Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per l’utilizzo di società estere a fini evasivi? L’impiego di società costituite all’estero è spesso oggetto di controlli fiscali, soprattutto quando il Fisco ritiene che siano state create solo per sottrarre redditi alla tassazione italiana. In questi casi il rischio è elevato sia sul piano tributario che penale, ma esistono strategie difensive efficaci.
Quando una società estera diventa “fittizia” per il Fisco
Una società costituita all’estero può essere considerata fittizia se:
– Ha la sede legale in un Paese estero ma la gestione effettiva avviene in Italia
– Non ha una reale struttura organizzativa o operativa nel Paese di costituzione
– È priva di personale, uffici o mezzi idonei a svolgere un’attività economica effettiva
– Viene utilizzata solo per schermare utili o spostare redditi fuori dall’Italia
– Opera da Paesi a fiscalità privilegiata con lo scopo di ridurre il carico fiscale
Quando scattano le contestazioni
– Se l’Agenzia delle Entrate presume che la residenza fiscale effettiva della società sia in Italia
– Se i redditi prodotti all’estero non vengono dichiarati correttamente in Italia
– Se la società viene considerata una “esterovestita”, ossia formalmente estera ma sostanzialmente italiana
– Se vengono utilizzati regimi fiscali di favore per ridurre o azzerare le imposte senza valide ragioni economiche
– Se i flussi finanziari connessi alla società estera non risultano coerenti con le dichiarazioni italiane
Cosa rischi in caso di contestazione
– Recupero delle imposte evase in Italia sui redditi della società estera
– Applicazione di sanzioni fiscali dal 90% al 180% dell’imposta accertata
– Addebito di interessi di mora sulle somme non dichiarate
– Contestazione del reato di dichiarazione infedele o omessa dichiarazione, con conseguenze penali
– Sequestro preventivo e confisca dei beni collegati all’illecito
Come difendersi dall’accusa di utilizzo di società estere a fini evasivi
– Dimostrare l’effettiva residenza fiscale della società all’estero con prove concrete (sede, uffici, dipendenti, contratti, attività operative reali)
– Presentare documentazione che giustifichi le scelte imprenditoriali e commerciali
– Contestare la ricostruzione dell’Agenzia delle Entrate quando si basa solo su presunzioni e non su elementi oggettivi
– Richiamare le convenzioni contro le doppie imposizioni per evitare tassazioni duplici
– Dimostrare la buona fede e l’assenza di dolo, soprattutto nei casi di incertezza normativa
– Impugnare l’avviso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere la riduzione o l’annullamento della pretesa
Il ruolo dell’avvocato in queste contestazioni
– Analizzare la contestazione e individuare vizi formali e sostanziali dell’atto
– Predisporre un dossier difensivo con prove dell’effettiva operatività della società estera
– Contestare la qualificazione di “esterovestizione” imposta dal Fisco
– Difendere il contribuente nei procedimenti tributari e penali collegati
– Negoziare con l’Agenzia delle Entrate eventuali soluzioni di adesione con riduzione delle sanzioni
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione di imposte, sanzioni e interessi richiesti
– La sospensione delle procedure esecutive collegate
– La tutela del patrimonio personale e aziendale da sequestri e confische
– La possibilità di continuare ad operare all’estero in modo legittimo e trasparente
⚠️ Attenzione: l’utilizzo di società estere non è di per sé illecito. Diventa problematico solo quando il Fisco dimostra che la società è fittizia o che i redditi non sono stati dichiarati correttamente. Una difesa ben documentata può ribaltare la presunzione di evasione.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e difesa tributaria – ti spiega come difenderti dalle contestazioni per utilizzo di società estere e quali strategie adottare per tutelare i tuoi interessi.
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Introduzione
L’utilizzo di società estere e altri veicoli giuridici oltreconfine è spesso al centro di contestazioni dell’Amministrazione finanziaria italiana in materia di evasione fiscale. In particolare, si parla di esterovestizione quando una società (o persona fisica) dichiara formalmente la residenza fiscale all’estero al solo scopo di sottrarsi al fisco italiano, pur continuando a operare sostanzialmente in Italia . Le autorità tributarie contestano tali operazioni perché mirano a delocalizzare fittiziamente redditi o patrimoni in giurisdizioni a fiscalità privilegiata (offshore, Paesi UE con regime fiscale favorevole, trust esteri, LLC americane, ecc.), sottraendoli alla tassazione nazionale.
Dal punto di vista del contribuente (debitore) che subisce una contestazione di questo tipo, è fondamentale conoscere gli strumenti di difesa disponibili sia in sede tributaria (versante amministrativo e contenzioso tributario) che in sede penale (qualora la condotta integri reati tributari). Questa guida – rivolta ad avvocati, consulenti fiscali ma anche imprenditori e privati con un livello avanzato di conoscenze – fornisce un’analisi approfondita della normativa italiana aggiornata ad agosto 2025, delle più recenti sentenze e prassi sul tema, offrendo indicazioni pratiche su come difendersi efficacemente. Il taglio è giuridico ma anche divulgativo, così da chiarire concetti complessi e suggerire strategie difensive concrete.
Di seguito esamineremo i concetti chiave (esterovestizione, CFC, abuso del diritto), il quadro normativo di riferimento (criteri di residenza fiscale per società e persone fisiche, disciplina CFC, scambio di informazioni, ecc.), le tipologie più comuni di strutture estere utilizzate e i relativi rischi, gli strumenti con cui il Fisco contrasta queste pratiche (presunzioni legali, verifiche, cooperazione internazionale), e infine le possibili strategie difensive in fase amministrativa, contenziosa e penale. Sono incluse domande e risposte frequenti e tabelle riepilogative (es. evoluzione normativa e confronti pratici) per sintetizzare i punti salienti. L’obiettivo è fornire al contribuente contestato una visione chiara di come tutelare i propri diritti di fronte a una contestazione di evasione fiscale internazionale basata sull’utilizzo di entità estere.
Attenzione: La materia è soggetta a continui aggiornamenti. In particolare, recenti riforme fiscali del 2023-2024 hanno modificato alcuni criteri normativi rilevanti, e la giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione) ha prodotto orientamenti di rilievo fino al 2025, che verranno citati per fornire indicazioni autorevoli e aggiornate. Difendersi efficacemente significa sia conoscere bene la legge che saper valorizzare gli ultimi indirizzi giurisprudenziali a favore del contribuente.
Concetti chiave: esterovestizione, CFC, abuso del diritto
Prima di entrare nel dettaglio normativo, è utile chiarire alcuni concetti chiave:
- Esterovestizione societaria: è la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, spesso in un Paese a fiscalità privilegiata, allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime fiscale italiano . In pratica l’ente estero è solo di facciata, mentre la gestione effettiva avviene in Italia. L’esterovestizione può riguardare anche persone fisiche (il contribuente si trasferisce solo “sulla carta” all’estero, ma continua a vivere e produrre reddito in Italia ). Nel contesto societario, l’esterovestizione si configura tipicamente quando una società formalmente estera ha in realtà la sede dell’amministrazione o la principale attività in Italia (si veda infra la normativa di riferimento). Questo fenomeno è considerato dalla giurisprudenza non una semplice elusione, ma una forma di evasione fiscale vera e propria , comportando dunque conseguenze sia tributarie che potenzialmente penali.
- Controlled Foreign Company (CFC): la disciplina CFC riguarda le società controllate estere in Paesi a bassa tassazione. In base all’art. 167 del TUIR, un soggetto residente in Italia che controlla (direttamente o indirettamente) una società estera a fiscalità privilegiata deve imputare al proprio reddito gli utili della controllata, come se fossero prodotti direttamente . Il regime CFC è un meccanismo anti-elusivo per contrastare la delocalizzazione dei redditi in giurisdizioni offshore: evita che, lasciando gli utili in una società estera “cassaforte” con tasse basse, il fisco italiano non possa tassarli. Oggi l’applicazione della CFC scatta se la società estera è controllata ai sensi del codice civile e sconta un carico fiscale effettivo inferiore alla metà di quello che avrebbe subito in Italia . Vi sono esimenti: ad esempio, se la CFC risiede in UE/SEE e svolge un’attività economica effettiva (staff, asset, locali propri), il contribuente può evitare l’imputazione dimostrandone la sostanza economica (concetto simile a quello di “non costrutto artificioso”). La normativa CFC è stata rivista con il recepimento della direttiva UE ATAD (D.Lgs. 142/2018 e circolare Agenzia Entrate 18/E/2021) per uniformarla agli standard comunitari . Difendersi su questo fronte significa soprattutto dimostrare che la società estera non è un guscio vuoto finalizzato alla detenzione di utili, oppure che la tassazione estera non è così bassa da integrare i presupposti CFC.
- Abuso del diritto fiscale vs Evasione: l’ordinamento distingue tra elusione/abuso ed evasione. L’abuso del diritto (art. 10-bis Statuto del Contribuente, L. 212/2000) ricorre quando il contribuente realizza un’operazione formalmente lecita ma priva di sostanza economica, al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale indebito, senza violare direttamente una specifica norma. L’abuso comporta il recupero delle imposte ma non costituisce reato penale. L’evasione fiscale, invece, implica violazione di norme fiscali (es. omessa o falsa dichiarazione) ed è perseguibile anche penalmente in presenza di determinati importi evasi. In passato vi è stato dibattito se l’esterovestizione fosse un abuso (quindi richiedesse prova di una costruzione artificiosa volta a eludere norme) o un’evasione (mera violazione di norme sulla residenza fiscale). La Cassazione ha recentemente chiarito che l’esterovestizione non rientra nell’abuso del diritto, bensì si configura come evasione: è sufficiente accertare il collegamento territoriale in Italia (sede effettiva o attività prevalente) senza dover indagare sulle intenzioni elusive . Dunque una società esterovestita è trattata come soggetto evasore (es. per omessa dichiarazione dei redditi in Italia), con tutte le conseguenze del caso.
- Libertà di stabilimento (diritto UE): quando la società estera è in un Paese UE, entra in gioco il principio comunitario di libera circolazione e stabilimento. Un contribuente può legittimamente costituire società in altri Stati membri per beneficiare di regimi fiscali più favorevoli; ciò non costituisce di per sé abuso . Tuttavia, gli Stati possono contrastare le “costruzioni di puro artificio” prive di effettività economica, finalizzate solo a eludere la normativa fiscale nazionale . Questo principio deriva dalla celebre sentenza Cadbury Schweppes della Corte di Giustizia UE (12 settembre 2006), richiamata spesso anche dalla Cassazione . In concreto, per società UE, il Fisco italiano deve provare che la presenza all’estero è fittizia e artificiosa – ossia che manca una reale attività economica locale – prima di poter disconoscere la libertà di stabilimento e attrarre la residenza in Italia. Nel caso di società extra-UE, invece, tale tutela comunitaria non opera: è sufficiente verificare i criteri interni di collegamento (sede o attività in Italia) . Questa differenza incide sul riparto dell’onere probatorio, come vedremo, ed è stata al centro di diverse pronunce recenti.
Chiariti questi concetti, passiamo al quadro normativo italiano rilevante, in evoluzione dopo la riforma fiscale del 2023.
Quadro normativo di riferimento (Italia)
Residenza fiscale delle società (art. 73 TUIR)
Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR, D.P.R. 917/1986) all’art. 73 definisce i criteri in base a cui una società o ente si considera fiscalmente residente in Italia. Fino al 2023, la norma stabiliva che un soggetto era residente se per la maggior parte del periodo d’imposta aveva in Italia la sede legale, la sede dell’amministrazione oppure l’oggetto principale (criteri alternativi) .
- Sede legale: il luogo indicato come sede nell’atto costitutivo o statuto. È un criterio formale. Se la sede legale è in Italia per >183 giorni l’anno, la società è residente (anche se opera all’estero).
- Sede dell’amministrazione: interpretata tradizionalmente come sede effettiva o luogo di direzione gestionale. Corrisponde al posto in cui vengono prese le decisioni amministrative e direttive dell’ente (il cosiddetto place of effective management internazionale).
- Oggetto principale: il luogo in cui si svolge prevalentemente l’attività economica della società (es. dove si trova la produzione o il mercato principale).
Con la Riforma fiscale 2023 (attuata dal D.Lgs. 27 dicembre 2023 n. 209, in vigore dal 1º gennaio 2024) tali criteri sono stati ridefiniti e precisati . L’art. 73 comma 3 TUIR, nella nuova formulazione, prevede che sono considerati residenti le società e gli enti che per la maggior parte dell’anno hanno in Italia: (i) la sede legale, (ii) la sede di direzione effettiva, oppure (iii) la sede della gestione operativa in via principale. È stato eliminato il riferimento all’“oggetto principale”, sostituito dal concetto più concreto di luogo di gestione ordinaria . In sostanza:
- Sede legale: rimane invariata (luogo indicato negli atti, criterio formale).
- Sede di direzione effettiva: è definita ora espressamente come il luogo in cui, in maniera continua e coordinata, vengono assunte le decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente . È il concetto di effective place of management adottato anche nei trattati internazionali e dall’OCSE. Equivale alla “sede dell’amministrazione” sostanziale.
- Sede della gestione operativa (in via principale): nuovo criterio dal 2024, indica il luogo in cui si svolgono gli atti di gestione corrente in modo continuativo e prevalente . In pratica dove si esercita la principale attività quotidiana dell’impresa, dove l’ente opera giorno per giorno (es. stabilimenti, uffici operativi). Questo sostituisce il vecchio “oggetto principale” con una nozione più aderente alla prassi internazionale.
È sufficiente che uno solo di questi collegamenti sia in Italia per oltre metà del periodo d’imposta (>183 giorni) perché la società sia considerata residente . La modifica normativa mira a evitare interpretazioni estensive e ambigue: si allinea ai criteri utilizzati nei trattati contro le doppie imposizioni (che spesso ricorrono al place of effective management come tie-breaker in caso di doppia residenza) . Di seguito una tabella riassuntiva dei criteri di collegamento prima e dopo la riforma 2024:
Tabella 1 – Criteri di residenza fiscale delle società (art. 73 TUIR)
Criterio | Prima del 2024 (testo previgente art.73 co.3) | Dal 2024 (art.73 co.3 novellato dal D.Lgs. 209/2023) |
---|---|---|
Sede legale | Luogo indicato nell’atto costitutivo o statuto (criterio formale). Sufficiente a configurare residenza se mantenuto >183 giorni. | (Invariato) Luogo indicato nello statuto. È criterio formale ancora sufficiente (se sede legale in Italia per la maggior parte dell’anno). |
Sede di direzione effettiva<br/>(già “sede dell’amministrazione”) | Tradizionalmente interpretata come sede effettiva o luogo di amministrazione in concreto (place of management). Non era definita dalla legge previgente, ma dalla giurisprudenza come luogo di direzione. | Definizione introdotta: luogo in cui si assumono continuativamente e in modo coordinato le decisioni strategiche sull’ente . Corrisponde al place of effective management, criterio internazionale ora recepito espressamente. |
Oggetto principale<br/>(attività principale) / Gestione operativa | Luogo in cui si svolge l’attività principale dell’ente (criterio oggettivo, talora di difficile individuazione; es: dove si produce reddito prevalentemente). | Nuovo criterio: sede della gestione ordinaria in via principale, ossia dove si compiono in modo continuativo gli atti di gestione quotidiana e si svolge la principale attività economica . Più concreto del precedente “oggetto principale”. |
Durata | Ciascuno dei criteri deve sussistere per oltre 183 giorni nell’anno (maggior parte del periodo d’imposta). | (Immutato) I criteri sono alternativi ma ognuno va considerato se ricorre per >6 mesi nell’anno . |
Effetti | Se uno dei criteri è verificato, la società è considerata residente fiscale italiana, tassata su tutti i redditi ovunque prodotti (principio del worldwide income) . | (Immutato) Medesimo principio di tassazione universale sui redditi globali se uno dei collegamenti è in Italia . |
Questa evoluzione normativa non cambia la sostanza: una società formalmente estera ma gestita o operante principalmente in Italia è residente in Italia e tenuta a dichiarare qui i redditi . Tuttavia, la nuova formulazione chiarisce meglio i concetti di “direzione effettiva” e “gestione operativa”, allineandoli agli standard OCSE, riducendo così margini di ambiguità e possibili doppie imposizioni . Ad esempio, se prima l’“oggetto principale” poteva essere dibattuto (una holding senza dipendenti dove ha l’oggetto principale?), ora si guarda a dove si svolge la gestione corrente. Questa chiarezza può aiutare i contribuenti a valutare ex ante il rischio di contestazione e il Fisco a fondare le proprie pretese su parametri più oggettivi.
È importante notare che, in caso di doppia residenza fiscale (es. due Stati ritengono residente la stessa società), intervengono le Convenzioni contro le doppie imposizioni. Solitamente i trattati seguono criteri come il luogo di direzione effettiva per attribuire la residenza a uno Stato (tie-breaker rule) . La riforma 2024, richiamando esplicitamente la “sede di direzione effettiva”, tende a uniformare il diritto interno a tali criteri convenzionali, facilitando la risoluzione dei conflitti di residenza attraverso le regole internazionali (evitando doppie tassazioni) .
Residenza fiscale delle persone fisiche (art. 2 TUIR)
Anche le persone fisiche hanno criteri di residenza fiscale definiti per legge (art. 2 TUIR). Un cittadino italiano che trasferisce la residenza all’estero potrebbe essere comunque considerato fiscalmente residente in Italia se soddisfa certi requisiti, con implicazioni significative sul pagamento delle imposte (worldwide taxation).
Fino al 2023, i criteri principali erano: (i) iscrizione nelle anagrafi comunali della popolazione residente per >183 giorni (ovvero non iscrizione all’AIRE), (ii) domicilio in Italia ai sensi del codice civile (sede principale degli affari e interessi), (iii) residenza in Italia ai sensi civile (dimora abituale), sempre per la maggior parte dell’anno . Inoltre, vigeva una presunzione per cui i cittadini trasferiti in Stati a fiscalità privilegiata erano considerati comunque residenti in Italia salvo prova contraria (art. 2 co.2-bis TUIR).
La riforma 2023 (D.Lgs. 209/2023) ha aggiornato anche questi criteri a decorrere dal 1º gennaio 2024 :
- L’iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) da ora costituisce solo una presunzione relativa di non residenza in Italia . Significa che se Tizio si iscrive all’AIRE, si presume residente estero iuris tantum, ma l’Agenzia Entrate può contestare mostrando che in realtà viveva ancora in Italia. Viceversa, la mancata iscrizione all’AIRE non basta più da sola a considerarlo residente in Italia (è un elemento ma non decisivo, come vedremo).
- Sono stati introdotti tre criteri alternativi sostanziali per definire la residenza fiscale della persona: (i) domicilio (nel senso civilistico, reinterpretato come centro prevalente delle relazioni personali e familiari), (ii) residenza (dimora abituale, cioè presenza fisica, per più di 183 giorni in Italia), (iii) centro degli interessi vitali (criterio mutuato dalle convenzioni: luogo dei legami personali, economici e sociali più stretti) . In pratica, se una persona: trascorre la maggior parte dell’anno in Italia, oppure mantiene qui il centro delle proprie relazioni familiari ed economiche, viene considerata residente, a prescindere dall’iscrizione anagrafica. Il legislatore ha separato alcuni concetti per meglio riflettere i tie-breaker OCSE (domicilio e interessi vitali spesso coincidono, ma sono ora entrambi considerati).
Quindi, per un individuo: anche vivendo all’estero formalmente, se la famiglia, gli affari e la dimora effettiva restano in Italia, il Fisco potrà tassarlo come residente. La nuova normativa rende l’iscrizione all’AIRE una condizione necessaria ma non sufficiente: dal 2024 l’iscrizione all’AIRE è obbligatoria (e sono state previste anche sanzioni pecuniarie da 200 a 1.000 € per chi omette di iscriversi o cancellarsi entro 90 giorni ), ma non è più decisiva in assoluto. Conta soprattutto dove la persona vive realmente, lavora e ha i propri legami.
Va ricordato che, analogamente alle società, le Convenzioni internazionali possono risolvere i conflitti di doppia residenza delle persone fisiche tramite criteri successivi: ad esempio, se una persona è residente per la legge interna di due Stati, si applica in sequenza il test della dimora abituale, poi del centro degli interessi vitali, ecc., per attribuire la residenza fiscale esclusiva ad uno solo (art. 4 Modello OCSE). La Cassazione ha recentemente riconosciuto che tali criteri convenzionali possono far prevalere la realtà sostanziale sulla presunzione interna, persino se il trasferimento è verso un “paradiso fiscale” . Ad esempio, la sentenza Cass. n. 35284/2023 ha stabilito che un contribuente italiano emigrato negli Emirati Arabi (Paese a fiscalità privilegiata) può vincere la presunzione di residenza italiana (ex art. 2 co.2-bis TUIR) dimostrando, con i criteri della Convenzione Italia-EAU, di avere lì il centro dei propri interessi vitali . Ciò segna un’importante apertura: il semplice fatto di trasferirsi in un “tax haven” non condanna automaticamente all’essere considerati residenti italiani se la sostanza della vita del contribuente risulta effettivamente all’estero.
Presunzioni legali antielusive (esterovestizione)
La legge italiana prevede presunzioni legali relative per facilitare l’accertamento dell’esterovestizione in situazioni tipiche. Queste norme invertono parzialmente l’onere della prova a carico del contribuente. Le principali sono:
- Art. 73 comma 5-bis TUIR (società controllate e amministrate da italiani): Introdotto nel 2006, dispone che si presume residente in Italia (salvo prova contraria) la sede dell’amministrazione di società ed enti esteri che detengono partecipazioni di controllo in società residenti in Italia, quando almeno una delle seguenti condizioni è soddisfatta: (a) la società estera è controllata, anche indirettamente, da soggetti residenti in Italia (secondo la definizione di controllo dell’art. 2359 c.c.) ; (b) il consiglio di amministrazione o organo analogo dell’estera è composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia . In parole semplici, la norma mira alle holding “esterovestite” create da soggetti italiani: se un’impresa italiana costituisce una capogruppo in Lussemburgo o Malta che poi possiede società figlie in Italia, e gli amministratori o i soci di controllo sono italiani, la legge presume che la vera direzione sia rimasta in Italia . Questo significa che, in caso di verifica, il Fisco non deve inizialmente provare nulla oltre a questi elementi formali; spetta al contribuente dimostrare l’effettiva operatività estera e l’autonomia della holding per rovesciare la presunzione . La Cassazione (sent. n. 9400/2023) ha chiarito che per configurare il “controllo” rilevante occorre che la maggioranza delle quote della società estera faccia capo a un unico soggetto italiano (anche contando eventuali fiduciarie o interposti, ma senza considerare partecipazioni per conto di terzi) . In sostanza, forme frammentate di partecipazione non eludono la presunzione se in realtà un singolo centro decisionale italiano controlla la società estera.
- Art. 2 comma 2-bis TUIR (trasferimenti persone fisiche in paradisi fiscali): Stabiliva – prima delle modifiche 2023 – che i cittadini italiani che si trasferiscono in Stati black-list (a fiscalità privilegiata) sono considerati comunque residenti in Italia salvo prova contraria. Questa presunzione rendeva molto arduo “emigrare” fiscalmente in un paradiso fiscale, poiché il contribuente doveva fornire prove convincenti di aver realmente spostato la propria vita all’estero. Come detto, dal 2024 tale norma è stata di fatto superata: la L. 213/2023 ha eliminato l’elenco black-list e la presunzione viene temperata dall’analisi convenzionale e dai nuovi criteri di residenza . Resta però l’idea di fondo: trasferirsi in certe giurisdizioni verrà esaminato con attenzione, e l’onere probatorio per dimostrare il cambio di residenza è particolarmente rigoroso (serve dimostrare il radicamento all’estero: casa, famiglia, lavoro fuori dall’Italia, ecc.). La Cassazione, come visto, ha aperto alla possibilità di vincere la presunzione tramite i criteri da trattato , riconoscendo una sorta di prevalenza del “substance over form” anche qui.
In sintesi, le presunzioni anti-esterovestizione funzionano così: se una società soddisfa certi requisiti (ad es. è una controllante estera di società italiane con management italiano), si presume che sia residente in Italia . Ciò “facilita” l’Agenzia Entrate, la quale potrà direttamente emettere accertamento come se la società fosse italiana, e sarà poi compito del contribuente provare che la società ha sostanza all’estero (sede reale all’estero, attività economica propria, etc.) per ribaltare l’assunto . È importante sottolineare che si tratta di presunzioni relative (iuris tantum), quindi ammettono prova contraria. In chiave difensiva vedremo come documentare la reale autonomia della società estera per contrastare queste presunzioni.
Disciplina Controlled Foreign Companies (art. 167 TUIR)
La normativa sulle CFC è un altro pilastro del contrasto all’esterovestizione, sebbene riguardi più la tassazione degli utili esteri che la residenza in sé. L’art. 167 TUIR prevede che se un soggetto residente detiene il controllo di una società estera localizzata in un Paese a fiscalità privilegiata, gli utili della controllata sono imputati per trasparenza al socio residente, indipendentemente da effettiva distribuzione. La ratio è impedire che si accumulino profitti in paradisi fiscali (es. una controllata alle Cayman che fa utili e li trattiene all’estero) per poi magari farli emergere sotto forma di dividendi esentasse o capital gains. Con la riforma attuata dal D.Lgs. 142/2018 (recepimento Anti Tax Avoidance Directive – ATAD), l’art. 167 è stato riscritto, eliminando l’elenco statico dei Paesi black-list e introducendo un parametro di tassazione effettiva: oggi un’entità estera è considerata “CFC” se (a) il soggetto italiano la controlla e (b) l’entità paga un’imposta inferiore al 50% di quella che avrebbe pagato se soggetta alle norme italiane . In aggiunta, si richiede che l’entità estera abbia più del 1/3 dei proventi da passive income (interessi, royalties, etc.) o da transazioni intragruppo (indice di scarsa sostanza) – requisiti di derivazione ATAD. Se tali condizioni sussistono, il fisco imputa al controllante italiano il reddito della CFC, con tassazione in Italia (riconoscendo un credito per le eventuali imposte estere pagate).
Esimenti: La legge prevede possibilità di evitare l’applicazione CFC dimostrando che la controllata estera svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, sedi nei territori in cui è stabilita (art. 167 co.5). In ambito UE/SEE, questa prova contraria è un diritto del contribuente (a tutela della libertà di stabilimento: non si applica la CFC se l’impresa estera non è un guscio vuoto). Anche per entità extra-UE talvolta l’Agenzia può ammettere, previa istanza di interpello, la disapplicazione della CFC se ad esempio vi sono specifici fattori esimenti (in passato esistevano whitelist di esclusione, oggi è più caso per caso).
Sul piano procedurale, il contribuente può presentare interpello disapplicativo all’Agenzia delle Entrate per chiedere di non applicare la disciplina CFC, fornendo prove della sostanza economica della controllata estera. Tuttavia, l’Agenzia è diventata restrittiva: in risposte recenti ha dichiarato inammissibili interpelli tesi a ottenere in via preventiva un “via libera” sulla residenza fiscale o sulla non applicazione di presunzioni di esterovestizione . Infatti, la residenza fiscale e la verifica di sostanza economica sono valutazioni di fatto, non cristallizzabili ex ante . Di conseguenza, spesso la questione CFC viene eventualmente discussa in sede di accertamento e contenzioso, non potendosi avere certezza preventiva ufficiale (eccetto i ruling internazionali per grandi investimenti, che però sono rari ).
Conseguenze CFC: se scatta l’applicazione, il socio italiano dovrà includere nella propria dichiarazione i redditi della controllata estera (pro quota). La Cassazione ha chiarito in una recente pronuncia (Cass. 3 luglio 2025 n. 18925) che tali redditi vanno imputati solo se e nella misura in cui il socio deteneva la partecipazione nel periodo in cui gli utili sono maturati . Non è cioè ammesso tassare in capo al socio utili generati dalla CFC prima che egli ne assumesse il controllo (ad es., se un’azienda italiana acquista nel 2021 una società estera con utili pregressi, non può essere tassata su quegli utili precedenti quando vengono distribuiti come dividendo) . Questo principio impedisce imputazioni retroattive e tutela chi acquisisce società estere con utili accumulati, chiarendo che il momento rilevante è la generazione del reddito in capo alla controllata.
In caso di contestazione CFC, la linea difensiva consisterà nel dimostrare: o che la società estera non rientra nei parametri (ad es. perché l’effective tax rate estero non è così basso una volta calcolato correttamente, o perché non c’è un controllo rilevante), oppure che comunque la società estera ha una sostanza economica genuina (sede, uffici, dipendenti, attività effettiva nel mercato locale) tale da escludere l’intento di delocalizzazione fittizia. Si potrà far leva su documentazione di bilanci, contratti, organigrammi e sull’eventuale parere positivo ottenuto tramite interpello in casi analoghi (ad es. l’Agenzia Entrate nel 2021 ha fornito chiarimenti applicativi con Circolare 18/E/2021 e successiva prassi ). Va anche considerato l’impatto delle norme CFC in ambito penale: un’omessa dichiarazione di redditi CFC imputabili potrebbe essere vista come dichiarazione infedele/omessa se supera le soglie, anche se c’è dibattito sul dolo in tali casi (spesso l’azienda riteneva in buona fede di non dover imputare quegli utili). Approfondiremo i profili penali in seguito.
Normativa comunitaria e scambio internazionale di informazioni
La lotta all’esterovestizione si inserisce in un contesto normativo europeo e internazionale più ampio. A livello UE, come già accennato, vanno bilanciati due aspetti: libertà di stabilimento da un lato, e contrasto all’abuso dall’altro. La Corte di Giustizia UE ha affermato che trasferire la sede in un altro Stato membro per beneficiare di un fisco più leggero è lecito, salvo il caso in cui si tratti di una costruzione artificiosa priva di sostanza economica finalizzata solo a eludere il fisco del paese d’origine . Questo principio vincola l’Italia nel trattare i casi intra-UE: l’accertamento dell’esterovestizione per società comunitarie deve verificare l’eventuale natura fittizia dell’insediamento estero, non potendo essere automatico. Diversamente, per Stati extra-UE, l’Italia applica pienamente le norme interne (art. 73 TUIR) senza doversi preoccupare delle libertà comunitarie . Come evidenziato da Cass. n. 1883/2023, la contestazione di esterovestizione va “declinata diversamente” a seconda che la società abbia sede in UE o fuori UE: nel primo caso serve provare il carattere di puro artificio dell’operazione, nel secondo basta riscontrare i criteri di collegamento con l’Italia .
L’Italia inoltre partecipa a vari accordi internazionali di scambio di informazioni finanziarie e fiscali, che hanno rafforzato enormemente gli strumenti di accertamento transnazionale. Ad esempio:
– Dal 2017 è in vigore lo scambio automatico di informazioni sui conti finanziari (Common Reporting Standard – CRS) promosso dall’OCSE, per cui decine di giurisdizioni (incluse Svizzera, San Marino, ecc.) inviano annualmente all’Agenzia Entrate dati su conti correnti, depositi e patrimoni detenuti da residenti italiani . Questo rende assai rischioso non dichiarare attività estere (Quadro RW), perché le banche estere segnalano direttamente i dati al Fisco italiano.
– Esiste uno scambio su richiesta e spontaneo previsto dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni e dalla normativa UE (Direttive DAC – Directive on Administrative Cooperation). Ad esempio, l’Italia può chiedere a un Paese informazioni su una società o trust estero di un contribuente italiano, e viceversa.
– La normativa antiriciclaggio e sul Beneficiario Effettivo (Beneficial Owner) impone la trasparenza di assetti societari e trust: l’UE ha introdotto registri dei titolari effettivi (anche se l’accesso pubblico ha avuto vicende alterne per pronunce della CGUE sulla privacy), comunque le autorità fiscali hanno strumenti per risalire ai reali proprietari di società e trust. Un italiano che pensi di celarsi dietro un trust o fiduciaria estera può essere identificato.
– L’accordo FATCA con gli Stati Uniti (attivo dal 2015) assicura lo scambio di informazioni bancarie tra Italia e USA per i conti detenuti reciprocamente da residenti. Quindi neppure rifugiarsi dietro una LLC del Delaware o una corporation Florida garantisce più l’opacità bancaria, perché l’IRS comunica i dati.
In aggiunta, sul fronte normativo UE anti-elusione, citiamo:
– La direttiva ATAD (Anti Tax Avoidance Directive) che ha armonizzato in parte le regole su CFC, interessi passivi, exit tax, e introdotto il concetto di GAAR (clausola generale antiabuso) recepito in Italia.
– La proposta di direttiva ATAD 3 (Unshell), in discussione a livello UE, mirata a combattere le società di comodo (shell companies) prive di sostanza nell’UE, imponendo requisiti di reporting e sanzioni se risultano “gusci vuoti” utilizzati per vantaggi fiscali indebiti. Se verrà approvata (probabilmente nel 2025/26), aggiungerà un ulteriore strumento di deterrenza per chi crea entità fittizie intra-UE.
Il combinato di questi strumenti fa sì che oggi nascondere redditi all’estero sia estremamente difficile: i paradisi fiscali tradizionali aderiscono in buona parte agli scambi di informazione, e l’Agenzia delle Entrate, spesso coadiuvata dalla Guardia di Finanza, può incrociare dati su movimenti finanziari, partecipazioni, proprietà estere in modo molto più efficace rispetto al passato. Pertanto, nel difendersi da un’accusa di esterovestizione, bisogna partire dal presupposto che il Fisco potrebbe già disporre di un quadro informativo piuttosto dettagliato delle proprie attività internazionali (conti bancari, atti societari, ecc.).
Accertamenti, verifiche e ispezioni
Sul piano interno, l’Amministrazione finanziaria dispone di ampi poteri di accertamento e ispezione per individuare i casi di esterovestizione. Alcuni elementi pratici:
– Questionari e richieste di informazioni: l’Ufficio può inviare al contribuente questionari specifici (ex art. 32 DPR 600/73) per chiedere, ad esempio, dove si tengono le riunioni del CdA, chi sono gli amministratori, dove sono ubicati gli uffici, quanti dipendenti ha la società estera, ecc. Spesso l’esterovestizione viene scoperta perché il contribuente, interrogato, rivela elementi (volontariamente o tramite dati acquisiti) che indicano collegamenti stretti con l’Italia.
– Guardia di Finanza – verifiche sostanziali: la GdF può effettuare accessi, ispezioni e verifiche presso sedi in Italia collegate al contribuente (es. l’ufficio italiano dove magari si gestiscono di fatto le attività della società estera). Può controllare documenti, email, corrispondenza, intervistare dipendenti. Ad esempio, in un caso le autorità hanno scoperto che il magazzino e la logistica di società formalmente sanmarinesi erano gestiti integralmente da una società a Bolzano, facendo emergere la sede di fatto in Italia . Altri riscontri classici: bollette e utenze telefoniche, biglietti aerei, tracciamenti GPS o celle telefoniche che mostrano la presenza fisica degli amministratori prevalentemente in Italia.
– Indagini finanziarie: vengono analizzati i conti bancari italiani dei sospetti amministratori o soci: se da questi conti transitano sistematicamente incassi e pagamenti riconducibili all’attività della società estera, è indice che la gestione avviene dall’Italia. Anche i conti esteri (grazie a CRS) possono essere noti: se risultano bonifici dalla società estera verso l’Italia per spese operative, stipendi, ecc., ciò fornisce indizi.
– Incrocio banche dati: l’Agenzia Entrate incrocia le informazioni del Registro delle Imprese (es. cariche societarie), dell’Anagrafe Tributaria (dichiarazioni IVA, modelli fiscali) e dei registri esteri disponibili. Esempio: se un cittadino italiano compare come amministratore unico di una LTD inglese, ma continua a risiedere in Italia, e magari la LTD risulta avere come “ufficio” una sede virtuale, scatta un alert di potenziale esterovestizione.
Spesso l’accertamento inizia con una fase di indagine preliminare: raccolta di indizi e prove. Poi l’Ufficio notifica un Processo Verbale di Constatazione (PVC) se c’è stata verifica GdF, oppure un avviso di accertamento contestando formalmente la residenza in Italia per determinati anni d’imposta. A quel punto il contribuente entra nella fase difensiva: può presentare memorie, adesione, e poi ricorrere in Commissione Tributaria. L’uso delle presunzioni legali (art. 73 co.5-bis, art. 2 co.2-bis) fa sì che spesso l’accertamento riporti semplicemente i fatti tipici (soci italiani, amministratori italiani, controllo di società italiane, etc.) e concluda per la residenza in Italia, dando al contribuente l’onere di procurare prove contrarie.
Profili penal-tributari
Quando l’esterovestizione comporta evasione di imposta di rilevante entità, il caso può avere anche risvolti penali. Le fattispecie del D.Lgs. 74/2000 che tipicamente possono configurarsi sono:
– Omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs.74/2000): reato che sussiste se il contribuente omette di presentare la dichiarazione annuale pur essendovi obbligato, e l’imposta evasa supera €50.000. Nel contesto dell’esterovestizione, se una società formalmente estera è ritenuta residente in Italia, avrebbe dovuto presentare qui la dichiarazione dei redditi: la mancata presentazione si qualifica come reato di omessa dichiarazione . Lo stesso per la persona fisica che si finge residente estero ma in realtà era soggetto all’obbligo dichiarativo in Italia. La Cassazione ha appunto affermato che in caso di esterovestizione “verrà contestata l’omessa dichiarazione dei redditi” per la società falsamente estera che avrebbe dovuto dichiarare in Italia .
– Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs.74/2000): se invece una dichiarazione viene presentata ma con redditi falsamente inferiori (ad esempio, un soggetto dichiara solo il reddito italiano omettendo di indicare il reddito estero che in realtà doveva essere incluso), può configurarsi dichiarazione infedele. La soglia penale è imposta evasa > €100.000 e ricavi sottratti > 10% di quanto dichiarato o comunque > €2 milioni. Nel caso di esterovestizione, potrebbe applicarsi a chi, ad esempio, presenta dichiarazione dei redditi in Italia come persona fisica ma omette di indicare i redditi della società estera a lui imputabili per trasparenza (qualora dovuti).
– Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art.3) o emissione di fatture false (art.8): meno frequentemente richiamati in questi casi, a meno che l’esterovestizione si accompagni ad altri artifici (es. utilizzo di documenti fittizi per simulare costi in Italia, ecc.).
Da notare che l’esterovestizione in sé non è tipizzata come reato autonomo, ma viene punita penalmente quando costituisce il mezzo per realizzare i reati suddetti (in primis l’omessa dichiarazione). In dottrina ci si è chiesti se l’esterovestizione possa mai configurare un mero abuso non punibile penalmente: la Cassazione penale pare escluderlo, ritenendo che se c’è esterovestizione di norma c’è omessa dichiarazione, quindi reato . Tuttavia, occorre sempre la prova del dolo specifico di evasione: se il contribuente potesse dimostrare di aver ritenuto in buona fede di non essere residente (ad es. affidandosi a un parere legale), potrebbe andare esente da pena per difetto di dolo, pur restando sanzionabile tributariamente. Sono questioni da valutare caso per caso in sede penale.
È importante sottolineare che nelle cause penali la prova dell’accusa deve essere oltre ogni ragionevole dubbio, mentre nel procedimento tributario vige il principio del “più probabile che non” sulla base di presunzioni. Ne deriva che talora un contribuente può essere assolto penalmente per insufficienza di prove (o per mancanza dell’elemento soggettivo), ma comunque perdere in sede tributaria dove vale la presunzione di residenza. In linea generale, però, una sentenza penale irrevocabile di assoluzione per insussistenza del fatto vincola il giudice tributario sugli stessi fatti (principio del ne bis in idem sostanziale). Ad esempio, la C.G.T. Puglia (sent. n. 2445/23/2023) ha affermato che l’assoluzione penale per insussistenza della frode fiscale legata a esterovestizione vincola automaticamente il processo tributario relativo . In quel caso si trattava di una società di navigazione portoghese accusata di essere schermo di una italiana: la sentenza penale aveva riconosciuto l’autonomia operativa della società estera e ciò ha fatto cadere anche la pretesa fiscale .
Le conseguenze penali connesse all’esterovestizione non si limitano alle sanzioni detentive: spesso la Procura richiede il sequestro preventivo per equivalente dei beni degli indagati (amministratori di fatto o di diritto) pari alle imposte evase. Ciò significa che, nelle more del processo, i conti correnti, gli immobili o altri asset in Italia del contribuente possono essere congelati per un importo equivalente al vantaggio fiscale contestato . Questo strumento viene percepito come molto afflittivo e può spingere l’indagato a cercare soluzioni transattive (ad es. versare il dovuto per ottenere il dissequestro). È dunque fondamentale, nella difesa penale, agire tempestivamente per contestare il sequestro qualora manchino i presupposti (ad es. se l’evasione è solo presunta e non quantificata con certezza, o se vi è già stata adesione in sede tributaria).
Infine, va ricordato che l’ordinamento prevede l’irrilevanza penale delle condotte elusive (abuso del diritto) ex art. 10-bis L. 212/2000. Ma nel caso di esterovestizione, come visto, la tendenza è qualificarla come evasione, quindi tale scudo non opera . Se invece il contribuente riesce a far riconoscere la propria operazione come elusiva ma non fraudolenta, eviterebbe il penale (ma anche le sanzioni amministrative verrebbero ridotte). Ad esempio, in situazioni borderline, un buon esito in sede tributaria (riconoscimento di sostanza economica, quindi niente evasione) scongiura anche ogni riflesso penale.
Riassumendo le sanzioni amministrative: in caso di esterovestizione accertata, la società (o persona) dovrà pagare tutte le imposte evase più sanzioni da 120% a 240% dell’imposta dovuta per omessa dichiarazione (range ridotto se il fatto emerge prima del contenzioso, ad es. con acquiescenza). Dal 2024, come già detto, c’è una sanzione a parte di €200-1.000 per l’omessa iscrizione o cancellazione AIRE . Le sanzioni penali, per omessa dichiarazione, vanno da 2 a 5 anni di reclusione (art.5), per infedele da 2 a 4. Ci sono cause di non punibilità (pagamento integrale del debito tributario prima del dibattimento per l’omessa, che estingue il reato, come previsto dal D.Lgs. 74/2000 modificato nel 2019), quindi anche la strategia di ravvedimento operoso tardivo e saldo del debito può rientrare in una difesa integrata (tributaria+penale) volta a mitigare le conseguenze.
Utilizzo di società estere: tipologie comuni e profili di rischio
Diamo ora uno sguardo alle modalità più diffuse con cui imprenditori o privati cercano di utilizzare entità estere per ridurre indebitamente il carico fiscale, evidenziando i rischi specifici di ciascuna.
- Società offshore in paradisi fiscali: classico caso, costituire una società in giurisdizioni “offshore” (es. Panama, Isole Vergini, Cayman, Dubai, ecc.) con tassazione nulla o minima. Spesso queste società hanno sede legale e amministratori formali locali, ma sono in realtà gestite dall’Italia. Possono essere usate come cassaforti (holding di partecipazioni o conti bancari) o per fatturare servizi/beni a clienti esteri evitando la tassazione italiana. Rischio: l’Italia le considererà residenti qui se emergono elementi gestionali italiani (anche perché quasi tutti i paradisi fiscali rientrano tra le “fiscalità privilegiate” che attivano la disciplina CFC e le presunzioni di residenza). Inoltre, i pagamenti verso e da questi Paesi sono monitorati con attenzione da banche e fisco (soggetti a comunicazioni oggettive antiriciclaggio). Difesa: richiede dimostrare una reale sede estera autonoma, compito arduo se il Paese in questione è notoriamente privo di sostanza (es. società con uffici “virtuali”).
- Società nell’Unione Europea (Malta, Cipro, Irlanda, Lussemburgo, ecc.): approfittare di regimi fiscali più favorevoli all’interno dell’UE (ad es. holding in Lussemburgo con esenzione su certe partecipazioni, società bulgara con IRES 10%, residenza in Portogallo per benefici individuali, ecc.) è lecito, ma espone al rischio di contestazione se l’entità è una mera letterbox company. L’UE garantisce la libertà di stabilimento, quindi costituire una Ltd in Irlanda al 12.5% o una Malta Ltd al 5% effettivo di tassazione non è vietato; tuttavia, come spiegato, il Fisco italiano potrà intervenire se quella società è una costruzione artificiosa. Esempio: un’SRL slovacca con soci e amministratori italiani, che opera solo in Italia di fatto, è stata considerata abuso della libertà di stabilimento dalla Cassazione . Rischio: l’Italia oltre a tassare i redditi non dichiarati può disconoscere eventuali regimi agevolati (es. crediti d’imposta o IVA agevolata) se la società estera era fittizia . Un caso pratico: conferimento di immobili italiani a una SRL londinese per pagare meno imposta di registro – Cass. 3386/2024 ha deciso che, essendo la società di fatto gestita dall’Italia, si doveva applicare l’imposta piena italiana come se l’operazione fosse domestica . Ciò dimostra che l’esterovestizione rileva anche per imposte indirette (non solo redditi) come principio generale . Difesa: evidenziare la genuinità del business estero (sede operativa locale, amministratori locali attivi, mercato di riferimento estero). Ad esempio, in un caso la CGT Lombardia (2023) ha riconosciuto che una società francese controllata da italiani non era esterovestita poiché rispondeva a reali esigenze di business: bilanci approvati in Francia, amministratori in loco, spese aziendali in territorio francese, accordi di servizi con la capogruppo ma gestione autonoma day-by-day . Normale coordinamento dalla controllante italiana non basta a configurare esterovestizione, se la controllata ha indipendenza gestionale . Questo è un precedente favorevole per chi abbia imprese veramente attive all’estero sotto controllo italiano.
- Trust esteri e strutture fiduciarie: l’uso del trust (specie di tipo opaco/discrezionale) costituito in Paesi come Jersey, Guernsey, Singapore o persino USA (trust del Delaware, ecc.) è stato spesso impiegato per schermare patrimoni di individui italiani, confidando in un’opacità fiscale. Dal punto di vista delle imposte sui redditi, un trust non residente può evitare la tassazione italiana sui propri redditi esteri; inoltre i beni conferiti in trust potevano sfuggire all’IVIE/IVAFE (imposte su immobili e attività estere) se il trust non veniva dichiarato. Tuttavia, la giurisprudenza ha ormai assodato un approccio “substance over form”: guarda alla effettiva titolarità dei redditi e asset nel trust. La Cassazione con sentenza 9096/2025 ha ribadito che un trust estero va considerato sham (simulato) se il disponente (settlor) ne è anche beneficiario o comunque mantiene il controllo sostanziale . In tal caso, i redditi del trust sono imputati al disponente (interposizione fittizia) ai sensi dell’art. 37, co.3 DPR 600/1973 . Nel caso di specie (“King Trust”), un imprenditore italiano aveva costituito un trust alle Bahamas in cui aveva conferito partecipazioni societarie, riservandosi poteri di modifica beneficiari e risultandone di fatto beneficiario finale: l’Agenzia ha contestato omessa dichiarazione di redditi di capitale per oltre €600.000 non dichiarati in Italia, e la Cassazione le ha dato ragione, ritenendo il trust mero schermo per occultare redditi . Conseguenza: il beneficiario italiano deve dichiarare quei redditi come propri e indicare il trust in quadro RW. Anche trust formalmente irrevocabili possono essere considerati interposti se il disponente esercita di fatto un controllo (es. è anche guardiano o ha poteri di sostituzione trustee/beneficiari). Rischio: oltre al recupero imposte, un trust del genere potrebbe configurare dichiarazione infedele o sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte se usato per evitare il pagamento (in àmbito penale esiste pure l’art.11 D.Lgs.74/2000 sulla sottrazione patrimoniale). Difesa: per chi abbia un trust estero, l’unica difesa è dimostrarne la effettiva autonomia – trustee indipendente, disponente che non ha più poteri, beneficiari terzi – e la finalità non fiscale (es. protezione patrimoniale autentica). Anche in tal caso, comunque, i redditi distribuiti a beneficiari italiani vanno tassati in Italia (secondo la Circolare 34/E/2022), e se il trust è opaco ma residente in paradiso fiscale, i beneficiari possono essere tassati per trasparenza sui redditi esteri (regime dei trust opachi esteri). Insomma, l’opacità assoluta non c’è più e l’esterovestizione via trust è attaccabile con successo dal Fisco sulla base del principio dell’interposizione .
- Società LLC/LLP anglosassoni: molte PMI o professionisti hanno utilizzato veicoli come LLC americane (Delaware, Nevada) o LLP inglesi per fatturare servizi internazionali, attratti da regimi fiscali particolari (ad es. LLC del Delaware non tassata localmente su income worldwide se i membri non sono US resident). Queste entità però spesso hanno soci/amministratori italiani e operatività svolta dall’Italia (es. consulenze online, attività di e-commerce gestita dall’Italia con società USA come mera entità legale). In tali casi l’Italia può contestare: o che la LLC è stabile organizzazione in Italia (se ha dipendenti o agenti qui), o che è proprio residente ex art.73 (se la gestione è in Italia). Va ricordato che il concetto di “sede di direzione effettiva” vale anche per entità di diritto estero atipiche: se un italiano gestisce come “single member” una LLC estera comodamente da casa sua in Italia, quella è con ogni probabilità una società esterovestita agli occhi del fisco. Inoltre, negli USA le LLC spesso sono fiscalmente trasparenti (disregarded entities) per i membri: ciò significa che l’italiano membro dovrebbe dichiarare in Italia il reddito come proprio (applicando convenzioni). Non farlo espone a contestazioni. Rischio: le somme incassate dalla LLC possono essere considerate redditi non dichiarati dell’individuo. Anche le UK LLP (similarmente trasparenti) con partner italiani operanti in Italia sono state oggetto di attenzione. Difesa: strutturare la LLC in modo da avere reale attività negli USA (uffici, collaboratori) o perlomeno dimostrare che l’utile lì generato è poi tassato in capo al socio in Italia (evitando così l’omessa dichiarazione). L’Italia spesso colpisce l’uso di LLC come strumento per schermare fatture: se ad esempio un professionista italiano fa fatturare la consulenza dalla sua LLC estera per non dichiarare nulla in Italia, in caso di scoperta verranno recuperate le imposte e possibili sanzioni per dichiarazione infedele.
- Altre figure: Società di comodo estere, nominee directors, conducent companies. Ad esempio, un imprenditore potrebbe costituire una società di diritto estero e poi farla risultare “senza attività” (non operative) nel suo paese, usandola solo per possedere asset o ricevere utili dall’Italia. L’Italia può considerarla interposta. Oppure nominare amministratori locali compiacenti (teste di legno) per fingere una gestione estera: se però le decisioni risultano prese dall’imprenditore italiano (anche tramite deleghe informali), tale schermo crolla. I contratti di gestione tra società italiane ed estere (management agreements, cost sharing) vanno anch’essi valutati: in sé sono leciti (come nel caso della compagnia portoghese gestita da una italiana, ma in quel caso c’era un vero contratto di ship management e la società portoghese aveva vita propria ), ma se sono fittizi o sottopagati per spostare profitti all’estero possono costituire indizio di evasione (transfer pricing o esterovestizione del risultato d’impresa).
In generale, qualsiasi struttura estera priva di effettiva autonomia decisionale e operativa rispetto all’Italia è a rischio di essere qualificata come esterovestizione. L’elemento comune del rischio è l’assenza di sostanza economica all’estero: sedi “virtual office”, nessun dipendente (o solo fiduciari), attività commerciale svolta altrove, contabilità tenuta altrove, etc. Il Fisco italiano, quando individua questi casi, interpreta le norme in modo da “guardare alla sostanza”: se tutti gli elementi fattuali puntano all’Italia (personale, beni, clienti, decisioni), non ci si ferma alla forma giuridica estera. La Cassazione ha più volte affermato che un certificato di residenza fiscale estero o l’iscrizione in un registro straniero hanno valore meramente formale, non decisivo se in concreto emergono indizi contrari .
Di seguito, presentiamo una tabella comparativa che aiuta a distinguere un trasferimento genuino all’estero da uno meramente fittizio, sulla base di vari indicatori pratici (particolarmente riferiti a persone fisiche, ma in parte estensibili a piccole realtà societarie):
Tabella 2 – Trasferimento fiscale genuino vs fittizio: indicatori
Aspetto | Trasferimento genuino (esterovestizione esclusa) | Trasferimento fittizio (esterovestizione probabile) |
---|---|---|
Iscrizione AIRE | Cancellazione tempestiva dall’anagrafe italiana, iscrizione all’AIRE entro i termini di legge (entro 90 giorni dal cambio). | Omissione o ritardo nell’iscrizione all’AIRE; persona ancora risultante residente in Italia sui registri anagrafici per lungo tempo. (Dal 2024 sanzionabile con €200-1000 annui) . |
Abitazione | Abitazione principale stabilita all’estero: contratto di affitto o acquisto di casa nel nuovo paese, con utenze (bollette) intestate e regolarmente pagate lì. Eventuale immobile in Italia ceduto o affittato a terzi. | Mantiene disponibilità di un’abitazione in Italia (proprietà o uso) utilizzata abitualmente; bollette italiane ancora a proprio nome. La casa all’estero è di dimensioni/pregio non comparabili a quella italiana (indizio di fittizietà). |
Presenza fisica | Il soggetto trascorre oltre 183 giorni/anno all’estero (anche non continuativi), come risultante da timbri passaporto, dati di ingresso/uscita Schengen, spese con carte di credito in loco, ecc. Le visite in Italia sono saltuarie (es. vacanze brevi). | Lunghe permanenze in Italia: molti mesi l’anno (es. ritorna ogni weekend o per lunghi periodi). Tracce di presenza: transazioni con carte in Italia, celle telefoniche italiane agganciate frequentemente, figli che continuano a frequentare scuole in Italia, etc. |
Interessi economici | L’attività lavorativa o d’impresa è svolta prevalentemente all’estero: se dipendente, assunto da società estera; se imprenditore/professionista, ha la clientela e il mercato principalmente fuori dall’Italia. Conti bancari e investimenti localizzati nel nuovo paese (o comunque fuori Italia). | Mantiene significativi affari in Italia: ad esempio, cariche sociali in aziende italiane, lavoro dipendente che di fatto prosegue in Italia, clienti o fornitori quasi tutti italiani. Conti bancari italiani ancora attivi con movimenti consistenti; investimenti finanziari (trading, partecipazioni) gestiti dall’Italia. La famiglia (coniuge, figli) rimane in Italia, indicando che il centro degli interessi rimane qui. |
Adempimenti fiscali | Presenta dichiarazione dei redditi nel nuovo Stato di residenza e ottempera agli obblighi locali (es. paga eventuali imposte estere su redditi prodotti). In Italia, se dovuto, presenta il quadro RW per segnalare le attività estere ancora a suo nome. Eventualmente chiede la residenza non-domestic se disponibile (es. in UK, PT) e rispetta quei regimi. | Non risulta alcuna dichiarazione nel presunto Stato estero di residenza (il che è sospetto: se davvero produce redditi, perché non appare nulla?). In Italia non presenta nulla, confidando nell’AIRE; omette monitoraggio RW di attività detenute tramite entità estere. Potrebbe sfruttare conti esteri non dichiarati per coprire spese in Italia (tipico segnale: spese domestiche pagate con carta estera). |
Documentazione | Conserva documenti che provano il radicamento all’estero: iscrizione al sistema sanitario locale, eventuale permesso di soggiorno se extra-UE, contratti di lavoro, ricevute di spese quotidiane (spese mediche, abbonamenti, etc. fatti all’estero). Anche atti ufficiali come patente convertita, targa auto estera, iscrizione a club/locali, ecc. | La maggior parte della documentazione personale continua a essere italiana: es. auto ancora con targa italiana, telefono cellulare con SIM italiana usata quotidianamente, assicurazioni vita, medico di base in Italia, ecc. Pochi o nulli riscontri di spese all’estero compatibili con un effettivo trasferimento di vita. |
Gli indicatori sopra elencati sono esemplificativi: in una valutazione complessiva della posizione, più elementi “fittizi” emergono, più facile sarà per il Fisco argomentare che il trasferimento è solo simulato. Viceversa, in presenza di numerosi elementi “genuini”, il contribuente avrà buone carte da giocare per dimostrare la legittimità della propria posizione (anche avvalendosi delle tutele offerte dalle Convenzioni).
Giurisprudenza recente rilevante
Negli ultimi anni la Corte di Cassazione e le Corti di Giustizia Tributaria (nuova denominazione delle Commissioni Tributarie) hanno prodotto numerose sentenze in materia di esterovestizione, CFC e abuso, consolidando principi utili alla difesa del contribuente. Di seguito, riepiloghiamo i precedenti più significativi (aggiornati al 2025), con indicazione del principio di diritto emerso:
- Cass. 25 nov. 2022 n. 34723 – Esterovestizione come evasione, non abuso: ha stabilito che l’esterovestizione non rientra nelle ipotesi di abuso del diritto, bensì va qualificata come evasione fiscale . Ciò significa che per attrarre a tassazione in Italia una società formalmente estera è sufficiente per il Fisco provare la presenza di uno dei criteri di collegamento ex art.73 (sede effettiva o attività in Italia), senza dover dimostrare il fine esclusivamente fiscale o la costruzione artificiosa . In pratica, la Cassazione in questo caso ha sposato l’orientamento “duro”: è irrilevante se vi fossero o meno ragioni economiche extra-fiscali, conta solo la mancanza di un reale spostamento della gestione all’estero. Questo alleggerisce l’onere probatorio per l’Amministrazione (che non deve indagare sulle intenzioni elusive) – attenzione però, come visto, tale approccio è in contrasto con l’indirizzo che si applica alle società UE, dove invece l’abuso va provato. Infatti altre pronunce (v. Cass. 1883/2023 infra) specificano l’eccezione UE.
- Cass. 9 feb. 2023 n. 1883 – Società UE vs extra-UE: questa sentenza ha evidenziato che la contestazione di esterovestizione va modulata a seconda che la società abbia sede in un Paese UE o in un Paese terzo. Se in UE, l’accertamento italiano deve confrontarsi con la libertà di stabilimento, ammettendo restrizioni solo in presenza di costruzioni di puro artificio finalizzate a eludere il fisco . Se invece la società è extra-UE, per rettificare la residenza fiscale è sufficiente che sia integrato uno dei criteri di collegamento dell’art.73, c.3 TUIR . Nel caso deciso (società in San Marino e Svizzera), la Cassazione – rilevato che trattavasi di Stati non UE – ha verificato semplicemente se vi fosse la sede dell’amministrazione o dell’oggetto principale in Italia, e non ha preteso di indagare ulteriormente sull’artificiosità dello stabilimento estero . Ha anzi rigettato il ricorso dell’Agenzia, ritenendo inconsistenti gli indizi addotti sulla presunta gestione occulta in Italia, confermando la vittoria del contribuente . Questo precedente è positivo perché sottolinea che, in mancanza di prove solide su una gestione italiana, non basta la mera ubicazione in Paese a bassa fiscalità a sancire l’esterovestizione. Inoltre sancisce come regola che con l’UE occorre provare il “puro artificio” (esigenza che però, come detto, Cass. 34723/22 ha disatteso in un caso su una società portoghese – indice di oscillazioni giurisprudenziali).
- Cass. 17 feb. 2023 nn. 5066 e 5075 – Abuso del diritto e libertà UE: queste due sentenze gemelle (su società slovacche controllate da italiani) hanno applicato l’approccio “europeo”: hanno considerato l’esterovestizione in chiave di abuso della libertà di stabilimento, richiedendo quindi all’Ufficio la prova che l’insediamento estero fosse artificioso e privo di effettività economica, volto solo a ottenere vantaggi fiscali indebiti . Tale onere probatorio aggravato scatta, come visto, solo per società UE . In quelle cause la Cassazione ha annullato gli accertamenti se non veniva dimostrata l’inesistenza di sostanza economica reale all’estero. Ciò implica che un contribuente con società in UE può fare leva su questo orientamento: onus probandi all’Agenzia di provare la natura fittizia (e non viceversa sin da subito).
- Cass. 19 luglio 2024 n. 20002 – Direzione e coordinamento vs amministrazione effettiva: pronuncia molto recente, relativa a una società rumena controllata da italiani, che ha ribadito un principio centrale: la sede dell’amministrazione (effettiva) di una controllata estera non coincide automaticamente con il luogo in cui la controllante esercita attività di direzione e coordinamento . Il fatto che una capogruppo italiana impartisca direttive gestionali e strategiche alla filiale estera (cosa fisiologica nei gruppi) non significa che la controllata sia un semplice schermo. Si ha esterovestizione solo se la controllante agisce come un “amministratore indiretto” della controllata, usurpandone l’autonomia imprenditoriale . In altre parole, è lecito che la casa madre orienti le scelte (come politica di gruppo), ma se la filiale ha propri amministratori che eseguono quelle direttive e operano localmente, la residenza rimane all’estero. Questo concetto, già espresso in Cass. 1544/2023 citata dalla stessa sentenza , è estremamente rilevante per difendere strutture di gruppo genuine: molte multinazionali italiane hanno controllate estere e la GdF talvolta contesta, confondendo la normale attività di direzione di gruppo con l’esterovestizione. Cass. 20002/2024 chiarisce il confine: solo in situazioni patologiche di eterodirezione (etero-direzione assoluta) si realizza l’esterovestizione . Ad esempio, se si scoprisse che la controllata estera non prende alcuna decisione, il CDA non si riunisce mai all’estero, ogni spesa la autorizza la madre italiana, ecc., allora sì, è un semplice esecutore senza testa propria. Ma se ha una gestione operativa quotidiana locale, pur con linee guida di gruppo, allora non è fittizia . Questo principio sarà recepito anche alla luce della modifica dell’art.73 (che ora parla appunto di “sede di direzione effettiva” e “gestione operativa in via principale”).
- Cass. 5 aprile 2023 n. 9400 – Presunzione art.73 co.5-bis e nozione di controllo: questa sentenza, già menzionata, ha chiarito come determinare la sussistenza del controllo di diritto ex art. 2359 c.c. nel contesto della presunzione di residenza per holding estere . La Cassazione ha affermato che occorre verificare che la maggioranza delle quote (o dei voti) della società estera sia concentrata in capo alla sola società italiana controllante, escludendo dal computo eventuali partecipazioni intestate a terzi per conto della controllante . In sintesi, non vale frammentare le quote tra più entità italiane collegate per negare il controllo unitario: se in sostanza il gruppo italiano detiene >50%, si integra la fattispecie (non rileva se qualche quota è presso fiduciaria o prestanome, va guardata la realtà sostanziale dei voti disponibili) . Questo chiarimento impedisce facili aggiramenti della presunzione tramite strutture tortuose di azionariato.
- Cass. 13 ottobre 2022 n. 30329 – Valore del certificato estero: qui la Suprema Corte ha ribadito che un certificato di residenza fiscale estera (rilasciato dall’autorità straniera) è solo elemento formale e secondario nella valutazione . Non basta esibirlo per avere ragione: se tutti gli altri indizi (domicilio, famiglia, affari) indicano Italia, il certificato non salva. Questo serve a scoraggiare la difesa meramente cartolare: occorrono prove sostanziali.
- Cass. 25 luglio 2022 n. 23150 – Place of effective management come criterio sovrano: ha enfatizzato che il concetto di “sede di direzione effettiva” è determinante e di derivazione internazionale. La sentenza ha dichiarato che se una società, pur formalmente trasferita all’estero (in ambito UE nel caso), in realtà realizzava tutti i propri affari in Italia, ciò costituisce abuso della libertà di stabilimento e l’Italia può tassare . Vengono citati anche i precedenti 11709 e 11710/2022 che confermano questo approccio . Dunque, la Cassazione nel 2022 aveva già anticipato i concetti poi recepiti dal legislatore nel 2024: conta il luogo di effettiva amministrazione e attività.
- Cass. pen. 14 dicembre 2018 n. 50151 – Società schermo e titolare effettivo: sul versante penale, questa sentenza (Sez. Penale) ha definito la “società-schermo” come quella in cui l’ente, sebbene formalmente all’estero, è privo di autonoma operatività e funge solo da copertura attraverso cui agisce una persona fisica che è il vero dominus . Ciò rileva penalmente per attribuire la responsabilità all’amministratore/datore di lavoro italiano che di fatto gestiva tutto. È un concetto parallelo a quello tributario di interposizione: penalmente serve per provare il dolo evasivo (la volontà dell’individuo di occultarsi dietro la società estera).
- CGT II grado Lombardia 27 luglio 2023 n. 2439/25/23 – Attività economica reale vs stabile organizzazione: caso interessante: una PMI italiana della macellazione aveva aperto una controllata in Francia. La GdF inizialmente contestò esterovestizione, poi l’Agenzia cambiò accusa in “stabile organizzazione occulta in Italia” della società francese . La Corte tributaria lombarda ha respinto le pretese del Fisco, sottolineando che la società francese rispondeva a genuine esigenze di business e aveva prova di concreta attività in loco (amministratori sul campo, spese effettuate in Francia, persino pedaggi autostradali e ristoranti francesi pagati dall’amministratore in loco) . Inoltre, esisteva un cost-sharing con la capogruppo per servizi amministrativi, e revisori locali. Tutto ciò indicava che la controllata era indipendente nella gestione quotidiana, sebbene seguisse le direttive strategiche della controllante . Il giudice ha affermato che il normale “impulso” proveniente dalla capogruppo (direzione e coordinamento ex art. 2497 c.c.) non fa venir meno l’indipendenza gestionale ed operativa della partecipata estera . Questo è allineato al principio espresso poi da Cass. 20002/2024, ed è incoraggiante per le imprese: avere un’adeguata documentazione della sostanza e del normale rapporto capo-filiale può evitare guai.
In definitiva, dalla giurisprudenza recente emergono alcuni fili conduttori: (a) la distinzione UE/extra-UE (anche se non tutti i giudici la applicano coerentemente, rimane un argomento di difesa importante invocare Cadbury e la necessità di prova del puro artificio per UE); (b) la centralità del concetto di sede di direzione effettiva come criterio principe; (c) il peso delle prove fattuali di sostanza economica all’estero (che possono far pendere la bilancia a favore del contribuente); (d) l’approccio “substance over form” anche per trust e situazioni di interposizione reale; (e) la conferma che l’esterovestizione porta con sé implicazioni generali (indirette, penali) e che la lotta ad essa è considerata un principio generale anti-evasione . Tutto ciò sarà utile nel predisporre le memorie difensive e nel dibattimento in Commissione/Tribunale, potendo citare sentenze favorevoli come precedenti (benché non vincolanti, hanno un’autorevolezza specie se di Corte di Cassazione).
Strategie difensive in sede tributaria (fase amministrativa e contenzioso)
Dal punto di vista del contribuente, predisporre un’efficace difesa contro una contestazione di esterovestizione richiede un approccio strutturato, che inizia fin dalla fase pre-contenziosa e si consolida davanti ai giudici tributari. Ecco le principali linee d’azione difensive:
1. Documentazione della sostanza estera: la prima e fondamentale strategia è raccogliere e presentare ogni possibile prova concreta che la società (o il contribuente) abbia realmente trasferito all’estero la propria sede/attività . Questo include: contratti di locazione o proprietà di uffici all’estero; bollette di utenze (luce, telefono) intestate alla società estera e relative a locali all’estero; contratti di lavoro di personale assunto localmente; estratti conto bancari esteri che mostrino spese operative nel paese estero (affitti, fornitori locali); verbali di riunioni del Consiglio di Amministrazione tenute fisicamente all’estero (con firma e data); registri contabili tenuti presso la sede estera; bilanci certificati da revisori nel paese estero; eventuali licenze o iscrizioni a registri locali (camera di commercio estera); corrispondenza email o cartacea che indichi che le decisioni venivano prese all’estero; timbri sul passaporto degli amministratori, ricevute di viaggio, spese aziendali in loco. Per le persone fisiche, documenti come iscrizione AIRE, contratto di affitto di casa all’estero, iscrizione dei figli a scuole estere, bollette e scontrini di spese quotidiane all’estero, iscrizione a club/gym nel nuovo paese, ecc. Tutti questi elementi formano un quadro probatorio che può convincere che non c’è stata fittizietà. È utile presentare tali prove in modo ordinato, magari con prospetti riepilogativi (es. un calendario con indicazione delle presenze all’estero vs Italia, supportato da prove). Nelle linee guida OCSE sul “effective place of management” si fa riferimento ad es. al luogo in cui si incontrano i dirigenti: quindi produrre biglietti aerei, ricevute di hotel per meeting all’estero è rilevante. Si noti che in contrapposizione il Fisco spesso porta indizi come: contratti firmati in Italia, email spedite dall’IP italiano, spese sostenute in Italia dalla società estera, etc. La difesa deve confutare ciascun indizio con controprove. Ad esempio, se l’AE dice “il sito web della società estera era curato dall’Italia”, si può replicare mostrando il contratto con un web designer locale. Se l’AE nota che l’amministratore vive in Italia, si può evidenziare che passava comunque più giorni all’estero (con prova di voli). Insomma, smontare punto per punto la narrazione dell’ufficio, sostituendola con una narrativa alternativa basata su evidenze.
2. Contestazione degli elementi presuntivi e onere della prova: sul piano giuridico, è cruciale fare leva sulle regole dell’onere probatorio. In principio, spetta all’Amministrazione fornire elementi che facciano presumere l’esterovestizione; una volta forniti (anche solo come indizi), l’onere si sposta sul contribuente di provare il contrario . Nella difesa, conviene evidenziare se l’Ufficio non ha assolto il suo onere iniziale: ad esempio, se ha applicato la presunzione ex art.73 co.5-bis ma senza verificare i requisiti (controllo e amministratori italiani), oppure se per società UE non ha minimamente considerato l’aspetto del “puro artificio”. Se si riesce a far emergere un vizio nell’accertamento (carenza di motivazione, presunzioni semplici non gravi né precise), si può ottenere l’annullamento già per difetto probatorio dell’Ufficio. Tuttavia, spesso qualche indizio l’Agenzia lo porta sempre; allora il focus passa a noi: presentare le prove contrarie. È bene strutturare il ragionamento magari distinguendo: “Anche se si volesse ritenere integrata la presunzione X, il contribuente fornisce prova contraria come segue: …”. Ad esempio, se l’Ufficio cita che il CdA dell’estera è composto da italiani, il contribuente mostrerà che ciò non ha impedito che le riunioni avvenissero all’estero e che i consiglieri si recavano lì (foto, verbali, ecc.), quindi la residenza rimane fuori. Sul fronte UE, citare espressamente la giurisprudenza Cadbury e Cass. 1883/2023 per dire: “Egregi Giudici, essendo la società in Stato membro, l’Agenzia avrebbe dovuto provare la natura di costruzione artificiosa priva di sostanza. Non lo ha fatto, poiché i nostri documenti dimostrano che sostanza c’è; pertanto la pretesa è illegittima” . Nei ricorsi tributari è opportuno riportare passi testuali di queste sentenze e magari allegarle, per supportare il proprio assunto con l’autorevolezza della Cassazione.
3. Utilizzo delle Convenzioni internazionali (tie-breaker): se sussiste un caso di potenziale doppia residenza (es. certificato estero vs criteri italiani), la difesa può invocare la Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e l’altro Stato. Ad esempio, un soggetto persona fisica trasferito in Svizzera, cui l’Italia contesta la residenza, potrebbe richiamare l’art. 4 della Convenzione Italia-Svizzera: secondo i criteri ivi contenuti (abitazione permanente, centro interessi vitali, soggiorno abituale, nazionalità), cercare di dimostrare che risulta residente in Svizzera. Cass. 35284/2023 fa giurisprudenza in tal senso . Attenzione: le Convenzioni entrano in gioco di solito dopo che ciascuno Stato ha qualificato la residenza secondo le proprie leggi interne. In sede di contenzioso interno, alcuni giudici potrebbero dire che prima si applica la norma interna (presunzione) e solo se vi è conflitto effettivo si passa ai tie-breaker. Comunque è un argomento valido segnalare: “Anche se ex lege italiana sarei residente, i criteri convenzionali indicano il contrario, dunque la pretesa italiana viola il trattato internazionale che ha prevalenza”. In casi estremi, si può ricordare l’opzione della Mutual Agreement Procedure (MAP) tra Stati, ma quella è post-giudiziale solitamente. Ad ogni modo, dimostra ai giudici la buona fede e concretezza del trasferimento.
4. Procedimenti di adesione e riduzione sanzioni: in parallelo alla preparazione difensiva, valutare l’opportunità di utilizzare gli istituti deflativi: ad esempio, presentare istanza di accertamento con adesione dopo la notifica dell’avviso, per trattare con l’Ufficio. Se si hanno buone prove, durante l’adesione si può cercare di convincere l’AE magari a riconoscere la residenza estera per alcuni anni (se evidenze migliori) e chiudere per altri anni, oppure ridurre sanzioni. L’adesione interrompe i termini di impugnazione e può far guadagnare tempo. A volte l’Agenzia, di fronte a prove solide, potrebbe preferire trovare un accordo piuttosto che rischiare di perdere in causa (specie se ci sono anche risvolti penali, potrebbe acconsentire a qualificare come elusione con sole sanzioni amministrative ridotte, in cambio di pagamento del dovuto). Chiaramente, questa via dipende dalla forza delle proprie argomentazioni e dalla disponibilità dell’Ufficio. Se l’adesione fallisce, si può comunque optare per l’acquiescenza parziale o totale con sanzioni ridotte ad 1/3 entro i 60gg, se si valuta che la causa sarebbe troppo rischiosa. È una scelta delicata: nel contenzioso tributario non ci sono spese legali di controparte da pagare se si perde, quindi spesso conviene tentare il giudizio quantomeno in primo grado. Tuttavia, in casi di contestazione massiccia (milioni di euro) con rischio penale, un accordo potrebbe essere la soluzione più pragmatica (pagare il dovuto riducendo i danni penali). Va anche considerato che il pagamento integrale delle imposte e sanzioni prima della sentenza penale di primo grado, per i reati di omessa/infedele dichiarazione, estingue il reato (art. 13 D.Lgs.74/2000); quindi un contribuente in bilico potrebbe decidere di pagare tutto per non rischiare condanne, e poi semmai chiedere rimborso se avrà successo in Cassazione tributaria. Sono valutazioni strategiche da fare congiuntamente sul fronte tributi e penale.
5. Interpelli e ruling preventivi (per il futuro): sebbene non risolvano l’oggetto di una contestazione già in atto, è opportuno menzionare in difesa eventuali interpelli presentati. Ad esempio, se il contribuente aveva interpellato l’Agenzia (anche se questa rispose “inammissibile” o non rispose) sull’argomento, può indicare di aver cercato la via cooperativa. L’Agenzia Entrate, come detto, ha chiarito che non risponde nel merito su residenza fiscale via interpello . Le uniche forme di sicurezza preventiva erano: (a) il ruling internazionale per nuovi investimenti (art.2 D.Lgs.147/2015) per grandi operazioni di imprese sopra 30 mln, in cui si può stabilire anche la residenza; (b) il regime di adempimento collaborativo (cooperative compliance) per imprese con fatturato molto elevato, dove esiste un dialogo costante (in quel contesto un’azienda potrebbe concordare col fisco la posizione di certe controllate estere evitando contestazioni). Se il contribuente rientrava o rientra in questi regimi, va assolutamente evidenziato: p.es. “la Società aderiva al regime di adempimento collaborativo e nel piano di controllo del tax control framework era inclusa la procedura di monitoraggio delle sue consociate estere; l’Agenzia non ha mai formulato rilievi in quelle sedi”. Questo darebbe forza all’idea che non c’era dolo evasivo e che l’azienda operava in trasparenza. Purtroppo, pochi contribuenti hanno accesso a tali strumenti (nel 2025 la cooperative compliance si sta aprendo anche a imprese più piccole in via sperimentale, ma resta élite). In mancanza di interpello, la difesa potrebbe far leva su eventuali pareri pro veritate o consulenze ottenute prima: es. se un fiscalista aveva attestato la residenza estera, allegarlo potrebbe mostrare la buona fede, anche se non ha valore vincolante.
6. Argomentare la ragionevolezza economica: se possibile, spiegare perché si è costituita quella struttura estera, fornendo motivazioni economico-giuridiche lecite. Esempio: “La società estera è stata aperta in Albania perché lì si intendeva servire un nuovo mercato con costi del lavoro inferiori del 50%, fattore cruciale nel settore tessile dell’impresa; non è stata aperta con finalità fiscale ma industriale, come prova il fatto che l’aliquota albanese è 15% contro il 24% italiano, un vantaggio contenuto, e la società ha reinvestito gli utili localmente.” Questo tipo di narrazione, se supportata da fatti (produzione effettiva lì, dipendenti assunti) può convincere i giudici della assenza di intenti fraudolenti. Anche nel caso di personaggi privati: se uno si trasferisce a Dubai, può argomentare la scelta con opportunità lavorative (offerta di lavoro), stile di vita o questioni familiari, piuttosto che dire “volevo non pagare tasse”. Chiaramente, i giudici tributari sono focalizzati sul gettito, però non sono insensibili alle storie coerenti. Se invece un’operazione appare insensata se non per il fisco (es. piccola ditta individuale italiana che apre una LTD a Londra solo per fatturare i medesimi clienti italiani: lì la motivazione economica manca, ed è difficile da difendere).
7. Procedura di rimpatrio o regolarizzazione: se la contestazione riguarda attività estere non dichiarate (conti, investimenti detenuti tramite società estere), a volte potrebbe convenire ricorrere a strumenti come la collaborazione volontaria (voluntary disclosure). L’Italia ne ha avute due edizioni (2015 e 2017) e una terza limitata per cripto-attività nel 2023. Al 2025 non c’è una VD aperta generalizzata, ma il Governo occasionalmente reintroduce sanatorie. Se capitasse durante la controversia, si potrebbe aderire per sanare almeno il quadro penale. In mancanza, un ravvedimento operoso spontaneo (se si scopre prima che inizino accertamenti) è sempre consigliabile per ridurre sanzioni. Tuttavia, quando già si è in fase contenziosa, queste opzioni non sono più disponibili se non per chiudere la lite con conciliazione giudiziale eventualmente (pagando un po’ meno sanzioni).
In sintesi, la difesa tributaria dev’essere doppia: una difesa di merito fattuale (provare che la residenza era effettivamente estera o che comunque non c’era omessa dichiarazione volontaria) e una difesa giuridica (eccepire errori procedurali, violazione di norme comunitarie, presunzioni indebite, ecc.). La combinazione di questi due piani spesso porta ai risultati migliori. È fondamentale inoltre curare l’aspetto tecnico-formale degli atti: depositare i documenti tradotti se in lingua straniera (con traduzioni asseverate per sicurezza), rispettare i termini per produrre documenti nuovi (in Commissione regionale non si potrebbero portare nuove prove salvo eccezioni, quindi già in primo grado meglio mettere tutto), e considerare l’eventualità di far testimoniare in giudizio eventuali soggetti (anche se la prova testimoniale è limitata nel tributario, certe circostanze potrebbero emergere tramite documenti o verbalizzazioni).
Difese in sede penale
Quando dalla vicenda emergono ipotesi di reato tributario (tipicamente omessa o infedele dichiarazione, come visto), la difesa penale dovrà integrarsi con quella tributaria ma seguire logiche proprie. Alcuni punti cardine:
1. Dimostrare l’assenza di dolo (buona fede): i reati fiscali richiedono il dolo specifico di evasione, cioè la volontà cosciente di evadere le imposte. Nel caso di esterovestizione, una linea difensiva è sostenere che l’imputato (amministratore) riteneva in buona fede di aver eseguito correttamente il trasferimento all’estero e di non essere obbligato a dichiarare in Italia. Ciò può essere avvalorato, ad esempio, dalla consulenza di un fiscalista che attestava la residenza estera, oppure dal fatto che la persona presentava regolare dichiarazione nell’altro Stato (quindi credeva di fare bene) . Se si mostra che c’era un qualche ragionevole affidamento, viene meno l’intenzione fraudolenta. Questa strategia può portare a un’assoluzione per mancanza dell’elemento soggettivo, oppure a derubricare l’accusa in evasione colposa (che non è reato). È chiaro che funziona se la situazione è borderline: se invece è lampante che tutto avveniva in Italia e nulla all’estero, invocare la buona fede diventa poco credibile.
2. Contestare la quantificazione dell’imposta evasa: molti reati scattano solo se l’imposta evasa supera soglie (50k omessa, 100k infedele). Spesso l’accusa fa i calcoli in modo grossolano. Il difensore penale deve verificare: la somma evasa è stata calcolata correttamente? Si può sostenere che alcune imposte non erano dovute? Ad esempio, se la società estera ha pagato imposte all’estero, il contribuente italiano avrebbe diritto al credito per imposte estere, quindi l’imposta evasa in Italia sarebbe minore . Oppure taluni redditi potrebbero essere non imponibili per legge (es. dividendi esteri con esenzione). Diminuire l’importo evaso al di sotto della soglia di punibilità porta all’archiviazione o assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. In ciò è utile coordinarsi con un tributarista per rifare i conteggi.
3. Eccepire difetti procedurali (utilizzabilità prove): in ambito penale si può eccepire l’eventuale inutilizzabilità di prove raccolte, ad esempio, nel corso di verifiche fiscali. Se la GdF ha agito violando garanzie (perquisizioni senza decreto, acquisizione email senza autorizzazione, ecc.), il difensore può chiedere di espungere quelle prove. Senza prove, il reato può cadere. Ad esempio, se tutta l’accusa si regge su documenti presi in un PC senza le dovute forme, si può farli invalidare. Anche le informazioni ottenute via scambio internazionale devono rispettare trattati: se fossero state acquisite senza base legale, si può contestare.
4. Collaborazione e pagamento del debito: come accennato, la legge prevede cause di non punibilità se il contribuente paga integralmente il tributo e interessi (e una sanzione amministrativa minima) prima dell’apertura del dibattimento penale di primo grado. Ciò estingue i reati di omessa e infedele dichiarazione (art. 13 D.Lgs.74/2000). Quindi, un imputato che ha possibilità economiche può decidere di pagare tutto il contestato (magari avvalendosi di definizione agevolata in sede tributaria) per poi portare la prova dell’avvenuto pagamento al PM/Giudice, ottenendo la declaratoria di non doversi procedere per intervenuta causa di non punibilità. Attenzione: questo non cancella l’accertamento fiscale (deve pagare lo stesso), ma evita il penale (tranne che per eventuali reati diversi come false fatturazioni se ce ne fossero). È una “exit strategy” da considerare seriamente, soprattutto se le chance di assoluzione penale non sono solide.
5. Coordinamento con il giudizio tributario: idealmente, il procedimento penale e quello tributario sull’esterovestizione dovrebbero procedere in parallelo. Se il contribuente vince nel tributario (sentenza passata in giudicato che annulla l’esterovestizione), si ha un poderoso argomento per il penale: il fatto non sussiste, poiché a seguito di quel giudizio la società non è considerata residente in Italia e quindi non vi è evasione. Viceversa, se arriva prima una condanna penale definitiva, essa può complicare la posizione nel tributario (anche se formalmente non vincola, i giudici ne terranno conto). Pertanto, dal lato difesa può convenire chiedere un rinvio del giudizio penale in attesa dell’esito di quello tributario, se quest’ultimo è promettente. In alcuni casi i giudici penali sono sensibili a questo e sospendono il procedimento (soprattutto se la questione è esclusivamente tecnica sul dovuto o no delle imposte). La pronuncia CGT Puglia 2023 citata afferma l’opposto (penale vincola tributario se assoluzione): ciò deriva dal recepimento della direttiva UE 2017/1371 (tutela penale degli interessi finanziari UE) che ha rafforzato il principio di reciproca influenza. In pratica, per prudenza, meglio evitare che un procedimento arrivi a conclusione con esito sfavorevole prima dell’altro.
6. Patteggiamento o pene concordate: se le prove di colpevolezza sono schiaccianti e non ci sono vie di uscita, si può optare per un patteggiamento (applicazione pena su accordo col PM) o rito abbreviato per ridurre di un terzo la pena. Patteggiare può essere utile per chiudere rapidamente la vicenda penale (specie se già ha pagato o sta per pagare il dovuto: il patteggiamento può includere la revoca del sequestro, ecc.). L’ostacolo è che spesso i reati di omessa dichiarazione hanno pene minime di 2 anni, ridotte a 1 e 4 mesi col patteggiamento, il che può comunque comportare sanzioni interdittive. Ma se incensurato probabilmente la pena è sospesa. D’altro canto, patteggiare significa ammettere di fatto l’evasione, il che potrebbe influire negativamente sul contenzioso tributario (anche se formalmente non fa stato, è un’ammissione). La scelta va ponderata.
7. Curare la narrazione dei fatti: nel processo penale è essenziale raccontare motivazioni e contesto. Ad esempio, spiegare che la decisione di aprire all’estero fu presa su consiglio del commercialista, che assicurava la legalità; oppure che la società estera effettivamente operava (mostrando foto, testimonianze di clienti esteri, etc.). Se c’è stata poi regolarizzazione (es. iscrizione tardiva AIRE), mostrarla per dimostrare mancanza di volontà fraudolenta. Far testimoniare eventuali soggetti esteri (es. il manager locale che confermi la sostanza). Tutto ciò per instillare il dubbio ragionevole che non vi fosse una frode, ma semmai un’interpretazione controversa della norma fiscale.
Infine, ricordiamo che il reato di omessa dichiarazione si configura al momento della scadenza per presentare la dichiarazione (es. 30 settembre dell’anno successivo). Se l’accertamento fiscale riguarda anni molto indietro, verificare la prescrizione penale: per omessa dichiarazione (pena max 5 anni) la prescrizione è 6 anni (salvo sospensioni), riformata a 8 anni con interruzioni. Dunque, contestazioni relative a 7-8 anni fa potrebbero essere penalmente improcedibili ormai. La difesa deve controllare queste tempistiche e sollevarle.
In conclusione, la difesa penale e quella tributaria devono procedere coordinate ma con obiettivi distinti: evitare condanne e misure afflittive da un lato, evitare o ridurre l’esborso tributario dall’altro. In molti casi il pagamento (anche parziale) del dovuto viene usato come merce di scambio per alleggerire o chiudere il penale. È un equilibrio delicato, in cui la scelta dipende dall’entità delle somme, dalle prove di sostanza, e dalle prospettive in giudizio.
Prevenzione: best practices per evitare contestazioni future
Come abbiamo visto, trovarsi invischiati in una contestazione di esterovestizione è complesso e costoso. Dunque, per imprenditori e contribuenti che intendano operare con l’estero mantenendo la compliance fiscale, è utile seguire alcune best practices preventive:
- Dare sostanza reale alle strutture estere: Se si apre una società all’estero, bisogna far sì che questa abbia una vera operatività in loco. Ciò significa: affittare un ufficio vero (non solo domiciliazione postale); impiegare personale locale (anche solo alcuni dipendenti o collaboratori part-time, a seconda del business, ma che ci sia qualcuno sul campo); dotarsi di numero telefonico e indirizzo locali attivi; intrattenere rapporti con fornitori e clienti del posto. In sostanza la società deve “vivere” nell’altro Stato, non essere un fantasma. Questo non solo aiuta a difendersi in caso di accertamento, ma spesso è anche utile al business stesso.
- Comporre gli organi sociali con criteri di sostanza: Evitare CDA interamente composti da residenti in Italia. Meglio includere amministratori o dirigenti che risiedono all’estero e che possano effettivamente occuparsi della gestione locale . Se non è possibile avere figure indipendenti totali, si possono nominare fiduciari locali per alcune cariche. Ad esempio, un cittadino di quel Paese come co-amministratore delegato, o procuratore per atti di ordinaria gestione. Ciò conferisce credibilità. Naturalmente, serve fiducia in tali persone, ma esistono professionisti che offrono questo servizio in modo serio (non semplici prestanome inattivi, ma partner minoritari che apportano competenze sul mercato locale).
- Tenere le riunioni e decisioni nel Paese estero: Le deliberazioni societarie importanti dovrebbero avvenire fisicamente all’estero: convocare i consigli nel Paese della società, viaggiare lì, firmare i verbali in loco . Stendere verbali dettagliati con data e luogo. Se la decisione viene di fatto presa in Italia (perché i soci magari ne discutono informalmente qui), formalizzarla comunque all’estero e possibilmente far risultare che la discussione è avvenuta in videoconferenza connessi dalla sede estera, o simili. Insomma, evitare di dare appigli al fisco che tutto è deciso a tavolino in Italia.
- Separazione gestionale e contabile: Mantenere la contabilità della società estera presso la sua sede (non tenerla negli uffici italiani). Avere conti bancari aperti nel Paese estero per gestire i flussi finanziari correnti, e usarli effettivamente per pagare fornitori e stipendi . Limitare i trasferimenti di fondi verso l’Italia al necessario (dividendi formalmente deliberati, finanziamenti con contratto). Se la capogruppo italiana fornisce servizi (amministrativi, IT, ecc.) alla estera, farlo con un contratto e a condizioni di mercato (per non incorrere in transfer pricing occulto), e documentare i pagamenti per tali servizi. Questo rende tutto più trasparente e difendibile.
- Tax compliance e monitoraggio interno: Le aziende di maggiori dimensioni dovrebbero dotarsi di un Tax Control Framework che includa controlli sui requisiti di residenza delle consociate estere. Ad esempio, predisporre check-list periodiche: dove si trova il management? Dove sono archiviati i documenti societari? Quanti giorni gli amministratori trascorrono in ciascun paese? Questo consente di accorgersi in anticipo di eventuali criticità e correggerle. Se l’azienda è ammessa alla cooperative compliance, segnalare proattivamente all’Agenzia situazioni potenzialmente ambigue (è rischioso, ma se fatto in ottica collaborativa può prevenire accertamenti).
- Gestire con cautela i rientri o le cessazioni di residenza: Se un contribuente che era all’estero vuole rientrare in Italia (magari per usufruire di regimi agevolati del rientro dei cervelli o impatriati), deve prepararsi a rispondere di eventuali annualità pregresse. Conviene fare un’analisi retrospettiva: se negli anni all’estero non aveva fatto tutto in regola (ad esempio non aveva dichiarato un conto estero), prima di rientrare potrebbe aderire a eventuali sanatorie o ravvedersi per chiudere quei conti in sospeso. In caso di dubbi sullo status passato, potrebbe rivolgersi all’Agenzia per chiarimenti (anche se come detto l’interpello su residenza non è ammesso, vi sono interpretazioni ufficiali sulle agevolazioni impatriati invece).
- Usare strumenti leciti di pianificazione fiscale internazionale: Esistono modi legittimi per ridurre la pressione fiscale senza incorrere in esterovestizione: ad esempio, aprire una branch (stabile organizzazione) all’estero invece di spostare l’intera residenza societaria. Una branch estera di società italiana paga le imposte locali sul suo reddito e quell’utile non è tassato in Italia (se non eventualmente al momento del rimpatrio, ma c’è credito d’imposta). È più semplice da gestire e non implica rischio di contestazione di residenza, perché la società madre resta italiana (si evita l’art.73 co.5-bis). Oppure, se si vuole trasferire la sede legale dell’azienda in UE, farlo seguendo la procedura di fusione transfrontaliera o trasferimento sede ex regolamenti UE, curando di mantenere comunque in Italia se necessario una stabile organizzazione che dichiari redditi italiani. Insomma, con una buona consulenza si può spesso ottenere il beneficio desiderato (es. del regime fiscale di un altro paese) minimizzando i profili di rischio. Certo, queste soluzioni richiedono trasparenza e obblighi dichiarativi (una branch va evidenziata), ma meglio pagare qualcosa che finire accusati di evasione totale.
- Formazione e aggiornamento continuo: chi opera internazionalmente dovrebbe tenersi aggiornato sulle evoluzioni normative (ad esempio l’arrivo di ATAD3, l’introduzione di una global minimum tax OCSE, ecc.). Capire il “vento che tira” permette di adeguare in anticipo le proprie strutture. Ad esempio, se ATAD3 imporrà di segnalare le società “senza ufficio, senza dipendenti e con banca fuori paese”, allora è saggio iniziare a dotare la propria società holding maltese di almeno un piccolo ufficio e dipendente, per non incappare in futuri guai.
In definitiva, la parola chiave è sostanza: sostanza economica, sostanza gestionale, sostanza documentale. Se un’operazione cross-border ha senso da un punto di vista di business ed è implementata con reale presenza sul territorio estero, le probabilità che venga contestata (o che la contestazione tenga in giudizio) diminuiscono drasticamente. Viceversa, costruzioni “artificiali” saranno prima o poi smascherate, data la crescente cooperazione tra autorità fiscali.
Infine, un consiglio: conservare sempre traccia di tutto. Spesso i contribuenti non archiviano biglietti aerei, scontrini, email vecchie – ma poi a distanza di 5-6 anni quelle possono servire in un processo per provare dove si era un certo giorno. Con la digitalizzazione, è opportuno tenere copie di backup di calendari, email e quant’altro relativo alle attività estere.
Domande e risposte (FAQ)
D: Una società estera controllata da italiani, ma che non possiede partecipazioni in società italiane, può comunque essere considerata “esterovestita”?
R: Sì, è possibile. La presunzione legale automatica dell’art.73 co.5-bis TUIR scatta solo se la società estera controlla società italiane (holding). Ma anche in assenza di questo, l’Agenzia Entrate può contestare l’esterovestizione in base ai criteri ordinari di residenza . In pratica: se una SRL estera (senza investimenti in Italia) è amministrata di fatto dall’Italia (es. amministratore unico residente qui che prende tutte le decisioni in Italia), il Fisco può comunque ritenerla residente in Italia, solo che in tal caso l’onere della prova iniziale è a carico del Fisco (non c’è presunzione legale) . L’assenza di partecipate italiane evita l’inversione automatica dell’onere, ma non immunizza dalla contestazione se i fatti mostrano gestione italiana.
D: Posso presentare un interpello all’Agenzia delle Entrate per avere conferma preventiva che la mia società estera non sarà considerata residente in Italia?
R: In generale no, non con gli interpelli ordinari. L’Agenzia ha più volte dichiarato inammissibili interpelli volti a definire anticipatamente la residenza fiscale . Questo perché la residenza è questione di fatto, che non può essere “cristallizzata” ex ante su elementi ipotetici . L’interpello disapplicativo, infatti, può riguardare norme antielusive (come la CFC) ma non stabilire se un soggetto è o non è residente – quello è un fatto da valutare a consuntivo. L’unica eccezione è rappresentata dal ruling per nuovi investimenti di grande importo o dall’adesione al regime di cooperative compliance, dove in teoria si potrebbe discutere anche della residenza, ma sono strumenti riservati a pochi casi speciali . Quindi, praticamente, non esiste un “nulla osta” ex ante dell’Agenzia su dove è la residenza: il contribuente deve fare la sua valutazione e poi, eventualmente, difenderla in caso di verifica.
D: Un certificato di residenza fiscale rilasciato dal Paese estero mi tutela da possibili contestazioni italiane?
R: No, non automaticamente. Come chiarito dalla Cassazione , il certificato estero attesta solo che in base alla legge di quel Paese tu sei lì residente, ma non vincola il Fisco italiano se, in base alla legge italiana, risulti comunque residente qui . Detto altrimenti, è un elemento formale utile soprattutto ai fini delle Convenzioni (per invocare i tie-breaker), ma da solo non basta a provare la residenza estera se tutti gli altri indizi indicano Italia. Devi comunque affiancare al certificato altre prove sostanziali (contratti di casa, bollette, ecc.) per convincere che il “centro di gravità” della tua vita è davvero fuori dall’Italia. In assenza di tali prove, il certificato verrà considerato “marginale” .
D: Se la mia società estera venisse considerata fiscalmente residente in Italia, rischio una doppia tassazione (sia nel Paese estero che in Italia)?
R: Teoricamente, il sistema tributario prevede meccanismi per evitare la doppia imposizione economica. Se la società ha già pagato imposte all’estero, queste possono essere portate in detrazione dall’imposta italiana dovuta sugli stessi redditi, fino a concorrenza dell’imposta italiana . Ad esempio: la società estera ha pagato €10.000 di tasse nel suo Paese; l’Italia, riclassificandola residente, chiede €15.000; il credito per i €10.000 esteri viene riconosciuto, quindi si verserebbe la differenza €5.000. Questo in linea di principio, e va richiesto/dimostrato con la documentazione fiscale estera (dichiarazioni e ricevute di pagamento) . Inoltre, se esiste una Convenzione contro le doppie imposizioni, quella eviterebbe a monte che un reddito sia tassato due volte (attribuendo la tassazione principale a uno Stato e dando credito nell’altro, o esentando). Tuttavia, in pratica chi fa esterovestizione spesso paga imposte irrisorie all’estero (se non zero, in un paradiso fiscale), quindi finisce che l’Italia tassa quasi tutto senza crediti da scalare . Chi invece ha già versato aliquote simili all’Italia all’estero (caso raro in contesti di evasione), deve assolutamente far valere i crediti d’imposta per non subire una doppia penalizzazione. E se il Paese estero dovesse nel frattempo considerare residente la società e pretendere anch’esso le imposte (doppia residenza), allora bisognerebbe attivare una procedura amichevole (MAP) tra Stati per risolvere la doppia tassazione; ma di norma, risolvendo la residenza via criteri convenzionali, uno dei due Paesi rinuncia.
D: L’esterovestizione è di per sé un reato?
R: Non esattamente come fattispecie autonoma, ma può dar luogo a reati fiscali. Se una società estera è considerata esterovestita, significa che avrebbe dovuto dichiarare i redditi in Italia e non l’ha fatto. Questo tipicamente integra il reato di omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs.74/2000) se l’imposta evasa supera €50.000 . Potrebbe anche configurare dichiarazione infedele (art.4) se, ad esempio, qualche dichiarazione è stata presentata ma incompleta, o altri reati a seconda di come è attuato il meccanismo evasivo (false fatturazioni se c’erano fatture tra società estera e italiana per spostare utili, ecc.). La Cassazione ha puntualizzato che l’esterovestizione viene inquadrata penalmente come evasione (omessa/infedele), e non c’è spazio per considerarla un semplice abuso amministrativo . Ciò comporta che, superate le soglie, scattano le denunce penali e possibili sequestri . Tuttavia, non sempre si arriva al penale: se le imposte evase sono modeste (sotto soglia) vi saranno solo sanzioni amministrative. E c’è la possibilità di evitare la condanna penale pagando il dovuto (vedi sopra). Quindi, esterovestizione non è un reato in sé, ma è il modus operandi di condotte che possono essere reato (omessa dichiarazione).
D: La mia società italiana vuole espandersi aprendo una filiale all’estero: come posso farlo minimizzando il rischio di contestazioni fiscali?
R: Se l’obiettivo è espandere l’attività (e non spostare profitti), il modo migliore spesso è aprire una società controllata estera o una stabile organizzazione estera. Per evitare contestazioni:
– Mantieni una chiara separazione funzionale: la nuova entità estera deve avere un suo scopo (produrre/vendere in quel mercato). Dotala di mezzi adeguati (capitali, personale, uffici) commisurati all’attività.
– Documenta tutti i rapporti infragruppo a prezzi di mercato (transfer pricing) per non dare l’idea che la filiale serva solo a spostare utili.
– Valuta se la controllata estera ricade in un Paese considerato a bassa fiscalità: se sì, potresti incorrere nella CFC. In tal caso, prepara il dossier per provare l’esimente (attività economica effettiva). Puoi anche presentare interpello disapplicativo CFC se ne hai i requisiti.
– Non nominare come amministratore della filiale la stessa persona che gestisce l’Italia se questa non potrà essere presente fisicamente all’estero; meglio nominare qualcuno sul posto e il dirigente italiano magari come presidente non operativo.
– Considera il regime di cooperative compliance se sei una grande azienda: potrai discutere con l’Agenzia la struttura internazionale in anticipo.
– Se il Paese estero è UE, informati sulla Direttiva ATAD3: entrare in vigore nei prossimi anni potrebbe richiedere di attestare periodicamente la “sostanza” della tua filiale. Preparati sin da subito a soddisfare quei parametri (personale, conto locale, ecc.).
In generale, approcciati all’internazionalizzazione con ottica di business e di compliance fiscale, non di pura arbitraggio fiscale. Così riduci sia il rischio di contestazioni che eventuali danni reputazionali (anche le società oggi tengono alla compliance per non avere controversie che distraggono risorse).
D: Quali sono, in sintesi, i punti chiave che un imprenditore o professionista dovrebbe considerare prima di spostare attività o residenza all’estero, per non incorrere in problemi col Fisco italiano?
R: Riassumiamo in alcuni punti:
– Se persona fisica: iscrizione AIRE immediata, trasferire il proprio domicilio effettivo (casa, famiglia) all’estero, passarvi almeno 6+ mesi l’anno, chiudere i legami più forti con l’Italia (lavorativi, patrimoniali). Tenere prove di tutto ciò. Valutare se rientri in regimi per neo residenti (in Italia c’è impatriati e residenza non dom per stranieri, altrove c’è il regime res non dom in vari paesi): queste ottimizzazioni legali spesso sono preferibili a rischiosi fai-da-te.
– Se società: non lasciare società vuote in Italia con tutto spostato su estero; se sposti la holding, considera di creare anche una stabile organizzazione in Italia per le attività rimaste qui, così fai le cose in modo trasparente (dichiari redditi italiani, eviti di farli passare sotto traccia).
– Scegli la forma giuridica estera adatta: ad es., alcune giurisdizioni offrono “IBC” (international business companies) esenti da imposte ma che non possono operare localmente – queste urlano “evasione” a prima vista. Meglio usare entità ordinarie che pagano qualche tassa locale e possono operare sul mercato locale: sarà più credibile.
– Consulenza professionale internazionale: affidati a studi legali/fiscali esperti sia nel Paese estero che in Italia per strutturare correttamente la cosa, registrare contratti infragruppo, ecc. La spesa iniziale evita guai dopo.
– Etica e sostanza: chiediti onestamente se stai spostando l’attività perché lì c’è un vantaggio operativo (mano d’opera, vicinanza clienti) o solo per “schermare” utili. Nel secondo caso, sappi che è solo questione di tempo prima che il Fisco ti individui, dati i sistemi attuali. Nel primo caso, se c’è motivo reale, allora procedi ma implementa bene la struttura.
Seguire questi accorgimenti non dà garanzia al 100% (il Fisco potrebbe comunque provare ad accertare), ma ti mette in una posizione di forza per difenderti con successo, o addirittura per evitare di finire nel radar perché rispetti gli indicatori di normalità.
Conclusione
La materia dell’utilizzo di società estere in chiave elusiva/evasiva è complessa e richiede di muoversi con attenzione sia dal lato legale che probatorio. Dal punto di vista del contribuente (debitore) contestato, è fondamentale conoscere i propri diritti e gli strumenti di difesa: la legge offre margini di manovra, la giurisprudenza recente può essere alleata quando riconosce importanza alla sostanza economica e ai principi UE. Preparazione, trasparenza e tempestività nella reazione sono cruciali: non sottovalutare una contestazione di esterovestizione, poiché implica conseguenze severe, ma al contempo non darsi per vinti – spesso esistono elementi difendibili che, se ben presentati, possono portare a un esito favorevole o quantomeno a una soluzione transattiva sostenibile.
In definitiva, l’obiettivo è ricondurre la propria posizione entro i confini della legalità fiscale, distinguendo tra una legittima pianificazione internazionale e un abuso sanzionabile. Questa guida avanzata, aggiornata alle ultimissime novità di agosto 2025, mira ad essere una bussola in questa navigazione intricata, ma ogni caso concreto va valutato singolarmente e affidato a professionisti competenti. Con metodo e rigore, anche di fronte ad accuse di aver usato società estere per evadere, ci si può difendere e far valere le proprie ragioni nei confronti del Fisco.
Fonti (normativa e giurisprudenza selezionata)
- D.P.R. 917/1986 (TUIR): art. 2 (residenza persone fisiche); art. 73 (residenza società) ; art. 167 (CFC).
- D.Lgs. 74/2000: art. 4 (dichiarazione infedele); art. 5 (omessa dichiarazione); art. 13 (causa di non punibilità pagamento integrale).
- D.Lgs. 209/2023: Attuazione riforma fiscale internazionale (modifiche a art. 2 e 73 TUIR dal 1/1/2024) .
- Cass., Sez. Trib., 25/11/2022, n. 34723 – Esterovestizione come evasione, non abuso .
- Cass., Sez. Trib., 09/02/2023, n. 1883 – Differenza UE/extra-UE nella prova dell’esterovestizione .
- Cass., Sez. Trib., 05/04/2023, n. 9400 – Presunzione legale art.73 co.5-bis e nozione di controllo (maggioranza quote) .
- Cass., Sez. Trib., 19/07/2024, n. 20002 – Sede effettiva vs direzione e coordinamento (no esterovestizione se controllata estera con autonoma gestione) .
- Cass., Sez. Trib., 07/04/2025, n. 9096 – Trust estero simulato, interposizione reale (settlor=beneficiario, redditi imputati al disponente) .
- Cass., Sez. V Pen., 14/12/2018, n. 50151 – Società-schermo: ente privo di autonomia, attività svolta dalla persona fisica occultata .
- C.G.T. II grado Lombardia, 27/07/2023, n. 2439/25/23 – Società francese non esterovestita: autonomia operativa locale, direzione e coordinamento fisiologico non implica residenza in Italia .
- C.G.T. II grado Puglia, 21/09/2023, n. 2445/23/2023 – Assoluzione penale per esterovestizione vincolante nel giudizio tributario; definizione criteri sostanza (società portoghese operativa) .
- Direttiva 2016/1164/UE (ATAD) e Direttive DAC (2011/16/UE e succ.) – Norme UE su CFC, scambio informazioni e cooperazione fiscale.
- Corte di Giustizia UE, causa C-196/04 (Cadbury Schweppes) – Libertà di stabilimento e limiti alle norme CFC anti-abuso (costruzioni di puro artificio).
(Si veda anche la Circolare AE 18/E/2021 per chiarimenti sulla disciplina CFC post-ATAD , e la Circolare AE 34/E/2022 sui trust esteri opachi. Le fonti giurisprudenziali indicate sono state citate attraverso estratti reperibili da pubblicazioni specializzate e banche dati aggiornate al 2025.)
Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché la tua impresa o la tua posizione personale è collegata a una società estera? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché la tua impresa o la tua posizione personale è collegata a una società estera?
Temi che l’operazione venga qualificata come evasione fiscale tramite esterovestizione?
L’utilizzo di società estere non è di per sé illegale: molte imprese scelgono strutture internazionali per motivi di mercato, logistica, investimenti o strategie commerciali. Tuttavia, quando l’Agenzia delle Entrate ritiene che la società estera sia stata costituita solo per sottrarre redditi al fisco italiano, può contestare l’operazione come evasione fiscale.
👉 La difesa si basa sul dimostrare la sostanza economica e la reale operatività all’estero della società.
⚖️ Quando scatta la contestazione
- Esterovestizione: la società risulta formalmente residente all’estero ma la direzione effettiva è in Italia;
- Società di comodo: entità estera senza uffici, dipendenti o attività reale, creata solo per gestire redditi o patrimoni;
- Utilizzo di regimi fiscali agevolati (Paesi a fiscalità privilegiata o “black list”) senza adeguata sostanza economica;
- Flussi finanziari anomali: profitti trasferiti all’estero senza valide ragioni economiche.
📌 Conseguenze di una contestazione
- Recupero delle imposte in Italia sui redditi attribuiti alla società estera;
- Sanzioni tributarie molto elevate (fino al raddoppio in caso di Paesi black list);
- Interessi di mora sulle somme dovute;
- Procedimenti penali tributari nei casi più gravi di frode fiscale o dichiarazione infedele;
- Sequestro di beni e conti correnti per garantire il recupero delle somme.
🔍 Strategie di difesa
- Dimostrare la residenza effettiva all’estero: sede operativa reale, uffici, dipendenti, amministrazione autonoma.
- Documentare le ragioni economiche: dimostrare che la scelta della sede estera ha finalità commerciali e non solo fiscali.
- Provare la sostanza dell’attività: contratti, fatture, fornitori, clienti, attività di ricerca e sviluppo all’estero.
- Contestare le presunzioni del Fisco: l’Agenzia deve dimostrare che la società è fittizia e controllata dall’Italia.
- Impugnare l’accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e difendersi anche in sede penale se necessario.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza la contestazione relativa all’uso della società estera;
- 📌 Ricostruisce la sostanza economica e la reale operatività della società fuori dall’Italia;
- ✍️ Redige memorie difensive e ricorsi contro l’Agenzia delle Entrate;
- ⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio e nei giudizi tributari, oltre che nelle eventuali indagini penali;
- 🔁 Elabora soluzioni alternative, come adesioni o definizioni agevolate, per ridurre imposte e sanzioni.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e società estere;
- ✔️ Specializzato in esterovestizione, black list e contenzioso tributario internazionale;
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
L’utilizzo di società estere non è vietato, ma se manca una reale operatività può essere considerato uno strumento di evasione fiscale.
Con una difesa legale mirata puoi dimostrare la legittimità delle scelte imprenditoriali, contestare le presunzioni del Fisco e proteggere il tuo patrimonio.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro le contestazioni sull’uso di società estere inizia qui.