Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza per false fatturazioni tra consorzi? Le operazioni infraconsortili sono spesso oggetto di controlli mirati, perché in alcuni casi vengono considerate strumenti per generare costi fittizi o per detrarre indebitamente l’IVA. Se il Fisco ritiene che le fatture siano false, il rischio non è solo fiscale ma anche penale.
Che cosa si intende per false fatturazioni tra consorzi
Le contestazioni possono riguardare:
– Fatture per operazioni mai avvenute tra il consorzio e le imprese consorziate
– Fatture emesse solo per creare costi deducibili o IVA detraibile
– Operazioni gonfiate rispetto al valore reale delle prestazioni
– Giri di fatture tra consorzi e società collegate per generare crediti fittizi
Quando scattano le contestazioni del Fisco
– Se le prestazioni fatturate non trovano riscontro in contratti, documenti di trasporto o altra documentazione reale
– Se i consorzi emettono fatture verso le consorziate senza che vi sia stata una prestazione effettiva
– Se vengono riscontrati pagamenti anomali, retrocessioni di denaro o movimenti bancari sospetti
– Se i costi fatturati non sono proporzionati ai volumi d’attività o al reale giro d’affari
– Se l’amministrazione ritiene che il consorzio sia stato creato solo come “cartiera”
Cosa rischi con una contestazione di false fatturazioni
– Recupero delle imposte e indetraibilità dell’IVA collegata alle fatture
– Applicazione di sanzioni fiscali molto elevate
– Contestazione del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (con pene detentive)
– Contestazione del reato di emissione di fatture false a carico degli amministratori del consorzio
– Sequestro preventivo dei beni aziendali e personali degli amministratori
– Grave danno reputazionale per il consorzio e le imprese coinvolte
Come difendersi dalle contestazioni
– Dimostrare la reale esistenza delle prestazioni attraverso contratti, ordini, corrispondenza e prove di esecuzione
– Fornire documenti di trasporto, relazioni tecniche o report che attestino i servizi resi
– Contestare errori dell’Agenzia delle Entrate basati su presunzioni prive di riscontri concreti
– Evidenziare la buona fede delle imprese consorziate, soprattutto se ignare di eventuali condotte illecite del consorzio
– Impugnare gli avvisi di accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e difendersi parallelamente in sede penale
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare le contestazioni fiscali e penali per individuare i punti deboli dell’accusa
– Costruire un dossier difensivo con documentazione contabile e prove concrete dell’attività consortile
– Contestare l’uso delle presunzioni fiscali prive di riscontri oggettivi
– Difendere il consorzio e le imprese coinvolte davanti ai giudici tributari e penali
– Negoziare eventuali soluzioni conciliative con l’Agenzia delle Entrate per ridurre le sanzioni
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione fiscale
– La riduzione delle imposte e delle sanzioni richieste
– La revoca dei sequestri preventivi e la tutela dei beni aziendali e personali
– La protezione della reputazione delle imprese coinvolte
– La possibilità di dimostrare la buona fede ed evitare la responsabilità penale
⚠️ Attenzione: nelle contestazioni per false fatturazioni tra consorzi, il Fisco tende ad assumere che ogni operazione sospetta sia simulata. Ma non tutte le anomalie sono indice di frode: con una difesa ben documentata è possibile ribaltare la presunzione di falsità.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in difesa tributaria e penale-tributaria – ti spiega come affrontare le contestazioni per false fatturazioni tra consorzi e quali strategie adottare per difendere la tua attività.
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Introduzione
Le false fatturazioni tra consorzi rappresentano una problematica complessa e sempre più frequente nel panorama fiscale e penale italiano. Per false fatture si intendono quelle emesse per operazioni inesistenti, ossia prive di una reale prestazione sottostante, oppure intestate a soggetti diversi da quelli che hanno realmente eseguito l’operazione (c.d. fatture soggettivamente false). Nel contesto dei consorzi di imprese – siano essi consorzi stabili o consorzi ordinari – queste pratiche possono manifestarsi in vari modi: ad esempio, mediante sovrafatturazioni interne, fittizi subappalti tra consorzio e consorziate, o tramite l’interposizione di società cartiere (come cooperative di comodo) all’interno della filiera consortile. Tali schemi fraudolenti mirano spesso a evadere l’IVA o a creare costi fittizi per abbattere il reddito imponibile del consorzio o delle imprese consorziate.
Dal punto di vista del debitore (sia esso l’imprenditore consorziato, l’amministratore del consorzio o la società coinvolta), difendersi da simili contestazioni richiede la padronanza di un articolato quadro normativo e giurisprudenziale. Occorre infatti destreggiarsi tra normative tributarie (che prevedono il recupero di imposte e l’irrogazione di pesanti sanzioni amministrative) e normative penali (che puniscono le condotte fraudolente con pene detentive severe). Il tutto è complicato dalla particolare natura giuridica dei consorzi, che per loro finalità mutualistica tendono a operare “in pareggio” tra costi e ricavi delle consorziate, creando talora incertezze sul corretto trattamento fiscale delle operazioni di ribaltamento dei costi e ricavi.
In questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – offriremo un’analisi approfondita delle norme italiane applicabili, con un taglio avanzato ma dal linguaggio il più possibile chiaro e divulgativo. Verranno illustrate le strategie difensive a disposizione di avvocati, imprese e privati che si trovino ad affrontare un’accusa di false fatturazioni in ambito consortile. Supporteremo ogni concetto con riferimenti a fonti autorevoli, incluse le più recenti sentenze di legittimità e gli ultimi interventi normativi (come la riforma del 2024 del sistema sanzionatorio tributario). Saranno inoltre presentate tabelle riepilogative, casi pratici simulati e una sezione di Domande & Risposte per chiarire i dubbi frequenti. Il tutto dal punto di vista del debitore, ossia di chi subisce la contestazione, al fine di capire come difendersi efficacemente tanto in sede tributaria quanto in sede penale.
I consorzi tra imprese: quadro generale e profili fiscali
Prima di esaminare le contestazioni specifiche sulle false fatturazioni, è utile inquadrare brevemente cosa siano i consorzi tra imprese e come operano sul piano giuridico e fiscale. In Italia esistono diverse forme di consorzio, con caratteristiche e finalità parzialmente differenti:
- Consorzio ordinario di imprese: è un accordo contrattuale tra imprese (di norma regolato dagli artt. 2602 e segg. del codice civile) volto a disciplinare un’attività comune o a svolgere determinate funzioni per conto dei consorziati. Può avere o meno personalità giuridica. Spesso, nei contratti pubblici, i consorzi ordinari (detti anche ATI – associazioni temporanee di imprese) si costituiscono per eseguire insieme un appalto, suddividendo i lavori tra le imprese consorziate. Fiscalmente, a seconda della struttura, possono operare attraverso una società consortile (es. S.r.l. consortile) oppure tramite un mandato con rappresentanza a una capogruppo. In entrambi i casi, le fatturazioni interne (dalle imprese al consorzio o viceversa) servono a trasferire ai consorziati i ricavi e i costi relativi all’attività consortile.
- Consorzio stabile: è una forma di consorzio prevista dalla normativa sugli appalti pubblici (art. 45, D.Lgs. 50/2016 e seguenti), costituito in forma di società consortile (di regola con personalità giuridica) da imprese che intendono operare stabilmente in comune per una pluralità di commesse. Ha durata minima pluriennale e una struttura più definita. Il consorzio stabile agisce normalmente in nome proprio verso i terzi (rappresentanza esterna), acquisendo commesse che poi realizza tramite le consorziate. Fiscalmente, il consorzio stabile emette fattura al committente finale per l’intero corrispettivo dell’appalto; quindi “ribalta” i ricavi alle imprese consorziate esecutrici, trattenendo tipicamente una quota a titolo di compenso di coordinamento. La mutualità consortile fa sì che spesso il consorzio ambisca al pareggio di bilancio, trasferendo alle consorziate tutti i proventi al netto delle spese di gestione.
- Società consortili: sia i consorzi ordinari sia quelli stabili spesso adottano la veste di società consortile (ex art. 2615-ter c.c.), cioè società di capitali o cooperative costituite “allo scopo di svolgere determinate attività consortili” per i soci. Queste società seguono le regole delle S.r.l./S.p.A. ma sono caratterizzate dallo scopo mutualistico (non lucrativo verso terzi). In ambito tributario, la Cassazione ha chiarito che il perseguimento dello scopo consortile non esclude che la società consortile possa svolgere anche attività commerciali con scopo di lucro distinto – se previsto dallo statuto – e produrre utili . Ciò significa che un consorzio può avere margini di profitto propri (purché nel rispetto dei patti consortili), senza che questo sia di per sé illecito. Tuttavia, è prassi comune che le società consortili chiudano i conti in pareggio, ripartendo costi e ricavi.
Nella tabella seguente riepiloghiamo le principali tipologie di consorzio e i relativi aspetti fiscali:
Tipo di consorzio | Struttura giuridica | Operatività esterna | Fatturazione tipica | Scopo |
---|---|---|---|---|
Consorzio ordinario (ATI) | Contratto consortile; spesso società cons. | Può averla (se ha sogg. giur.) o operare tramite capogruppo | – Se con sogg. giur.: Consorzio fattura al cliente, consorziate fatturano al consorzio per la loro parte.<br>– Se solo ATI: Ogni impresa fattura la sua parte al cliente (capogruppo coordina). | Mutualistico (nessun lucro verso terzi; suddivisione commessa) |
Consorzio stabile | Società consortile (es. S.r.l. cons.) | Sì (proprio codice fiscale/P.IVA) | Consorzio fattura intero importo al cliente; poi fattura/acquista dalle consorziate i lavori/servizi eseguiti da ciascuna, trattenendo un fee di coordinamento. | Mutualistico, ma con organizzazione stabile comune. Il consorzio spesso pareggia costi/ricavi salvo fee. |
Rete di imprese (contratto di rete con soggettività) | Contratto di rete (talora con soggettività giuridica) | Sì, se iscritta al registro imprese come soggetto autonomo | Simile a consorzio: la rete fattura a terzi e ripartisce tra imprese retiste i proventi/costi. | Collaborazione per obiettivi comuni (non necessariamente solo appalti). |
Società consortile (generica) | S.r.l., S.p.A. o coop con clausola consortile | Sì, è persona giuridica autonoma | A seconda dell’attività: può operare come fornitrice di servizi ai soci (fatturando loro quote di costo) o come capocommessa verso esterni e sub-appaltatrice ai soci. | Mutualistico (servizio ai soci) ma può avere anche attività lucrative accessorie . |
Perché questa distinzione è importante? Perché la qualificazione delle operazioni tra consorzio e consorziate dipende dal modello adottato. Ad esempio, in un consorzio stabile la “doppia fatturazione” (dal consorzio al cliente e dalle consorziate al consorzio) è fisiologica e, di per sé, legittima. Tuttavia, occorre rispettare correttamente la normativa IVA e delle imposte dirette in tali ribaltamenti. La giurisprudenza ha affrontato più volte queste tematiche: ad esempio, ha stabilito che nel ribaltamento parziale dei ricavi di un consorzio con attività esterna, la quota trattenuta dal consorzio come proprio compenso non costituisce occultamento di ricavi se giustificata dalle funzioni consortili svolte . In altre parole, il consorzio può legittimamente trattenere una percentuale per le proprie spese generali o attività di coordinamento senza dover trasferire integralmente tutti i ricavi alle consorziate, purché ciò avvenga in modo trasparente e secondo accordi.
Di contro, quando la fatturazione interna al consorzio viene usata per finalità elusive o fraudolente – ad esempio per creare costi artificiosi nelle consorziate o per generare crediti IVA indebiti – allora si entra nell’alveo delle false fatturazioni. Vediamo nel dettaglio il quadro normativo che disciplina e sanziona tali condotte.
Normativa italiana sulle false fatturazioni (profili tributari e penali)
Le operazioni di emissione o utilizzo di fatture false integrano violazioni sia di natura fiscale (con conseguenze sul piano amministrativo e civilistico) sia di natura penale. In questa sezione esamineremo le principali disposizioni normative, distinguendo i due ambiti, tenendo presente che spesso le vicende si intrecciano (un accertamento fiscale può sfociare in una denuncia penale, e viceversa un procedimento penale può alimentare il contenzioso tributario).
Divieto di deduzione dei costi da reato e sanzioni tributarie
Dal punto di vista tributario, la regola fondamentale è che i costi documentati da fatture false non sono deducibili dal reddito d’impresa, né danno diritto a detrazioni IVA. Questo principio, oltre a discendere dal buon senso (nessuna spesa fittizia può ridurre le tasse), è codificato espressamente nella legge:
- L’art. 14, comma 4-bis, della Legge 24 dicembre 1993 n. 537 (come modificato dall’art. 8 D.L. 16/2012, conv. in L. 44/2012) prevede che «nella determinazione dei redditi […] non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale sia stato esercitato il’azione penale…» . In sostanza, se una spesa è correlata a un’attività criminosa dolosa (come un’evasione fiscale realizzata con fatture fittizie), essa non può essere dedotta. La norma prevede tuttavia che, se il procedimento penale si conclude con una piena assoluzione, il contribuente ha diritto al rimborso delle imposte pagate in più a causa della indeducibilità poi risultata non dovuta .
- Un importante corollario introdotto nel 2012 (in chiave garantista) è che l’indeducibilità automatica non si applica ai costi risultanti da operazioni soggettivamente inesistenti, fermo restando che per l’IVA valgono le regole ordinarie . Cosa significa? Significa che se un’operazione c’è stata realmente ma con un diverso soggetto (esempio tipico: merce consegnata da Tizio ma fatturata da Caio, società “cartiera”), allora, ai fini delle imposte sui redditi, il costo può essere dedotto se e solo se: (a) il costo è effettivamente sostenuto dall’impresa (è uscito denaro, la prestazione è avvenuta), (b) rispetta i criteri generali di effettività, inerenza, competenza, certezza e determinabilità previsti dall’art. 109 TUIR, e (c) non vi è stata una condanna penale definitiva per il reato connesso . In altri termini, il nuovo art. 14, co.4-bis consente di tassare il reddito reale dell’impresa anche se quest’ultima ha usato fatture soggettivamente false, evitando una doppia penalizzazione (penale + fiscale) quando comunque l’azienda ha sostenuto un costo effettivo . Come vedremo, la Cassazione ha definito questo orientamento “epocale” perché supera la precedente linea dura che negava sempre la deduzione di costi fittizi anche soggettivi: oggi, grazie alla modifica del 2012, «i costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili se effettivamente sostenuti e inerenti, anche se il contribuente era consapevole del carattere fraudolento» . Resta invece sempre esclusa la deducibilità di costi da operazioni oggettivamente inesistenti (poiché manca in assoluto la prestazione, non c’è un costo reale) e dei costi direttamente utilizzati per compiere delitti (ad es., il pagamento di una tangente documentato come “consulenza” non è deducibile in quanto parte stessa di un’attività illecita).
- Sul versante IVA, la disciplina è più rigida a tutela dell’Erario: è in linea di principio precluso detrarre l’IVA assolta su fatture false, anche se l’inesistenza è solo soggettiva . Ciò perché la frode IVA tipicamente avviene con interposizione di un soggetto che non versa l’imposta, quindi consentire all’acquirente la detrazione anche se “in buona fede” comporterebbe comunque un danno erariale. La Corte di Cassazione ha infatti ripetutamente affermato che “in tema d’IVA, è precluso il diritto alla detrazione nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo, poiché l’indicazione mendace di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti” . Questo orientamento tuttavia deve essere coordinato con il diritto UE e la più recente giurisprudenza, che richiede di verificare la buona fede del cessionario. Infatti, la Cassazione tributaria (spinta dalla Corte di Giustizia UE) ha recentemente cambiato rotta sul punto, stabilendo che per negare la detrazione IVA in caso di operazioni soggettivamente inesistenti l’Amministrazione deve provare anche la consapevolezza del destinatario della frode, salvo poi permettere al contribuente di dimostrare di aver agito senza saperlo e con la massima diligenza . In particolare, due pronunce di riferimento sono la Cass. n. 24471/2022 e la Cass. n. 35091/2023: esse hanno affermato che “la semplice esistenza di una cartiera non basta a dire che l’acquirente non abbia ricevuto la merce” e che serve provare indizi di “scientia fraudis” del cessionario . Questo è rilevante in ottica difensiva: se il contribuente dimostra di aver verificato i fornitori ed essere stato tratto in inganno, può sostenere l’illegittimità del recupero IVA in mancanza di prova di sua collusione.
Oltre alla ripresa a tassazione dei maggiori imponibili e al diniego di detrazione IVA, l’Amministrazione finanziaria applica una serie di sanzioni amministrative tributarie, previste dal D.Lgs. 471/1997 e da leggi collegate. In caso di false fatturazioni, tipicamente vengono contestate:
- La sanzione per dichiarazione infedele (art. 1 D.Lgs. 471/97), oggi dal 90% al 180% dell’imposta dovuta o della differenza di credito emergente . Questa copre l’utilizzo di fatture false in dichiarazione (componenti negativi fittizi). Spesso l’Ufficio opta per questa sanzione generale (più grave) in luogo di quella specifica sulla singola detrazione IVA.
- La sanzione del 90% dell’IVA indebitamente detratta (art. 6, co.6, D.Lgs. 471/97) . Si applica quando viene contestata specificamente l’indebita detrazione IVA su fatture inesistenti (tipico nei casi di soggettiva inesistenza con fornitore che non versa l’IVA).
- La sanzione del 25%–50% dell’ammontare dei costi indeducibili (introdotta dall’art. 14, co.4-bis L. 537/93) . È una sanzione aggiuntiva che colpisce proprio la violazione del divieto di dedurre costi da reato: se un costo risulta indeducibile perché riferito a un reato (es. fattura falsa), oltre alle altre sanzioni viene irrogata questa percentuale sull’importo del costo stesso.
Tali sanzioni, in teoria, potrebbero cumularsi tra loro. In pratica, vige il principio del ne bis in idem tributario e del favor rei: di solito, in sede di accertamento, l’Ufficio irroga la sanzione più grave tra quelle concorrenti, evitando duplicazioni sanzionatorie per lo stesso fatto . Ad esempio, se viene contestata la dichiarazione infedele per l’intero importo, non si sommerà anche il 90% di IVA per la stessa violazione, ma potrebbe aggiungersi la sanzione sui costi indeducibili. Il contribuente che si trovi davanti a sanzioni cumulative potrà comunque far valere tali principi per ridurle.
Va ricordato che il contribuente può attivare strumenti di definizione agevolata o ravvedimento prima che la violazione sia contestata ufficialmente: con il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/97) si possono regolarizzare spontaneamente omissioni fiscali con riduzione delle sanzioni (fino a 1/5 del minimo se fatto tardivamente ma prima di un controllo). Tuttavia, nel caso di false fatture è raro che si ricorra a ravvedimento, trattandosi spesso di condotte deliberate scoperte dall’amministrazione; se però l’impresa si accorge di errori o di essere stata coinvolta suo malgrado, sanare prima possibile può evitare il peggio (anche come argomento di buona condotta).
Infine, non dimentichiamo le garanzie procedimentali dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000) che il debitore deve far valere nella propria difesa in sede amministrativa: ad es., il diritto al contraddittorio prima di un accertamento (specie se “a tavolino”), il diritto a una motivazione chiara dell’avviso di accertamento e al accesso agli atti; e ancora, la non applicazione di sanzioni per obiettiva incertezza normativa (art. 6, co.2, L. 212/2000). È vero che in materia di false fatture l’incertezza normativa è difficile da invocare (il divieto è chiaro), ma potrebbero esservi aree grigie ad esempio sulla corretta aliquota IVA nel ribaltamento consortile o sulla qualifica di una spesa come inerente o meno: in questi ambiti il contribuente può sostenere di aver interpretato in buona fede una norma poco chiara, chiedendo l’esclusione delle sanzioni . In generale, lo spirito collaborativo e di buona fede (art. 10, co.1, L.212/2000) può essere un argomento: se il consorziato ha fatto il possibile per verificare la genuinità delle operazioni, ciò andrà evidenziato, pur sapendo che – come osservato – i giudici tributari tendono a escludere la buona fede quando la falsità è provata .
Fatture false come reati tributari: dichiarazione fraudolenta ed emissione di documenti falsi
Parallelamente alle conseguenze fiscali, l’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti costituiscono reati tributari previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74. Si tratta di illeciti penali progettati per colpire le più insidiose forme di evasione, ossia quelle attuate mediante documenti contabili falsi che ostacolano l’attività di accertamento. In particolare, le due fattispecie chiave sono:
- Art. 2 D.Lgs. 74/2000 – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. È il reato commesso da chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, indica in una dichiarazione fiscale elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture false. In pratica è il delitto di chi utilizza fatture false (tipicamente, l’azienda che registra fatture inesistenti tra i costi o l’IVA a credito e poi presenta la dichiarazione “gonfiata”). Si noti che perché vi sia reato è necessario che la fattura falsa confluisca in una dichiarazione presentata: se uno si limita a registrarla in contabilità ma non la porta in dichiarazione, non c’è ancora il delitto di dichiarazione fraudolenta (potrebbe configurarsi un tentativo, ma non l’ipotesi consumata). L’elemento soggettivo è il dolo specifico di evadere le imposte. La pena prevista attualmente è la reclusione da 4 a 8 anni , significativamente aumentata rispetto al passato dalla riforma del 2019 (prima era da 1 anno e 6 mesi a 6 anni). È prevista un’attenuazione di pena (art. 2, co.2-bis) se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a 100.000 € per periodo d’imposta: in tal caso la reclusione scende da 1 anno e 6 mesi a 6 anni . Attenzione: questa soglia di 100.000 € non è una soglia di punibilità, ma solo una soglia per diminuire la pena. Dunque, anche un singolo euro di falso in fattura costituisce reato (in ciò differisce da altre frodi fiscali che hanno soglie di non punibilità). La Corte Costituzionale ha considerato legittima l’assenza di soglia minima per il reato di utilizzo di fatture false, data la particolare insidiosità di tale condotta che “inquina” i documenti contabili . Ai fini della consumazione del reato, la Cassazione ha chiarito che non è necessario che l’evasione si realizzi: basta presentare la dichiarazione fraudolenta con l’intento di evadere, anche se poi l’illecito viene scoperto o la detrazione negata . Ciò che rileva è l’inganno insito nell’uso di documenti falsi per sviare il Fisco, indipendentemente dal successo dell’evasione.
- Art. 8 D.Lgs. 74/2000 – Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. È il reato speculare, posto a carico di chi emette o rilascia fatture false allo scopo di consentire a terzi l’evasione. In pratica è il delitto tipico dell’amministratore della “cartiera” o della società compiacente che funge da fornitore fittizio. La condotta si considera consumata al momento dell’emissione o consegna del documento falso all’altra parte . Anche qui non serve che l’evasione del destinatario si realizzi: il semplice fatto di mettere in circolazione una fattura fittizia con quell’intento basta a configurare il reato. La pena è la stessa dell’art. 2, ossia reclusione 4-8 anni (ridotta a 1½-6 anni se l’importo complessivo delle fatture false per periodo d’imposta è inferiore a 100.000 €, cfr. art. 8, co. bis). La Cassazione ha più volte ribadito che anche le fatture soggettivamente false rientrano nella fattispecie: ad esempio, se una società emette fattura a fronte di operazioni svolte in realtà da un’altra società, ciò rientra comunque nel delitto di emissione di documenti per operazioni inesistenti . Questo perché la norma copre sia la falsità oggettiva (operazione mai avvenuta) sia la falsità soggettiva (operazione avvenuta ma con altri soggetti), purché vi sia lo scopo di evasione. Dunque, l’amministratore di un consorzio o di una consorziata che emetta fatture in nome proprio per lavori eseguiti da altri, con l’accordo di favorire un’evasione (ad es. non versare IVA), potrà risponderne ai sensi dell’art. 8.
È importante sottolineare che i due reati (art. 2 e art. 8) sono distinti e puniscono condotte diverse – benché complementari – e non necessariamente c’è concorso di persone tra chi emette e chi usa. Anzi, la giurisprudenza ha precisato che l’utilizzatore di fatture false di regola non concorre nel reato di emissione commesso dall’altro soggetto . Chi utilizza commette il suo reato (dichiarazione fraudolenta) e chi emette commette il proprio; solo se, ad esempio, l’utilizzatore partecipa attivamente al meccanismo di emissione (istigando o coadiuvando chi gestisce la cartiera) potrebbe eventualmente rispondere anche di quello, ma ciò è meno frequente. Ciò incide anche su competenza e aspetti procedurali: i due reati possono essere proceduti separatamente.
Oltre a questi due cardini, nel D.Lgs. 74/2000 vi sono altre fattispecie correlate che in certe situazioni possono entrare in gioco con le false fatturazioni tra consorzi:
- Art. 3 – Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: punisce chi, con documenti falsi diversi dalle fatture o con altri artifizi, simula operazioni per evadere (es. contabilizzazione di false rimanenze, società interposte fittiziamente, ecc.). Raramente viene contestato in presenza di fatture false perché è residuale (se c’è fattura, si applica art. 2). Ma se in un consorzio venissero usati, ad esempio, contratti simulati o sistemi di sovrafatturazione interna senza emettere vere fatture, potrebbe ipotizzarsi questo reato.
- Art. 10-quater – Indebita compensazione: se l’utilizzo di fatture false porta a creare crediti IVA inesistenti poi compensati con debiti d’imposta, si configura anche questo reato (soglia di 50.000 € annui, pena fino a 5 anni). Nei meccanismi fraudolenti consortili capita che i crediti IVA generati vengano poi usati in compensazione per non pagare altri tributi, facendo scattare il 10-quater.
- Art. 11 – Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: in alcuni casi, costituzione di consorzi o società ad hoc può essere vista come una manovra per sottrarsi al pagamento di imposte già dovute (ad esempio, si spostano attività su un consorzio diverso lasciando i debiti nel vecchio). Questo reato (punito fino a 6 anni) potrebbe sommarsi se l’intento principale è stato frodare riscossione, ma è tangenziale rispetto al tema fatture.
Le pene edittali per i reati di false fatture, come abbiamo visto, sono elevate (specie dopo l’inasprimento del 2019). Tuttavia, esistono istituti e circostanze che possono ridurre od escludere la punibilità, su cui il debitore-imputato può far leva nella propria strategia difensiva:
- L’attenuante del pagamento del debito tributario (art. 13-bis D.Lgs. 74/2000): se il contribuente estingue il debito d’imposta relativo ai fatti contestati prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ha diritto a una diminuzione di pena fino alla metà e alla cancellazione delle pene accessorie . Questa è una circostanza introdotta per incentivare il ravvedimento post delictum e cooperazione con il Fisco. Ad esempio, se un consorzio, dopo un processo penale avviato per false fatture, versa tutta l’IVA evasa prima della fine del primo grado, il giudice – pur dovendo condannare se il fatto sussiste – applicherà la pena ridotta e non disporrà le interdizioni (es. incapacità a contrattare con P.A., ecc.). La Cassazione nel 2025 (sent. n. 20068/2025) ha confermato che questa attenuante ha efficacia retroattiva e si applica anche ai fatti commessi prima della sua introduzione normativa .
- La non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.): questa norma generale del codice penale consente di escludere la punibilità quando l’offesa è particolarmente tenue e il comportamento non abituale. In passato, viste le soglie di pena, era discutibile se applicabile ai reati tributari, ma la Riforma Cartabia (D.Lgs. 150/2022) ha abbassato le barriere, permettendo l’accesso a 131-bis anche per reati con pena minima fino a 2 anni . Nel nostro caso, l’emissione e l’utilizzo di fatture false hanno pena minima 1 anno e 6 mesi (in presenza dell’attenuante <100k), quindi rientrano nel campo di 131-bis. La vera svolta è arrivata con il D.Lgs. 87/2024, che ha inserito nell’art. 12 D.Lgs. 74/2000 un comma 3-ter specifico: esso stabilisce che, ai fini dell’applicazione di 131-bis nei reati tributari, il giudice deve valutare in modo prevalente alcuni indici di meritevolezza, tra cui soprattutto l’avvenuto pagamento integrale del debito (anche rateale) e la modesta entità del debito residuo eventualmente rimasto . In pratica, la riforma del 2024 orienta il giudice a dare più peso al comportamento post-fatto del contribuente (quanto ha pagato) rispetto all’entità originaria dell’evasione, privilegiando una logica recuperatoria rispetto a quella punitiva . La Cassazione, con sentenza n. 22076 del 12 giugno 2025, ha applicato questa nuova disciplina in senso favorevole a un’imputata per false fatture: nel caso, la società aveva già pagato la quasi totalità dell’IVA evasa, e la Suprema Corte ha censurato la Corte d’Appello che aveva negato la tenuità valorizzando il profitto elevato (97 mila €) invece del pagamento effettuato . La Cassazione ha infatti chiarito che, grazie al D.Lgs. 87/2024, in presenza di un rilevante ripianamento del debito il giudice deve attribuire prevalenza a tale condotta riparatoria e può quindi dichiarare la non punibilità per particolare tenuità del fatto . Diversamente opinando – afferma la Corte – si vanificherebbe la finalità della novella, che è «dare prevalenza alla finalità recuperatoria […] a scapito di quella punitiva» . Questo significa che oggi, se un imprenditore consorziato o un consorzio incriminato per fatture false si adopera per versare il dovuto (anche iniziando e rispettando un piano di rateazione con l’Erario), ha ottime chance di ottenere l’archiviazione o il proscioglimento per tenuità del fatto. È una potente leva difensiva, specie nei casi non clamorosi e per imputati incensurati. Va notato che, secondo una recente interpretazione della Cassazione, tale beneficio deve però essere applicato con cautela quando il debito tributario evaso supera di molto le soglie di rilevanza: alcune pronunce del 2025 hanno sollevato dubbi sull’estensione della non punibilità a evasioni di importo elevatissimo, evidenziando come in tali ipotesi forse la tenuità non possa mai ravvisarsi . Si tratta di un orientamento in divenire, ma la lettera del comma 3-ter art. 12 sembra comunque imporre la prevalenza del fattore pagamento come indice positivo, senza automatismi in base all’ammontare (oltre quelli già previsti dal fatto che se l’evasione è gigantesca spesso non è “occasione unica” e quindi fuori da 131-bis).
- L’oblazione o estinzione per adempimento: diversamente da altri reati tributari (come omesso versamento IVA), per i delitti di frode con fatture false non era originariamente prevista causa di non punibilità a seguito di integrale pagamento, dato il disvalore accentuato della condotta fraudolenta. Tuttavia, la riforma fiscale 2023-2024 ha introdotto una serie di misure premiali. Abbiamo visto sopra il caso della tenuità speciale e dell’attenuante di cui all’art. 13-bis. Aggiungiamo che nell’ambito della “tregua fiscale” 2023 il legislatore ha anche previsto la possibilità di estinguere alcuni reati fiscali pagando un obolo, ma per le fatture false questa non è direttamente contemplata, salvo rientrare eventualmente in un patteggiamento con pena pecuniaria. È però importante segnalare che, secondo alcune letture, emettere fatture false può persino non essere più reato in casi marginali se il contribuente adempie: si è detto sopra della tenuità (che tecnicamente è una causa di esclusione della punibilità). Alcuni media hanno interpretato ciò come “emettere fatture false non è più reato se paghi le tasse” – affermazione provocatoria ma che contiene un fondo di verità alla luce delle nuove norme: lo Stato preferisce incassare il dovuto piuttosto che perseguire penalmente, per cui oggi chi regolarizza la propria posizione finanziaria ha molte vie per evitare sanzioni penali. Naturalmente ciò vale finché il procedimento non è concluso con condanna definitiva; inoltre resta ferma l’illegalità della condotta in sé e le sanzioni tributarie connesse.
Riassumiamo i reati e sanzioni penali menzionati in una tabella per maggiore chiarezza:
Reato (D.Lgs. 74/2000) | Condotta tipica | Pena base (dopo riforme) | Circostanze rilevanti |
---|---|---|---|
Art. 2 – Dichiarazione fraudolenta con fatture false | Utilizzo di fatture/documenti falsi per dichiarare passivi fittizi (es. costi mai sostenuti o gonfiati) | Reclusione 4–8 anni<br>(attenuato 1½–6 anni se passivi fittizi < 100k€) | – Nessuna soglia di punibilità (reato anche per piccoli importi) .<br>– Consumato con la presentazione della dichiarazione fraudolenta .<br>– Non serve evasione riuscita (reato di pericolo concreto). |
Art. 8 – Emissione di fatture false | Emissione o rilascio di fatture per operazioni inesistenti (oggettive o soggettive) al fine di far evadere altri | Reclusione 4–8 anni<br>(attenuato 1½–6 anni se importo fatture < 100k€) | – Reato istantaneo: si consuma al momento dell’emissione/consegna del documento .<br>– Include fatture soggettivamente false (operazione reale con soggetti fittizi) . |
Art. 3 – Dichiarazione fraudolenta con altri artifici | Altre frodi fiscali senza uso di fatture (es. contabilità doppia, operazioni simulate con altri mezzi) | Reclusione 3–8 anni (soglia di punibilità: imposta evasa > 30k € o attivo/passivo fittizio > 1,5% di alcuni parametri, > 30k) | – Residuale rispetto all’art.2 (si applica se non vi sono fatture false). |
Art. 10-quater – Indebita compensazione | Compensazione di debiti tributari con crediti inesistenti o non spettanti (es. crediti IVA fittizi generati con false fatture) | Reclusione 6 mesi – 2 anni (se crediti > 50k € annui)<br>Reclusione 1½ – 6 anni (se crediti > 250k € annui) | – Spesso contestato in aggiunta ad art.2 se l’evasione è realizzata via compensazioni indebite. |
Art. 13-bis – Attenuante speciale pagamento | (circostanza) Pagamento del debito tributario prima del dibattimento di primo grado | Riduzione pena fino alla metà; esonero pene accessorie | – Retroattiva e applicabile a reati di cui agli artt.2 e 8. <br>– Richiede pagamento integrale tributi, interessi, sanzioni amministrative. |
Art. 12, co.3-ter – Causa di non punibilità per tenuità con pagamento | (norma procedurale sostanziale) Valutazione prevalente di indici positivi per 131-bis c.p. se pagato debito | Non punibilità ex art. 131-bis c.p. se offensività tenue | – Introdotta dal D.Lgs. 87/2024, favor rei retroattivo .<br>– Indici: pagamento integrale anche rateale, debito residuo esiguo, ecc. .<br>– Impone al giudice di dare prevalenza al fine recuperatorio (incasso) su quello punitivo . |
(Nota: In tabella non compaiono alcuni reati minori – es. art. 10, 10-bis, 10-ter – perché concernono omessi versamenti o occultamenti di documenti, fattispecie diverse dal tema in oggetto. Inoltre, l’art. 11 – sottrazione fraudolenta al pagamento – può occasionalmente interessare vicende consortili se vengono distratti beni per non pagare imposte, ma esula dal caso tipico delle fatture false, per cui omettiamo dettaglio.)
Schemi tipici di frode con consorzi e cooperative: casistica
Chiarito il quadro normativo, è utile esaminare come concretamente possono manifestarsi le frode tramite false fatturazioni nell’ambito dei consorzi. La casistica empirica degli ultimi anni – ricavabile dalle indagini della Guardia di Finanza e dalle sentenze di merito e di legittimità – evidenzia alcuni schemi ricorrenti. Conoscerli è fondamentale per riconoscere quando un consorzio (o i suoi membri) vengano ingiustamente coinvolti e per orientare la difesa.
Fatture “a catena” tra consorzio e consorziate (ribaltamento gonfiato)
Uno scenario tipico riguarda i consorzi stabili impegnati in appalti: il consorzio fattura al cliente finale l’intero corrispettivo e poi le consorziate esecutrici fatturano al consorzio i lavori svolti. In condizioni normali, l’IVA è neutrale (il consorzio addebita IVA al cliente e detrae l’IVA addebitatagli dalle consorziate) e il consorzio trattiene solo una piccola quota. La frode può sorgere se questo meccanismo viene alterato ad arte. Ad esempio: il consorzio potrebbe sovrafatturare alle consorziate costi non realmente sostenuti, magari attraverso un’altra società intermedia compiacente. Così facendo, il consorzio “pulisce” i ricavi trasferendoli come costi verso una società schermo, riducendo il proprio reddito tassabile, mentre la consorziata riceve un costo aggiuntivo (che riduce il suo utile) e magari un credito IVA. Questo genere di schema rientra nelle “frodi carosello” interne: una delle società coinvolte (consorzio o una consorziata) finisce per non versare l’IVA o sparire lasciando debiti fiscali.
Esempio pratico 1: Il consorzio Alfa vince un appalto da 1.000.000 € + IVA. Le consorziate Beta e Gamma eseguono i lavori per quote uguali. In uno scenario lecito, Alfa fattura 1.000.000 + IVA al cliente; poi Beta fattura 500.000 + IVA ad Alfa e Gamma fa altrettanto, e Alfa paga loro togliendo magari un 2% di commissione. Se invece Alfa volesse evadere, potrebbe, ad esempio, far fatturare alle consorziate 1.100.000 € complessivi (gonfiando costi): Beta e Gamma, d’accordo, emettono ciascuna fattura da 550.000 € per forniture mai avvenute per 50.000 € extra a testa, e restituiscono “sottobanco” il surplus al consorzio o ai suoi amministratori. Alfa porta in contabilità 1.100.000 di costi contro 1.000.000 di ricavi (creando una perdita artificiale) e non paga IRES; l’IVA sulle fatture delle consorziate (poniamo 22% su 1.100k) la detrae interamente e versa allo Stato la differenza rispetto all’IVA incassata dal cliente (22% di 1.000k), risultando a credito. Beta e Gamma dal canto loro hanno 50k di ricavi fittizi in più, ma potrebbero compensarli con costi finti propri o essere società “sacrificabili” che poi non versano le imposte e vengono messe in liquidazione.
In tale esempio, tutte le fatture extra (per i 100k inesistenti) sono false e configurano reati: Beta e Gamma commettono il reato di emissione (art. 8) per le parti fittizie; Alfa commette dichiarazione fraudolenta (art. 2) usando quei costi. Difesa: se Beta e Gamma sono eterodirette dal consorzio, un avvocato potrà evidenziare che l’effettivo beneficiario economico della frode è Alfa e che le consorziate erano mere esecutrici (talora si cerca così di limitare la responsabilità dei rappresentanti di Beta/Gamma come prestanome). Dal lato tributario, l’Agenzia Entrate disconoscerebbe il costo extra in Alfa e il relativo credito IVA, recuperando tasse e sanzioni.
Schema “consorzio-cooperative” e frode IVA sul lavoro
Un caso emblematico – documentato da sentenze recentissime – è l’utilizzo di cooperative fittizie nell’ambito di un consorzio per abbattere il costo del lavoro e l’IVA. Lo schema, ricostruito ad esempio dalla Corte di Cassazione nella sent. n. 5168/2025, è il seguente: un imprenditore costituisce un consorzio nel settore, poniamo, della logistica, e crea o si appoggia a varie società cooperative di comodo. Il consorzio si aggiudica commesse di servizi e le subappalta alle cooperative consorziate. I contratti di subappalto prevedono corrispettivi appena sufficienti a pagare i lavoratori e i fornitori di base, ma non l’IVA né i contributi . Le cooperative, dunque, svolgono il lavoro (ad esempio movimentazione merci), pagano i dipendenti, ma non versano l’IVA sulle fatture emesse al consorzio né i contributi previdenziali dovuti; dopo un po’, le coop vengono fatte cessare quando l’Agenzia delle Entrate o l’INPS iniziano a bussare, e vengono rimpiazzate da nuove cooperative (“turnover” di cartiere) . Dal lato del consorzio: esso riceve fatture dalle cooperative (con IVA che le coop non verseranno) e può così detrarre quell’IVA; inoltre scarica sul piano fiscale costi molto elevati (i corrispettivi alle coop, gonfiati dall’IVA mai versata e dal mancato costo contributivo) – costi che in realtà rappresentano somministrazione illecita di manodopera. Il risultato? Il consorzio ottiene un doppio vantaggio: può praticare prezzi bassissimi e vincere appalti (perché di fatto non paga contributi e si “finanzia” con l’IVA evasa a monte) , e nel contempo azzera il proprio debito IVA usando in compensazione il credito generato dalle fatture delle coop . Le cooperative sono meri “schermi” senza autonomia reale, chiuse e sostituite non appena accumulano debiti . Tutto il giocattolo è orchestrato dal medesimo soggetto, che spesso figura come amministratore di fatto delle coop e di diritto del consorzio.
Questo schema è stato ritenuto dalla Cassazione un articolato sistema di frode fiscale e ha portato a condanne per: emissione di fatture false (in capo alle cooperative, per le operazioni fittizie relative all’IVA mai versata), dichiarazione fraudolenta (in capo al consorzio, per aver utilizzato costi e crediti fittizi), e omissione di versamenti IVA (in capo agli amministratori di fatto delle coop) . Nel caso specifico (Consorzio operante nella logistica milanese), la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato confermando la sua piena responsabilità penale come ideatore e gestore della frode . I giudici hanno sottolineato come “le società cooperative erano meri schermi formali, privi di effettiva esistenza, e conseguentemente le fatture da esse emesse […] erano fatture per operazioni inesistenti” . Anche se il lavoro era materialmente svolto (dai dipendenti poi transitati da una coop all’altra), l’operazione viene considerata giuridicamente inesistente perché le coop e il consorzio in realtà coincidevano sotto un unico dominio. Siamo di fronte quindi a falsità sia soggettiva (i soggetti fatturanti erano finti) sia, in un certo senso, oggettiva (per la parte di IVA non versata e costi contributivi elusi, che configurano prestazioni solo parzialmente eseguite secondo le regole).
Difesa: in simili contesti, la difesa del debitore è ardua. Un possibile approccio è sostenere l’effettiva esecuzione delle prestazioni (per escludere l’assenza totale) e provare a derubricare i fatti in illeciti minori (ad esempio, contestare che si tratti di fatture false e affermare che è “solo” omesso versamento di IVA delle coop, spostando il piano). Si può altresì tentare di dimostrare che il consorzio (o l’impresa principale) non aveva contezza dell’omesso versamento da parte delle coop – ma tale tesi regge poco se vi è interconnessione societaria. Un punto tecnico potrebbe essere contestare la qualificazione giuridica: se davvero le prestazioni lavorative ci sono state, sostenere che non sono “inesistenti” bensì irregolari, puntando magari su violazioni lavoristiche anziché penali tributarie; questo però cozza contro la consolidata giurisprudenza che considera inesistente l’operazione fatturata dal soggetto fittizio al prezzo che non contempla IVA/contributi. In sede tributaria, il contribuente (consorzio) potrebbe cercare di salvare la deducibilità di almeno una parte dei costi (quelli effettivamente finiti ai lavoratori): come detto, dopo la riforma del 2012, se non c’è stato rinvio a giudizio, i costi soggettivamente falsi ma reali possono essere dedotti . Tuttavia, una volta che il procedimento penale parte, scatta l’indeducibilità ex lege. Pertanto, la vera chance difensiva in questi casi è transare con il Fisco: pagare il dovuto (IVA evasa, contributi, ecc.) e usare i benefici premiali per evitare il carcere. Nel caso citato, se l’imputato avesse risarcito integralmente l’Erario prima del dibattimento, avrebbe potuto ottenere attenuanti e forse la tenuità del fatto.
Finti appalti vs. somministrazione di manodopera: operazioni soggettivamente inesistenti
Una variante dello schema precedente, spesso oggetto di contenziosi, è la distinzione tra un appalto di servizi genuino e una somministrazione illecita di manodopera camuffata. Quando un’impresa ottiene manodopera tramite un consorzio o altra azienda interposta, senza che quest’ultima eserciti una vera organizzazione del lavoro, le fatture emesse dall’intermediario possono essere considerate inesistenti sotto il profilo giuridico, pur essendoci state le prestazioni lavorative. La Cassazione penale, ad esempio, con sentenza n. 52057/2017, ha affrontato un caso in cui una società (Dolci F. srl) utilizzava lavoratori forniti da una cooperativa e da un consorzio, ma di fatto questi lavoratori erano inseriti stabilmente nell’organizzazione della società utilizzatrice, seguendo direttive di quest’ultima e usando i suoi mezzi . La difesa sosteneva trattarsi di legittimi appalti (con mezzi e rischio a carico dell’appaltatore coop) , ma gli elementi fattuali indicavano il contrario: i dipendenti formalmente della cooperativa lavoravano a tempo pieno presso la Dolci F., come fossero suoi dipendenti, e il consorzio emetteva fatture a Dolci F. per quelle prestazioni. La Cassazione ha affermato che l’eventuale pagamento delle prestazioni non basta a escludere il reato di dichiarazione fraudolenta se emerge che i dipendenti della fornitrice in realtà sono eterodiretti dalla società utilizzatrice . In altre parole, se c’è interposizione fittizia di manodopera, le fatture dell’intermediario (cooperativa o consorzio) sono soggettivamente false, perché avrebbero dovuto essere emesse dal soggetto che realmente beneficiava del lavoro (la società utilizzatrice) . Questo si riallaccia all’idea che la prestazione fatturata viene riqualificata giuridicamente come resa direttamente al beneficiario finale, rendendo l’intermediario un puro filtro.
Nella vicenda del 2017, la Cassazione ha dunque considerato le operazioni fatturate dal consorzio come inesistenti (soggettivamente), confermando il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente del profitto dell’evasione IVA . La società utilizzatrice rispondeva di dichiarazione fraudolenta (art.2) e non poteva difendersi sostenendo “ma io ho pagato davvero quelle fatture, quindi tutto regolare”: ciò è irrilevante se l’intento era frodare sul costo del lavoro e sull’IVA mediante un soggetto interposto .
Difesa: in casi del genere, una linea difensiva è provare che l’appalto era genuino. Ciò implica dimostrare che l’azienda fornitrice (consorzio/cooperativa) aveva una propria organizzazione, assumeva i rischi d’impresa, forniva mezzi, e che la direzione sui lavoratori non proveniva dall’azienda committente. Se si riesce a rovesciare la qualificazione in appalto lecito, cade l’accusa di fatture false (perché le fatture sarebbero per operazioni reali con il giusto soggetto). Questo è però uno sforzo probatorio notevole, spesso inficiato da testimonianze e documenti (turni, ordini di servizio) che mostrano la subordinazione. In sede tributaria, un contribuente potrebbe anche eccepire che, pur essendo somministrazione illecita, il costo del personale è stato davvero sostenuto e i lavoratori hanno prodotto reddito, quindi – paradossalmente – quel costo è inerente e deducibile (tesi sostenibile se non c’è condanna penale: vedi sopra Cass. 30018/2022). Però se la guardia di finanza scopre la frode e parte la denuncia, i costi diventano da reato e l’indeducibilità scatta.
Consorzi fittizi e caroselli IVA internazionali
Un’altra possibile tipologia di frode vede i consorzi utilizzati come meri filtri cartolari in frodi IVA più ampie, ad esempio caroselli IVA su beni. Questo è meno comune, ma potrebbe succedere che un consorzio venga interposto come “cedente” o “acquirente” di beni tra società italiane ed estere, emettendo fatture false per creare crediti IVA nelle imprese consorziate o per far sparire l’IVA dovuta. Ad esempio, consorzio X acquista beni in regime sospensivo e li cede con IVA a consorziata Y, poi Y detrae e rivende estero senza IVA: X dovrebbe versare l’IVA ma non lo fa e sparisce. Queste missing trader intra-community frauds di solito non richiedono consorzi, bastano società singole, ma ogni tanto vengono alla luce strutture consortili usate per confondere le acque.
Difesa: qui si entra nel campo delle frodi carosello classiche. La difesa tipica del consorziato accusato di esservi coinvolto è dichiarare di aver operato in buona fede, ignaro che il consorzio (o altra consorziata) fosse una cartiera. Si deve allora provare la realtà dell’operazione commerciale (beni esistenti, trasporti avvenuti) e l’assenza di collegamenti con le società fantasma. Come già visto, la giurisprudenza ora richiede di provare la conoscenza o no della frode da parte dell’acquirente per negargli la detrazione IVA . Quindi, un consorziato onesto, se vittima inconsapevole, può far valere la propria estraneità documentando transazioni a prezzo di mercato, pagamenti tracciati, verifiche commerciali fatte, ecc. Resta la grana di eventuali reati contestati (ricettazione, art. 2 per uso fatture false se i fornitori erano finti): in tal caso, dimostrare di essere caduti in una frode ordita da altri può portare a un proscioglimento per mancanza di dolo.
Mancata fatturazione di ricavi consortili e altre contestazioni “inverse”
Finora abbiamo considerato false fatture lato costi, ma esiste anche il caso in cui venga contestato al consorzio di non aver fatturato ricavi verso le consorziate. Ad esempio, a volte il Fisco ritiene che il consorzio abbia svolto attività per le imprese consorziate (fornendo servizi centralizzati) e avrebbe dovuto fatturarle, invece di ribaltare solo i costi. In passato, la Cassazione (sent. n. 22435/2016) ha sanzionato un consorzio che non emetteva fatture alle consorziate per i costi generali sostenuti, considerandolo un occultamento di ricavi . Tuttavia, l’orientamento attuale, come già accennato, riconosce che se lo statuto e gli accordi prevedono il pareggio consortile, non c’è ricavo aggiuntivo da fatturare: la mutualità consortile giustifica il mero rimborso costi. Difesa: portare lo statuto consortile e le clausole che obbligano al pareggio, nonché la prassi di settore, per dimostrare che non fatturare “utile” alle consorziate non è evasione ma attuazione dello scopo consortile. Le sentenze più recenti (Cass. 17388/2024) hanno ribadito la legittimità di un ribaltamento parziale dei ricavi e costi in base agli accordi, chiarendo che un consorzio con funzione strumentale non è un appaltatore che deve lucrare necessariamente . Quindi, se il Fisco contesta un ricavo non fatturato al consorziato, la difesa potrà citare tali pronunce per dimostrare che non vi era obbligo di fatturazione perché il consorzio agiva come longa manus delle consorziate (ciò ovviamente vale per situazioni lecite, non se la mancata fatturazione celava distrazione di fondi a nero).
Come difendersi: strategie e strumenti per il debitore
Dal punto di vista del debitore che si vede recapitare un avviso di accertamento per false fatturazioni o, ancor peggio, un decreto di citazione a giudizio/avviso di garanzia per reati ex D.Lgs. 74/2000, è fondamentale impostare tempestivamente una strategia difensiva efficace. Di seguito analizziamo le principali linee di difesa, distinguendo la sede tributaria (Commissioni Tributarie, ora Corti di Giustizia Tributaria) e la sede penale, evidenziando le possibili sinergie tra le due.
Difesa in sede tributaria (accertamento fiscale)
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta l’utilizzo di fatture false, emetterà un avviso di accertamento motivato dal disconoscimento dei relativi costi e IVA. Il contribuente ha due opzioni: aderire (se ritiene di negoziare col fisco una sanzione ridotta) oppure impugnare l’accertamento davanti al giudice tributario. La difesa tecnica richiederà di smontare le presunzioni dell’Ufficio e dimostrare, per quanto possibile, la genuinità delle operazioni o quantomeno la spettanza parziale dei benefici fiscali.
Ecco alcune strategie e argomentazioni difensive tipiche:
- Negare la falsità dell’operazione: se l’Ufficio qualifica come inesistente un’operazione, è onere suo portare elementi presuntivi adeguati . La Cassazione ha chiarito che, nei casi di frode oggettiva (operazione mai avvenuta), il fisco deve provare, anche mediante presunzioni gravi e precise, che la transazione è fittizia; solo dopo questa prova, scatta a carico del contribuente l’onere di dimostrare la reale esistenza e “fonte legittima” del costo . Spesso l’Agenzia si basa su indizi come: il fornitore è irreperibile, ha omesso dichiarazioni, non aveva struttura adeguata, ecc. La difesa dovrà contestare puntualmente ciascun elemento: ad es., provare con DDT, contratti, foto, collaudi che la prestazione c’è stata; dimostrare che il fornitore sebbene piccolo ha realmente lavorato; portare testimonianze (anche scritte, visto il nuovo art. 7, co.5-bis, D.Lgs. 546/92) di terzi che confermano l’esecuzione. Caso soggettivo: se l’ufficio dice “questo fornitore era una cartiera, dunque operazione soggettivamente inesistente”, il contribuente può replicare: “vero, il fornitore era inaffidabile, ma la merce/servizio l’ho ricevuto da Tizio (sub-fornitore vero) e l’ho pure pagato”. Quindi l’operazione in sé è esistita. Questo argomento mira almeno a evitare l’accusa di frode oggettiva (che implicherebbe costo fittizio totale) e ricondurre il caso alla frode soggettiva dove, come visto, i costi possono essere ammessi se effettivi. Una sentenza di riferimento a favore del contribuente è la Cass. Sez. V n. 35091/2023, la quale ha ammonito che non ogni fornitore “irregolare” implica automaticamente inesistenza totale: spesso la merce c’è e proveniva da un altro soggetto . Citare questo precedente può aiutare a convincere i giudici tributari a non rigettare in blocco la deduzione, quantomeno finché non sia provato che neanche un euro di quella spesa ha avuto riscontro reale.
- Buona fede e diligenza: se la falsità è solo soggettiva (cioè il bene c’è ma il fornitore era finto), la giurisprudenza tributaria più recente richiede la prova della scientia fraudis per negare la detrazione IVA . Quindi il contribuente deve evidenziare tutto ciò che ha fatto per controllare: visura camerale del fornitore, controllo VIES (per esteri), riscontro DURC (se lavori), corrispondenza commerciale, pagamenti su conto intestato all’azienda, ecc. Più elementi di apparenza di regolarità si mostrano, più sarà difficile dire che “dovevi accorgertene”. In particolare, se il consorzio/debitore non ha legami con la cartiera ed è un cliente finale che ha pagato prezzi di mercato, potrà sostenere di essere vittima di altrui inganni. Già diverse Commissioni tributarie hanno accolto ricorsi basati sulla buona fede, alla luce del principio unionale che vieta di sanzionare l’acquirente ignaro di una frode dell’emittente. Attenzione però: la prova della buona fede è a carico del contribuente secondo la Cassazione (in combinato con l’onere dell’Erario di provare gli indizi di frode) . Dunque si dovrà insistere perché i giudici valutino le circostanze complessive e, se l’Ufficio non dimostra segnali di allarme inequivoci, chiedere l’annullamento dell’accertamento perlomeno sulla parte IVA.
- Deducibilità dei costi soggettivamente inesistenti: come ampiamente spiegato, dopo il 2012 la legge permette di dedurre costi anche di operazioni soggettivamente inesistenti, a patto che la spesa sia reale e non si sia già in giudizio penale . La Cassazione n. 30018/2022 (ord.) è un must da citare: ha sancito che è conforme a legge consentire la deduzione in questi casi, perché «il costo, ancorché frutto di reato, ha comunque eroso il patrimonio dell’impresa ed è inerente all’attività, va dedotto salvo altri impedimenti» . Importante: la norma (art. 14 co.4-bis L.537/93 come mod.) dice che l’indeducibilità scatta solo dall’esercizio in cui c’è esercizio dell’azione penale (rinvio a giudizio) . Quindi, se al momento dell’accertamento penale non c’è (magari c’è un’archiviazione), i costi andrebbero ammessi. In pratica, nelle liti tributarie capita che la difesa ottenga la deduzione dei costi soggettivamente falsi proprio utilizzando questo argomento, specie se nel frattempo il penale è finito bene o non è partito. Nel 2020, ad esempio, la Cassazione (ord. 21706/2020) ha cassato la decisione di una CTR che non aveva dedotto costi di fatture soggettivamente inesistenti nonostante il processo penale fosse archiviato, affermando che i costi effettivi vanno dedotti e incaricando il giudice di merito di verificare i requisiti di effettività e inerenza . Dunque, la difesa in commissione dovrà: (a) sottolineare se non vi è (ancora) un processo penale avviato, (b) provare la effettività della spesa (esibendo bonifici, contratti, evidenze che quei soldi sono usciti a fronte di qualcosa), (c) rimarcare che punire l’IVA è giusto ma tassare anche il reddito sarebbe contro il principio di capacità contributiva. Questa linea può portare almeno a ridurre l’accertamento (si eliminano le sanzioni su IRES perché il reddito non va aumentato). Da notare che alcuni uffici contestano tutto in attesa del penale: se però nel frattempo in appello penale arriva un’assoluzione, la difesa potrà chiedere la sospensione del processo tributario o utilizzare la sentenza penale favorevole per ottenere il rimborso delle imposte versate (ex art. 14 co.4-bis, ultimo periodo) .
- Vizi procedurali e formali: mai dimenticare di controllare se l’accertamento è viziato formalmente. Ad esempio: è stato garantito il contraddittorio endoprocedimentale? In materia di IVA, se l’accertamento è da tavolino (senza verifica in loco) e non è stato preceduto da invito a comparire o PVC, potrebbe essere nullo per violazione del diritto di difesa (principio sancito dalla Corte UE e dalla Cass. SS.UU. n.24823/2015). La difesa potrà eccepirlo. Oppure: l’atto è sufficientemente motivato? Deve spiegare perché ritiene false le fatture, non bastano formule generiche. Se la motivazione rinvia a un PVC GdF, quel PVC è stato allegato o conosciuto? Se no, violazione art.7 L.212/2000. Anche le prove: magari l’ufficio cita dichiarazioni di terzi (ex dipendenti, amministratori altrui) rese in penale. Bene, in tributario valgono come semplici indizi a carico contestabili; la difesa può contrapporre altre dichiarazioni (ad es. del fornitore stesso se vuole ritrattare, o di testimoni oculari) ricordando che la Cassazione ora ammette dichiarazioni scritte di terzi . Se la causa è complessa, si può anche chiedere una CTU contabile (non sempre accolta, ma tentare se serve a ricostruire movimentazioni, margini etc., per provare che l’operazione aveva senso economico).
- Soluzioni transattive: parallelamente al ricorso, si può valutare una definizione agevolata se prevista (nel 2023 c’erano stralci parziali per controversie pendenti fino a certi importi) oppure un accordo di mediazione/conciliazione giudiziale. Qualora la posizione non sia solida al 100%, trovare un accordo con l’Agenzia (pagando parte del dovuto con sanzioni ridotte) può essere conveniente, specie per evitare il riflesso penale. A volte, infatti, chiudere l’accertamento pagando le imposte aiuta poi in sede penale per dimostrare resipiscenza e accedere a cause di non punibilità (131-bis, 13-bis D.Lgs.74/2000). La tempistica qui è cruciale: se si patteggia col fisco presto e si paga, si può presentare in tribunale penale con la ricevuta del pagamento integrale e chiedere la non punibilità.
In sintesi, la difesa tributaria ruota attorno a due filoni: contestare nel merito la falsità (quando possibile) e mitigare gli effetti (puntando alla deducibilità dei costi reali, far emergere la buona fede, ecc.). Non di rado, con un ricorso ben costruito, si può ottenere in Commissione quantomeno una riduzione dell’accertato (ad esempio riconoscendo parte dei costi, se c’è stata una prestazione sottostante). Questo è fondamentale anche perché le sanzioni penali dipendono dall’imposta evasa: se in giudizio tributario si stabilisce che l’imposta evasa era minore o nulla (es. riconoscendo costi), ciò può riflettersi favorevolmente sul processo penale (magari facendo scendere l’evasione sotto soglie di punibilità per altre fattispecie, o comunque evidenziando che il “danno” è minore).
Difesa in sede penale
Quando invece il debitore è imputato in un procedimento penale per fatture false (art. 2 e/o 8 D.Lgs.74/2000), la difesa si svolge secondo le regole del processo penale, con i noti strumenti (prove, testimonianze, consulenze, eccezioni procedurali). È però importante avere ben chiaro l’obiettivo: evitare (o attenuare) le pesanti sanzioni detentive e accessorie. La strategia va calibrata sullo scenario concreto, ma possiamo delineare alcune linee generali:
- Contestare l’elemento oggettivo del reato: se possibile, sostenere che non vi è stata alcuna fattura “per operazione inesistente”. Ad esempio, la difesa può argomentare che l’operazione c’era e il documento era solo irregolare ma non falso. Questo può portare a chiedere una riqualificazione in illecito amministrativo (violazioni contabili) o in reati minori. Un esempio: l’amministratore di un consorzio incriminato ex art.8 perché fatturava lui lavori fatti dalla consorziata potrebbe difendersi dicendo che, in realtà, secondo il contratto consortile era proprio il consorzio a dover fatturare (come da prassi di capogruppo mandataria). Quindi quella fattura non è falsa, era legittima, e se c’è evasione è semmai di altro tipo. Certo, queste argomentazioni devono superare l’accusa di abuso dello schema consortile per frodare: non sempre convinceranno, ma vanno messe sul piatto per insinuare il dubbio sulla configurabilità del reato. La giurisprudenza ci dice che i margini qui sono stretti (vedi Cass. 52057/2017 che disconosce appalti fittizi nonostante ci fossero contratti formali ), ma ogni caso fa storia a sé.
- Contestare il dolo specifico di evasione: per condannare ex art.2 o 8 serve provare che l’intento era evadere. La difesa potrà cercare di dimostrare che l’imputato non aveva affatto lo scopo di evadere, magari perché convinto della legittimità fiscale dell’operazione. Esempio: un imprenditore consorziato che utilizza fatture di un’altra consorziata per lavori comuni potrebbe dire “pensavo fosse tutto regolare in quanto consorziati, non immaginavo di evadere l’IVA”. Se credibile, ciò escluderebbe il dolo specifico (resterebbero violazioni tributarie amministrative forse). Un’altra situazione: l’imprenditore che accetta fatture gonfiate dal consorzio potrebbe sostenere di essere stato costretto o tratto in errore. Anche qui, non facile: “non sapevo” in penale regge solo se davvero l’imputato appare estraneo (es. prestanome inconsapevole, o persona ingannata dal consulente). Però quantomeno, far emergere l’assenza di un reale arricchimento personale e la mancanza di consapevolezza piena può aiutare per le valutazioni di merito (ad es. per riconoscere circostanze attenuanti generiche).
- Utilizzare consulenze tecniche: a volte è utile portare un consulente tecnico di parte esperto in fiscalità consortile che illustri al giudice come funziona la contabilità consortile. Questo può servire a relativizzare le conclusioni dell’accusa: ad esempio, il CT potrà dire “nei consorzi è normale che la consorziata A fatturi a B se previsto da convenzioni interne, non è automaticamente frode”. Oppure quantificare esattamente l’eventuale imposta evasa, magari riducendola (cosa utile anche per far scendere la gravità del fatto). In caso di frodi complesse, una consulenza contabile che ricostruisca flussi e provi che parte delle operazioni erano reali può seminare dubbi sulla totalità della contestazione.
- Proporre riti alternativi convenienti: la difesa penale deve valutare seriamente il patteggiamento o il giudizio abbreviato. Perché? Perché le pene in gioco sono alte (minimi 4 anni teorici) e con questi riti si può ottenere la diminuzione fino a un terzo, evitando magari la detenzione effettiva. Un patteggiamento ben congegnato, soprattutto dopo aver eventualmente risarcito il fisco, potrebbe portare a pene <= 2 anni, sospese e senza effetti interdittivi (grazie all’art. 13-bis che toglie pene accessorie). Se il cliente (debitore) è d’accordo a pagare e chiudere, questa è spesso la via più pragmatica. L’abbreviato invece ha senso se si punta all’assoluzione ma si vuole comunque ridurre il rischio: consente un -1/3 di pena in caso di condanna, pur giocandosi tutto sulle carte. È un rischio calcolato che dipende dalla bontà del materiale probatorio: se ad esempio l’accusa è debole (basata su presunzioni, mancano testimoni chiave) l’abbreviato può essere indicato, riservandosi poi appello se va male.
- Dimostrare il ravvedimento operoso: se non si è già intervenuti prima, anche durante il processo penale si può pagare il debito tributario. Anzi, a quel punto è praticamente d’obbligo farlo per poter chiedere il beneficio di cui al nuovo art. 12 co.3-ter (tenuità). Dunque, la difesa deve consigliare al cliente di attivarsi con Agenzia Entrate/Riscossione per versare tutto il possibile. Se servono rate, si ottiene la rateizzazione e si comincia a pagare (presentando poi in udienza le ricevute di versamento delle rate). Questo comportamento deve essere valutato positivamente dal giudice, e oggi la legge impone di dargli peso “prevalente” per la tenuità . Anche se non si arrivasse a ottenere un proscioglimento per tenuità (perché magari i fatti sono seri o reiterati), il pagamento integrale resta una fortissima attenuante generale (anche in mancanza dell’art.13-bis, il giudice può dare le generiche equivalenti a un robusto sconto). In alcuni casi, come dicevamo, può aprire la porta al patteggiamento con pena solo pecuniaria: se l’accordo con la Procura è ben impostato, potrebbero derubricare i reati o applicare attenuanti tali da stare sotto i limiti per una conversione della pena in multa ex art. 53 L.689/81 (è capitato con la “voluntary disclosure” per false fatture pregresse in passato).
- Coordinarsi con la difesa tributaria: le due difese devono parlarsi. Una sentenza della Commissione Tributaria che annulla l’accertamento per inesistenza di evasione è un ottimo argomento per la difesa penale (dimostrerebbe che non c’è danno erariale concreto). Viceversa, se in penale arriva prima una sentenza di assoluzione perché “il fatto non sussiste” (cioè le fatture non erano false, ad esempio), quell’esito va riversato nel contenzioso tributario per far annullare l’atto impositivo in autotutela o in giudizio, in base al principio di coerenza. Non c’è un automatismo legale di esonero, ma il giudice tributario tiene conto di un’assoluzione penale con formula piena sul merito del fatto. Se invece la formula è “insufficienza di prove” o prescrizione, la Commissione potrebbe decidere in autonomia (magari confermando comunque l’evasione civilmente). Dunque, il coordinamento è più fattuale che giuridico: l’avvocato penalista e il tributarista (se non coincidono nella stessa persona) dovrebbero scambiarsi documenti, strategie e calendarizzare bene le azioni (es. se conviene far slittare un processo in attesa dell’altro esito, ecc.). Da segnalare: la recente riforma del processo penale consente l’estensione del patteggiamento ai reati tributari anche dopo il primo grado in certi casi – ma soprattutto, con il pagamento del debito, la Procura potrebbe essere più propensa a richieste di assoluzione per tenuità o non doversi procedere per intervenuta condotta riparatoria (se mai prevista specificamente in futuro).
In sintesi, la difesa penale deve essere molto reattiva nell’approfittare di ogni spiraglio offerto dalla legge: oggi, diversamente dal passato, la normativa incentiva fortemente il reo a pentirsi e pagare. Pertanto, a meno che vi siano solide basi per ottenere un’assoluzione totale perché proprio “il fatto non sussiste” (cosa rara in queste vicende), la mossa vincente per il difensore è guidare il cliente attraverso un percorso di regolarizzazione che sfoci nel minimo impatto penale possibile (non punibilità o pena lieve). Il tutto chiaramente contemperato con la tutela patrimoniale: pagare il dovuto è doloroso per il cliente, ma spesso inevitabile – va però negoziato, magari sfruttando definizioni agevolate per ridurre le sanzioni amministrative, ecc., in modo da limitare l’esborso.
Domande Frequenti (FAQ) su false fatturazioni nei consorzi
Di seguito riportiamo alcune delle domande più frequenti sul tema, con risposte concise basate su quanto esposto finora.
D: Cosa si intende esattamente per “false fatturazioni tra consorzi”?
R: Si intendono le emissioni o l’utilizzo di fatture fittizie nell’ambito di rapporti tra un consorzio e le imprese consorziate (o anche tra consorzi diversi legati fra loro). Può trattarsi di fatture per operazioni mai avvenute (falsità oggettiva), ad esempio spese mai sostenute realmente, oppure fatture che documentano operazioni reali ma indicando soggetti diversi da quelli effettivi (falsità soggettiva). Nel contesto consortile, tipici esempi sono: fatture emesse dal consorzio per lavori in realtà eseguiti da una consorziata senza che ciò sia legittimato (soggettivamente false), oppure fatture emesse da una consorziata per addebitare al consorzio costi inesistenti così da trasferire utili occulti (oggettivamente false). In generale, si parla di “false fatturazioni tra consorzi” perché spesso queste pratiche coinvolgono più entità consortili in catene di fatturazione reciproca.
D: Perché queste pratiche sono considerate così gravi dalla legge?
R: Perché l’uso di fatture false è uno strumento di evasione fiscale molto insidioso. Introducendo documenti apparentemente regolari nella contabilità, il contribuente può ingannare il Fisco “dall’interno” del sistema: è difficile per l’Agenzia accorgersi della falsità se non con indagini mirate. Inoltre, i consorzi possono amplificare il fenomeno, muovendo volumi di fatture tra più soggetti e rendendo meno trasparente chi effettivamente realizza reddito. Il legislatore considera questa condotta così pericolosa da punirla penalmente anche per importi modesti (nessuna soglia di tolleranza) , con pene detentive elevate (fino a 8 anni) . L’idea è che “la fattura falsa è un veleno nei registri contabili” che va stroncato sia per tutelare le casse pubbliche (perdite di IVA e basi imponibili) sia per equità verso i contribuenti onesti.
D: Sono un imprenditore consorziato che ha ricevuto un avviso di accertamento per uso di fatture false del mio consorzio: cosa devo fare subito?
R: Innanzitutto, valutare i tempi: hai 60 giorni dalla notifica per presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria). Quindi non perdere tempo – contatta un esperto tributarista. Nel frattempo, raccogli tutta la documentazione relativa alle operazioni contestate: contratti consortili, documenti di trasporto, e-mail, report di lavoro, pagamenti effettuati, ecc. Questi serviranno a dimostrare l’eventuale realtà delle operazioni. Se l’accertamento non è motivato in modo chiaro o non ti è stato preceduto da un contraddittorio, segnalalo al tuo difensore: potrebbe esserci un vizio procedurale da far valere. Valuta anche l’opportunità di un accertamento con adesione (che sospende i termini e può portare a una riduzione di sanzioni se trovi un accordo col fisco) – ma fallo solo dopo aver analizzato bene la situazione con un legale. In ogni caso, preparati anche al possibile scenario penale: se non è già partita una comunicazione di reato, l’Agenzia segnalerà la cosa alla Procura se gli importi falsi superano le soglie penali (ma ricorda: per le fatture false non c’è soglia minima). Quindi parallelamente considera di consultare un avvocato penalista. Un passo proattivo utile può essere il ravvedimento operoso: se ritieni di aver commesso effettivamente un’irregolarità, versare spontaneamente parte del dovuto (magari l’IVA detratta indebitamente) con ravvedimento potrebbe mitigare l’atteggiamento del fisco e costituire una circostanza attenuante futura . Ma questo va deciso con cautela e consiglio legale, perché equivale ad ammettere l’addebito.
D: Se pago subito le imposte contestate, evito le conseguenze penali?
R: Pagare immediatamente le imposte ti mette sulla buona strada per evitare/attenuare le conseguenze penali, ma non garantisce al 100% l’automatica archiviazione. In dettaglio: la legge (art. 13 D.Lgs. 74/2000) prevede la non punibilità per alcuni reati tributari (tipo omessi versamenti) se paghi prima di certi termini, ma per le fatture false questo non era previsto in modo diretto. Tuttavia, con la riforma del 2024, pagare il debito tributario è diventato un fattore determinante per dichiarare la particolare tenuità del reato . Significa che il giudice, vedendo che hai saldato, può decidere di non applicarti nessuna pena invocando l’art. 131-bis c.p. (offesa tenue). Inoltre, esiste l’attenuante ad effetto speciale che riduce la pena fino alla metà e cancella le pene accessorie se paghi tutto prima del primo grado . In pratica: se paghi prima che la sentenza penale diventi definitiva, quasi certamente eviterai il carcere (o qualsiasi condanna significativa). Ci sono già Cassazioni, come la n. 19675/2025, che dicono chiaramente: non è più automatico punire penalmente se il contribuente ha pagato il dovuto, anche a rate . Quindi, pur non essendoci un articolo di legge che “estingue” formalmente il reato di art.2 o 8 con il pagamento (come accade per l’omesso versamento), di fatto pagando puoi beneficiare di cause di non punibilità o forti riduzioni. Nota che il pagamento deve essere integrale del tributo (l’IVA evasa, ad esempio) e in genere includere anche interessi e sanzioni amministrative. Spesso ciò avviene aderendo a un piano di rateizzazione con l’Erario: la norma infatti considera anche l’adempimento frazionato come condotta riparatoria positiva . In breve: pagare aiuta tantissimo, ma va accompagnato da una richiesta formale al giudice di applicare la tenuità o le attenuanti. È opportuno che questo percorso sia gestito da un avvocato, che informerà la Procura e il giudice dei pagamenti effettuati, magari presentando istanza di archiviazione o patteggiamento.
D: Ho scoperto che il mio consorzio emetteva fatture false a mia insaputa. Posso difendermi dicendo che non ne ero al corrente?
R: Dipende dal tuo ruolo e dalle evidenze. Se sei un amministratore formale (magari prestanome) di una società coinvolta, sostenere che altri gestivano effettivamente l’attività fraudolenta può sollevarti se riesci a provare di essere stato estraneo. La Cassazione però è severa con gli amministratori di diritto: ha detto che accettare la carica comporta il dovere di controllo, quindi difficilmente uno può lavarsene le mani . Dovresti dimostrare di essere stato totalmente tagliato fuori (es. firme false, non avevi accesso ai conti, ecc.), scenario raro. Se invece sei un consorziato esterno, che riceveva fatture dal consorzio credendole buone, allora la tua buona fede può essere un’ottima difesa in sede tributaria per evitare le sanzioni IVA . In sede penale, potrebbe evitare la tua incriminazione: se davvero non sapevi, potresti non essere neanche imputato (si colpisce chi sapeva e voleva evadere). Qualora emergesse il dubbio, il tuo avvocato spingerà per una soluzione di non luogo a procedere per difetto di dolo da parte tua. Ovviamente, tutto dipende dalle prove: se ad esempio email o intercettazioni mostrano che sapevi del giro di fatture false, la buona fede cade. In sintesi, l’ignoranza può essere una difesa reale per l’utilizzatore solo se è ignaro e incolpevole. Tieni conto poi che “non sapere” non ti salva dalle sanzioni fiscali in automatico: il fisco tende a dire che dovevi vigilare comunque sui fornitori. Però come visto la giurisprudenza sta aprendo spiragli per l’acquirente in buona fede. Nel dubbio, la migliore azione quando scopri situazioni del genere è denunciarle tu stesso alle autorità, evidenziando che sei parte lesa: questo può tutelarti da accuse di complicità.
D: In un consorzio stabile, è normale che il consorzio fatturi lavori eseguiti dalle consorziate. Come distinguo quando è lecito e quando rischia di essere considerato falso?
R: In un consorzio stabile legittimamente operante, il consorzio ha personalità e può contrattare e fatturare verso il cliente finale, mentre le consorziate eseguono i lavori internamente. Questo è lecito se avviene secondo le regole: il consorzio deve poi “rifatturare” alle consorziate la loro parte (il c.d. ribaltamento costi/ricavi) in modo trasparente, applicando lo stesso trattamento IVA alle ri-fatture e rispettando gli accordi percentuali. Diventa illecito quando il consorzio o la consorziata usano la fatturazione per scopi diversi: ad esempio, se il consorzio fattura tutto il lavoro al cliente, ma poi non fa fatturare nulla a una consorziata specifica che ha svolto parte del lavoro (fatturando lui al posto suo), quell’operazione può essere considerata soggettivamente inesistente perché avrebbe dovuto fatturare la consorziata. Oppure se il consorzio fattura importi maggiori di quelli dovuti e retrocede differenze “in nero”. Insomma, il discrimine è: ci deve essere corrispondenza tra chi lavora e chi fattura secondo i patti. Se il consorzio fattura e incassa, deve poi girare la quota alle imprese che hanno effettivamente fatto il lavoro, tramite fatture di queste ultime verso il consorzio. Quando c’è un buco in questo circuito (fatture emesse senza lavori o lavori senza fatture), scatta l’anomalia. Ad esempio, Cassazione 2017: il consorzio emetteva fatture per servizi svolti dalla consorziata con propri mezzi e dipendenti – non andava bene; doveva fatturare la consorziata, o comunque il consorzio non doveva comportarsi da mero intermediario occultando il ruolo della consorziata . In sintesi: normale: doppia fattura (consorzio -> cliente, consorziata -> consorzio) per ogni prestazione; a rischio: fattura singola consorzio -> cliente senza riscontro interno, oppure fatture interne sproporzionate rispetto ai lavori effettivi.
D: Che succede se un mio consorzio viene usato per emettere fatture false e poi fallisce? I consorziati rischiano di dover pagare i debiti fiscali del consorzio?
R: Dipende dal tipo di consorzio e dagli accordi. In genere, se il consorzio è costituito come società consortile con personalità giuridica (es. una S.r.l. consortile), risponde dei propri debiti con il suo patrimonio. I consorziati non sono automaticamente responsabili dei debiti fiscali del consorzio, salvo abbiano prestato garanzie o ci siano disposizioni specifiche. Però attenzione: l’Agenzia delle Entrate, se ravvisa che il consorzio era una mera fictio e che le consorziate beneficiavano dell’evasione, potrebbe cercare di rivalersi su di esse con strumenti come l’accertamento per interposto soggetto (riqualificando i redditi in capo ai consorziati) o chiamandole in causa come coobbligate in solido per sanzioni (cosa non scontata, ma la legge prevede solitamente solidarietà tra chi ha concorso nella violazione). Inoltre, se parliamo di consorzio senza personalità giuridica, i singoli imprenditori consorziati potrebbero rispondere in solido delle obbligazioni assunte in nome del consorzio con rappresentanza. E poi c’è l’aspetto penale: i rappresentanti delle consorziate possono essere perseguiti se partecipi della frode. Sul piano civile-penale, se il consorzio fallisce ed emerge la frode, i creditori (incluso il Fisco) potrebbero agire contro gli amministratori per responsabilità danni. Dunque, anche se non direttamente esigibili i tributi verso i soci, il rischio economico e reputazionale per i consorziati è elevato. In pratica: far fallire il consorzio-cartiera non mette al riparo gli altri coinvolti dal pagamento del dovuto (il Fisco cercherà altrove, inclusi amministratori e beneficiari ultimi). Nel contesto di consorzi stabili negli appalti pubblici, ricordiamo infine che spesso esiste la responsabilità solidale verso il committente per gli adempimenti fiscali e contributivi (come in certi casi di ATI). Quindi, ad esempio, le consorziate potrebbero dover rispondere di versare l’IVA se il consorzio appaltatore non l’ha versata e ciò era nei patti contrattuali.
D: Quali sono le sentenze più importanti da conoscere su questo tema per un avvocato?
R: Riassumiamo alcuni precedenti chiave citati nella guida, utili in casi di false fatturazioni consortili:
- Cass. Sez. Trib. 11624/2020: ribadisce il principio sul riparto dell’onere della prova nelle fatture oggettivamente inesistenti – il fisco deve provare la falsità con presunzioni serie, poi il contribuente deve provare la realtà .
- Cass. Sez. Trib. ord. 30018/2022: “pronuncia epocale” sulla deducibilità dei costi da reato – afferma deducibili i costi da operazioni soggettivamente inesistenti effettive, anche se il contribuente era consapevole, salvo contrarietà ai principi generali o reato conclamato .
- Cass. Sez. V 24471/2022 e Cass. Sez. V 35091/2023: introducono l’orientamento della “doppia prova” per le frodi soggettive – l’Erario deve provare frode e conoscenza dell’acquirente; non basta fornitore fittizio per dire tutto falso .
- Cass. Sez. Unite 28433/2022: (non su fatture false, ma rilevante) consente in tributario l’uso di dichiarazioni rese da terzi come prova indiziaria – utile per utilizzare testimonianze rese altrove a favore del contribuente .
- Cass. Sez. III Pen. 52057/2017: caso di somministrazione illecita mascherata da consorzio, dice che se i lavoratori di una cooperativa consorziata sono diretti dal personale dell’utilizzatore, le fatture del consorzio sono da considerare inesistenti e si configura dichiarazione fraudolenta .
- Cass. Sez. III Pen. 16576/2023: (menzionata in guide) ribadisce che il reato di emissione di fatture false sussiste anche se non si individua il reale prestatore e se l’evasione non si realizza, perché basta creare i documenti falsi con lo scopo di evadere .
- Cass. Sez. III Pen. 5168/2025: conferma condanna in schema consorzio-cooperative, definendo le coop come meri schermi e le fatture come operazioni inesistenti (oggettivamente e soggettivamente) .
- Cass. Sez. V 17388/2024: sul ribaltamento parziale dei ricavi nei consorzi – afferma che trattenere una quota per spese consortili è lecito e non è occultamento, riconoscendo la natura strumentale del consorzio senza rappresentanza rispetto alle imprese .
- Cass. Sez. III Pen. 22076/2025: applica la nuova norma del 2024 su tenuità e pagamento rateale, imponendo ai giudici di considerare prevalentemente il debito residuo pagato per valutare la tenuità del fatto, con finalità recuperatoria .
Conoscere queste pronunce permette al difensore di avere solidi appigli giurisprudenziali sia in fase di discussione con l’Agenzia sia in giudizio (tributario o penale), citandole a supporto della tesi difensiva.
D: In concreto, potete fare un esempio di difesa vincente in un caso simile?
R: Caso simulato: La società X, consorziata nel Consorzio Y, riceve un avviso di accertamento perché l’Agenzia ritiene che alcune fatture emesse da Y a X (per servizi di coordinamento) siano false, supponendo che Y non abbia svolto realmente quei servizi. X presenta ricorso tributario mostrando che: (1) il Consorzio Y da statuto doveva fornire servizi alle consorziate (es. gestione sicurezza cantieri, acquisti centralizzati), (2) i servizi sono stati effettivamente resi (allega report di visite in cantiere fatte dal personale di Y, ordini di acquisto collettivi fatti da Y per conto delle consorziate), (3) il costo addebitato era proporzionato e documentato (mostra il calcolo di riparto spese generali previsto da convenzione consortile). Inoltre, X evidenzia che Y non ha perseguito fini di lucro ma solo rimborso costi (infatti chiudeva bilancio a zero). La Commissione, vista la documentazione, conclude che le fatture non erano affatto inesistenti ma rispondevano allo scopo consortile, accogliendo il ricorso di X e annullando l’accertamento. Sul fronte penale, nel frattempo era partito un procedimento per dichiarazione fraudolenta a carico dell’amministratore di X, ma grazie all’esito tributario favorevole (che prova l’effettività delle operazioni) e al fatto che X aveva comunque versato l’IVA dopo la contestazione, la Procura chiede l’archiviazione per insussistenza dell’elemento oggettivo del reato (mancando la fattura falsa). Ecco un esempio in cui una difesa accurata e i documenti consortili hanno ribaltato l’accusa di fatture false.
Naturalmente, ogni caso è diverso: il successo dipende dalle prove disponibili e dall’effettiva buona fede e sostanza economica delle operazioni. Ma come regola pratica, documentare tutto e attivarsi subito sono le chiavi per una difesa vincente.
Conclusione
Le contestazioni di false fatturazioni tra consorzi pongono sfide complesse che richiedono un approccio multidisciplinare, combinando competenze di diritto tributario, penale e conoscenza del funzionamento dei consorzi. Dal punto di vista del debitore – che sia un imprenditore consorziato, un amministratore di consorzio o una cooperativa coinvolta – è fondamentale agire tempestivamente e strategicamente per tutelare i propri diritti. La normativa italiana, specie alla luce delle riforme più recenti, offre sì strumenti di repressione severi, ma anche spiragli di difesa fondati su principi di effettività e buona fede, nonché incentivi alla regolarizzazione (come abbiamo visto con le novità introdotte nel 2024 in materia di non punibilità a seguito del pagamento).
In sintesi, per difendersi efficacemente occorre: (1) comprendere a fondo le accuse e il meccanismo contestato (avvalendosi di esperti se necessario), (2) raccogliere ogni evidenza a sostegno della realtà e legittimità delle operazioni (o, se emergono errori, ammetterli per tempo e porvi rimedio), (3) far valere in ogni sede i propri diritti procedurali e sostanziali (onere della prova a carico del fisco, inerenza dei costi, buona fede, ecc.), e (4) utilizzare in modo intelligente gli strumenti di definizione (pagamenti, ravvedimenti, patteggiamenti) per ridurre l’impatto sanzionatorio.
Il consiglio finale per imprenditori e professionisti è di porre grande attenzione preventiva nella gestione dei consorzi: implementare procedure trasparenti, documentare i rapporti interni ed esterni e fare due diligence sui partner consortili può evitare a monte di trovarsi invischiati in situazioni di fatture contestabili. Ma qualora la contestazione arrivi, questa guida dimostra che esistono vie d’uscita onorevoli: la legge italiana punisce duramente i furbi, ma sa anche riconoscere (specie oggi) chi corregge il tiro e vuole mettersi in regola, privilegiando il recupero del gettito e la prosecuzione sana delle attività economiche rispetto alla mera punizione esemplare . Con l’auspicio che queste informazioni possano aiutare i debitori ingiustamente accusati a far valere le proprie ragioni, o i colpevoli a redimersi per tempo, chiudiamo ricordando che in materia così tecnica aggiornamento e preparazione sono le armi vincenti: affidarsi a professionisti competenti e citare fonti autorevoli (leggi e sentenze) è il modo migliore per farsi ascoltare nelle sedi giudiziarie e amministrative.
Fonti: Corte di Cassazione – varie sentenze richiamate (2020-2025); Normativa: D.Lgs. 74/2000, L. 537/1993 art.14, D.Lgs. 471/97; Circolari Agenzia Entrate; Approfondimenti giurisprudenziali (Sistema Ratio, Il Fisco, etc.) . Le citazioni incluse nel testo rinviano ai passaggi originali che supportano e dettagliano quanto esposto.
Corte di Cassazione sentenza n. 28735 depositata il 4 ottobre 2022
Consorzi, ribaltamento parziale dei ricavi non sempre è occultamento – Sistema Ratio – Centro Studi Castelli
CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 ottobre 2020, n. 21706 – In tema d’IVA, è precluso il diritto alla detrazione nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo, poiché l’indicazione mendace di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti – Studio Cerbone
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Le contestazioni di false fatturazioni tra consorzi si verificano quando il Fisco ritiene che i rapporti tra consorzio e consorziate (o tra più consorzi) siano stati usati in modo artificioso, con emissione o utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.
Spesso, infatti, l’Agenzia delle Entrate sospetta che i consorzi siano stati impiegati per gonfiare costi, creare crediti IVA fittizi o ridurre l’imponibile delle società coinvolte.
👉 Non sempre però l’accusa è fondata: la gestione dei consorzi è complessa e molte operazioni contestate hanno solide motivazioni economiche.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Fatture emesse per operazioni mai svolte (operazioni oggettivamente inesistenti);
- Operazioni effettive, ma attribuite a soggetti diversi da quelli che le hanno realmente svolte (fatture soggettivamente inesistenti);
- Ribaltamenti di costi tra consorzio e consorziate privi di adeguata documentazione;
- Flussi di fatture circolari tra consorzi per generare crediti IVA;
- Prezzi e compensi non coerenti con il valore reale delle prestazioni.
📌 Le conseguenze possibili
- Recupero delle imposte non versate con interessi;
- Applicazione di sanzioni tributarie molto elevate;
- Accertamenti a cascata anche sulle imprese consorziate;
- Procedimenti penali tributari per dichiarazione fraudolenta o emissione di fatture false;
- Sequestro preventivo dei beni fino all’ammontare delle imposte ritenute evase.
🔍 Come difendersi
- Dimostrare la realtà delle operazioni: documenti di trasporto, contratti, ordini, corrispondenza commerciale.
- Giustificare i ribaltamenti di costi: spiegare con precisione i criteri di riparto delle spese tra consorzio e consorziate.
- Provare la buona fede delle imprese coinvolte: dimostrare che le transazioni erano ritenute regolari sulla base della documentazione disponibile.
- Contestare la ricostruzione del Fisco: spesso le presunzioni sono troppo generiche o non supportate da prove concrete.
- Impugnare l’accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e predisporre una difesa anche in sede penale.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza l’accertamento e individua i punti critici della contestazione;
- 📌 Ricostruisce la realtà delle operazioni tra consorzi e consorziate;
- ✍️ Redige memorie difensive e ricorsi fondati su prove concrete e giurisprudenza;
- ⚖️ Ti difende nei procedimenti tributari e penali, contestando l’accusa di false fatturazioni;
- 🔁 Studia soluzioni alternative, come definizioni agevolate o accordi di adesione, per ridurre l’impatto economico.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in reati tributari e contestazioni di false fatturazioni;
- ✔️ Specializzato in consorzi, appalti e rapporti consorziati–consorzio;
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni per false fatturazioni tra consorzi sono molto delicate, ma non sempre fondate: spesso derivano da incomprensioni sulla gestione dei costi o da interpretazioni restrittive del Fisco.
Con una difesa legale mirata puoi dimostrare la correttezza delle operazioni, ridurre le pretese dell’Agenzia delle Entrate e proteggere la tua impresa.
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