativamente nell’azienda non può essere dipendente (incompatibilità di ruoli), quindi non va assunto. Egli percepirà semmai compenso amministratore e dovrà iscriversi come autonomo gestione separata o commercianti a seconda dei casi. A volte però l’INPS tenta di richiedere contributi doppi (è un tema vasto: socio di SRL che lavora, spesso l’INPS chiede sia gestione commercianti sia gestione separata; ma questo esula un po’, riguarda doppia contribuzione, non lavoro nero).
Per la difesa in ambito societario valgono alcune note: – Se viene contestato dall’INL un lavoratore che è socio: prima di tutto, segnalare subito che si tratta di un socio e fornire la documentazione (visura CCIAA, atto costitutivo). La Nota INL 2019/2024 ribadisce che le prestazioni nell’ambito di un rapporto societario sono escluse dalla maxi-sanzione . Quindi l’ispettore non dovrebbe darti la maxi multa se riconosce che Tizio è socio. Piuttosto, se ravvisa anomalie, potrebbe segnalarlo all’INPS per verificare la correttezza contributiva come socio lavoratore (gestioni speciali). Ma l’urgenza sanzionatoria viene meno. Dunque, far valere immediatamente quel status è essenziale. – Se un socio lavoratore di cooperativa viene trovato a operare senza contratto di lavoro subordinato, bisogna vedere: nelle cooperative spesso i soci prestano lavoro in virtù del rapporto associativo (L. 142/2001 prevede che i soci cooperatori abbiano un contratto di lavoro o di collaborazione con la cooperativa). Se la coop non l’ha fatto, c’è irregolarità. Tuttavia, per l’INL è comunque un socio di cooperativa – dovrebbero contestare la mancata formalizzazione del rapporto (che la L.142 impone) ma non propriamente la maxi-sanzione del lavoro nero classica, credo. In ogni caso, il socio cooperativa può fare causa per far valere un rapporto subordinato in mancanza di contratto scritto. In difesa la cooperativa dirà: “era socio e lavorava come tale secondo regolamento interno, non c’era un orario fisso, partecipava agli utili”, ecc. La legge riconosce ai soci di coop la possibilità di avere trattamenti diversi dal dipendente standard, ma entro certi limiti. – Se un non socio viene trovato in azienda e l’azienda sostiene che era dipendente di un’altra società (es. in distacco, o somministrazione lecita): deve provarlo con documenti (lettera di distacco, contratto di appalto con l’azienda che l’ha inviato). Altrimenti, rischia la contestazione di uso di lavoro irregolare. Per difendersi, presentare appalto genuino: es. se le pulizie sono fatte da un addetto di una ditta esterna ma l’ispettore crede sia un tuo dipendente, devi esibire il contratto di appalto con la sua cooperativa di pulizie, i pagamenti a quell’azienda, etc., per dimostrare che tu non sei il datore, c’è un appaltatore (e quell’addetto dovrebbe essere assunto da quell’appaltatore). Attenzione: se però l’appalto risulta fittizio (es. quell’addetto di fatto risponde agli ordini tuoi, usa i tuoi mezzi), l’INL può riqualificare in somministrazione illecita e in ultima analisi considerare il lavoratore come tuo dipendente; in tal caso non maxi-sanzione (perché formalmente quell’addetto un contratto ce l’ha, sebbene con altri), però sanzioni per somministrazione irregolare e obbligo di assunzione a tempo indeterminato in capo tuo ex art. 38 D.Lgs. 81/2015. Quindi attenti agli appalti fittizi: non risolvono il problema, anzi ne creano di diversi.
Riassumendo, in ambito societario la chiave difensiva è chiarire la posizione giuridica del soggetto trovato a lavorare: – Se è socio/amministratore: non può considerarsi lavoratore “dipendente” occulte, dunque contestare la qualifica di lavoratore subordinato e inquadrare come apporto dell’imprenditore stesso o di socio.
– Se è di un’altra azienda (distacco/appalto): dimostrare la genuinità di quell’istituto con contratti/documenti.
– Se è un familiare del socio: torna in ballo impresa familiare (anche soci di società possono avere familiari coadiuvanti non soci). Allora è simile al caso di ditta individuale familiare: far valere quell’ambito.
Ambito professionale
Negli studi professionali (avvocati, commercialisti, architetti, ecc.) è prassi frequente avvalersi di collaboratori senza un formale rapporto di lavoro subordinato. Ad esempio, il praticante avvocato che collabora full-time nello studio legale per 18 mesi senza essere pagato o con un rimborso spese; oppure il giovane architetto con partita IVA che però lavora esclusivamente nello studio di un senior, con orari e compiti come un dipendente. Queste situazioni possono generare contestazioni o vertenze.
- Ispezioni negli studi professionali: Sono meno comuni che nelle aziende, ma possibili. L’INL può ispezionare anche studi professionali (specialmente se ci sono segnalazioni di praticanti sfruttati o collaboratori in nero). Se trovano persone al lavoro senza contratti registrati, valgono le stesse regole: se le considerano subordinati di fatto, maxi-sanzione. Però qui entra in gioco un fattore: molti professionisti-capo sostengono che i collaboratori siano lavoratori autonomi (con P.IVA) o tirocinanti. Il tirocinio professionale (es. pratica forense) non è inquadrato come rapporto di lavoro subordinato – ha una disciplina speciale. Però la condizione è che sia effettivamente un percorso formativo finalizzato all’abilitazione, con un certo decoro (ad esempio non può essere usato per mansioni meramente esecutive non formanti). Se l’ispettore vede un praticante avvocato che fa l’autista all’avvocato senior o svolge compiti amministrativi e non formativi, potrebbe contestare un abuso. Non c’è una norma specifica che dica “praticante trattato come impiegato = sanzione”, ma potrebbe integrare un rapporto di lavoro di fatto. In difesa, l’avvocato direbbe: “fa parte del tirocinio anche l’acquisizione di certe abilità pratiche, non è un dipendente, segue il percorso di formazione previsto dall’Ordine”. E se il praticante conferma (magari per non inimicarsi il dominus), l’ispettore difficilmente potrà fare molto. Diverso se il praticante stesso denuncia di essere sfruttato come segretario: in quel caso potrebbe reclamare un rapporto di lavoro subordinato celato. Similmente, i collaboratori a P.IVA negli studi: formalmente essi offrono servizi professionali, e l’Ordine spesso li considera “coadiutori liberi”. Ma se di fatto timbrano il cartellino, il rischio di riqualificazione c’è.
- Cause promosse dai collaboratori professionali: Ci sono vari precedenti di cause di praticanti o collaboratori di studio che chiedono il riconoscimento come dipendenti (soprattutto nel settore legale e commerciale). L’esito dipende molto dalle prove. Un praticante avvocato di solito ha un patto formativo e un regolamento forense che dice che non è un lavoratore subordinato, quindi deve provare che in realtà lo facevano lavorare come un dipendente (magari orari d’ufficio rigidi, compiti non formativi ma produttivi, pagamento fisso mensile chiamato “borsa di studio” ma in realtà stipendio). Se lo prova (magari con email dove gli danno ordini perentori, testimonianze di colleghi), il giudice potrebbe riconoscergli lo status di dipendente (ci sono state sentenze isolate in tal senso). Il datore (lo studio) in difesa punterà sulla natura formativa dell’esperienza: “era qui per imparare, non per produrre reddito; se svolgeva compiti era sotto la mia supervisione come training; gli orari erano flessibili, non imposti come un ufficio pubblico; la borsa era solo un rimborso spese”. Se lo studio riesce a far testimoniare che il praticante poteva ad esempio anche non venire in studio certi giorni (per studiare a casa, ecc.), questo aiuta a farlo sembrare un learner più che un earner. Nel dubbio, la giurisprudenza tende a non scoraggiare l’istituto del tirocinio, per cui serve davvero un abuso marcato perché un giudice dichiari che in realtà c’era un lavoro dipendente. Comunque, è successo.
Per i finti autonomi a P.IVA nel contesto professionale, la logica è uguale a quella vista: se c’è esclusività, continuità e assoggettamento, possono essere riconosciuti dipendenti. La difesa starà nel mostrare elementi di autonomia: il collaboratore con P.IVA poteva avere altri clienti (mostrare eventuali progetti extra che ha fatto), veniva compensato a progetto e non a mese (esibire i contratti d’opera per singoli lavori), non era tenuto a stare in studio 9-18 (magari aveva chiavi e veniva quando serviva, o lavorava da casa a volte). Se il datore può dimostrare queste cose (contratti di collaborazione scritti per ogni progetto, email orari flessibili, ecc.), difficilmente il collaboratore vincerà la pretesa di essere dipendente.
Attenzione alle nuove tutele: Ultimamente alcune categorie di collaboratori indipendenti hanno ottenuto tutele simili al lavoro subordinato. Un esempio fuori dall’ambito strettamente professionale è quello dei riders (i fattorini del food delivery), che la L. 128/2019 ha equiparato sul piano di alcune tutele pur restando autonomi etero-organizzati. Negli studi professionali non c’è una normativa simile, ma è giusto per dire che il confine tra autonomia e subordinazione evolve.
Riassunto difensivo in ambito professionale: – Per evitare grane: formalizzare sempre per iscritto i rapporti coi collaboratori (lettera di incarico al praticante che richiami il regolamento, contratto di consulenza col P.IVA definendo che non c’è orario fisso né esclusiva, ecc.). Questo documento sarà la prima linea di difesa. – In caso di ispezione: spiegare il ruolo di ciascuno (es. “questa è la dott.ssa X, collega con cui collaboro, ecco il suo contratto di collaborazione in partita IVA”). Se i documenti sono in regola, l’ispettore di solito prende atto. Magari segnalerà all’INPS per verificare che quel P.IVA versa alla Gestione Separata, ma non scatterà sanzione immediata. – In caso di causa: come detto, giocare sulla finalità formativa (per praticanti) o sulla autonomia (per P.IVA) mostrando evidenze. E non dimenticare l’onere della prova: se il collaboratore non ha prove e il datore nega, il collaboratore difficilmente vincerà, come ribadito dalla Cassazione . Ciò può dissuadere cause pretestuose.
Esempio: Un giovane architetto a P.IVA fa causa a un archistar sostenendo di aver lavorato 3 anni nel suo studio con orario d’ufficio e che la P.IVA era solo uno schermo, chiedendo quindi differenze e ferie. L’archistar si difenderà producendo i contratti di consulenza annuali che stipulava col giovane (dove magari c’è scritto “il consulente svolgerà le attività X consegnando elaborati entro Y, con libertà di organizzazione”), porterà testimonianze di altri collaboratori che dicono “sì, tutti eravamo freelance, potevamo gestirci i tempi basta consegnare, spesso Tizio lavorava pure da casa su render”, e farà notare che Tizio nello stesso periodo ha partecipato con nome proprio a un concorso di design (segno di attività indipendente). Il giovane forse avrà testimonianze di colleghi che dicono “in realtà dovevamo stare in ufficio tutti i giorni”. Il giudice valuterà: se i test del datore sono credibili e i contratti ben scritti, potrebbe concludere che non c’è prova di subordinazione e rigettare.
Domande e Risposte Frequenti (FAQ)
D: Cosa si intende esattamente per collaborazione non registrata?
R: Il termine indica qualsiasi attività lavorativa svolta senza le previste registrazioni o comunicazioni al fine di formalizzare il rapporto. In primis si riferisce al lavoro subordinato senza comunicazione di assunzione (il classico lavoro in nero). Ma in senso lato può includere anche rapporti formalmente non subordinati ma non dichiarati: ad esempio un co.co.co. attivato senza fare la comunicazione al Centro Impiego, un lavoratore autonomo occasionale senza invio della comunicazione all’INL, oppure l’apporto lavorativo di un familiare o socio non registrato da nessuna parte. In questa guida usiamo spesso “lavoratore in nero” per indicare il caso tipico (dipendente occulto), ma il concetto si estende a tutte le forme di collaborazione lavorativa prive di regolarizzazione contrattuale e contributiva.
D: Quali rischi corre il datore di lavoro che impiega lavoratori in nero?
R: I rischi sono multidimensionali. Sul piano amministrativo, il datore è esposto alla maxi-sanzione pecuniaria che, dopo gli aumenti del 2024, può arrivare fino a €57.600 per ciascun lavoratore (importo massimo base, aumentabile ulteriormente per recidiva o altri fattori aggravanti) . Inoltre, se l’azienda impiega personale non dichiarato, l’Ispettorato può anche adottare il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale (ex art. 14 D.Lgs. 81/2008) quando riscontri almeno il 10% di forza lavoro “in nero” sul totale: ciò comporta nell’immediato lo stop dell’attività fino alla regolarizzazione e al pagamento di una somma aggiuntiva (variabile da €2.500 in su). Sul piano previdenziale, il datore dovrà versare tutti i contributi evasi per i periodi non dichiarati, con interessi e sanzioni civili. Questo può equivalere a dover pagare anni di contributi arretrati in un’unica soluzione, un esborso molto pesante. Sul piano civilistico verso il lavoratore, c’è il rischio di dover pagare differenze di stipendi, TFR, ferie non godute, contributi al fondo di garanzia TFR, etc., se il lavoratore agisce per ottenere quanto gli spetta. Sul piano penale, come detto, possono scattare reati in specifiche ipotesi (lavoratori immigrati clandestini, minori in età proibita, mancato versamento di contributi sopra soglia, violazioni sicurezza sul lavoro in caso di infortunio a lavoratore non assicurato). In più, considerazione pratica: l’INAIL potrebbe rivalersi in caso di infortunio del lavoratore in nero (fatto salvo che l’INAIL di solito tutela comunque l’infortunato, ma poi chiede al datore i premi evasi e può applicare una multa). E infine, rischio reputazionale: essere scoperti a usare lavoro nero può danneggiare la reputazione dell’azienda presso clienti, partner e comunità, specie oggi con la risonanza mediatica (molte operazioni anti-caporalato o simili vengono pubblicizzate). In breve, il “gioco” di evitare i costi contributivi/ fiscali può diventare un “azzardo” rovinoso.
D: Il lavoratore in nero rischia qualcosa?
R: Anche il lavoratore può avere conseguenze, sebbene di norma chi viene trovato a lavorare in nero non viene sanzionato pesantemente. Può subire una multa da €1.800 a €10.800 solo in un caso particolare: se è straniero extra-UE senza permesso di soggiorno, la legge punisce anche lui per l’ingresso irregolare (ma soprattutto sanziona penalmente il datore per l’impiego di clandestini). Il lavoratore “nero” italiano o regolare sul territorio non commette reato né illecito amministrativo per il solo fatto di lavorare. Semmai, se è un disoccupato che percepisce ammortizzatori sociali (NASpI, Reddito di Cittadinanza finché c’era, Assegno di inclusione etc.), rischia di perdere quei benefici e dover restituire indebitamente quanto preso durante il periodo in cui lavorava non dichiarato. Ci sono sanzioni amministrative per il cumulo indebito. Inoltre, se il lavoratore lavorava in nero percependo anche sussidi pubblici, il datore ha un aggravante (20% in più di maxi-sanzione) . Il lavoratore può essere coinvolto come testimone nelle indagini e, se dichiara il falso per proteggere il datore, rischia personalmente un reato (falsa testimonianza al pubblico ufficiale). In caso di infortunio, se aveva taciuto la sua condizione per ottenere benefici, potrebbe subire rivalse. Ma in generale, il nostro ordinamento tutela più il lavoratore (ritenuto la parte debole) che il datore in queste situazioni. Tant’è che un lavoratore in nero può denunciare il fatto senza incorrere in sanzioni, anzi viene protetto. Ad esempio, chi denuncia spontaneamente all’INPS di aver lavorato in nero ha interesse a vedersi riconosciuti i contributi: non verrà punito, sarà il datore a dover pagare. Va detto però che, se il rapporto è veramente frutto di accordo tra le parti per comune convenienza (cash esentasse per lui, niente oneri per il datore) e poi il lavoratore volta faccia e denuncia, c’è anche un profilo etico: il lavoratore stava evadendo con il datore tasse e contributi. Non esiste un reato specifico a carico del lavoratore per evasione contributiva (per il fisco sarebbe concorso eventuale in evasione fiscale se incassava stipendi non dichiarati al fisco – cosa che comunque può essere sanata con la dichiarazione dei redditi tardiva). In sintesi, sul piano legale la posizione del lavoratore è protetta: può denunciare senza auto-incriminarsi (non esiste reato di “lavorare in nero”), e potrà reclamare i suoi diritti arretrati.
D: Ho un parente che mi aiuta saltuariamente in negozio. Devo assumerlo?
R: Se l’aiuto è davvero saltuario e spontaneo, senza corresponsione di compenso e senza vincolo di orario, la legge non impone di assumere. Il classico esempio è il figlio o l’amico che dà una mano occasionalmente in periodi di punta o durante un evento straordinario. Tuttavia, attenzione: questa situazione deve rimanere eccezionale. Se poi l’“aiuto” diventa quotidiano o regolare, anche solo per poche ore, di fatto si configura un rapporto di lavoro. Non necessariamente subordinato classico – potrebbe essere una collaborazione familiare – ma in ogni caso va gestito formalmente. Per i familiari c’è l’opzione di iscriverli come coadiuvanti familiari (presso INPS, posizione commercianti o artigiani): ciò li rende regolari senza assunzione formale come dipendenti. Pagheranno contributi fissi e avranno una copertura previdenziale. Questa è una strada consigliabile se, ad esempio, la moglie aiuta stabilmente nel negozio del marito. Se invece il parente da una mano proprio di rado (es. sostituisce un’ora perché tu eri assente), probabilmente nessuno verrà mai a sindacare quell’episodio. Ma sappi che se durante quell’ora capita un controllo, dovrai spiegare la situazione agli ispettori, e come visto non c’è garanzia che accettino la scusa dell’occasionalità: potrebbero presumere che lo facesse spesso. Quindi, in linea di principio, sì, dovresti regolarizzarlo se l’aiuto è ripetuto. Un’alternativa valida per cose brevi potrebbe essere usare il Libretto di Famiglia INPS (se applicabile: il libretto famiglia è pensato per piccoli lavori domestici, baby-sitting, giardinaggio, ma è stato esteso temporaneamente anche a piccoli lavori in ambito commerciale per imprese familiari fino a certi limiti). Con il Libretto paghi i voucher e stai in regola. In sintesi: una mano ogni tanto non impone l’assunzione, ma più la collaborazione si ripete o incide nell’attività, più è opportuno formalizzare (con assunzione part-time, impresa familiare o strumenti come voucher).
D: Ho scoperto che un mio ex collaboratore (autonomo) vuole portarmi in tribunale sostenendo che era un dipendente. Ma aveva la partita IVA! Può farlo?
R: Può provare a farlo, sì. In Italia vige il principio di primato della sostanza sulla forma nei rapporti di lavoro: se un giudice accerta che la realtà operativa del rapporto aveva tutti i caratteri del lavoro subordinato (eterodirezione, orario, integrazione stabile nella tua organizzazione, ecc.), può riqualificare il rapporto come subordinato a tempo indeterminato, a prescindere dal nome che le parti gli avevano dato e dal fatto che il collaboratore avesse una partita IVA. La partita IVA indica che fiscalmente quella persona si presentava come lavoratore autonomo, ma non impedisce una verifica della genuinità. Se in giudizio emergesse che la partita IVA era fittizia (magari perché lui lavorava solo per te, in orari imposti, con compenso fisso mensile), il giudice potrebbe riconoscergli le tutele da lavoratore dipendente (diff. retribuzioni, TFR, ferie, ecc.). Ora, la domanda è: lo accerterà? Dipende dalle prove. Come spiegato, l’onere della prova è suo . Dovrà portare documenti o testimonianze che provino la subordinazione. Tu ovviamente difenderai la versione per cui era un libero professionista autonomo. Se hai documenti come un contratto di consulenza dove lui accettava quella natura, fatture, corrispondenza in cui non appare subordinato, li userai. Spesso queste cause le vince il datore (committente) proprio per mancanza di prova del collaboratore, a meno che la situazione non fosse macroscopica (tipo timbrava il cartellino insieme agli altri dipendenti, o veniva chiamato “dipendente” nelle email interne). In conclusione: sì, il collaboratore a P.IVA può teoricamente far causa per essere riconosciuto dipendente (non c’è ostacolo legale a rivendicare una diversa qualificazione), ma per ottenere ciò deve dimostrare che la partita IVA era solo fumo negli occhi. Se tu hai sempre rispettato la sua autonomia, difficilmente ci riuscirà.
D: In caso di controllo, è vero che conviene far finta che il lavoratore sia un cliente o un amico casuale presente lì?
R: Mentire agli ispettori non è mai consigliabile. Gli ispettori sono pubblici ufficiali: rendere false dichiarazioni può avere rilevanza penale. Senza contare che di solito non si lasciano convincere facilmente da scuse poco plausibili. Se durante l’ispezione un soggetto viene sorpreso a svolgere mansioni tipiche di un lavoratore (es.: sta servendo un cliente al bar, o sta usando un macchinario in azienda), dire che “è un amico di passaggio” suona poco credibile. Piuttosto è meglio, se possibile, non far trovare persone non regolari al lavoro – ma una volta che ci sono e sono state viste, negare l’evidenza peggiora solo la posizione. L’atteggiamento migliore col personale ispettivo è collaborativo e veritiero: se c’è una situazione irregolare, ammetterla e magari cercare di spiegarne i contorni (es.: “è il mio primo giorno di prova, stavo proprio per metterlo in regola”, oppure “sì, è mio cugino, so che dovrei sistemarlo, datemi il tempo e lo faccio”). Gli ispettori annoteranno queste dichiarazioni. Magari applicheranno lo stesso la sanzione, ma una condotta collaborativa potrebbe anche riflettersi in un atteggiamento leggermente più favorevole (es.: non aggravano il verbale con altre sanzioni accessorie). Invece, se percepiscono un tentativo di ostacolare o sviare, faranno accertamenti ancora più puntigliosi (ad esempio interrogando altre persone, frugando nei documenti per cercare conferme). E se scoprono la bugia (basta che il lavoratore, interrogato a parte, ammetta di lavorare), la figura sarà pessima e in giudizio useranno quelle false dichiarazioni contro di te per minare la credibilità. Quindi la tattica di “spacciare il dipendente per cliente” è sconsigliata (a meno che, caso raro, uno stia realmente solo guardando e non lavorando: ma se non sta lavorando, l’ispettore di solito non contesta nulla, può chiedergli chi è e se conferma di essere un amico in visita e non lo vede operare, ok).
D: Se regolarizzo spontaneamente un lavoratore in nero, rischio comunque sanzioni?
R: La regolarizzazione spontanea, cioè prima di qualsiasi accertamento, esonera dalla maxi-sanzione . Perché sia considerata spontanea, deve avvenire prima che l’ispettorato avvii controlli o convochi per ispezioni. Se hai il fondato timore di un imminente controllo (es.: sai che stanno facendo controlli a tappeto nella zona) è comunque consigliabile mettere in regola subito, perché se non altro eviti la maxi-sanzione. Certo, dovrai pagare i contributi arretrati per intero e magari anche una sanzione per tardiva comunicazione (importo minore). Ma non il “maxi”. In pratica conviene autodenunciarsi? Sì, se il lavoratore sta ancora lavorando per te e intendi tenerlo. Come si fa: invii la comunicazione Unilav di assunzione con data di inizio effettiva (anche se antecedente: alcune Direzioni permettono di regolarizzare arretrati comunicando la verità, altre suggeriscono di fare assunzione dal giorno stesso e poi regolarizzare i periodi precedenti con comunicazioni e versamenti ad hoc). Poi versi i contributi per il pregresso (c’è una procedura di regolarizzazione contributiva spontanea: paghi contributi con sanzioni civili ridotte se avviene prima di accertamento) e consegni al lavoratore le buste paga arretrate. Tutto questo è oneroso ma ti mette quasi al sicuro: la legge premia il ravvedimento operoso escludendo la maxi-sanzione . Resterà tecnicamente applicabile la piccola sanzione fissa per omessa comunicazione (una sorta di multa amministrativa che può essere di qualche centinaio di euro), ma è nulla rispetto a decine di migliaia di euro. Quindi sì, se regolarizzi prima di un controllo non prendi la maxi-multa. Se regolarizzi dopo essere stato pizzicato, rientri nel discorso della diffida: potrai pagare il minimo ma comunque la sanzione scatta perché l’accertamento c’è stato.
D: Esiste una sanatoria o condono per il lavoro nero?
R: Al momento (agosto 2025) no, non ci sono condoni in vigore per sanare retroattivamente il lavoro nero senza pagare sanzioni. Ogni tanto in passato si è discusso di possibili regolarizzazioni (specie in agricoltura o per colf/badanti straniere), ma nulla di generale è stato varato recentemente. L’unica forma di “sanatoria” è quella insita nella diffida: se regolarizzi e paghi la sanzione minima entro i termini, ottieni l’estinzione dell’illecito. Ma devi comunque assumere e versare contributi, non è che si fa pace senza oneri. In ambito fiscale esistono i ravvedimenti operosi, ma per il lavoro sommerso si applica la disciplina speciale che abbiamo descritto. Dunque l’unica strada pulita è regolarizzare prima di essere scoperti, perché in tal caso non c’è illecito (come detto la maxi-sanzione non si applica a chi spontaneamente regolarizza tutto). Dopo che sei stato colto, puoi solo mitigare (diffida) ma non evitare sanzione del tutto.
D: Un lavoratore in nero può fare causa dopo anni che ha smesso di lavorare?
R: Sì, può. I termini di prescrizione delle sue pretese decorrono in genere dalla cessazione del rapporto di lavoro (quando è in nero non decorre la prescrizione, perché è come un rapporto “occulto” che non garantisce protezione; la Cassazione su questo ha posizioni particolari, ma tendenzialmente il lavoratore non perde il diritto di agire solo perché sono passati più di 5 anni, se nel frattempo lavorava ancora per il datore). Dalla cessazione del rapporto in nero si applica la prescrizione ordinaria di 5 anni per crediti da lavoro. Quindi, ad esempio, se uno ha lavorato in nero dal 2015 al 2020, potrebbe tranquillamente nel 2024 fare causa per differenze su tutto il periodo (i 5 anni si conterebbero dal 2020, quindi fino al 2015 è coperto). Diverso è per il riconoscimento giuridico del rapporto: quello non si prescrive come tale (può chiedere anche nel 2025 di accertare che lavorava dal 2015, la prescrizione agisce solo sui crediti maturati oltre il quinquennio). Quanto all’impugnazione di un eventuale licenziamento, se sostiene di essere stato licenziato oralmente alla fine del 2020, dovrebbe rispettare i termini di impugnazione (qui c’è discussione se valgano o no perché formalmente non essendo assunto non ha lettera di licenziamento, ma molti dicono che il termine di 60 giorni decorre da quando cessa di fatto il lavoro, se conosce i suoi diritti). In pratica, molti lavoratori in nero fanno causa molto tempo dopo la fine, magari quando vanno da un patronato per la pensione e scoprono di avere buchi contributivi. E spesso riescono a ottenere almeno i contributi. Quindi per un datore il pericolo di vertenze non si estingue immediatamente con la fine del rapporto: può durare anni.
D: Durante un’ispezione, il lavoratore in nero può mentire per coprire il datore?
R: Può provare, ma come detto rilasciare false dichiarazioni a pubblici ufficiali è reato. Di solito i lavoratori sono spaventati in quella situazione e tendono semmai a minimizzare (“sono qui da pochi giorni” invece di ammettere mesi). L’ispettore di solito chiede documenti (tipo se ha chiesto il permesso famigliare per stare lì, nel caso di familiare) o fa domande incrociate. Se il lavoratore mente spudoratamente e poi la bugia viene smontata (es.: dice “sono venuto oggi per imparare” ma l’ispettore trova il suo nome su un registro di accessi precedente), perde totalmente credibilità e può essere denunciato. Dal canto tuo, non puoi certo spingerlo a mentire: sarebbe istigazione a delinquere. A volte i lavoratori, per fedeltà o paura, coprono il datore. Ma se poi cambiano idea e ammettono la verità (magari non sul momento ma successivamente), peggiora la situazione. Quindi puntare su un “patto del silenzio” con il lavoratore è rischioso e moralmente discutibile. Meglio trattare bene i propri collaboratori fin dall’inizio: paradossalmente molti datori scoprono che un lavoratore in nero li ha denunciati anonimamente proprio perché esasperato da trattamenti scorretti o mancati pagamenti. Se si finisce in quella condizione, vuol dire che il rapporto di fiducia era già rotto.
D: Ci sono settori in cui la vigilanza è più frequente?
R: Sì. L’INL concentra molta attività nei settori storicamente a rischio lavoro nero: edilizia, agricoltura, ristorazione/bar, commercio al dettaglio, logistica, servizi di pulizia, autolavaggi, laboratori manifatturieri. Negli ultimi anni, anche il settore dei rider e della gig economy è stato attenzionato. Gli studi professionali e il lavoro domestico (colf, badanti) vengono controllati più raramente, ma non sono esenti (nel lavoro domestico poi se c’è recidiva di impiego irregolare, scatta ora anche un illecito penale in alcuni casi). Le piccole imprese a conduzione familiare erano storicamente bersaglio di accertamenti INPS per i contributi dei familiari (INPS tendeva a iscriverli d’ufficio se vedeva moglie/figli lavorare). Con la crisi pandemica e le norme anti-sfruttamento del PNRR, c’è stato un inasprimento dei controlli finanziati anche con fondi europei. Quindi direi che nessun settore è davvero immune, ma certamente bar/ristoranti (anche per questione di orari serali) e cantieri (anche per sicurezza) hanno visite frequenti. Questo per dire: se operate in uno di questi ambiti, alzate la guardia sulla compliance.
D: Se un lavoratore in nero si fa male sul lavoro, cosa succede?
R: Questa è una situazione molto seria. In caso di infortunio o malattia professionale di un lavoratore non assicurato, l’INAIL comunque interviene in tutela del lavoratore (lo cura e lo indennizza), ma poi fa azione di regresso verso il datore per recuperare le somme erogate (art. 10 D.P.R. 1124/1965). Inoltre, se l’infortunio è grave, scatterà quasi certamente un’indagine penale e lì verrà a galla che il lavoratore non era regolare, con possibili imputazioni per omessa sicurezza (il testo unico sicurezza punisce penalmente la mancata formazione, mancata visita medica, etc., che spesso capitano col lavoro nero) e per violazione delle norme sul lavoro minorile se del caso. Ci sarà anche la maxi-sanzione amministrativa e la richiesta contributi, ovviamente. Ma la priorità sarà gestire le conseguenze dell’incidente: il datore potrebbe trovarsi a dover risarcire il danno differenziale all’infortunato (ciò che INAIL non copre) e a difendersi da accuse penali (lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme antinfortunistiche, art. 589-590 c.p., se l’infortunio è dovuto a negligenze). È uno scenario in cui essere in regola sarebbe stato doppiamente importante (sia per prevenire l’incidente con formazione, sia per non aggravare la propria posizione). In definitiva: se succede, va immediatamente denunciato l’infortunio all’INAIL (anche se in ritardo, meglio tardi che mai), regolarizzare seduta stante la posizione del lavoratore (per mostrare ravvedimento), e poi prepararsi ad affrontare l’iter, possibilmente con un legale esperto in infortuni sul lavoro.
D: C’è differenza tra lavoratore italiano e straniero (UE o extraUE) non registrato, ai fini difensivi?
R: La difesa “tecnica” sui presupposti della subordinazione è identica. Quello che cambia sono le aggravanti e implicazioni: se il lavoratore è cittadino extra-UE senza regolare permesso di soggiorno per lavoro, il datore commette un reato ai sensi del Testo Unico Immigrazione (art. 22 c.12 D.Lgs 286/98) e rischia l’arresto da 3 a 18 mesi o multa €5.000 per lavoratore, oltre alla maxi-sanzione che avrà +20% aggravante . Difendersi in quel caso è ancor più difficile, perché il fatto stesso di averlo impiegato illegalmente è provato dal riscontro che era senza permesso. L’unica attenuante è dimostrare di aver poi regolarizzato lo straniero (es. facendo procedura di emersione se disponibile) o che erano pendenti pratiche di permesso. Per i comunitari (UE) non c’è differenza rispetto agli italiani (libera circolazione, nessun permesso richiesto), dunque valgono le stesse considerazioni generali. Per i lavoratori richiedenti asilo o con permessi speciali, bisogna stare attenti: alcuni permessi non consentono di lavorare, altri sì; assumere un richiedente asilo è legale se ha un permesso temporaneo e trascorsi 60 giorni dalla domanda. Se lo impieghi in nero e lui è in regola per lavorare, è “solo” lavoro nero come per un italiano. Se lo impieghi quando ancora non poteva, rischi sanzioni relative al permesso. Quindi, informarsi sempre sul titolo di soggiorno del lavoratore straniero. Dal punto di vista probatorio, un ostacolo ulteriore: se il lavoratore straniero non parla bene italiano o non conosce le procedure, potrebbe non sapersi difendere/accusare efficacemente. Ma l’ispettorato in genere si avvale di mediatori linguistici se serve.
D: Un ex lavoratore in nero mi ricatta (“se non mi paghi X, ti denuncio”). Cosa faccio?
R: Siamo sul penale. Il ricatto ovviamente è un reato di estorsione o tentata estorsione. In linea di principio dovresti rivolgerti alle autorità denunciando il fatto. Tuttavia, se fai denuncia, inevitabilmente verrà alla luce che tu stesso hai commesso l’illecito di averlo tenuto in nero, con tutte le conseguenze. Ciò non giustifica l’estorsione, ma pone te in posizione di “colpevole ricattato da un complice”. Non è scenario invidiabile. Molti in questa situazione preferiscono negoziare un accordo transattivo col lavoratore (pagandogli magari qualcosa in cambio di una liberatoria). Questo può risolvere privatamente, anche se rimane il rischio che poi comunque denunci. La via maestra sarebbe interrompere il circolo vizioso della minaccia, magari con l’assistenza di un avvocato che faccia da intermediario: se il lavoratore ha delle rivendicazioni legittime (stipendi non pagati, ecc.), potete formalizzare un accordo di pagamento e riservatezza. Se invece è solo un ricatto ingiustificato (tipo chiede più di quanto gli spetterebbe), sei di fronte a un dilemma morale e giuridico. Pagare un ricatto non dà mai certezza che non ne arriveranno altri. Denunciare ti espone ma almeno metti fine. Non c’è una soluzione facile. Va valutato caso per caso l’importo richiesto, la credibilità del soggetto, la gravità per te se vieni denunciato. In ogni caso, per prevenire tali situazioni, è sempre meglio se un rapporto in nero finisce, cercare di chiudere bene con quella persona, magari pagandogli tutto il dovuto informalmente perché non abbia motivi di prendersela (anche se legalmente non sanato, almeno moralmente non gli devi nulla). Gran parte delle denunce di lavoro nero vengono da lavoratori che si sentono sfruttati o non pagati correttamente.
Conclusioni
Le collaborazioni non registrate rappresentano un terreno minato sia per i datori di lavoro sia per i professionisti che li assistono. Prevenire è senza dubbio la strategia migliore: usare forme contrattuali flessibili ma legali (come il lavoro intermittente, i voucher, il part-time breve, la collaborazione occasionale con comunicazione) è sempre preferibile rispetto al rischio di tenere persone “invisibili” sul luogo di lavoro. Oltre ad essere un obbligo di legge, la regolarizzazione tutela anche il datore da ricatti, infortuni scoperti, e gli consente di dedurre costi dal fisco anziché gestire tutto in nero.
Quando però la contestazione arriva, il datore di lavoro ha ancora chance di difesa, che possiamo sintetizzare così:
- Conoscere la normativa: come questa guida ha illustrato, ci sono eccezioni, scappatoie e requisiti precisi. Sapere che, ad esempio, un socio non configura lavoro nero o che la maxi-sanzione è diffidabile, fa la differenza nell’impostare la difesa. Aggiornarsi sulle ultime modifiche (come gli importi 2024) è fondamentale per non prendere sottogamba la questione.
- Agire tempestivamente: i termini per impugnare sanzioni e avvisi sono brevi (30 o 40 giorni). Non indugiare sperando che la cosa “sparisca”: una volta notificati gli atti, vanno affrontati. Anche la diffida ha termini perentori (120 giorni per regolarizzare).
- Documentare tutto: chi è in regola lo dimostri subito (esibire Unilav, contratti, buste paga). Chi non lo era, cerchi ogni traccia utile (es.: se il lavoratore firmò un foglio presenza per formazione, o se c’era un contratto co.co.co anche se non comunicato, ecc.). In giudizio civile, la tenuta documentale può decidere l’esito.
- Prova testimoniale: spesso decisiva. Se si finisce in tribunale, avere testimoni credibili (colleghi, fornitori, anche clienti) che confermino la versione del datore può smontare le accuse. Al contrario, ex dipendenti scontenti che testimoniano per il lavoratore possono inchiodare il datore. Bisogna quindi mappare subito chi potrebbe testimoniare cosa, e prepararsi (senza subornare, ma anche scegliendo chi chiamare come teste).
- Coordinare le difese: come abbiamo visto, c’è interdipendenza tra la sanzione INL, i contributi INPS e le cause del lavoratore. Ideale sarebbe risolvere tutte con un unico accordo transattivo globale (ad es. il datore paga una certa somma al lavoratore che rinuncia a cause, nel frattempo regolarizza all’INPS pagando contributi, e magari ottiene dall’Ispettorato la conversione della sanzione in diffida attiva – a volte succede, se dimostri di aver sistemato tutto, l’organo può archiviare con pagamento minimo). Non sempre ciò è possibile, ma vale la pena tentare. Un lavoratore potrebbe accettare di conciliare sapendo di ottenere subito qualcosa invece di incerti anni di causa. E l’INPS/INL non fanno accordi formali, ma vedere contributi pagati e diffida ottemperata chiude la pratica.
- Affidarsi a professionisti: dato il livello avanzato di queste questioni, farsi assistere da un consulente del lavoro (sulle regolarizzazioni e calcoli) e da un avvocato giuslavorista (sui ricorsi e strategie processuali) è altamente raccomandato. Un errore procedurale (mancato ricorso entro i termini, o diffida non eseguita correttamente) può costare caro.
In conclusione, dal punto di vista del datore di lavoro (“debitore”), difendersi dalle contestazioni su collaborazioni non registrate è un percorso in salita ma non privo di speranze. L’ordinamento offre strumenti di ravvedimento (diffida) e garanzie processuali (onere della prova, possibilità di contestare la qualificazione) che, se ben utilizzati, possono ridurre notevolmente le conseguenze. Ovviamente, il tutto nella consapevolezza che la regolarità contributiva e contrattuale del lavoro non è solo un obbligo imposto, ma anche un fattore di civiltà e di competizione leale. Il consiglio finale non può che essere: giocare d’anticipo sulla regolarizzazione per quanto possibile, e quando ciò non avviene, attrezzarsi di pazienza, documenti e buone argomentazioni per far valere le proprie ragioni nelle sedi opportune.
Fonti: Le informazioni e i riferimenti giurisprudenziali contenuti in questa guida si basano su normative e atti ufficiali (DL 12/2002 conv. L.73/2002, D.Lgs. 81/2015, L. 145/2018, DL 19/2024, Circolari INL e INPS) e sulle pronunce giurisprudenziali più recenti, tra cui Cass. civ. sez. lav. n. 29608/2022 , Cass. ord. n. 22424/2025 , Cass. 4535/2018 , nonché sentenze di merito come Trib. Foggia 21.6.2024 e Trib. Napoli 5.11.2024 , che forniscono principi chiave sull’onere della prova e sulla qualificazione dei rapporti familiari. Si è inoltre tenuto conto della Nota INL n. 1156/2024 e del Vademecum aggiornato sulla maxi-sanzione , nonché di contributi dottrinali (Fondazione Studi Consulenti del Lavoro ) per offrire un quadro il più possibile completo ed aggiornato. Le tabelle e i consigli pratici derivano dalla combinazione di queste fonti e dall’esperienza applicativa maturata nel settore.
- Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 ottobre 2022, n. 29608 – Maxi sanzione per l’impiego di lavoratori irregolari nell’autolavaggio
- INL – Nota n. 1156/2024 : Aggiornato il vademecum sulla maxi-sanzione per lavoro sommerso
Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate o dall’Ispettorato del Lavoro perché ti accusano di aver utilizzato collaborazioni non registrate? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate o dall’Ispettorato del Lavoro perché ti accusano di aver utilizzato collaborazioni non registrate?
Vuoi sapere quali sono i rischi e come puoi difenderti da questa accusa?
Le collaborazioni non registrate (o “in nero”) sono rapporti di lavoro per i quali non è stato stipulato o comunicato alcun contratto alle autorità competenti. Il Fisco e gli enti previdenziali considerano queste situazioni come evasione contributiva e fiscale, con conseguenze pesanti sia per il datore di lavoro che per il collaboratore.
👉 Non sempre però l’accusa è fondata: spesso si tratta di collaborazioni occasionali, rapporti di natura diversa o errori formali nella gestione delle comunicazioni.
⚖️ Perché scatta la contestazione
- Collaborazioni di fatto senza contratto registrato o comunicato al Centro per l’Impiego;
- Pagamenti non tracciati o senza ricevute;
- Segnalazioni da parte dei collaboratori stessi;
- Movimenti bancari o spese aziendali incoerenti con il personale dichiarato;
- Qualificazione errata del rapporto (es. collaborazione autonoma considerata subordinata).
📌 Conseguenze possibili
- Recupero delle imposte e dei contributi non versati;
- Sanzioni fiscali e previdenziali molto elevate;
- Interessi di mora;
- Accertamenti retroattivi su più annualità;
- Nei casi più gravi, procedimenti penali tributari per evasione contributiva o dichiarazione fraudolenta.
🔍 Come difendersi
- Esamina la contestazione: individua i collaboratori e i periodi indicati dal Fisco o dall’Ispettorato.
- Raccogli la documentazione: ricevute, contratti occasionali, dichiarazioni sostitutive, prove dell’occasionalità del rapporto.
- Dimostra la natura del rapporto: non tutte le collaborazioni devono essere registrate (es. prestazioni occasionali sotto soglia).
- Contesta le presunzioni: il Fisco deve provare la continuità e la subordinazione del rapporto.
- Predisponi memorie difensive o ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, in sede giuslavoristica.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza le contestazioni e individua i punti deboli dell’accusa;
- 📌 Ricostruisce la natura delle collaborazioni per dimostrare l’assenza di obbligo di registrazione;
- ✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per ridurre o annullare le pretese fiscali e contributive;
- ⚖️ Ti rappresenta nei procedimenti tributari e del lavoro;
- 🔁 Suggerisce strategie preventive per regolarizzare i rapporti di collaborazione ed evitare futuri problemi.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in fiscalità del lavoro e accertamenti su collaborazioni;
- ✔️ Specializzato in contenzioso tributario e giuslavoristico;
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni su collaborazioni non registrate possono avere conseguenze pesanti sul piano fiscale e contributivo, ma non sempre sono fondate.
Con una difesa legale mirata puoi dimostrare la reale natura dei rapporti, contestare le presunzioni del Fisco e ridurre l’impatto economico.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro le contestazioni su collaborazioni non registrate inizia qui.