Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ti contesta la presenza di conti correnti intestati a un trust non dichiarati? I trust sono strumenti di pianificazione patrimoniale e successoria perfettamente legittimi, ma il Fisco li guarda con particolare attenzione, soprattutto quando vi sono attività finanziarie non dichiarate all’estero. In questi casi il rischio è di vedersi contestare imposte, interessi e sanzioni molto pesanti.
Quando scattano le contestazioni fiscali sui trust
– Se i conti correnti o gli investimenti intestati al trust non sono stati indicati nel quadro RW per il monitoraggio fiscale
– Se i redditi generati dai conti (interessi, dividendi, plusvalenze) non sono stati dichiarati
– Se il trust è considerato interposto e quindi fiscalmente ricondotto al disponente o ai beneficiari
– Se i movimenti bancari non sono coerenti con le dichiarazioni fiscali presentate
– Se il trust è costituito in Paesi a fiscalità privilegiata o ritenuti non collaborativi
Cosa rischi in caso di accertamento
– Recupero delle imposte non dichiarate sui redditi dei conti
– Sanzioni dal 3% al 15% (fino al 30% per conti in Paesi non collaborativi) sugli importi non monitorati
– Interessi di mora che aumentano il debito fiscale
– Contestazione di reati tributari in caso di importi rilevanti e superamento delle soglie penali
– Possibile sequestro preventivo e azioni esecutive sui beni del trust e, nei casi di interposizione, anche del disponente o beneficiari
Come difendersi da un accertamento su trust con conti non dichiarati
– Dimostrare la natura effettiva del trust e la sua finalità legittima (successione, protezione patrimoniale, gestione familiare)
– Presentare la documentazione bancaria e contrattuale dei conti intestati al trust
– Contestare la presunzione di interposizione quando il trust è autonomo e realmente gestito da un trustee indipendente
– Richiamare la normativa internazionale e le convenzioni contro le doppie imposizioni per evitare tassazioni indebite
– Impugnare l’avviso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria contestando errori di calcolo, presunzioni arbitrarie o mancanza di prove concrete
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare l’atto di accertamento e verificare i presupposti della contestazione
– Dimostrare con atti e documenti la reale natura e autonomia del trust
– Contestare l’applicazione automatica delle sanzioni sul monitoraggio fiscale
– Difendere il contribuente in sede tributaria e, se necessario, in sede penale-tributaria
– Negoziare con l’Agenzia delle Entrate soluzioni transattive che riducano imposte e sanzioni
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La conferma della legittimità del trust e della sua autonomia fiscale
– La sospensione di procedure esecutive e sequestri collegati
– La protezione del patrimonio familiare e dei beneficiari del trust
⚠️ Attenzione: i trust non sono di per sé strumenti illeciti, ma se non gestiti e dichiarati correttamente possono essere interpretati dal Fisco come meri schermi patrimoniali. Una difesa mirata, basata su documenti e norme internazionali, è decisiva per respingere le contestazioni.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e difesa tributaria – ti spiega come affrontare un accertamento su trust con conti non dichiarati e quali strategie utilizzare per proteggere i tuoi beni.
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Introduzione
Un trust con conti bancari o investimenti non dichiarati al Fisco può diventare oggetto di un rigoroso accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate. In tali casi, il contribuente (spesso disponente o beneficiario del trust) rischia pesanti sanzioni tributarie e perfino contestazioni penali, qualora il trust venga ritenuto uno strumento per occultare redditi o patrimoni al Fisco. Questa guida, aggiornata ad agosto 2025, fornisce un’analisi approfondita – ma in linguaggio comprensibile – su come difendersi efficacemente da un accertamento fiscale relativo a trust con conti non dichiarati, adottando il punto di vista del debitore (contribuente) e tenendo conto della più recente normativa e giurisprudenza italiana.
Affronteremo dapprima il quadro normativo: come sono disciplinati i trust in Italia e quali obblighi fiscali gravano su disponente, trustee e beneficiari. Proseguiremo illustrando le strategie dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento – ad esempio la riqualificazione del trust come ente interposto o la presunzione di residenza fiscale italiana per trust esteri – e le relative sanzioni previste in caso di conti esteri non monitorati. Quindi passeremo alle possibili strategie difensive: come dimostrare la genuinità di un trust, contestare le pretese erariali (ad esempio invocando l’assenza di obblighi dichiarativi in caso di trust discrezionali) o rientrare nei ranghi tramite ravvedimento operoso. Saranno richiamate le sentenze più recenti in materia (ad esempio in tema di trust esteri discrezionali, trust “paradisiaci” in paesi black list, trust interposti fittizi, nonché gli sviluppi riguardanti le cripto-attività detenute in trust).
Nel corso della trattazione proporremo domande e risposte frequenti per chiarire i dubbi pratici di avvocati, privati e imprenditori alle prese con trust e accertamenti fiscali. Inoltre, alcune tabelle riepilogative aiuteranno a sintetizzare i concetti chiave – ad esempio, le diverse categorie di trust e il relativo trattamento fiscale, oppure il quadro delle sanzioni applicabili. Infine, verranno presentate simulazioni pratiche (casi-tipo) nel contesto italiano, per tradurre la teoria in esempi concreti dal punto di vista del contribuente sottoposto a verifica. L’obiettivo è fornire uno strumento operativo che coniughi rigore giuridico e approccio pragmatico, così da orientare chi deve tutelarsi da un accertamento su trust non dichiarati.
Il trust nell’ordinamento italiano e il suo utilizzo lecito
Il trust è un istituto giuridico di origine anglosassone, introdotto nell’ordinamento italiano tramite la Convenzione dell’Aja del 1º luglio 1985 (ratificata con L. 364/1989, in vigore dal 1º gennaio 1992) . In base a tale convenzione, l’Italia riconosce i trust istituiti secondo la legge straniera scelta dal disponente, purché ricorrano gli elementi essenziali tipici del trust (segregazione patrimoniale, figura del trustee, scopo o beneficiari determinati, etc.) . Il trust si realizza mediante un atto con cui un soggetto (disponente o settlor) trasferisce determinati beni o diritti a un altro soggetto (trustee), affinché li amministri nell’interesse di beneficiari indicati (oppure per uno scopo) secondo le regole stabilite nell’atto istitutivo . L’effetto fondamentale è la segregazione patrimoniale: i beni conferiti diventano un patrimonio separato, distinto sia dal restante patrimonio personale del trustee sia da quello del disponente e dei beneficiari . In altre parole, tali beni non rispondono delle obbligazioni personali del disponente (che se ne è spogliato) né del trustee né, fino all’assegnazione finale, dei beneficiari .
Uso lecito vs. abuso del trust: Grazie alla segregazione, il trust è impiegato in varie pianificazioni legittime: per tutela patrimoniale (proteggere beni di famiglia da futuri rischi d’impresa o da pretese creditorie, come nel trust “Dopo di noi” per assistenza a disabili gravi), per passaggio generazionale (gestire il trasferimento di ricchezza ai figli in modo controllato e graduale), per gestione fiduciaria di patrimoni complessi (affidando beni a un trustee professionale, specie in contesti multinazionali o con eredi minori), oppure con finalità caritatevoli e non profit. In tutti questi casi, il trust è istituito senza intento fraudolento e in tempi non sospetti rispetto a potenziali debiti: ad esempio, un trust familiare creato anni prima di qualunque controversia fiscale, con finalità di mantenimento dei figli, sarà generalmente opponibile ai creditori futuri del disponente. L’ordinamento tutela fino a un certo punto questa separazione: un creditore del disponente non può pignorare un bene trasferito validamente in trust, perché non è più di proprietà del debitore.
Tuttavia, se il trust viene creato in prossimità di debiti certi e esigibili, o addirittura dopo la notifica di avvisi di accertamento o cartelle esattoriali, la sua liceità viene meno. In tali situazioni, l’Agenzia delle Entrate (e altri creditori) possono reagire in vari modi: contestare il trust come atto in frode ai creditori, agendo con azione revocatoria per renderlo inefficace verso di loro; oppure, in ambito penale tributario, accusare il disponente di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) se il trust risulta un artificio volto a sfuggire al pagamento di tributi dovuti. Ad esempio, la Cassazione penale ha ripetutamente ravvisato il reato di sottrazione fraudolenta quando un contribuente costituisce un trust autodichiarato (dove egli stesso è anche trustee) subito dopo la notifica di cartelle o di un processo verbale di constatazione, trasferendovi i propri beni al solo scopo di pregiudicare la riscossione coattiva . In tali casi, l’atto istitutivo del trust viene considerato un atto simulato o fraudolento, penalmente sanzionato se il debito tributario superava le soglie di legge (50.000 € di imposte dovute, elevati a 200.000 € per l’ipotesi aggravata) .
Indicatori di abuso: Secondo la prassi e la giurisprudenza, segnali forti di un utilizzo abusivo/fraudolento del trust sono: (a) la costituzione del trust dopo l’insorgere di significativi debiti tributari o in vista di imminenti controlli fiscali ; (b) la natura revocabile del trust o comunque la persistenza in capo al disponente di poteri di controllo sui beni conferiti (ad es. se il disponente è anche trustee o ha facoltà di revocare/modificare beneficiari) ; (c) l’assenza di beneficiari determinati (trust opaco puramente discrezionale) specie se il trust è estero in giurisdizioni opache ; (d) il conferimento nel trust della quasi totalità dei beni del debitore, lasciandolo formalmente nullatenente . In queste circostanze, il Fisco può ritenere il trust un semplice schermo fittizio creato “in frode alla legge” per evitare il pagamento di imposte, e agire di conseguenza .
Conseguenze in caso di trust fraudolento: Un trust ritenuto abusivo viene sostanzialmente disconosciuto. Ciò può comportare: la riattribuzione dei beni al disponente ai fini esecutivi (es. sequestro/pignoramento dei beni segregati) ; la richiesta giudiziale di dichiarare inefficace il trust verso il Fisco; l’estensione di responsabilità patrimoniale a trustee e beneficiari se consapevoli; e, come detto, la denuncia penale. In ambito fiscale stretto (imposte dirette), l’amministrazione finanziaria ignorerà la segregazione e imputerà redditi e patrimoni al disponente in base al principio di effettiva titolarità, come meglio si dirà oltre.
Difendersi dalle accuse di frode: Va sottolineato che il trust è lecito se “ben strutturato e gestito” – come evidenzia una recente guida dell’Agenzia delle Entrate, l’uso di un trust a fini fiscali è del tutto legittimo quando non vi sono intenti fraudolenti . Dunque, qualora il contribuente si veda contestare un trust quale mezzo di sottrazione al Fisco, la strategia difensiva consisterà nel dimostrare la genuinità e buona fede dell’operazione. Ciò significa provare, con documenti e fatti, che il trust perseguiva finalità oggettivamente meritevoli (tutela familiare, passaggio generazionale, ecc.) e che è stato istituito in assenza di debiti fiscali pendenti o comunque non in prossimità di essi . Inoltre, il disponente dovrà mostrare di essersi realmente spogliato dei beni conferiti, senza averne conservato la disponibilità di fatto . Elementi utili in tal senso sono: l’atto istitutivo con clausole di irrevocabilità, l’indipendenza del trustee (meglio se un professionista terzo, eventualmente affiancato da un protector indipendente), la tenuta di contabilità separata per il trust, verbali o decisioni del trustee che attestino una gestione effettivamente autonoma . Presentare una memoria difensiva dettagliata, allegando copia dell’atto istitutivo, inventario dei beni, bilanci del trust, corrispondenza e qualsiasi prova della reale separazione, è fondamentale . Se la difesa ha successo, il contribuente potrà ottenere l’archiviazione delle contestazioni e la salvaguardia dei beni in trust, evitando sia le misure esecutive sia le sanzioni penali e tributarie .
Naturalmente, la linea di demarcazione tra un uso lecito del trust e un abuso può rivelarsi sottile: ecco perché l’onere della prova dei profili fraudolenti spetta all’Amministrazione, la quale deve fornire indizi gravi e concordanti che il trust sia solo fittizio (ad esempio evidenziando che, malgrado la forma, il disponente continua a disporre uti dominus di quei beni e redditi). Come vedremo, nell’ambito di un accertamento tributario tale valutazione viene inquadrata attraverso la lente dell’interposizione fittizia (art. 37, comma 3, DPR 600/1973), che consente di imputare i redditi al reale possessore. Prima di approfondire questo aspetto cruciale, riepiloghiamo però le regole fiscali generali sui trust: qual è il trattamento impositivo dei trust secondo la normativa italiana e quali obblighi dichiarativi esistono per i soggetti coinvolti.
Disciplina fiscale dei trust: soggettività tributaria, trust opaco/trasparente e tassazione dei redditi
Dal punto di vista delle imposte sui redditi, il trust è stato inserito tra i soggetti passivi d’imposta in Italia. L’art. 73, comma 1, lett. b), c) e d) del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) include infatti i trust, residenti o non residenti, tra gli enti soggetti all’IRES (imposta sul reddito delle società) . Ciò significa che – in linea di principio – al trust viene riconosciuta una propria soggettività tributaria autonoma, distinta da quella del disponente e dei beneficiari . Tuttavia, la concreta modalità di tassazione dei redditi di un trust dipende dalla sua tipologia, in particolare dalla distinzione tra trust “trasparente” e trust “opaco”, nonché dalla residenza fiscale del trust stesso.
- Trust “trasparente” (o “look-through”): è il trust in cui i beneficiari di reddito sono individuati (nominalmente o come quota determinata) nell’atto istitutivo . In tal caso, il reddito prodotto dal trust non viene tassato in capo al trust, bensì è imputato per trasparenza ai beneficiari, indipendentemente dall’effettiva distribuzione. In altre parole, i beneficiari devono dichiarare e scontare imposta sul reddito del trust a loro imputato, anche se lasciato accantonato nel trust e non materialmente percepito . Questo meccanismo è analogo a quello delle società di persone: i redditi “passano attraverso” il trust e vengono tassati direttamente in capo ai beneficiari, proporzionalmente alla quota di partecipazione spettante a ciascuno.
- Trust “opaco”: è il trust senza beneficiari di reddito individuati, tipicamente un trust discrezionale puro, dove il trustee ha facoltà di scegliere se, quando e a favore di chi effettuare distribuzioni. In un trust opaco i redditi restano nel patrimonio del trust sino ad eventuale attribuzione. Fiscalmente, il trust opaco è considerato un soggetto passivo IRES sui propri redditi . Se il trust è residente in Italia, esso pagherà quindi IRES (al 24%) sui redditi prodotti, applicando le regole ordinarie previste a seconda che svolga attività commerciale o non commerciale . I beneficiari non sono tassati al momento della successiva distribuzione, trattandosi di utili già assoggettati a tassazione in capo al trust (ma attenzione alle eccezioni per i trust esteri) . Se il trust opaco non è residente in Italia, esso sarà tassato in Italia solo su eventuali redditi prodotti nel territorio italiano (redditi “fonte Italia”).
Trust estero “opaco” e beneficiari italiani: il trattamento fiscale delle somme attribuite da un trust opaco estero a beneficiari residenti varia a seconda che il trust sia localizzato in un Paese a regime fiscale considerato “privilegiato” (c.d. paradiso fiscale) oppure no. La normativa interna – attualmente l’art. 44, comma 1, lett. g-sexies del TUIR – prevede che siano qualificati come redditi di capitale imponibili in capo al beneficiario residente anche i redditi corrisposti da trust stabiliti in Stati o territori a fiscalità privilegiata . In pratica, se un trust opaco ha sede in un “paradiso fiscale” (ossia in un Paese black list con tassazione nominale molto bassa o scambio di informazioni inadeguato), l’ordinamento italiano presume che le somme distribuite al beneficiario residente rappresentino redditi non tassati altrove: pertanto tali somme, al momento della percezione, sono assoggettate a tassazione in Italia come redditi di capitale . Il presupposto impositivo è la percezione (criterio di cassa): il beneficiario paga l’imposta nell’anno in cui riceve l’“attribuzione” dal trust estero paradisiaco . In mancanza di chiarimenti, si applica l’aliquota dei redditi di capitale (generalmente l’aliquota marginale IRPEF, oppure imposta sostitutiva se la natura del reddito lo consente). Inoltre, la legge stabilisce una presunzione per cui l’intera attribuzione è reddito, salvo che il contribuente riesca a distinguere la parte di essa che proviene dal patrimonio già tassato del trust (ad esempio, distinguere il capitale originariamente conferito dai redditi prodotti e non tassati) . Se tale distinzione è possibile e documentata, la porzione riferibile al patrimonio originario potrebbe non essere tassata di nuovo in capo al beneficiario; viceversa, in assenza di prove, l’intera somma è imponibile. Questa regola è coerente con l’esigenza di evitare che, tramite trust esteri opachi, si accumulino redditi in paradisi fiscali per poi distribuirli esentasse in Italia.
Diversamente, se il trust opaco estero è situato in un Paese non a fiscalità privilegiata (ad esempio un trust istituito in una giurisdizione “white list” che prevede un livello di tassazione congruo o un adeguato scambio di informazioni), l’attribuzione di somme al beneficiario residente non rientra di per sé tra i redditi imponibili. In tal caso, infatti, non opera l’art. 44 g-sexies TUIR (applicabile solo ai trust “paradisiaci”). Si consideri ad esempio un trust opaco istituito in UE (in un paese collaborativo): i redditi prodotti dal trust sarebbero tassati secondo le leggi di quel Paese e, quando il trust distribuisce somme al beneficiario italiano, tali somme potrebbero configurare semplici movimenti patrimoniali non imponibili (analogamente a un dividendo estero già tassato alla fonte, o a una liberalità). Occorre però prudenza: in assenza di un regime chiaro, l’Agenzia potrebbe comunque contestare l’operazione se ritiene che dietro il trust vi sia un’utilizzazione elusiva. A fare chiarezza, per fortuna, è intervenuta una modifica normativa nel 2019: è stato esplicitato che i redditi di trust esteri opachi NON sono imputabili ai beneficiari italiani, salvo il caso di trust in Stati black list. È dunque sancito il principio che un trust opaco estero, se non “paradisiaco”, non genera materia imponibile per il beneficiario sino all’eventuale distribuzione – e, alla distribuzione, fuori dai casi di paradiso fiscale, in genere non vi è imposizione (a meno che si configurino profili di donazione tassabile, su cui v. infra).
Trust “interposto” (trust fittizio): accanto ai trust trasparenti od opachi in senso proprio, la prassi fiscale e la giurisprudenza considerano un’ulteriore categoria di trust: quello interposto. Si parla di interposizione fittizia quando un soggetto appare formalmente titolare di redditi o patrimoni, ma in realtà un altro soggetto ne è il possessore effettivo. In ambito tributario, l’art. 37, comma 3, DPR 600/1973 autorizza espressamente l’amministrazione, in sede di accertamento, a disregardare l’intestazione formale: “sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato… che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”. Questo significa che, se il trust viene ritenuto un mero schermo (interposto) dietro cui il disponente/beneficiario cela la propria disponibilità sui beni, il Fisco potrà ignorare la soggettività fiscale del trust e tassare direttamente in capo all’interponente i relativi redditi . In pratica, i redditi che formalmente risultano del trust saranno re-imputati al disponente (o al beneficiario) italiano che ne dispone in via sostanziale . Ciò avviene per imputazione automatica, secondo la natura dei redditi stessi (interessi, dividendi, plusvalenze, ecc.), come se fossero stati percepiti direttamente dal soggetto interponente . Contestualmente, eventuali distribuzioni dal trust all’interponente non verranno tassate (sarebbero un mero trasferimento di disponibilità già tassata) .
Un caso tipico di trust interposto è il trust simulato, in cui il disponente resta di fatto dominus assoluto: ad esempio, quando Tizio costituisce un trust auto-dichiarato in cui egli è anche trustee e beneficiario finale, continuando a gestire i beni “come se” fossero suoi senza reale autonomia del trust. In simili situazioni, gli indizi di interposizione sono evidenti e la Cassazione ha affermato che la prevalenza della realtà sull’apparenza deve guidare il giudizio: si deve individuare chi esercita effettivamente il possesso e godimento dei redditi, a prescindere dall’intestazione formale. Addirittura – nota la Cassazione – il principio sostanzialistico è così forte che si applica anche quando interponente e interposto coincidono nella stessa persona in ruoli giuridici diversi. Ciò è proprio il caso del disponente nominato trustee di sé stesso: formalmente c’è un trust, ma sostanzialmente il disponente non si è spogliato dei beni, quindi il Fisco considererà quei beni ancora parte del suo patrimonio imponibile. Non occorre – precisa la giurisprudenza – dimostrare una simulazione in senso civilistico assoluto; è sufficiente provare (anche per presunzioni qualificate) che la separazione patrimoniale non opera in concreto, restando i beni nella sfera decisionale del contribuente. In tal caso, scatta l’art. 37, co. 3, DPR 600/73 e i redditi vengono tassati al reale possessore senza bisogno di ulteriori sofisticazioni giuridiche.
Riassumendo la tassazione dei trust (in condizioni di normalità, senza interposizione):
- Trust trasparente (beneficiari individuati): il trust non paga imposte sui redditi, che sono imputati ai beneficiari per competenza, anche senza distribuzione . I beneficiari tassano tali redditi secondo la loro natura (es. redditi finanziari come capitali, redditi d’impresa come reddito d’impresa, ecc.). Le eventuali somme che il trust effettua ai beneficiari sono irrilevanti fiscalmente (sono distribuzioni di utili già tassati per trasparenza).
- Trust opaco residente (beneficiari non determinati): il trust paga l’IRES sui redditi che produce . Nessuna tassazione in capo ai beneficiari al momento della distribuzione, trattandosi di attribuzione di patrimonio già tassato al trust (analogamente a una società di capitali che distribuisce utili post imposte: in alcuni casi i dividendi sarebbero tassati, ma per i trust opachi interni l’Agenzia trattiene la tassazione in capo al trust stesso). Va ricordato che per i trust opachi interni, quando i beni in trust sono poi trasferiti ai beneficiari finali, si applicano le imposte indirette (successione/donazione) come vedremo a parte.
- Trust opaco non residente in Paese white list: il trust paga eventualmente imposte nel proprio Stato estero. In Italia i redditi del trust non sono tassati (salvo che siano redditi di fonte italiana, su cui il trust – pur estero – sarebbe tassato in Italia come qualsiasi non residente). Se il trust distribuisce utili a un beneficiario italiano, in linea di principio tali somme non sono imponibili come reddito di capitale (perché l’art. 44 g-sexies TUIR non si applica, valendo solo per Paesi privilegiati). La distribuzione potrebbe eventualmente essere considerata una liberalità soggetta a imposta sulle donazioni (se gratuita) – questione che esula dall’accertamento reddituale ma che va tenuta presente: con circolare 34/E/2022 l’Agenzia ha chiarito che l’imposta di successione/donazione colpisce solo il trasferimento finale ai beneficiari di beni da un trust, non l’atto di dotazione iniziale . Dunque un beneficiario che riceve la distribuzione finale di beni da un trust opaco potrebbe dover pagare l’imposta sulle donazioni in base al grado di parentela col disponente e al valore, a meno che non ricorrano esenzioni.
- Trust opaco non residente in Paese black list (paradiso fiscale): il trust non è tassato in Italia sui suoi redditi esteri; tuttavia, in base all’art. 44 TUIR e alla circolare 34/E/2022, qualsiasi distribuzione** di redditi/patrimoni dal trust al beneficiario residente è tassata in capo a quest’ultimo come reddito di capitale al momento della percezione . Non vi è imputazione per trasparenza (il trust rimane opaco fino alla distribuzione), ma al momento in cui il beneficiario incassa somme dal trust paradisiaco, queste vengono trattate alla stregua di utili provenienti da attività non tassate: integrano quindi materia imponibile per il beneficiario . Se il beneficiario prova che una parte della somma distribuita non proviene da redditi prodotti ma da patrimonio iniziale del trust, può sottrarre tale parte da imposizione . In caso contrario, l’intera somma è presumibilmente reddito imponibile.
- Trust interposto (fittizio): il trust in realtà non esiste ai fini fiscali. I redditi (ovunque prodotti) vengono considerati da subito come percepiti dal soggetto italiano effettivo proprietario . Pertanto: il trust non presenta dichiarazioni dei redditi (o, se le presenta, verranno rettificate); il disponente/interponente include nel suo reddito imponibile i redditi generati dai beni “intestati” al trust. Qualsiasi somma successivamente movimentata tra trust e interponente è irrilevante (già tassata a monte). I beneficiari terzi eventuali non sono tassati, a patto che i redditi siano già stati tassati in capo all’interponente . In pratica, lo schema è come se il trust non ci fosse: se ad es. i beni hanno prodotto interessi o plusvalenze, il Fisco le contesta al disponente; se poi il disponente li trasferisce a Caio beneficiario, Caio non viene tassato (per evitare doppia imposizione, essendo i redditi già tassati a Tizio-disponente).
Nota sulle imposte indirette: Oltre alle imposte dirette (redditi), i trust scontano anche un regime particolare per imposte di registro, successione e donazione. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2019 (sent. n. 13626/2019) ha stabilito che il mero atto di dotazione di beni in trust non sconta l’imposta di donazione, la quale invece si applicherà solo quando i beni usciranno dal trust verso i beneficiari finali. L’Agenzia delle Entrate, con la circolare 34/E/2022, ha recepito questo principio: l’atto istitutivo e di dotazione iniziale del trust è assoggettato solo ad imposta di registro fissa (200 €) , mentre l’atto finale di attribuzione dei beni ai beneficiari realizza il presupposto dell’imposta su successioni e donazioni (applicata con le franchigie e aliquote proprie a seconda del rapporto di parentela) . Ciò significa che il trasferimento ai beneficiari (se gratuito) verrà tassato come donazione, a meno che il trust non sia interposto – in tal caso, potendo l’Agenzia sostenere che la donazione è avvenuta direttamente dal disponente ai beneficiari in frode fiscale, con possibili contestazioni diverse. In ogni caso, le imposte indirette esulano dal nostro focus (che resta l’accertamento per omessa dichiarazione di redditi/conti). Le menzioniamo solo per completezza, dato che in sede di difesa potrebbe essere utile mostrare di aver assolto eventuali obblighi indiretti, a riprova della buona fede e regolarità dell’operazione.
Residenza fiscale dei trust e trust esteri “esterovestiti”
Un elemento fondamentale in materia di trust con conti esteri è la residenza fiscale del trust. La legislazione italiana – art. 73 TUIR, comma 3, aggiornato dal D.Lgs. 209/2023 – stabilisce i criteri generali per considerare un ente (incluso un trust) residente in Italia: sede legale, sede di direzione effettiva o oggetto principale dell’attività situati in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta. Inoltre, una specifica presunzione riguarda i trust costituiti in Paesi “non white list”: “si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust… istituiti in Stati o territori diversi da quelli [white list], qualora almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari siano fiscalmente residenti in Italia” . Questa norma significa che un trust creato in una giurisdizione offshore (black list) viene presunto fiscalmente residente in Italia se vi è coinvolgimento di soggetti italiani come disponente o beneficiario. La presunzione è relativa (“salvo prova contraria”): spetterà al contribuente dimostrare che il trust ha una reale autonomia ed è effettivamente amministrato all’estero, così da confutare la fittizia localizzazione italiana.
Implicazioni pratiche: Se scatta tale presunzione e non viene vinta dalla prova contraria, il trust estero è trattato come residente in Italia ai fini fiscali. Ciò comporta che il trust sarebbe soggetto a tassazione in Italia sui redditi mondiali prodotti (worldwide taxation) e avrebbe obblighi dichiarativi italiani (presentazione dichiarazione dei redditi, quadro RW per investimenti esteri intestati al trust, ecc.). Spesso però l’Agenzia delle Entrate, quando rileva un trust in Paese off-shore, preferisce contestare l’interposizione e tassare direttamente il disponente/beneficiario, piuttosto che far finta di considerare il trust residente e accertare a nome del trust (anche perché un trust estero non ha personalità giuridica né rappresentanti in Italia, rendendo complicata la riscossione in capo al trust stesso). La presunzione di residenza viene comunque utilizzata come strumento anti-elusivo: ad esempio, la Cassazione ha ritenuto, in un caso di trust inglese gestito di fatto da italiani, che la residenza fiscale del trust dovesse essere fissata in Italia, dato che le decisioni gestionali erano assunte nel nostro Paese. Attribuire al trust la residenza italiana rafforza la tesi erariale che il trust fosse privo di autonoma soggettività (o comunque che i redditi andassero tassati in Italia).
Dal punto di vista difensivo, se abbiamo un trust estero istituito in un Paese a fiscalità privilegiata e l’Agenzia fa valere questa presunzione, occorre raccogliere elementi per prova contraria. Sarà utile documentare, ad esempio, che il trustee estero ha amministrato il trust all’estero in maniera indipendente (riunioni, deliberazioni, attività finanziarie svolte nel Paese estero), che i beni sono situati fuori d’Italia, e che il trust magari ha anche soggettività fiscale estera (pagando eventualmente imposte locali). Se si riesce a dimostrare che la “sede di direzione effettiva” del trust è all’estero, si potrà evitare la riqualificazione del trust come residente italiano. Il D.Lgs. 209/2023 sopra citato ha definito sede di direzione effettiva “la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti l’ente nel suo complesso”, il che offre parametri per argomentare la collocazione all’estero (o in Italia) della testa decisionale del trust.
Esterovestizione del trust vs. interposizione: Va notata la differenza: dichiarare un trust estero residente in Italia significa che il trust è vero ma fiscalmente localizzato qui; dichiarare un trust interposto significa che il trust è fittizio e i redditi sono direttamente del soggetto italiano. Spesso le due contestazioni sono alternative o cumulative: l’Agenzia può dire che in ogni caso il trust “XYZ” – essendo alle Bahamas con beneficiari italiani – o lo consideriamo residente (quindi soggetto a tassazione piena qui) oppure, anche se non volessimo considerarlo residente, resta il fatto che è interposto a favore del disponente. Nella difesa sarà importante capire su quale terreno si gioca la partita: se il Fisco contesta la residenza, conviene portare prove organizzative di gestione estera; se contesta l’interposizione, occorre provare la separazione effettiva di controllo (come già detto).
Trust in Paesi UE o accordi di scambio informazioni: Un trust istituito in UE (o comunque in Paesi white list) non subisce la presunzione di residenza di cui sopra. Inoltre beneficerà di un contesto fiscale cooperativo: l’Agenzia può ottenere dati tramite scambio automatico di informazioni (Common Reporting Standard – CRS). Ad esempio, i trustee o le istituzioni finanziarie UE riportano annualmente alle autorità fiscali i conti finanziari intestati a trust e le persone considerate titolari effettivi, informazioni che vengono scambiate con l’Italia. Ciò rende più difficile “nascondere” un trust all’estero: oggi i conti correnti o depositi intestati a un trust in Svizzera, Lussemburgo, Isole del Canale, etc., sono in molti casi segnalati all’Agenzia delle Entrate italiana, se i beneficiari o disponenti sono soggetti italiani. Questo spiega perché gli accertamenti su trust esteri con conti non dichiarati sono in aumento – l’epoca del segreto bancario è tramontata e il Fisco possiede basi dati internazionali (liste finanziarie, Panama Papers, scambio CRS, ecc.) per individuare trust non dichiarati. Sotto tale profilo, difendersi sostenendo “nessuno poteva saperlo” diventa sempre meno credibile. È invece più utile evidenziare di aver operato in buona fede in un contesto normativo incerto (ad es. se l’obbligo di dichiarazione non era chiaro prima di una certa data, come vedremo per i beneficiari discrezionali) per puntare magari all’annullamento delle sanzioni per obiettiva incertezza normativa.
Obblighi dichiarativi e monitoraggio fiscale: indicare il trust (o i suoi conti) nel quadro RW
Uno degli aspetti centrali negli accertamenti sui trust con attività estere è la verifica dell’adempimento degli obblighi di monitoraggio fiscale. In Italia, le persone fisiche residenti (nonché enti non commerciali, società semplici ed equiparate) devono dichiarare al fisco, nel cosiddetto Quadro RW della dichiarazione dei redditi, gli investimenti patrimoniali e finanziari detenuti all’estero suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia. Questo obbligo è sancito dall’art. 4 del D.L. 167/1990 e riguarda tipicamente conti correnti esteri, depositi bancari, partecipazioni in società estere, immobili esteri, metalli preziosi detenuti all’estero, cripto-attività, ecc.. Il quadro RW ha finalità di monitoraggio (antiriciclaggio ed evasione internazionale) e, in alcuni casi, di liquidazione di imposte patrimoniali specifiche come l’IVAFE (imposta sul valore dei conti esteri) e l’IVIE (imposta sugli immobili esteri).
Trust e “titolare effettivo”: Quando gli investimenti esteri sono detenuti tramite strutture complesse (trust, fondazioni, società fiduciarie), l’obbligo di dichiarazione sorge in capo al soggetto residente che sia qualificabile come titolare effettivo della struttura. Il concetto di titolare effettivo (beneficial owner) deriva dalla normativa antiriciclaggio: per i trust, l’art. 20 del D.Lgs. 231/2007 (come modificato) definisce titolari effettivi (i) il disponente, (ii) il trustee, (iii) l’eventuale guardiano (protector), (iv) i beneficiari (individuati o anche solo determinabili come classe), e (v) qualsiasi altra persona fisica che esercita il controllo effettivo sul trust. In ambito fiscale, queste categorie vanno adattate: il trustee, pur essendo un titolare effettivo ai fini antiriciclaggio, non viene considerato titolare effettivo ai fini del monitoraggio fiscale, in quanto egli detiene i beni nell’interesse altrui e non per arricchimento personale. Come chiarito infatti dalle circolari dell’Agenzia, il trustee che agisce come mero gestore fiduciario non ha obbligo di RW in proprio. I soggetti rilevanti ai fini RW sono invece principalmente: il disponente (se mantiene poteri o se il trust è revocabile o “autodichiarato”) e i beneficiari (presenti o futuri, a seconda dei casi).
La disciplina è stata a lungo incerta ed è stata recentemente consolidata dalla Circolare AE 34/E del 20 ottobre 2022, §5, dedicata proprio agli obblighi dichiarativi in ambito trust. Tale documento – all’esito di modifiche normative intervenute nel 2019 e 2020 – fornisce istruzioni dettagliate su chi deve indicare cosa nel quadro RW relativamente a un trust estero. In particolare, riprende un principio già espresso dalla precedente circolare 38/E/2013: l’obbligo di indicazione in RW per un beneficiario discende dalla concreta possibilità di esigere dal trustee l’assegnazione di redditi o patrimonio. Dunque non tutti i beneficiari di trust sono automaticamente tenuti al monitoraggio fiscale, ma bisogna distinguere in base ai loro diritti sul trust. La circolare 34/E/2022 afferma innanzitutto che, per qualificare un beneficiario come titolare effettivo, è sufficiente che esso sia “individuato o facilmente individuabile” nell’atto (anche solo quale membro di una classe, es. “eredi legittimi del disponente”). Quindi non serve che il beneficiario abbia una quota fissa: se è nominato (o nominabile) nel trust, rientra nei titolari effettivi. In secondo luogo, la circolare raccorda le regole antiriciclaggio con quelle internazionali del Common Reporting Standard (CRS): secondo gli standard CRS, “per i beneficiari mandatori (non discrezionali) vanno comunicati sia il valore dei proventi ricevuti nel periodo sia il valore totale del conto del trust; per i beneficiari discrezionali, invece, si comunica solo il valore dei proventi ricevuti nel periodo d’imposta”. Traducendo queste indicazioni in obblighi RW, l’Agenzia conclude che:
- Beneficiari di trust non discrezionali (ossia con diritto certo a una quota di reddito/patrimonio): devono indicare nel quadro RW il valore degli investimenti esteri e attività finanziarie detenute dal trust, in proporzione alla loro quota di patrimonio, oltre ovviamente a dichiarare eventuali redditi percepiti. In sostanza, si adotta un approccio look-through: il beneficiario “trasparente” dichiara come propria la quota-parte del patrimonio estero del trust. Ad esempio, se il trust estero ha un conto di $1 milione e Tizio è beneficiario al 50%, Tizio dovrà indicare in RW $500.000 (controvalore in €) come investimento estero detenuto indirettamente. Questa segnalazione assolve pienamente gli obblighi di monitoraggio.
- Beneficiari di trust discrezionali (senza diritto acquisito fino a decisione del trustee): non devono indicare annualmente il patrimonio del trust. Tuttavia, se e quando il trustee decide un’attribuzione di reddito o capitale in loro favore, sorge l’obbligo di indicare in RW l’importo di tale credito vantato verso il trust. In pratica, nel momento in cui il beneficiario diventa mandatorio perché il trustee gli comunica che gli verrà attribuita una certa somma (di reddito e/o capitale), quel beneficiario dovrà dichiarare nel RW il valore della prestazione cui ha diritto (come attività estera a sé riferibile sotto forma di “credito” verso il trust). Se poi il pagamento avviene nello stesso periodo d’imposta, potrebbe limitarsi a dichiarare il trasferimento ricevuto. La circolare specifica che tale credito va indicato in RW “unitamente agli investimenti e attività finanziarie detenute all’estero” dal contribuente. Ciò significa che nel quadro RW andrà riportato l’ammontare del credito (in valuta estera, con controvalore al 31/12 se non ancora incassato, o alla data di percezione se incassato), come se fosse un’attività finanziaria estera detenuta direttamente.
Questa impostazione implica dunque che un beneficiario meramente discrezionale prima di una distribuzione non compila il quadro RW, in quanto non ha ancora un diritto esigibile sui beni in trust. Solo quando matura un diritto (decisione di attribuzione) dovrà monitorare quel credito. In altre parole, l’approccio “look-through” nel monitoraggio opera solo per i beneficiari non discrezionali, mentre per i discrezionali l’obbligo scatta sulle attribuzioni decise dal trustee, da dichiarare come attività estera detenuta (credito) e non come titolarità effettiva indiretta del patrimonio. Ciò è coerente con il Glossario FATF 2023 e la Guidance internazionale: distingue tra trust con beneficiari attuali già individuati e trust dove i beneficiari avranno diritto ai beni solo al verificarsi di condizioni o scadenze o a seguito di poteri discrezionali del trustee.
Il disponente come titolare effettivo: E il disponente? La prassi considera che, se il trust è revocabile o se il disponente ha conservato poteri di controllo significativi sul trust (es. potere di sostituire il trustee, di veto sulle decisioni, ecc.), allora il disponente stesso rimane titolare effettivo e deve dichiarare in RW i beni esteri conferiti nel trust. Viceversa, se il trust è irrevocabile e il disponente non può più beneficiare dei beni né influenzarne la gestione, il disponente non viene considerato titolare effettivo e non ha obbligo RW (i titolari effettivi saranno solo i beneficiari futuri). La Risposta a interpello n. 145/2025 dell’Agenzia ha ribadito che il trust è autonomo (non interposto) solo se il disponente non ha più alcun potere di influenza né può più beneficiare dei beni. In caso contrario, scatta la presunzione di interposizione e, oltre alla tassazione diretta al disponente, questi avrebbe dovuto indicare i beni in RW come propri. Dunque, un disponente che crei un trust estero e si riservi, ad esempio, il potere di revoca o di cambiare beneficiari, rimane titolare effettivo e soggetto a obblighi RW sul patrimonio del trust. Nel dubbio, meglio indicare: spesso i professionisti consigliano al disponente di segnalare comunque in RW i beni esteri conferiti in trust, magari con una nota esplicativa, per evitare contestazioni di omessa dichiarazione (soprattutto se il trust è discrezionale e opaco, quindi i beneficiari non dichiarano nulla nel frattempo).
Trust residente e RW: Se un trust è fiscalmente residente in Italia (trust “interno”), esso stesso deve adempiere agli obblighi dichiarativi sugli investimenti esteri che detiene. Ad esempio, un trust non commerciale residente con conto in Svizzera deve compilare il quadro RW nella propria dichiarazione (essendo equiparato a un ente non commerciale residente). Ciò tuttavia non esonera i titolari effettivi dal dichiarare, qualora rilevanti. Nel caso di trust interni opachi, però, il titolare effettivo coincide spesso col trust stesso (disponente non ha poteri, beneficiari non hanno diritti attuali), quindi il monitoraggio è assolto dal trust come soggetto autonomo.
Criptovalute e obblighi RW: Una novità recente è l’esplicito inserimento delle cripto-attività tra le attività da monitorare. La Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022) ha modificato l’art. 4 D.L. 167/90 aggiungendo le cripto-attività accanto a investimenti esteri e attività finanziarie estere . Ciò ha sciolto i dubbi del passato: già dal periodo d’imposta 2022 in dichiarazione 2023 il quadro RW prevede caselle specifiche per le criptovalute. Il legislatore ha chiarito che l’obbligo di monitoraggio sussiste a prescindere da dove o come siano detenute le cripto-attività, “indipendentemente dalle modalità di archiviazione (es. wallet hardware o software) e dal fatto che siano detenute in Italia o all’estero”. Quindi, le valute virtuali vanno indicate sempre, al controvalore in euro al 31/12 (o al momento di alienazione se avvenuta durante l’anno). Questo impatta anche i trust: se un trust (o i suoi titolari effettivi) detiene criptovalute, tali attività vanno dichiarate in RW. Ad esempio, se un trust estero opaco possiede Bitcoin per conto di beneficiari italiani non discrezionali, questi ultimi dovranno indicarne il valore pro-quota a fine anno. Se i beneficiari sono discrezionali, indicheranno solo eventuali accrediti loro spettanti. Nel dubbio, poiché le istruzioni 2019-2021 imponevano già di indicare le valute virtuali anche senza Stato estero, molti contribuenti prudenti hanno sempre dichiarato i wallet crypto (spesso usando come “Stato” la sigla “XX” per attività estere non allocabili territorialmente).
Un dettaglio importante: le criptovalute non hanno uno Stato estero di riferimento, quindi in RW si compilano senza indicare un Paese. Questo aspetto incide sulle sanzioni (come vedremo oltre): la mancata compilazione RW per criptovalute non comporta il raddoppio previsto per attività detenute in Paesi black list. L’Agenzia ha infatti chiarito che, data la natura “sui generis” delle cripto-attività, in caso di omessa dichiarazione non si applica la sanzione raddoppiata del 6-30% (black list), ma solo quella base del 3-15%. Questo è rilevante per chi si vede contestare conti in criptovalute detenuti via trust non dichiarati: la sanzione dovrà essere calcolata al tasso ordinario.
Riepilogo obblighi RW per trust (soggetti residenti):
Soggetto | Situazione | Obbligo Quadro RW | Cosa dichiarare |
---|---|---|---|
Disponente (settlor) | Mantiene poteri sul trust (revoca, controllo) oppure trust revocabile/autodichiarato. | Sì, considerato titolare effettivo. | Valore totale degli investimenti/attività estere del trust (patrimonio conferito). |
Disponente | Trust irrevocabile e nessun potere, non beneficiario. | No (in genere). Se il trust è del tutto autonomo, il disponente non è titolare effettivo. | – |
Beneficiario non discrezionale (diritto a quota di patrimonio) | Identificato nominalmente o quota definita del trust. | Sì, obbligo di monitoraggio “look-through”. | Valore della quota di patrimonio del trust a fine anno, proporzionale alla sua spettanza. (Indicare investimenti/attività estere intestate al trust pro-quota e l’eventuale percentuale) |
Beneficiario discrezionale**** (nessun diritto finché trustee non decide) | Individuato nominativamente o per classe (es. “figli del disponente”), ma redditi/capitale attribuiti solo a discrezione del trustee. | Non obbligato a indicare il patrimonio del trust finché non sorge diritto. | Nulla finché il trustee non comunica un’attribuzione a suo favore. Quando il trustee decide una distribuzione: il beneficiario indica in RW l’ammontare del credito vantato verso il trust (somma che dovrà ricevere). Se già percepita nell’anno, indica l’importo percepito come attività estera dismessa. |
Trustee di trust residente | Trust italiano con investimenti esteri. | Sì, il trust (in quanto ente residente) compila RW. | Valore di investimenti/attività finanziarie estere intestati al trust a fine anno. (Il trustee firma la dichiarazione per il trust) |
Trustee di trust estero (non residente) | – | (Nessun obbligo in Italia come persona fisica, se non gode dei beni) | – (Il trustee non dichiara in proprio perché detiene i beni per conto del trust, non come investimenti personali) |
Guardiano (protector) | Se ha ruoli di controllo, ma non benefici economici. | Generalmente no: analogamente al trustee, non è tenuto se non possiede diritti sui beni. (È titolare effettivo antiriciclaggio, ma non ai fini RW) | – (salvo casi in cui cumula ruoli di beneficiario/disponente) |
Tabella 1 – Obblighi di monitoraggio fiscale (Quadro RW) per soggetti coinvolti in un trust, secondo Circolare AE 34/E/2022 e norme vigenti.
Si noti che la Circolare 34/E/2022 ha innovato in parte la prassi: prima vi era incertezza sul caso di beneficiari discrezionali. La precedente Risoluzione 53/E/2019, ad esempio, interpretava che anche i beneficiari solo “eventuali” di trust esteri dovessero segnalare in RW la quota di patrimonio ad essi riferibile, se identificabili. Questo aveva portato ad approcci variegati (c’è chi dichiarava lo stesso, chi no). La circolare 34/E ha fatto chiarezza: beneficiari individuati anche solo per classi sono titolari effettivi, ma l’obbligo RW per essi è calibrato in base alle informazioni disponibili e ai diritti esigibili. In ogni caso, la stessa circolare ha riconosciuto che la mancata previsione normativa esplicita di alcuni obblighi pregressi rende non sanzionabili comportamenti omissivi passati in buona fede. Ciò potrebbe offrire un appiglio difensivo: se un contribuente non aveva dichiarato un trust discrezionale estero prima del 2022, si può sostenere che la prassi all’epoca era incerta e che comunque, non avendo percepito nulla, non si è concretizzata evasione di imposta. Al limite, si tratterebbe di violazione formale di monitoraggio oggi sanabile senza sanzioni, vista l’obiettiva incertezza poi chiarita solo nel 2022.
Sanzioni per conti esteri non dichiarati e altre conseguenze dell’omessa dichiarazione
Il mancato adempimento degli obblighi di monitoraggio fiscale (quadro RW) espone il contribuente a sanzioni amministrative pecuniarie piuttosto severe. La disciplina delle sanzioni è contenuta nell’art. 5 del D.L. 167/1990. In sintesi:
- Omissione Quadro RW per attività estere (Paesi white list): sanzione dal 3% al 15% dell’ammontare non dichiarato. L’importo “non dichiarato” è, di regola, il valore del patrimonio estero da dichiarare (ad esempio, saldo del conto corrente al 31/12 o valore medio di periodo, a seconda delle istruzioni), oppure l’ammontare investito all’estero non segnalato. La sanzione si applica per ciascun periodo d’imposta di omissione. Ad esempio, se un trust estero aveva un conto da 500.000 € non dichiarato dal beneficiario nel 2021 e 2022, e il Fisco lo scopre, il beneficiario rischia una sanzione tra 15.000 € e 75.000 € (3-15% di 500k) per ciascun anno di omissione. L’entità specifica entro il range 3-15% è determinata dall’ufficio in base alla gravità e durata della violazione, eventuale recidiva, collaborazione del contribuente, etc.
- Omissione Quadro RW per attività in Paesi black list* (paradisi fiscali, ovvero Stati a fiscalità privilegiata e non collaborativi): sanzione dal *6% al 30% degli importi non dichiarati, cioè raddoppio della sanzione base. Ad esempio, un conto in Panama non dichiarato di 500.000 € comporterebbe sanzione tra 30.000 € e 150.000 € per anno. La logica punitiva qui è chiara: detenere capitali in Paesi opachi è considerato più grave e meritevole di sanzione aggravata. L’elenco dei Paesi black list cui si applica il raddoppio è storico (DM 4.5.1999 e DM 21.11.2001) e sostanzialmente combacia con gli Stati senza scambio informazioni all’epoca. Oggi con CRS e accordi OCSE la lista si è ridotta, ma formalmente resta il riferimento a quei decreti.
- Criptovalute non dichiarate: come anticipato, pur essendo di fatto “attività estere”, la sanzione NON si raddoppia. Si applica la fascia 3%–15% anche se la criptovaluta era detenuta su piattaforme estere o in un wallet personale. Ciò è stato chiarito perché le cripto non sono ricomprese nell’ambito letterale di “investimenti all’estero in Stati a regime fiscale privilegiato”. In pratica, non esiste un Paese black list di riferimento per un bitcoin in blockchain. Dunque, chi non ha dichiarato consistenti asset digitali non rischia il 30%, ma al massimo il 15% (comunque non poco).
- Violazione “tardiva” (entro 90 giorni): se il quadro RW viene presentato con un lieve ritardo (entro 90 giorni dalla scadenza dichiarativa), invece delle sanzioni proporzionali sopra indicate, si applica una sanzione fissa di €258 (considerando il ravvedimento, ridotta a €28 circa). Quindi se l’omissione è rapidamente sanata, l’ordinamento è più indulgente.
Oltre alla sanzione per omesso monitoraggio, bisogna considerare cosa accade se dal conto estero non dichiarato derivavano dei redditi imponibili non dichiarati (interessi bancari, dividendi, plusvalenze, ecc.). In tal caso, scattano anche le sanzioni per omessa o infedele dichiarazione dei redditi. Ad esempio, se il trust estero aveva un conto che ha generato €10.000 di interessi annui non dichiarati dal beneficiario italiano, l’Agenzia contesterà non solo il quadro RW mancante, ma anche l’IRPEF evasa su quei €10.000. La sanzione per redditi esteri non dichiarati segue il D.Lgs. 471/1997: generalmente dal 90% al 180% dell’imposta evasa, con maggiorazione di 1/3 se i redditi provengono da paradisi fiscali. Quindi, su €10.000 di interessi (tassati poniamo al 26% come redditi di capitale), l’imposta evasa è €2.600; la sanzione base sarebbe €2.340 (90%) fino a €4.680 (180%), aumentabile fino a un terzo se interessi da Paese black list, arrivando a un massimo di circa €6.240.
Presunzioni su redditi non dichiarati: La legge italiana prevede una presunzione anti-evasione particolarmente insidiosa: se emergono attività estere non monitorate, quegli importi possono essere considerati provenienti da redditi sottratti a tassazione salvo prova contraria. In passato, l’art. 12 del D.L. 78/2009 stabiliva che in caso di attività finanziarie in paradisi fiscali non dichiarate, si presumono costituite con redditi sottratti a imposizione, con conseguente tassazione retroattiva. Questa norma è stata parzialmente mitigata dalle voluntary disclosure, ma il concetto rimane: il Fisco, trovando un conto estero occulto, può chiedere imposte sugli incrementi non giustificati di quel conto assumendo che siano redditi evasi. È un tema complesso, ma ad esempio un contribuente con trust alle Bahamas che versava ingenti somme non dichiarate potrebbe subire un accertamento sintetico o da redditometro basato sulla ricostruzione del capitale. Anche per questo, in difesa, se il trust deteneva fondi di origine fiscalmente lecita (es. frutto di redditi già tassati o donazioni esenti), conviene tracciare la provenienza delle somme per confutare tali presunzioni.
Termini di accertamento prolungati: Quando vi sono di mezzo attività estere non dichiarate, la normativa estende i termini entro cui l’Agenzia può accertare. In genere l’accertamento va notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di imposta. Ma in caso di omessa dichiarazione (ad esempio redditi esteri mai dichiarati), il termine diventa otto anni. Inoltre, fino al 2015, se le attività erano in Paesi black list, i termini erano raddoppiati (oggi il raddoppio è stato eliminato, ma resta l’ottennio per omessa dichiarazione). Ciò significa che, ad esempio, nel 2025 l’Agenzia può ancora contestare omissioni risalenti al 2017 (otto anni prima). Se c’è di mezzo un reato tributario, inoltre, i termini si estendono ulteriormente (fino al raddoppio) in base al comma 1 dell’art. 12 D.Lgs. 74/2000. Dunque, trust con conti esteri non dichiarati potrebbero portare a recuperi di diversi anni pregressi.
Rischi penali tributari: Oltre al già citato reato di sottrazione fraudolenta (che attiene alla creazione del trust per frodare la riscossione), vi sono i reati di omessa o infedele dichiarazione (artt. 4 e 5 D.Lgs. 74/2000). Se le imposte evase superano determinate soglie, il contribuente può essere perseguito penalmente. Per omessa dichiarazione (art.5) la soglia è 50.000 € di imposte evase per anno; per dichiarazione infedele (art.4) è 100.000 € di imposte evase, oppure 2 milioni di base imponibile sottratta. Nei casi di trust non dichiarati, in teoria potrebbe configurarsi l’omessa dichiarazione se uno avrebbe dovuto presentare la dichiarazione (perché titolare effettivo di redditi) e non l’ha fatto. Oppure la dichiarazione infedele se ha dichiarato qualcosa ma ha nascosto i redditi del trust. Ad esempio, se il trust estero ha prodotto redditi di grande entità non dichiarati per anni, e l’imposta evasa annualmente supera 100.000 €, la Procura potrebbe contestare il reato di infedele dichiarazione. In aggiunta, se i beni in trust erano molti e lo scopo era eludere il pagamento di cartelle per oltre 200.000 €, come visto scatterebbe l’art.11 (sottrazione fraudolenta) con pena 1-6 anni . Insomma, le conseguenze possono essere molto serie.
Sanzioni accessorie: sul piano amministrativo, accertare attività estere non dichiarate può comportare anche l’applicazione di interessi di mora su imposte e sanzioni, e in casi di particolare gravità l’iscrizione di ipoteche o fermi a garanzia del credito erariale. Inoltre, se il contribuente non paga quanto dovuto, l’Agenzia Entrate Riscossione può tentare di aggredire i beni del trust (ad esempio notificando pignoramenti al trustee). Normalmente, i beni segregati non sono pignorabili per debiti del disponente; però, se si dimostra che il trust è simulato, un giudice potrebbe estendere l’azione esecutiva. Ci sono stati casi in cui l’erario ha chiesto in giudizio l’inefficacia del trust verso di sé (azione revocatoria fallimentare fiscale) per poter recuperare i beni.
Ravvedimento operoso e collaborazione col Fisco: Un contribuente che si accorga di non aver dichiarato conti esteri o trust può in genere avvalersi del ravvedimento operoso (prima dell’avviso di accertamento) per ridurre le sanzioni. Ad esempio, se Tizio non ha indicato nel 2022 un conto estero, può presentare ora una dichiarazione integrativa e versare le sanzioni ridotte: entro 1 anno la sanzione RW scende a 1/8 del minimo. Quindi invece del 3% minimo, pagherà lo 0,375% (1/8 di 3%) per white list, o lo 0,75% per black list. Ciò è fortemente consigliato se l’errore è palese e l’accertamento non è ancora iniziato. In caso di accertamento già avviato, si può valutare l’adesione (accordo bonario con l’ufficio) per ridurre sanzioni di 1/3, oppure – dopo la notifica – l’acquiescenza (pagamento entro i termini con riduzione a 1/3 delle sanzioni) se la pretesa è inoppugnabile. Il tutto, però, va calibrato con attenzione, magari con assistenza di un tributarista, perché ravvedersi equivale ad ammettere l’irregolarità: se ci sono estremi per fare valere la non debenza di imposte (es. trust davvero indipendente, quindi niente redditi imponibili), potrebbe convenire contestare l’accertamento nel merito piuttosto che ravvedersi.
Come difendersi da un accertamento su trust con conti non dichiarati
Arriviamo ora al cuore della questione: quali difese può opporre il contribuente destinatario di un accertamento relativo a un trust estero non dichiarato? La strategia dipende molto dalle circostanze: in particolare, se il trust è reale e semplicemente si discute di obblighi formali (monitoraggio, tassazione di distribuzioni) oppure se il Fisco lo considera fittizio (interposto) e contesta redditi evasi in capo al contribuente. Di seguito esaminiamo i principali argomenti difensivi, distinguendo vari scenari.
1. Provare l’autonomia e genuinità del trust (per evitare la qualificazione di interposizione) – Se l’Agenzia delle Entrate ha impostato l’accertamento sul presupposto che il trust sia una mera schermatura (quindi tassando al disponente tutti i redditi), la difesa prioritaria è dimostrare che il trust è effettivo e autonomo. Si tratta di convincere che non sussiste quella “disponibilità sostanziale” dei beni in capo al disponente che legittima l’applicazione dell’art. 37, comma 3, DPR 600/73. A tal fine, è utile presentare tutte le evidenze che il trust ha operato correttamente:
- Il trust è irrevocabile e il disponente, dopo il conferimento, non poteva rientrare in possesso dei beni né modificare arbitrariamente le regole.
- Vi è un trustee indipendente (meglio se un trust company o professionista estero di reputazione), che ha amministrato i beni in autonomia. Se il trustee ha delegato poteri, egli ne è comunque rimasto responsabile, segno che non li ha ceduti al disponente.
- È presente un protector indipendente (se previsto), che aggiunge un ulteriore controllo a garanzia della finalità del trust.
- La gestione del trust è documentata: ci sono estratti conto, registri, verbali che mostrano che le decisioni le prendeva il trustee (ad esempio investimenti, vendita di beni, distribuzioni parziali) senza ingerenza del disponente. Eventuali comunicazioni (email, lettere) tra disponente e trustee potranno essere usate per far emergere che il disponente non dava ordini, ma al più esprimeva desideri non vincolanti (“letter of wishes”).
- Il disponente non ha beneficiato indirettamente dei beni: ad esempio, se il trust possedeva un immobile, il disponente non lo ha continuato ad utilizzare personalmente; se aveva un conto, il disponente non ha movimentato quel conto a proprio vantaggio. Mostrare che i soldi non sono tornati al disponente è fondamentale per spezzare il nesso di interposizione (viceversa, se emergono bonifici dal trust al disponente non giustificati da ragioni legali, la battaglia è persa).
- Il trust è stato costituito in epoca non sospetta, con uno scopo legittimo dichiarato (protezione di un figlio debole, destinazione benefica, gestione neutrale di partecipazioni societarie per evitare liti ereditarie, etc.). Questo serve per contestualizzare l’operazione come pianificazione lecita e non come stratagemma ex post.
- Se il trust ha pagato tasse all’estero sui redditi (es. trust commerciale che ha versato imposte nel suo paese), evidenziarlo: anche se in Italia non basta a esonerare, dimostra buona fede e che non c’era l’intento di occultare al 100% (potrà semmai valere per evitare sanzioni penali in quanto non c’è dolo di evasione totale). Inoltre, in caso di riconoscimento del trust, si può chiedere il credito d’imposta estero per quanto già pagato fuori (o la deduzione dell’IRES versata dal trust, come ammesso dall’AE in analoghe situazioni).
L’Agenzia, per sostenere l’interposizione, tipicamente porta indizi quali: “il disponente ha mantenuto ampi poteri di gestione, potere di revoca, potere di nominare se stesso beneficiario finale”; “in base a comunicazioni e comportamento, disponente e trustee coincidevano sostanzialmente”; “i beni erano nella piena disponibilità di fatto del disponente” (ad es. conti operati dall’Italia, spese personali pagate col trust). Bisogna smontare questi indizi uno a uno, con prove contrarie o spiegazioni alternative. Ad esempio: se nell’atto il disponente risultava anche beneficiario ultimo, si può argomentare che era una clausola standard pour cause (es. prevedere che, se i figli premuoiono, il capitale torni al disponente) ma che nella sostanza l’intenzione non era far tornare i beni a sé; se il disponente risultava cotrmatario del conto è più arduo difendere, ma si potrebbe sostenere che lo era pro tempore all’avvio per questioni tecniche, poi rimosso (meglio però evitare queste situazioni a monte). In definitiva, la difesa punta a convincere che il trust ha personalità propria e non è simulato. A supporto si può citare la Risposta interpello 145/2025 in cui l’Agenzia stessa ha elencato i criteri per riconoscere un trust come autonomo soggetto d’imposta (assenza di poteri e benefici in capo al disponente; segregazione effettiva; trustee indipendente). Se il nostro caso soddisfa tali criteri, va messo in luce che l’Agenzia contraddirebbe la propria posizione nel non riconoscerlo.
Va detto che, se nonostante tutto la situazione evidenzia controlli anomali del disponente, una strategia potrebbe essere quantomeno ottenere il riconoscimento parziale del trust. Ad esempio, vi sono stati casi in cui l’Agenzia ha accettato di tassare i redditi al disponente ma, per correttezza, ha permesso di detrarre l’eventuale IRES pagata dal trust (che erroneamente si era considerato opaco). Oppure può riconoscere il trust ai fini civilistici (non aggredendo i beni con revocatoria) ma considerarlo fiscalmente trasparente. Le soluzioni transattive dipendono dal confronto con l’ufficio, ma l’importante è ridurre il danno: se proprio il trust viene considerato inesistente, almeno evitare duplicazioni d’imposta e cercare di limitare le sanzioni facendo emergere la buona fede.
2. Contestare le pretese impositive su beneficiari di trust discrezionali – Un caso frequente: il Fisco contesta a un beneficiario italiano di trust discrezionale estero di non aver dichiarato qualcosa, magari applicando l’art. 44 TUIR sulle somme percepite. Ebbene, se il trust era davvero discrezionale e il beneficiario non ha ricevuto alcuna distribuzione nei periodi contestati, la difesa è relativamente forte: si può sostenere che nessun reddito era imponibile perché non vi era diritto acquisito né percezione di somme. Ad esempio, nella già menzionata vicenda “King Trust” (Cass. 9096/2025), il contribuente provò a difendersi dicendo che “non aveva obblighi di monitoraggio, né reali né effettivi, trattandosi di trust discrezionale”. La Cassazione, in quel caso, rigettò l’argomentazione perché emerse che in realtà il trust era interposto (lui ne aveva la disponibilità sostanziale). Ma se in un caso diverso il trust fosse genuino e il beneficiario fosse un semplice beneficiary in waiting, l’Agenzia non potrebbe pretendere che questi avesse dichiarato redditi mai percepiti. Anzi, la Circolare 34/E/2022 chiarisce che in trust discrezionali i redditi vanno tassati solo al verificarsi della distribuzione (criterio di cassa) . Inoltre, come visto, i beneficiari discrezionali non devono indicare in RW il patrimonio del trust prima di avere un credito definito. Dunque, se la contestazione dell’ufficio riguarda ad es. “omessa indicazione in RW della quota di patrimonio trust negli anni X, Y, Z”, si potrà replicare che, da istruzioni ufficiali AE, i beneficiari discrezionali non erano tenuti a tale indicazione. Sarà utile esibire copia delle istruzioni ministeriali dei modelli Redditi di quegli anni (dove dal 2019 in poi compare esplicitamente l’obbligo per valute virtuali ma non un obbligo chiaro per trust discrezionali, chiarito solo nel 2022). E citare la circolare 34/E che conferma questo approccio differenziato.
Se invece il beneficiario discrezionale ha ricevuto una distribuzione dal trust estero paradisiaco e non l’ha dichiarata, l’Agenzia legittimamente gli contesterà l’imposta su tale importo come reddito di capitale (salvo prova che era capitale esente). In difesa, in tal caso, si può lavorare su due fronti: i) quantitativo – dimostrare, con documenti del trust, quale parte della distribuzione corrispondeva a capitale originario o redditi già tassati all’estero, così da escluderla da tassazione in Italia ; ii) sanzionatorio – evidenziare che la normativa sul punto è stata chiarita solo di recente e che il contribuente poteva essere in buona fede ritenendo non imponibile la somma (ad esempio se credeva fosse una liberalità). Se il trust non era black list, peraltro, si può sostenere l’assenza di imponibilità in base al principio generale (e magari citare la bozza decreto fiscale 2019 che esplicitava la non tassabilità per trust opachi non paradisiaci). In mancanza di uno specifico chiarimento legislativo all’epoca, la penalità per infedele dichiarazione potrebbe essere ridotta per scusabilità dell’errore. Anche il favor rei va considerato: se la norma è stata modificata in senso favorevole nel frattempo (si pensi alla soglia di imponibilità delle plusvalenze crypto introdotta nel 2023), occorre applicare il trattamento più favorevole retroattivamente sulle sanzioni.
3. Regolarizzazione spontanea come attenuante – Se l’accertamento non è ancora definitivo (magari siamo in fase di contraddittorio), il fatto che il contribuente abbia collaborato dichiarando spontaneamente eventuali violazioni può aiutare. Ad esempio, se un beneficiario riconosce di aver omesso RW per ignoranza ma, una volta appreso, presenta subito integrative per gli ultimi anni e versa il dovuto (ravvedimento), potrà chiedere all’ufficio di non applicare sanzioni massime o di rinunciare a contestare gli anni più remoti (magari in cambio del pagamento di quelli più recenti). Un istituto utile può essere l’adesione all’accertamento: trovando un accordo con l’Agenzia, spesso le sanzioni sono ridotte a 1/3 del minimo, e si evita il contenzioso. Se il caso è borderline, potrebbe convenire. Se invece si hanno buone chance in causa, meglio non aderire e far valere le ragioni al giudice tributario.
4. Contestare vizi procedurali o di prova nell’accertamento – Come in ogni difesa tributaria, non va trascurato il lato procedurale. Occorre verificare: l’atto di accertamento contiene la motivazione sufficiente? Sono state rispettate le garanzie del contribuente (es. se è derivato da indagini finanziarie, era autorizzato; se è basato su documenti esteri, sono stati ottenuti legalmente; è stato notificato entro i termini; ecc.)? Ad esempio, se l’Agenzia ha appreso dell’esistenza del trust e conti tramite scambio CRS, deve allegare le informazioni ricevute. Se non lo fa, c’è un vizio. Oppure, se la pretesa di tassare i redditi del trust al disponente si basa su presunzioni, bisogna valutare se sono davvero “gravi, precise e concordanti” come richiesto dalla legge. Magari l’ufficio ha solo notato che disponente e trustee erano amici o che il disponente era protector, ma se ciò non comporta prova di effettivo possesso, si può contestare l’insufficienza della prova. Anche il difetto di contraddittorio preventivo (per i tributi armonizzati) o altre eccezioni formali non vanno tralasciate, se presenti, perché possono portare all’annullamento dell’atto a prescindere dal merito.
5. Focus sulle cripto-attività in trust – Qualora l’accertamento riguardi criptovalute detenute via trust, la difesa potrà giovarsi della novità normativa: fino al 2022 c’era incertezza sul trattamento. Se si contesta omessa dichiarazione crypto ante-2023, si può addurre che vi era incertezza (il quadro RW non menzionava espressamente le cripto prima, anche se l’Agenzia via interpello le assimilava a valute estere). Inoltre, se ad esempio il contribuente beneficiario non sapeva neppure che il trust detenesse cripto a suo favore (cosa non improbabile, data l’opacità), potrebbe invocare la causa di non punibilità per “assenza di elemento soggettivo” nelle sanzioni (anche se difficile, perché le sanzioni amministrative sono oggettive, ma in casi eccezionali la buona fede documentata può evitare la punizione). In ogni caso, come già detto, verificare che la sanzione applicata sia quella corretta (3-15% e non 30%), perché un errore del genere da parte dell’ufficio andrebbe contestato fermamente con vittoria quasi certa.
6. Coordinare la difesa tributaria con quella penale – Se pende anche un procedimento penale (per sottrazione fraudolenta o dichiarazione infedele), la strategia va coordinata. Una piena ammissione in sede tributaria potrebbe riverberarsi negativamente sul penale. Occorre muoversi con cautela, magari puntando su aspetti che in ogni caso escludono il reato: ad esempio, dimostrare che l’imposta evasa è sotto soglia o che mancava l’elemento fraudolento. In alcuni frangenti, regolarizzare la posizione fiscale (pagando il dovuto) estingue il reato tributario o evita l’aggravante (nel reato di sottrazione fraudolenta è un’attenuante aver pagato il debito tributario). Quindi potrebbe essere conveniente, anche a costo di non vincere al 100% in commissione tributaria, chiudere il debito col fisco per poi ottenere l’archiviazione penale. Sono valutazioni delicate che richiedono input sia del tributarista che del penalista.
In sintesi, difendersi da un accertamento su trust esteri non dichiarati richiede un approccio multiprofilo: tecnico-giuridico (conoscere normative e circolari per sfruttare ogni appiglio a favore, come fatto con i riferimenti a circ.34/E, art.44 TUIR, ecc.), fattuale-probatorio (produrre quanti più documenti a supporto della tesi difensiva sulla natura del trust e sul proprio comportamento), e strategico (valutare se conviene transigere, ravvedersi parzialmente o combattere fino in Cassazione, tenendo conto di eventuali risvolti penali). Il contribuente, soprattutto se è un privato o imprenditore non esperto di diritto tributario internazionale, dovrebbe farsi assistere da professionisti competenti in materia di trust e fiscalità, poiché la materia è intricata e in evoluzione.
Di seguito proponiamo alcune FAQ (domande e risposte) e casi pratici simulati, che aiutano a chiarire come applicare questi principi a situazioni concrete dal punto di vista del contribuente.
Domande Frequenti (FAQ) e casi pratici
Q1: “Ho istituito anni fa un trust discrezionale all’estero (in una giurisdizione UE “white list”), di cui sono disponente, a favore dei miei figli. Il trust ha un conto in Svizzera non dichiarato. Ora l’Agenzia mi contesta l’omessa compilazione del quadro RW e vuole tassarmi i redditi del trust. Premesso che dal trust non è mai uscita una lira finora, devo davvero pagare?”
A1: La pretesa dell’Agenzia va analizzata in due parti: obblighi di monitoraggio e tassazione redditi. Sul monitoraggio (Quadro RW), è probabile che l’Agenzia consideri te (disponente) come titolare effettivo del trust, specie se hai mantenuto qualche potere o se il trust è discrezionale senza beneficiari attuali. In teoria, se il trust è irrevocabile e tu non hai più poteri né diritto ai beni, non saresti tenuto al RW. Tuttavia, l’AE tende a richiedere ai disponenti di trust esteri la compilazione RW per cautela. Se non l’hai fatto, la sanzione amministrativa purtroppo è applicabile: 3-15% del valore del conto (la Svizzera è ora collaborativa, quindi fascia ordinaria). Puoi però difenderti chiedendo la riduzione della sanzione al minimo, evidenziando che all’epoca dei fatti vi era incertezza sull’obbligo (lo conferma la circ. 34/E/2022). Magari sostenendo che consideravi i figli titolari effettivi e pensavi spettasse a loro dichiarare (se maggiorenni). In parallelo, puoi presentare dichiarazione integrativa ora (ravvedimento) per regolarizzare e pagare la sanzione ridotta (lo 0,5% annuo circa se sono passati oltre 2 anni), anche questo potrebbe essere un argomento di trattativa.
Quanto alla tassazione dei redditi, se il trust non ha mai distribuito nulla e reinveste gli interessi nel conto, tu come beneficiario discrezionale non dovresti essere tassato finché non ricevi somme . L’Agenzia però potrebbe fare due cose: o interpostizione (dire che in realtà gestivi tu quel conto e quindi tassarti gli interessi ogni anno) o presumere una residenza italiana del trust (poco probabile se trustee e gestione sono all’estero). Se insiste sull’interposizione, la tua difesa sarà dimostrare che il trust è reale: trustee indipendente, tu non avevi accesso al conto (se puoi provare che non disponevi dei fondi, es. nessuna procura bancaria a tuo nome). Se vince questo punto – ovvero il trust è riconosciuto autonomo – allora gli interessi esteri accumulati nel trust non sono reddito tuo e non li devi dichiarare (né tassare). Li pagheranno i figli quando e se li riceveranno, a seconda del regime allora vigente. Insomma, puoi sostenere: “Non ho violato obblighi reddituali, perché non ho percepito redditi né avevo diritto a percepirli – ergo nessuna evasione IRPEF; al più ho mancato un obbligo formale RW in buona fede.” Questa linea è coerente col principio che i beneficiari discrezionali dichiarano solo a distribuzione avvenuta. Preparati a esibire lo trust deed e lettere di desiderio a riprova che era tua intenzione escludere te stesso e far beneficiare solo i figli (molto importante: se risulti anche tu beneficiario possibile, l’AE dirà “vedi che potevi essere beneficiario?” – dovrai controbattere evidenziando che era solo un’ipotesi remota o una clausola standard). Se emergono buoni argomenti, l’ufficio potrebbe limitarsi a sanzionare l’RW e lasciar perdere i redditi. In caso contrario, valuta il ricorso in Commissione: la giurisprudenza (anche di merito) tende a dare ragione al contribuente se il trust è chiaramente discrezionale e non vi sono prove di disponibilità occulta di redditi.
Q2: “Sono beneficiario di un trust opaco costituito alle Bahamas (paradiso fiscale). Nel 2023 il trust mi ha distribuito \$200.000, che io non ho dichiarato ritenendo fosse una liberalità esente. Ora mi è arrivato un avviso di accertamento che mi chiede IRPEF su quella somma, classificandola come ‘reddito di capitale da trust estero’. È corretto? Posso difendermi?”
A2: In base alla normativa italiana, sì, l’Agenzia la inquadra correttamente come reddito di capitale imponibile ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. g-sexies TUIR, trattandosi di somma percepita da un trust opaco localizzato in un Paese black list . È irrilevante che tu la veda come liberalità: fiscalmente è assimilata a un utile generato in un paradiso fiscale e trasferito a un residente . Quindi l’imposizione c’è e avresti dovuto indicarla in dichiarazione (quadro RL o RM a seconda dei casi) e pagarci l’IRPEF (o una imposta sostitutiva, ma più probabile l’ordinaria IRPEF). In difesa, il margine è sul quantum imponibile: puoi far valere la clausola “a meno che non sia possibile distinguere tra redditi e patrimonio” . Significa che se quei \$200.000 provenivano in parte dal capitale originariamente conferito al trust (già tassato magari come reddito del disponente all’epoca) e in parte da redditi accumulati, puoi chiedere di esentare la quota capitale. Dovresti ottenere dal trustee un rendiconto con l’origine delle somme: es. “50% proviene da patrimonio iniziale, 50% da interessi maturati”. Così, su \$100.000 potresti non dover nulla (in quanto mera restituzione di capitale), e pagare invece sulle restanti somme. Ovviamente l’onere della prova è tuo. Se non porti nulla, l’Agenzia tassa tutto. Un secondo profilo: la doppia imposizione internazionale. I \$200.000 magari derivavano da vendite di investimenti su cui il trust aveva pagato qualche imposta locale (anche se in Bahamas c’è zero tax, dunque probabile niente imposte). Se però il trust avesse pagato una tassa, potresti chiedere il credito per imposte estere. È più teoria che pratica in questi casi perché di solito i paradisi non tassano.
Un terzo punto: le sanzioni. Per omessa dichiarazione di quel reddito ti applicano sanzione 90-180% dell’imposta evasa, aumentata di 1/3 essendo da paradiso fiscale. Puoi cercare di ridurre le sanzioni invocando la tua buona fede: spiega che ritenevi (erroneamente) trattarsi di una donazione esente e che c’era obiettiva incertezza, specie se il trust era istituito da un familiare. A supporto, puoi menzionare che la prassi fino a pochi anni fa era effettivamente oscillante e che solo con la circolare 34/E (2022) e l’art. 44 g-sexies chiarito nel 2019 si è avuta certezza. Chiedi quindi almeno il minimo edittale (90%) o addirittura la disapplicazione per tenue gravità, se è un caso isolato e regolarizzi subito versando il dovuto. Inoltre, se tu ignoravi l’esistenza del trust e hai scoperto di essere beneficiario a fatto compiuto, sottolinealo: in casi estremi, l’assenza di dolo può essere valutata (anche se di norma per le sanzioni amministrative basta la colpa).
In parallelo, verifica anche il profilo IVIE/IVAFE: i \$200k erano su un conto? L’Agenzia potrebbe chiederti anche l’IVAFE (imposta sul valore attività finanziarie estere, 0,2% annuo). Se non lo ha fatto, valuta tu se emergere e pagarla perché tanto se era dovuta conviene mettersi in regola (magari rientra nel cumulo giuridico delle sanzioni).
Q3: “La mia situazione: trust offshore revocabile alle Isole Cook, di cui ero disponente e beneficiario, con conti non dichiarati. Il Fisco mi accerta redditi per 500.000 € e omessa dichiarazione RW. Ho tutte le carte contro: il trust era chiaramente un mio alter ego (anche se valido alle Cook). Che possibilità ho di ridurre i danni?”
A3: Da come la descrivi, sembra un caso in cui sarà molto difficile contestare nel merito l’interposizione. Un trust revocabile con te come beneficiario e magari anche con un trustee compiacente è praticamente uno sham trust. La Cassazione considererebbe altamente probabile l’interposizione fittizia, cioè tratterebbe quei beni e redditi come tuoi in tutto e per tutto. Le tue chance migliori sono allora nel negoziare una chiusura favorevole sul piano sanzionatorio e temporale. Ad esempio, potresti proporre all’Agenzia un accertamento con adesione in cui riconosci la materia imponibile (tanto è difficile negarla) ma chiedi il non applicazione delle sanzioni piene. Argomenti: hai aderito spontaneamente (remissione di eventuale penale), porterai i soldi in Italia (se li hai ancora) o comunque non ripeterai l’errore, etc. Nell’adesione per legge le sanzioni sono ridotte a 1/3 di quanto contestato. Se ti contestavano, ad esempio, 300.000 € di imposte evase con 540.000 di sanzioni (180%), con adesione potresti portarle a 180.000 €. È comunque enorme, ma puoi poi chiedere la rateazione in 8 anni. In più, verifica se puoi godere del ravvedimento speciale o di altre definizioni agevolate (nel 2023 c’era qualche possibilità in Legge di Bilancio, ma per il 2025 occorre vedere). Non contare su prescrizione breve: l’omessa dichiarazione è 8 anni ed essendo estero black list una volta era il doppio, quindi andranno indietro parecchio.
Un altro fronte: penale. Qui rischi sicuramente art. 4 o 5 D.Lgs. 74/2000 se le cifre sono queste, e pure art. 11 D.Lgs. 74/2000 se pensano tu l’abbia fatto per non pagare il fisco. Una mossa intelligente può essere pagare tutto il dovuto (imposte, interessi, sanzioni ridotte) il prima possibile: la sottrazione fraudolenta si estingue con il pagamento integrale del debito tributario prima della sentenza . Anche l’omessa dichiarazione può avere pena diminuibile fino alla metà se regolarizzi il debito. Quindi, se hai liquidità o beni, valuta di transare e pagare per mettere in sicurezza te e il patrimonio residuo. Inoltre, se cooperi, magari la Procura archivia per particolare tenuità, non essendoci più danno erariale. So che “pagare tutto” è la classica non-soluzione, ma a volte è la via meno onerosa sul lungo termine (ti eviti anni di processi e spese legali, e scongiuri misure restrittive).
Se invece vuoi tentare il contenzioso, sappi che difese fantasiose (tipo “il trust delle Cook è valido, i redditi erano del trust non miei”) non hanno sinora avuto successo in Cassazione: già in molte sentenze (es. Cass. 25490/2016, 21614/2016, 9745/2019) la Corte ha tassato al disponente redditi di trust revocabili esteri. Potresti provare un’eccezione di incostituzionalità sull’art. 44 g-sexies TUIR per violazione principi (es. parità di trattamento rispetto trust white list), ma onestamente è un long shot. Io suggerisco di puntare a limitare gli anni accertati (vedi se alcuni sono già decaduti, o se l’adesione può chiudere anche anni non espressamente inclusi) e di ottenere il cumulo giuridico delle sanzioni (invece di sommare 8 annualità al 150% ciascuna, chiedere di applicare la sanzione unica più grave aumentata, ecco un tecnicismo dove un tributarista può ridurti molto il montante sanzionatorio).
In sintesi, in situazioni del genere la difesa è quasi più finanziaria che legale: quantificare il danno e contrattare la riduzione delle penalità, magari offrendo una soluzione di chiusura (tipo “verso subito il capitale evaso se mi togliete interessi e metà sanzioni”). Se il tuo profilo non è da evasore seriale, l’Agenzia potrebbe acconsentire, preferendo incassare subito il grosso.
Q4: “Un trust estero ha investito in criptovalute (Ethereum) per conto mio (beneficiario). Nel 2021 ha realizzato forti guadagni poi reinvestiti. L’Agenzia mi contesta nel 2025 di non aver indicato nulla in RW né dichiarato plusvalenze. Devo pagare? E come viene calcolato, dato che le crypto erano su un wallet hardware non in un Paese specifico?”
A4: Le criptovalute hanno un trattamento peculiare. Prima di tutto, l’obbligo RW: formalmente le cripto andavano dichiarate anche nel 2021 (le istruzioni già dal 2019 lo prevedevano), ma molti non l’hanno fatto per scarsa chiarezza. Nel tuo caso, essendo beneficiario di trust, c’è il solito discorso: se eri beneficiario non discrezionale con diritto a quegli Ethereum, dovevi dichiararli (controvalore in €) in RW; se eri discrezionale e non hai ancora ricevuto nulla, in teoria no. Ma supponiamo che l’AE ti consideri titolare effettivo e richieda l’RW. La sanzione sarà del 3-15% del valore non dichiarato (le cripto non avendo Stato non subiscono il 6-30%). Quindi già qui un punto: se per assurdo ti avessero applicato 6-30%, errore! Va fatto correggere con riferimento al chiarimento AE 2023.
Poi c’è la questione plusvalenze: dal 2023 la legge considera le plusvalenze crypto realizzate dai privati come redditi diversi tassati al 26%, sopra una franchigia di €2.000. Nel 2021 però la normativa non era così esplicita: si assimilavano a valute estere, con tassazione solo se superavi €51.645 di giacenza per 7 giorni (vecchia regola delle valute). L’Agenzia però in interpelli del 2018-2021 interpretava diversamente. Ciò crea incertezza normativa rilevante. Se ti contestano redditi 2021, potresti difenderti dicendo che la norma è entrata in vigore dal 2023 e prima la tassazione non era chiara – quindi nessuna sanzione per incertezza normativa e forse nessun reddito tassabile se non superavi requisiti (ma se i guadagni erano forti, penso li superavi comunque i 51k). Tuttavia, occhio: la Finanziaria 2023 ha una norma di “sanatoria” per crypto: permette di dichiarare le plusvalenze 2021 non dichiarate pagando solo un’imposta ridotta del 3.5% + 0.5% di sanzione sul valore detenuto. Forse te l’hanno proposta? Ormai nel 2025 è tardino, quella finestra scadeva a novembre 2023. Se non hai aderito, potrebbero essere diventati inflessibili sul 26% pieno e sanzione 90-180% su imposta evasa.
Strategia difensiva: evidenziare “obiettiva incertezza prima del 2023”. La stessa circolare 30/E/2023 delle Entrate riconosce che è stata fatta una consultazione pubblica per chiarire la tassazione, segno che prima non era pacifica. Questo potrebbe salvarti dalle sanzioni (chiederne l’annullamento, almeno del 2021). Sulla sostanza, se le plusvalenze furono incamerate dal trust e reinvestite, si può argomentare che tu beneficiario discrezionale non ne hai ancora goduto e quindi non dovevi dichiararle nel 2021 (torniamo al discorso trust opaco/discrezionale: finché non c’è distribuzione, il beneficiario non dichiara redditi di capitale). Se regge l’argomento, i redditi resterebbero nel trust (che però essendo estero non li ha tassati – l’Agenzia replicherà: appunto per questo li attribuiamo a te come interposto!). Allora devi giocare sulla distinzione trust reale vs interposto. Se il trust è genuino, dire: “ok, il trust ha realizzato plusvalenze crypto nel 2021, ma all’epoca la legge non le imponeva – e comunque non le ho ricevute io, quindi non posso essere tassato personalmente”. L’Agenzia potrebbe replicare che le plusvalenze su crypto sono redditi “di natura finanziaria” che, se realizzati da un trust paradisiaco, sarebbero imponibili a te beneficiario per l’art. 44 g-sexies (in quanto redditi capitali da trust black list). Ma qui c’è un cavillo: g-sexies parla di redditi “corrisposti” dal trust. Se il trust nel 2021 non ti ha corrisposto nulla, quell’anno non c’è presupposto. Arriveranno a dire che dovevi comunque dichiarare perché titolare effettivo… Io punterei sulla linea: nessuna distribuzione = nessun reddito imponibile per me; obbligo RW formale vediamo, pago minima sanzione ma null’altro; plusvalenze le dichiarerò quando (e se) il trust mi pagherà qualcosa.
Visto l’ammontare grosso (“forti guadagni” immaginiamo decine/centinaia di migliaia di euro), non è escluso che l’Agenzia voglia anticipare la tassazione applicando la norma anti-paradisi anche senza distribuzione, forzando la mano. Se lo fa, potresti impugnare sostenendo l’errata interpretazione della norma (perché impone la “percezione”). Nel frattempo, però, magari col ravvedimento speciale potresti volontariamente dichiarare nel 2023 quelle plusvalenze pagando il 3.5% più sanzioncine (se la norma è ancora accessibile via remissione in bonis? Non so se c’è margine ex post). Insomma, la difesa qui è complessa per via del vuoto normativo pregresso. La buona notizia è che non c’è raddoppio sanzione (lo abbiamo detto) e potresti convincere il giudice che nel 2021 il quadro giuridico fosse così incerto da non giustificare sanzioni (magari applicando l’art. 6 comma 2 del D.Lgs. 472/97 – errore inevitabile).
Q5: “Sono trustee di un piccolo trust familiare residente in Italia, con un conto in Austria che non ho dichiarato nel modello Redditi del trust. Ora mi contestano l’omissione RW a nome del trust e vogliono sanzionare me come coobbligato. Possono farlo? Come mi comporto?”
A5: Sì, se il trust è fiscalmente residente, doveva presentare il quadro RW del proprio modello dichiarativo (essendo equiparato a ente non commerciale). In pratica tu come trustee avresti dovuto indicare il conto austriaco nella dichiarazione dei redditi del trust. Non avendolo fatto, la sanzione (3-15% o 6-30% se l’Austria fosse black list, ma non lo è) colpisce il trust in quanto soggetto d’imposta. Però il trust non è persona giuridica con patrimonio separato? Sì, ma per le obbligazioni tributarie il trust risponde con il proprio fondo. Se il fondo non paga, l’Agenzia può tentare di escutere i beni in trust o, più probabilmente, di chiamare in causa te ex art. 11 co. 2 D.Lgs. 472/97 (responsabilità di chi amministra beni altrui). Quest’articolo dice che chi è obbligato per legge al pagamento di tributi altrui risponde pure di sanzioni se ha agito con dolo o colpa. Tu, come rappresentante fiscale del trust, rientri in questa previsione. Quindi sì, potrebbero imputarti la sanzione se ritengono tu abbia negligentemente omesso.
Per difenderti, potresti argomentare che non c’è stata evasione d’imposta (il trust magari era trasparente e i beneficiari hanno dichiarato i redditi, quindi la mancata indicazione RW era un fatto formale e non doloso). A volte, in casi di sole violazioni formali, le commissioni annullano le sanzioni per mancanza di colpevolezza. Inoltre, puoi ancora fare ravvedimento operoso presentando una integrativa per il trust: se lo fai prima che l’accertamento sia definitivo, paghi sanzione ridotta e chiudi. Come trustee hai il dovere di sanare gli errori del trust. La riduzione se ravvedi ora (oltre 2 anni di ritardo) è a 1/6 del minimo: cioè 0,5% invece di 3%, se l’Austria è white list. Più 0,2% di interessi circa, cifre modeste. Ciò aiuterebbe a dimostrare la tua buona fede e potrebbe convincere l’ufficio a non applicarti la sanzione piena.
Infine, sappi che come trustee hai diritto di rivalerti sul fondo del trust per queste spese (o sui beneficiari se il trust è trasparente), perché rientrano nei costi di amministrazione. Quindi non dovresti pagarle di tasca tua, salvo tu abbia commesso gravi violazioni. Se il trust ha ancora attivo quel conto, userai quei soldi per pagare il ravvedimento.
Tabelle riepilogative finali
Trattamento fiscale dei redditi di un trust estero con beneficiari residenti (sintesi):
Tipologia di trust estero | Situazione fiscale | Tassazione in Italia | Riferimenti |
---|---|---|---|
Trust trasparente estero (beneficiari individuati)<br>(Paese white list o black list, irrilevante ai fini reddito) | Beneficiari hanno diritto a redditi del trust. Trust non soggetto IRES estera (in quanto trasparente, i redditi si considerano dei beneficiari). | Beneficiari residenti tassano per trasparenza la loro quota di reddito, indipendentemente dalla percezione . Se il trust è in black list, la residenza non influisce perché tanto i redditi li imputano comunque ai beneficiari anno per anno. Quadro RW: beneficiari indicano quota patrimonio trust e investimenti esteri pro-quota. | TUIR 73 c.2; Circolare AE 34/2022 §5.2. |
Trust opaco estero in Paese collaborativo (no regime fiscale privilegiato) | Beneficiari senza diritto ai redditi (discrezionali o solo finali). Trust paga (eventuali) imposte all’estero, non in Italia (non residente). | Nessuna tassazione immediata in Italia sui redditi accumulati nel trust. Quando il trust distribuisce ai beneficiari residenti, tali somme non sono considerate redditi di capitale ai sensi art. 44 TUIR (in quanto il trust non è paradisiaco). Potrebbero però essere viste come liberalità soggette a imposta donazione (in base al rapporto col disponente). Quadro RW: beneficiari non discrezionali dichiarano annualmente pro-quota il patrimonio; beneficiari discrezionali dichiarano solo l’anno di distribuzione l’importo attribuito (credito). Il disponente potrebbe essere obbligato a RW se mantiene poteri. | Art. 44 c.1 lett. g-sexies TUIR (esclusione tassazione se no paradiso); Circ. 34/E/22. |
Trust opaco estero in Paese black list (regime fiscale privilegiato) | Trust localizzato in giurisdizione privilegiata. Beneficiari non hanno diritti fino a distribuzione. | Redditi del trust tassati in Italia al beneficiario residente quando percepiti, come redditi di capitale . Presunzione che tutta la somma sia reddito, salvo prova contraria . Esempio: trust alle Cayman accumula interessi, nel 2025 paga €50k a beneficiario italiano – questi dichiara €50k come reddito di capitale 2025 (aliquota IRPEF o 26% a seconda del tipo) e paga imposta. Nessuna ulteriore tassazione in caso di trust genuino fino a distribuzione (no imputazione per trasparenza). Quadro RW: analogamente al caso precedente – obbligo per beneficiari individuati di monitorare (vedi sopra) ma in pratica in trust black list spesso beneficiari sono discrezionali, quindi RW al momento attribuzione credito. | Art. 44 c.1 lett. g-sexies TUIR; Circ. 34/E/22 pag. 39-40. |
Trust interposto (fittizio) (indipendentemente da dove è istituito) | Trust privo di reale autonomia, interponente italiano effettivo possessore. | Tassazione “look through” al 100% sul disponente/interponente: tutti i redditi prodotti dai beni “in trust” sono imputati direttamente a lui per competenza. Se il trust aveva pagato tasse (es. IRES) credendo di essere autonomo, si evita doppia tassazione detraendo quell’importo dall’IRPEF dovuta dall’interponente. Quadro RW: l’interponente deve dichiarare tutti gli investimenti esteri e attività estere formalmente intestati al trust come propri (perché ne è titolare effettivo). Beneficiari nominali non tassati (i redditi già tassati al vero possessore) . | Art. 37 c.3 DPR 600/73; Cass. n. 9096/2025; Circ. 34/E/22 §5.3. |
Tabella 2 – Schema di tassazione dei trust esteri con beneficiari italiani, a seconda della natura del trust.
Sanzioni per violazioni relative ad attività estere non dichiarate (monitoraggio fiscale):
- Omessa/infedele dichiarazione Quadro RW – Paese white list: sanzione amministrativa dal 3% al 15% dell’importo non dichiarato.
- Omessa/infedele dichiarazione Quadro RW – Paese black list: sanzione dal 6% al 30% (ovvero raddoppio).
- Omessa dichiarazione cripto-attività: sanzione 3% – 15%, senza raddoppio (indipendentemente da dove sono detenute).
- Omessa dichiarazione di redditi esteri (interessi, dividendi, ecc.): sanzione dal 90% al 180% dell’imposta evasa, aumentabile di 1/3 se provenienza black list. (Es.: interessi non dichiarati su conto svizzero → sanzione 90-180% imposta; se conto a Monaco → 120-240%).
- Riduzioni in caso di regolarizzazione spontanea (ravvedimento): possibilità di ridurre le sanzioni in misura crescente quanto più tempestivamente si regolarizza. Ad es., ravvedimento entro 1 anno -> sanzione RW ridotta a 1/8 del minimo (0,375% white list, 0,75% black list); entro 2 anni -> 1/7 del minimo (∼0,43% WL); oltre 2 anni -> 1/6 del minimo (0,5% WL). Ravvedimento dopo PVC -> 1/6 del minimo con aumenti.
- Profili penali: dichiarazione infedele (art.4) se imposta evasa > €100k e beni sottratti > €2M; omessa dichiarazione (art.5) se imposta evasa > €50k; sottrazione fraudolenta (art.11) se si costituisce trust per sottrarsi a pagamento > €50k (pena aggravata se > €200k) . Estinzione dei reati tributari in caso di integrale pagamento del debito prima del dibattimento (per art.11) o pene ridotte con pagamento integrale (per art.4-5).
Tabella 3 – Sanzioni amministrative (e cenni penali) per omessa dichiarazione di conti/attività estere tramite trust.
Conclusione: Affrontare un accertamento su trust con conti non dichiarati richiede un approccio strutturato: conoscere a fondo la normativa (in evoluzione), analizzare la propria posizione fattuale rispetto ai concetti chiave (titolarità effettiva, beneficiario discrezionale vs individuato, trust paradisiaco vs white list, ecc.), far valere la giurisprudenza più recente a proprio favore (es. Cass. 9096/2025 sul principio di effettività e la rilevanza dell’interposizione reale), ed eventualmente sanare spontaneamente dove possibile per ridurre le sanzioni. Dal punto di vista del debitore-contribuente, è fondamentale dimostrare la propria buona fede e la sostanza economica lecita dell’operazione di trust: un trust con finalità genuine, amministrato correttamente, non deve trasformarsi in un boomerang fiscale. Gli strumenti difensivi esistono – dalle eccezioni procedurali alle prove documentali – e, come abbiamo visto, la stessa prassi dell’Amministrazione (circ. 34/E) offre appigli utili per i contribuenti onesti (ad esempio circa quando non vi era obbligo dichiarativo). Nel contempo, chi ha utilizzato il trust in modo spregiudicato deve essere consapevole che oggi l’Amministrazione finanziaria dispone di mezzi e informazioni per “guardare attraverso” queste strutture e colpire il reale possessore dei patrimoni occultati. Pertanto, la migliore difesa è sempre la correttezza preventiva: se si sceglie di impiegare un trust estero, farlo con trasparenza, dichiarando quanto dovuto e mantenendo le finalità legittime. In sede di accertamento, però, quando il danno è fatto, questa guida mostra come sia ancora possibile difendere efficacemente i propri diritti, minimizzando le conseguenze e – nei casi virtuosi – ottenendo il riconoscimento della piena legittimità del trust e delle sue esenzioni.
Fonti utilizzate: Circolare AE 34/E/2022 ; Risposta AE interpello 145/2025; D.L. 167/1990 art. 4-5; Cass. nn. 9096/2025, 9445/2025, 13626/2019; Circ. AE 38/E/2013; art. 37 DPR 600/73; art. 44 TUIR lett. g-sexies; art. 73 TUIR c.3 ; Tar Lazio sent. 1077/2020 (valute virtuali); Circolare AE 30/E/2023 (cripto); D.Lgs. 74/2000 art. 11 ; Cass. pen. 2022 n. 36047 (trust autodichiarato e sottrazione fraudolenta);
Accertamento su Trust con Conti non Dichiarati: come difendersi
Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate contesta a un trust la mancata dichiarazione di conti bancari o attività estere?
Vuoi capire quali sono i rischi e come puoi difenderti?
I trust sono strumenti giuridici legittimi di pianificazione patrimoniale, ma quando detengono conti o beni all’estero diventano oggetto di controlli molto severi. L’omessa indicazione nel quadro RW o la mancata tassazione dei redditi collegati può portare ad accertamenti e sanzioni pesanti.
👉 Non sempre, però, il trust è tenuto a dichiarare o a pagare in Italia: molto dipende dal tipo di trust e dalla sua effettiva residenza fiscale.
⚖️ Perché scatta l’accertamento
- Omissione del quadro RW per monitoraggio fiscale di conti esteri intestati al trust;
- Mancata dichiarazione dei redditi prodotti all’estero dai beni conferiti;
- Contestazione della residenza fiscale: trust formalmente estero ma considerato residente in Italia;
- Utilizzo del trust come schermo per sottrarre capitali al Fisco.
📌 Conseguenze possibili
- Recupero delle imposte non versate in Italia;
- Sanzioni dal 3% al 15% (o fino al 30%) degli importi non dichiarati all’estero;
- Applicazione di interessi di mora;
- Nei casi più gravi, contestazione di sottrazione fraudolenta e procedimenti penali;
- Sequestro dei beni conferiti nel trust.
🔍 Come difendersi
- Analizza la natura del trust: se è opaco, trasparente, residente o non residente in Italia.
- Verifica gli obblighi dichiarativi: non tutti i trust hanno lo stesso trattamento fiscale.
- Raccogli la documentazione bancaria ed estera: estratti conto, contratti, certificazioni fiscali.
- Dimostra la residenza effettiva se il trust è realmente gestito all’estero.
- Predisponi memorie difensive o ricorso per contestare sanzioni sproporzionate o accertamenti illegittimi.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza l’accertamento sul trust e i conti contestati;
- 📌 Verifica la residenza fiscale e la tipologia di trust, ricostruendo gli obblighi effettivi;
- ✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi per ridurre o annullare le pretese fiscali;
- ⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
- 🔁 Elabora strategie di regolarizzazione dei conti esteri per ridurre rischi e sanzioni.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in fiscalità dei trust e pianificazione patrimoniale internazionale;
- ✔️ Specializzato in accertamenti su attività estere e quadro RW;
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Un accertamento su trust con conti non dichiarati può avere conseguenze pesanti, ma non sempre è fondato: la residenza fiscale e la natura del trust sono determinanti.
Con una difesa legale mirata puoi dimostrare la correttezza della gestione, ridurre sanzioni e proteggere il patrimonio conferito.
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