Omessa Dichiarazione Di Criptovalute E Reato Di Infedele Dichiarazione: Come Difendersi

Hai criptovalute non dichiarate e temi un’accusa di infedele dichiarazione?
Negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli sui wallet e sugli exchange di criptovalute. La mancata dichiarazione delle cripto nel quadro RW o la loro omissione nella determinazione dei redditi può portare a pesanti sanzioni e, nei casi più gravi, a conseguenze penali per reato di dichiarazione infedele.

Quando si configura l’omessa dichiarazione di criptovalute
– Se non hai compilato il quadro RW ai fini del monitoraggio fiscale
– Se non hai dichiarato plusvalenze da cessione di criptovalute superiori alla soglia imponibile
– Se non hai indicato correttamente i redditi generati da staking, lending o altre attività con cripto-attività
– Se i movimenti bancari o finanziari non trovano corrispondenza con quanto dichiarato

Cos’è il reato di dichiarazione infedele
– Scatta quando vengono omessi redditi imponibili superiori a determinate soglie di legge
– Comporta conseguenze penali con rischio di condanna detentiva
– Si applica se l’omissione comporta un’imposta evasa superiore a 150.000 euro per singolo periodo d’imposta
– Può riguardare anche i redditi da criptovalute se non dichiarati correttamente

Cosa rischia il contribuente
– Sanzioni amministrative dal 90% al 180% delle imposte non versate
– Recupero delle imposte su plusvalenze, redditi da cripto-attività e patrimoniali non dichiarate
– Procedimenti penali con rischio di condanna per dichiarazione infedele
– Sequestri e confische di wallet, conti correnti e beni fino a concorrenza del debito

Come difendersi da queste contestazioni
– Dimostrare la provenienza lecita delle criptovalute e dei movimenti finanziari
– Produrre estratti degli exchange e documentazione che attesti le operazioni effettuate
– Contestare errori di calcolo o ricostruzioni arbitrarie del Fisco basate su presunzioni
– Dimostrare che i redditi erano sotto soglia o non imponibili
– Utilizzare il ravvedimento operoso o la dichiarazione integrativa se la contestazione non è ancora definitiva
– In sede penale, provare l’assenza di dolo e la buona fede nella gestione delle dichiarazioni fiscali

Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento
– La riduzione delle sanzioni amministrative con strumenti deflattivi
– L’assoluzione o l’esclusione della responsabilità penale in mancanza di dolo
– La sospensione delle procedure esecutive e cautelari
– La possibilità di chiudere la posizione pagando solo quanto effettivamente dovuto

Attenzione: l’omessa dichiarazione di criptovalute può avere conseguenze molto gravi, ma non sempre le contestazioni del Fisco sono fondate. Una difesa documentata può ribaltare le presunzioni e proteggere da sanzioni sproporzionate.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità delle criptovalute, contenzioso tributario e difesa penale tributaria – ti spiega quando l’omessa dichiarazione di criptovalute può portare al reato di infedele dichiarazione e come difenderti.

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Introduzione

Negli ultimi anni il Fisco italiano ha rivolto crescente attenzione al mondo delle criptovalute (Bitcoin, Ethereum e altri crypto-asset) considerandolo un potenziale veicolo di evasione fiscale. L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza hanno intensificato i controlli, notificando numerosi avvisi di accertamento a titolari di wallet e a praticanti di mining e staking di criptovalute. Queste verifiche sono aumentate soprattutto dopo l’entrata in vigore delle leggi di bilancio 2023 e 2024 (L. 197/2022, L. 197/2023) che hanno introdotto una disciplina tributaria ad hoc per le cripto-attività, e della più recente Legge di bilancio 2025 (L. 207/2024) che ha ulteriormente inasprito la tassazione.

Nonostante il quadro normativo dedicato, permangono zone d’ombra interpretative e margini di contestazione. Spesso le pretese fiscali si basano su presunzioni o ricostruzioni arbitrarie dei redditi in criptovalute, dati i complessi meccanismi di valorizzazione e tracciamento. Questa guida – aggiornata a luglio 2025 – analizza in dettaglio la normativa italiana vigente sulle criptovalute, le possibili tipologie di accertamento fiscale da parte del Fisco, i rischi penali correlati e, soprattutto, le strategie difensive a disposizione del contribuente (privato cittadino, professionista o imprenditore). Il taglio sarà tecnico-giuridico ma con linguaggio divulgativo: citeremo leggi, circolari e sentenze recenti (Cassazione 2021-2025) per fornire una panoramica avanzata, con esempi pratici, tabelle riepilogative e una sezione domande/risposte, il tutto dal punto di vista del contribuente (debitore) che voglia tutelarsi.

Quadro normativo e definizioni

Le criptovalute e i crypto-asset vengono giuridicamente definiti come “rappresentazioni digitali di valore” basate su tecnologie di registro distribuito (blockchain). La normativa antiriciclaggio italiana (D.Lgs. 231/2007, modificato dal D.Lgs. 90/2017) ha introdotto già nel 2017 una definizione di “valuta virtuale” intesa come: «rappresentazione digitale di valore, non emessa da banca centrale o autorità pubblica, utilizzata come mezzo di scambio o a fini di investimento, e trasferibile, archiviata elettronicamente». In altri termini, pur non avendo corso legale (non sono moneta avente corso forzoso), i crypto-asset possiedono valore economico e possono fungere da mezzo di pagamento tra privati. Anche a livello comunitario, il recente Regolamento UE 2023/1114 (MiCA – Markets in Crypto-Assets) inquadra le criptovalute come attività digitali meritevoli di regolazione, imponendo obblighi di trasparenza sugli operatori.

In ambito fiscale, fino al 2022 mancava in Italia una disciplina positiva specifica sulle criptovalute. L’Amministrazione finanziaria, in assenza di norme ad hoc, applicava per analogia le regole previste per le valute estere e per le attività finanziarie tradizionali. Già dal 2013 l’Agenzia delle Entrate aveva chiarito (Circ. 38/E/2013) che le attività estere detenute fuori dal circuito bancario italiano vanno dichiarate nel Quadro RW – principio esteso di fatto anche alle criptovalute detenute su exchange esteri o in wallet privati. Inoltre, prima del 2023 l’Agenzia assimilava gli utili da trading di cripto-valute ai redditi diversi su valute estere: ciò comportava l’applicazione di una soglia valutaria di esenzione (detenzione media > €51.645 per almeno 7 giorni nel periodo d’imposta) mutuata dal regime del cambio valuta tradizionale. In mancanza di chiarezza normativa, molti contribuenti hanno interpretato in modo difforme i propri obblighi fiscali sulle cripto-attività, aprendo la strada a possibili contenziosi.

Le cose sono cambiate con le ultime Leggi di Bilancio. La Legge 197/2022 (Bilancio 2023) ha inserito nel TUIR (Testo Unico Imposte sui Redditi) una disciplina dedicata alle cripto-attività. In particolare, la L. 197/2022 ha introdotto la lettera c-sexies all’art. 67 comma 1 TUIR, qualificando formalmente le plusvalenze da criptovalute come redditi diversi di natura finanziaria, tassabili con imposta sostitutiva. Contestualmente, è stata fornita una definizione normativa di cripto-attività intesa come: «rappresentazione digitale di valore o di diritti, che può essere trasferita e archiviata elettronicamente, utilizzata come strumento di investimento o scambio, diversa da moneta avente corso legale e da strumenti finanziari». Questa definizione legislativa – introdotta nella legge 197/2022 – ha colmato un vuoto, distinguendo le cripto-attività dagli strumenti finanziari tradizionali, pur assoggettandole a regole fiscali analoghe.

Va evidenziato che chiunque offra servizi relativi a valute virtuali in Italia (es. exchange, fornitori di wallet custodial, operatori di cambio) è tenuto ad iscriversi in un apposito registro tenuto dall’OAM (Organismo Agenti e Mediatori) come “prestatori di servizi di valuta virtuale”. Questo obbligo, introdotto dal D.Lgs. 90/2017 e attuato dal DM 13 gennaio 2022, mira a garantire tracciabilità e compliance antiriciclaggio degli operatori crypto sul territorio nazionale. Inoltre, con il recepimento della Travel Rule europea (Regolamento UE 2023/1113) tramite D.Lgs. 204/2024, dal giugno 2024 gli intermediari cripto devono trasmettere alle autorità i dati identificativi del mittente e destinatario di ogni trasferimento di criptovaluta sopra €1.000. In sintesi, oggi le criptovalute in Italia sono oggetto di attenzione normativa sia sul fronte fiscale sia su quello regolatorio (vigilanza finanziaria e antiriciclaggio).

Regime fiscale delle criptovalute (2023–2025)

Tassazione delle plusvalenze. La Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022) ha stabilito che ogni cessione di criptovalute che genera una plusvalenza – sia essa una vendita contro euro, uno scambio crypto-fiat, oppure l’utilizzo di crypto per acquistare beni o servizi – costituisce reddito imponibile per le persone fisiche residenti. La plusvalenza si calcola come differenza tra il corrispettivo ottenuto (valore di realizzo) e il costo di acquisto delle criptovalute cedute. Per le annualità fino al 2024 era prevista una soglia di esenzione: se le plusvalenze complessive dell’anno non superavano €2.000, non era dovuta imposta. Oltre tale soglia, l’intero importo delle plusvalenze realizzate diveniva tassabile con imposta sostitutiva del 26%, in analogia alle rendite finanziarie. Esempio: se nel 2024 un contribuente acquista crypto per €10.000 e le rivende a €18.000, realizza una plusvalenza di €8.000; applicando la franchigia di €2.000, rimangono €6.000 imponibili tassati al 26% = €1.560 di imposta dovuta.

La Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024) ha modificato questo regime. Dal periodo d’imposta 2025 è stata eliminata la soglia dei €2.000, rendendo quindi imponibili tutte le plusvalenze, anche di modesto importo. L’aliquota dell’imposta sostitutiva resta al 26% per il 2025, ma a regime dal 2026 è previsto il suo innalzamento al 33%. In sintesi:

  • Fino al 2024: imposta sostitutiva 26% sulle plusvalenze da cripto, con esenzione per importi fino a €2.000 annui (soglia globale per periodo d’imposta).
  • Anno 2025: imposta sostitutiva 26% su tutte le plusvalenze (soglia di esenzione abolita).
  • Dal 2026: imposta sostitutiva 33% su tutte le plusvalenze (nuovo regime a regime).

Le plusvalenze su cripto vanno indicate nella dichiarazione dei redditi (quadro RT del Modello Redditi PF) e l’imposta sostitutiva dovuta si versa con le stesse scadenze dell’Irpef. Le eventuali minusvalenze da investimenti in criptovalute sono compensabili con plusvalenze della stessa natura secondo le regole ordinarie (compensazione entro l’anno e riporto nei quattro anni successivi, se opportuno).

Altri redditi da cripto-attività. Oltre alle plusvalenze da compravendita, la legge include tra i redditi imponibili di natura finanziaria anche gli “altri proventi” derivanti da operazioni aventi a oggetto cripto-attività. Ciò significa che entrano nell’imponibile anche i redditi diversi prodotti mediante rimborso, permuta o detenzione di crypto-attività. Ad esempio, i ricavi ottenuti dalla cessione di un token NFT o i premi dello staking di criptovalute possono costituire redditi tassabili al 26% come redditi diversi finanziari. La Corte di Cassazione ha confermato che i proventi ottenuti in cripto – ad esempio tramite la vendita di opere digitali (NFT) – sono redditi imponibili in Italia anche se non ancora convertiti in valuta fiat. Infatti, per il Fisco la criptovaluta ricevuta in pagamento ha un controvalore economico oggettivo in euro che va dichiarato; non si tratta di una mera “potenzialità” non imponibile, ma di un corrispettivo con valore misurabile.

Va sottolineato che se l’attività in criptovalute sconfina in un’attività abituale d’impresa o professionale, i relativi guadagni non godono del regime privatistico sopra descritto: in tali casi si applicano le regole ordinarie del reddito d’impresa o lavoro autonomo. Ad esempio, una società di mining o un trader professionale di crypto dovrà tassare i profitti come reddito d’impresa (aliquota IRES/IRAP), potendo però dedurre i costi correlati (energia, attrezzature, ecc.). Invece il privato che svolge mining o staking in modo non imprenditoriale verrà generalmente tassato nel regime dei redditi diversi: le criptovalute “minate” da un privato sono assimilate a beni autoprodotti, il cui valore diverrà plusvalenza tassata al momento della cessione a titolo oneroso. L’Agenzia delle Entrate, in risposta a specifici interpelli, ha chiarito che il mining non configura una prestazione di servizi verso un committente identificabile (non c’è rapporto sinallagmatico diretto), dunque non rileva ai fini IVA; tuttavia, ai fini delle imposte dirette, le criptovalute acquisite via mining possiedono natura di ricavo per il miner. Per un privato miner di piccole dimensioni, tali ricavi di norma si concretizzeranno solo al momento della vendita dei token (generando plusvalenze eventualmente soggette al 26%); se però l’attività è sistematica e organizzata (es. mining farm), i token generati sono considerati ricavi d’esercizio immediatamente imponibili e contabilizzati in magazzino (con valutazione al minore tra costo e valore di mercato).

Regimi opzionali e rivalutazioni. La normativa ha previsto alcune misure transitorie per agevolare l’adeguamento dei contribuenti al nuovo regime fiscale:

  • Rivalutazione delle cripto-attività detenute (step-up): sia la L. 197/2022 sia la L. 207/2024 consentono ai contribuenti di “affrancare” il valore delle cripto possedute pagando un’imposta sostitutiva su tale valore al 1° gennaio dell’anno (14% per affrancare al 1/1/2023; 18% per affrancare al 1/1/2025). In pratica, si può evitare di tassare le plusvalenze pregresse non realizzate pagando subito un’imposta sul valore iniziale: il costo fiscale della cripto sarà riallineato al valore corrente, riducendo future plusvalenze imponibili. La rivalutazione 2023 andava versata entro il 30 giugno 2023 (14%), quella 2025 va versata entro il 30 novembre 2025 (18%, in massimo tre rate con interessi 3%). È importante notare che queste rivalutazioni onerose non sono ammesse se il contribuente non era in regola con gli obblighi di monitoraggio fiscale (Quadro RW) sulle cripto in oggetto. Occorre quindi aver dichiarato regolarmente il possesso delle criptovalute per poter usufruire dello step-up fiscale.
  • Regimi del risparmio amministrato/gestito: la riforma del 2023 ha aperto la possibilità per gli intermediari non qualificati (come gli operatori crypto iscritti all’OAM, se non sono già intermediari finanziari) di fungere da sostituti d’imposta per i clienti, applicando l’imposta crypto al 26% direttamente (simile al regime amministrato per i titoli). In futuro, quindi, è plausibile che gli exchange o broker crypto italiani offrano ai clienti la possibilità di tassazione automatica dei guadagni crypto, evitando al contribuente di doversi autogestire il calcolo in dichiarazione.

In conclusione, dal 2023 le cripto-attività per i privati generano redditi diversi tassati in modo analogo agli investimenti finanziari tradizionali, con aliquota (attualmente) 26% e con regole via via più stringenti (abolizione soglia esente e aumento aliquota dal 2026). Chi opera su larga scala o in forma societaria ricade invece nella tassazione ordinaria dei redditi d’impresa.

Obblighi dichiarativi: monitoraggio (Quadro RW) e IVAFE cripto

Oltre a dichiarare i redditi prodotti dalle criptovalute, i contribuenti fiscalmente residenti in Italia sono tenuti al monitoraggio fiscale delle attività estere detenute. Tale obbligo si applica anche alle criptovalute e crypto-asset. Il Quadro RW della dichiarazione dei redditi è la sezione dedicata a segnalare il possesso di investimenti e attività finanziarie estere da parte di persone fisiche, enti non commerciali e società semplici. In passato l’obbligo di indicare le criptovalute nel Quadro RW era desunto in via interpretativa, assimilando i wallet esteri a depositi o attività finanziarie estere. Dal 1° gennaio 2023, però, il legislatore ha stabilito espressamente l’obbligo di compilazione del Quadro RW per tutte le cripto-attività, modificando l’art. 4 del D.L. 167/1990. Il quadro RW va quindi utilizzato per indicare il valore di tutte le criptovalute possedute dal contribuente nel periodo d’imposta, a prescindere dalle modalità di custodia (wallet digitale privato, exchange estero, etc.) e a prescindere dal luogo in cui sono detenute (Italia o estero). In altri termini, gli obblighi di monitoraggio fiscale sussistono indipendentemente dal fatto che le cripto siano conservate su hardware wallet personali, su piattaforme estere o presso intermediari italiani.

La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 30/E del 27.10.2023 ha confermato questa impostazione, precisando che nel Quadro RW va compilato un rigo per ogni “portafoglio” o “conto digitale” detenuto dal contribuente, e che l’obbligo scatta anche per i soggetti che, pur non possedendo direttamente le cripto-attività, ne sono titolari effettivi secondo la normativa antiriciclaggio (es. tramite società estere o fiduciari). Il codice di monitoraggio per le criptovalute è il codice 14 (“Altre attività estere di natura finanziaria”) e occorre indicare il valore massimo raggiunto da ciascun wallet nel corso dell’anno ovvero, secondo le istruzioni 2023-2024, il valore al 31 dicembre.

Cripto detenute in Italia o all’estero. Un dubbio frequente riguardava le criptovalute custodite presso intermediari italiani: vanno indicate lo stesso nel Quadro RW, dato che formalmente non sono “estere”? La normativa rinnovata indica di sì: tutte le cripto-attività rientrano nel monitoraggio fiscale, salvo che l’intermediario italiano già comunichi all’Anagrafe Tributaria i movimenti (ad esempio per prodotti finanziari tradizionali). In pratica, gli exchange e operatori crypto nazionali finora non erano equiparati agli intermediari finanziari vigilati, quindi il contribuente deve cautelativamente inserire anche i wallet su piattaforme italiane nel Quadro RW – fermo restando che dal 2023 tali operatori devono iscriversi all’OAM e rispettare obblighi di reporting. In futuro potrebbe essere esplicitata un’esenzione dall’RW per crypto depositate presso intermediari italiani che agiscano da sostituti d’imposta (similmente a quanto accade per i depositi titoli presso banche italiane), ma ad oggi la regola generale resta di dichiarare tutte le posizioni crypto.

Imposta sul valore delle cripto-attività (IVAFE cripto). Oltre al monitoraggio, le criptovalute possono essere soggette a un’imposta patrimoniale annuale. La Legge 197/2022 ha infatti modificato l’art. 19 del D.L. 201/2011 estendendo alle valute virtuali detenute all’estero l’applicazione dell’IVAFE (Imposta sul valore delle attività finanziarie estere) con aliquota 0,2% sul valore. Ciò significa che, analogamente a un conto corrente estero o a un deposito titoli estero, il valore delle criptovalute va assoggettato a un’imposta annua dello 0,2% se detenute all’estero. Ad esempio, chi detiene Bitcoin su un exchange straniero al 31/12 dell’anno per un controvalore di €10.000 dovrà calcolare un’imposta IVAFE di €20 per quell’anno. L’IVAFE sulle cripto va indicata e liquidata attraverso il Quadro RW (sezione dedicata al calcolo imposte patrimoniali). Se invece le cripto sono depositate presso un operatore italiano, si applica l’imposta di bollo al 0,2% sulle comunicazioni periodiche (estratti conto) emesse da tale operatore. In sostanza il prelievo patrimoniale è lo stesso (0,2% annuo), ma si chiama IVAFE se l’attività è all’estero (a carico del contribuente in RW) o bollo se presso intermediario italiano (addebitato dall’intermediario). È importante notare che l’Agenzia delle Entrate (Risposta interpello n. 181/2024) ha chiarito che non vanno assoggettati a imposta patrimoniale gli importi in valuta tradizionale temporaneamente presenti sulla piattaforma crypto (ad es. euro parcheggiati sul conto dell’exchange in attesa di investimento), poiché non rappresentano di per sé un prodotto finanziario estero. Dunque, se a fine anno sul conto crypto abbiamo un saldo in euro oltre ai token, la parte in euro va dichiarata solo se si tratta di un deposito estero autonomo; se invece è un saldo transitorio in piattaforma, l’Agenzia esclude di conteggiarlo ai fini IVAFE.

Esclusioni e particolarità: la Circolare AE 30/2023 ha previsto un’importante esimente per situazioni di irreperibilità delle chiavi private. In caso di smarrimento o furto delle chiavi del wallet, attestato tramite denuncia presso un’Autorità di pubblica sicurezza, il contribuente non è tenuto a indicare nel Quadro RW le relative cripto-attività. Questa previsione riconosce che asset digitali non più accessibili (es. wallet non recuperabili) non costituiscono più una risorsa patrimoniale effettiva. La stessa impostazione viene estesa dalla prassi anche alle cripto detenute su piattaforme fallite o non accessibili ai clienti – ad esempio il caso di exchange in liquidazione come The Rock Trading. In tali circostanze, il contribuente potrà documentare l’inaccessibilità dei fondi (denuncia, comunicazioni ufficiali della procedura concorsuale) per giustificare la mancata compilazione dell’RW su quegli importi.

Sanzioni per omesso monitoraggio (RW). L’omessa o infedele compilazione del Quadro RW comporta sole sanzioni amministrative pecuniarie, non avendo rilievo penale autonomo (come dettagliato oltre). In particolare, la sanzione è dal 3% al 15% degli importi non dichiarati (valore dei beni/prodotti esteri non segnalati). Se le attività estere sono detenute in Paesi a fiscalità privilegiata (black list), la sanzione è raddoppiata (dal 6% al 30%). È comunque prevista una sanzione minima di €258 se la dichiarazione viene presentata con un ritardo non superiore a 90 giorni. Le sanzioni RW possono essere ridotte tramite ravvedimento operoso se il contribuente regolarizza spontaneamente l’omissione prima di essere contestato (ad esempio, riduzione a 1/8 del minimo se ci si ravvede entro un anno). Si noti che queste sanzioni di monitoraggio si cumulano con eventuali sanzioni per le imposte evase sui redditi correlati: sono due violazioni distinte (una formale sul monitoraggio, l’altra sostanziale sull’omesso pagamento di imposte).

Importante: la mancata compilazione del quadro RW non integra di per sé un reato tributario. La Cassazione ha infatti escluso la rilevanza penale di una condotta consistente nel non dichiarare patrimoni esteri, se ciò non si accompagna all’evasione di imposte su relativi redditi. In assenza di redditi sottratti a tassazione, la violazione RW resta amministrativa. Solo quando vengano accertati redditi esteri non dichiarati (oltre soglia) potrà eventualmente scattare un procedimento penale (come omessa o infedele dichiarazione, v. infra). Questo principio vale naturalmente anche per le criptovalute: detenere Bitcoin all’estero senza dichiararli non è reato in sé, ma se da tali Bitcoin derivavano interessi, plusvalenze o altri redditi imponibili non dichiarati, allora si valuterà il reato di infedele o omessa dichiarazione a seconda dei casi.

Sanzioni amministrative sui redditi crypto non dichiarati

Il quadro sanzionatorio amministrativo per chi omette di dichiarare al Fisco redditi derivanti dalle proprie criptovalute ricalca quello previsto per gli altri redditi imponibili non dichiarati o dichiarati in misura inferiore. Si tratta di sanzioni pecuniarie irrogate dall’Agenzia delle Entrate in sede di accertamento (indipendenti dagli eventuali profili penali, che competono invece all’Autorità giudiziaria). In sintesi:

  • Imposte non dichiarate (dichiarazione infedele): se il contribuente, pur presentando la dichiarazione dei redditi, omette di indicare redditi tassabili (ad esempio plusvalenze da vendita di cripto) o indica elementi passivi fittizi, si applica la sanzione dal 90% al 180% dell’imposta evasa. Questa è la sanzione base per dichiarazione infedele ai sensi dell’art. 1, c.2 D.Lgs. 471/1997. Ad esempio, se Tizio avrebbe dovuto €1.000 di imposta sulle sue cripto-plusvalenze non dichiarate, rischia una sanzione tra €900 e €1.800 (oltre ovviamente al recupero dei €1.000 dovuti e ai relativi interessi). In caso di infedele dichiarazione “qualificata” come reato (superamento soglie penali, v. oltre), l’irrogazione delle sanzioni amministrative viene normalmente sospesa in attesa dell’esito penale; tuttavia, se il contribuente definisce l’accertamento in via amministrativa, paga comunque le sanzioni tributarie (che non si estinguono automaticamente col procedimento penale).
  • Omessa presentazione della dichiarazione dei redditi: se il contribuente non presenta affatto la dichiarazione (pur avendo avuto redditi imponibili, ad es. solo redditi crypto), si applica la più grave sanzione dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di €250. Questa sanzione (art. 1, c.1 D.Lgs. 471/1997) colpisce la violazione formale di omessa dichiarazione a prescindere dall’entità: se non vi erano imposte dovute (dichiarazione omessa “a credito” o pari a zero) si applica una sanzione fissa da €250 a €1.000. La riforma 2024 (D.Lgs. 87/2024) ha peraltro semplificato la misura: oggi la sanzione proporzionale è fissata al 120% (prima era un range 120–240%) dell’imposta evasa. Dunque, omettere la dichiarazione è molto oneroso: ad esempio, per €10.000 di imposte non dichiarate si rischia €12.000 di sanzione amministrativa, oltre a imposte e interessi. Anche qui sono previste riduzioni da ravvedimento operoso se il contribuente rimedia volontariamente in tempo utile (v. oltre).

Vale la pena ribadire che le sanzioni amministrative per violazioni tributarie possono essere definite in acquiescenza o tramite conciliazione con l’Agenzia, ottenendo significative riduzioni (es. riduzione a 1/3 se non si fa ricorso, riduzione a 1/3 in caso di accordo in giudizio, ecc.). Inoltre, la presenza di incertezze normative negli anni passati sulle cripto può essere invocata per ottenere la non applicazione di sanzioni (esimente di obiettiva incertezza normativa ex art. 6, c.2 D.Lgs. 472/1997), laddove il contribuente dimostri di aver interpretato in buona fede una norma ambigua. In materia di cripto, fino al 2022 vi era effettivamente un quadro normativo poco chiaro, il che potrebbe giustificare la non punibilità amministrativa in alcuni casi limitati – anche se l’Amministrazione finanziaria tende a resistere a tale eccezione e spesso sta alle commissioni tributarie riconoscerla.

Reati tributari: dichiarazione infedele e omessa dichiarazione

Omettere di dichiarare redditi dovuti in misura significativa può costituire un reato tributario ai sensi del D.Lgs. 74/2000. Le fattispecie che rilevano nel contesto delle criptovalute sono principalmente due:

  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): si configura quando il contribuente, allo scopo di evadere le imposte sui redditi, indica nella dichiarazione annuale elementi attivi (ricavi, redditi) inferiori a quelli effettivi, ovvero elementi passivi inesistenti, superando determinate soglie di rilevanza. È il caso tipico di chi presenta la dichiarazione ma sottostima i propri redditi – ad esempio omettendo di dichiarare plusvalenze da cripto di importo rilevante. La punibilità penale scatta solo per le violazioni più gravi: è necessario infatti che l’infedeltà dichiarativa comporti un’evasione d’imposta superiore a €100.000 per ciascuna imposta (es. Irpef) e che l’ammontare degli elementi attivi non dichiarati superi il 10% del totale degli elementi attivi dichiarati, oppure comunque ecceda l’importo assoluto di €2 milioni. Entrambi i requisiti (soglia di imposta evasa e soglia di imponibile sottratto) devono concorrere. Se queste soglie sono superate, il reato di dichiarazione infedele è punito con la reclusione da 2 anni a 4 anni e 6 mesi. Ad esempio, un contribuente che ometta di dichiarare €3 milioni di capital gain in crypto, con un’imposta evasa di circa €780.000, integrerebbe senz’altro il reato (imposta evasa >100k e importo >2 mln). Viceversa, omettere €50.000 di redditi crypto (imposta evasa ~€13.000) non configura reato (sotto soglia), pur restando una violazione amministrativa sanzionabile.
  • Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): ricorre quando il contribuente, obbligato a presentare la dichiarazione annuale, non la presenta affatto entro il termine di legge (neanche entro il termine di ritardo di 90 giorni) al fine di evadere le imposte. In pratica, è l’ipotesi in cui l’intera dichiarazione dei redditi manca. Un classico esempio in ambito cripto è il caso di un contribuente che abbia realizzato ingenti guadagni da criptovalute e, non avendo altri redditi, sceglie deliberatamente di non presentare la dichiarazione per non pagare le imposte su tali proventi. Anche qui vi è una soglia di punibilità: il reato sussiste solo se l’imposta evasa è superiore a €50.000 per ciascun periodo d’imposta. Superata tale soglia, l’omessa dichiarazione è punita con la reclusione da 2 a 5 anni. Ad esempio, se Caio nel 2023 avrebbe dovuto pagare €60.000 di tasse sui suoi redditi (anche crypto) e non presenta la dichiarazione, commette reato; se l’imposta evasa era €40.000, non vi è reato (ma resta la sanzione amministrativa). La soglia si riferisce a ciascuna imposta: ad es. €30.000 di IRPEF evasa e €25.000 di addizionale regionale evasa non si sommano tra loro ai fini penali (nessuna delle due supera €50k, quindi niente reato), mentre €60.000 evasi di IRES configurano reato a carico della società.

Nota: affinché si configuri il dolo specifico richiesto dai reati tributari (“al fine di evadere le imposte”), non basta un errore materiale o una dimenticanza; occorre la consapevolezza del contribuente di occultare imponibili al Fisco. In dottrina e giurisprudenza si è discusso se un comportamento dovuto a incertezza normativa o a diversa interpretazione possa escludere il dolo. La Cassazione ha affermato che anche una divergenza interpretativa “non condivisa dai verificatori” potrebbe dar luogo a infedele dichiarazione punibile, ma resta distinta la situazione di chi consapevolmente nasconde redditi da quella di chi commette un errore. Ad esempio, chi omette intenzionalmente di dichiarare proventi da crypto perché “tanto il Fisco non li scopre” agisce con dolo evasivo; chi invece non li dichiara perché convinto in buona fede (ancorché erroneamente) che non fossero imponibili potrebbe sostenere l’assenza di volontà di evasione. In sede penale, la buona fede e l’incertezza normativa possono talora rilevare come esimenti (mancanza di dolo) o attenuanti, ma l’esito non è scontato e dipende dalle circostanze (complessità della norma, atteggiamento pregresso del Fisco, consulenze avute dal contribuente, ecc.).

Criptovalute e reato di infedele dichiarazione – precedenti giurisprudenziali. La Cassazione penale si è espressa di recente proprio su un caso di proventi da criptovalute non dichiarati. Con la sentenza n. 8269 del 28 febbraio 2025 (Sez. III penale), la Suprema Corte ha affermato che la mancata indicazione, nella dichiarazione dei redditi, dei proventi derivanti da criptovalute – nella specie ottenuti tramite la cessione di opere digitali NFT – costituisce fumus del delitto di dichiarazione infedele, qualora tali proventi, convertiti in valuta corrente, superino le soglie di punibilità previste dall’art. 4 D.Lgs. 74/2000. In altri termini, integra il reato di infedele dichiarazione l’omessa dichiarazione dei redditi da criptovalute, se il loro ammontare (valutato in euro) eccede le soglie penali. La Corte ha inoltre puntualizzato che questi proventi sono da considerare reddito imponibile ai sensi della normativa fiscale vigente (artt. 53 e 54 DPR 917/1986). Nel caso concreto, un artista aveva venduto opere digitali NFT ricevendone pagamenti in Ether e royalties sulle rivendite successive, ma non aveva dichiarato nulla sostenendo che le criptovalute non fossero “denaro” imponibile finché non convertite. La Cassazione ha rigettato tale tesi: pur riconoscendo la peculiarità del corrispettivo in cripto, ha stabilito che ciò non esclude la natura reddituale del provento, che anzi va dichiarato come reddito (nella categoria appropriata) anche senza conversione in euro. Questa pronuncia – la prima di legittimità in materia – conferma che “schermare” i guadagni tramite valute virtuali non mette al riparo dalle norme tributarie e penali. I redditi in crypto valgono agli occhi del Fisco come redditi in euro, dunque la loro omissione può ben integrare evasione punibile.

Di contro, come già accennato, la Cassazione ha escluso la configurabilità del reato in caso di mero possesso non dichiarato di attività estere non produttive di reddito. In particolare, con sentenza n. 19849 del 4 maggio 2021 (Sez. VI penale) è stato affermato che l’omessa compilazione del Quadro RW relativo a conti esteri non costituisce di per sé dichiarazione infedele ai fini penali, se non vi sono redditi sottratti a tassazione. Nel caso esaminato, si contestava a un contribuente di aver trasferito disponibilità su un conto estero non dichiarato, senza però provare l’esistenza di redditi evasi collegati; la Corte ha chiarito che l’art. 4 D.Lgs. 74/2000 punisce l’occultamento di redditi imponibili, non la mera violazione degli obblighi di monitoraggio. Questo orientamento vale anche per le criptovalute: detenere crypto all’estero senza dichiararle non è ipso facto reato, se il Fisco non dimostra un’imposta evasa correlata (ad esempio plusvalenze non tassate). Naturalmente, se dal possesso derivano presunzioni di redditi non dichiarati, le autorità potrebbero contestare il reato, ma dovranno provare che vi sono imponibili sottratti (es. movimenti in entrata su wallet esteri non giustificati).

Pene accessorie e conseguenze penali. In caso di condanna per reati tributari (infedele o omessa dichiarazione), oltre alla pena detentiva sono previste pene accessorie quali l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e l’incapacità di contrattare con la PA (art. 12 D.Lgs. 74/2000). Inoltre, il patrimonio del contribuente può essere soggetto a sequestro preventivo finalizzato alla confisca, per un importo equivalente all’imposta evasa. Ad esempio, se è contestata un’evasione da €200.000 su crypto, la Procura può chiedere il sequestro di beni del contribuente fino a €200.000. La Cassazione, peraltro, ha di recente escluso la possibilità di disporre sequestro preventivo per equivalente nei casi in cui non sussista il reato presupposto: ad es. niente sequestro se c’è solo omessa dichiarazione RW ma non è integrato il reato di infedele.

In definitiva, dal punto di vista del contribuente, è fondamentale conoscere queste soglie e condizioni: se si è sotto soglia si può evitare il penale (pur pagando le sanzioni amministrative), se si è sopra soglia scatta un rischio libertà personale non trascurabile. Nella sezione seguente vedremo come difendersi sia davanti al Fisco (sede tributaria) sia in un eventuale procedimento penale.

Difesa del contribuente in sede di accertamento tributario

Quando l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza contesta omissioni fiscali relative alle criptovalute, il contribuente ha diritto a far valere le proprie ragioni in sede amministrativa e contenziosa tributaria. Le strategie difensive possono svilupparsi già nella fase di accertamento e, se necessario, proseguire davanti alle Commissioni Tributarie (ora Corti di Giustizia Tributaria). Ecco alcuni punti chiave per impostare una difesa efficace:

  • Verificare la correttezza della ricostruzione del Fisco: Spesso l’accertamento su cripto viene effettuato tramite indagini finanziarie e analisi dei movimenti su exchange o su blockchain pubbliche. È fondamentale scrutinare i dati che il Fisco ritiene di aver ricostruito: ad esempio, controllare che i wallet attribuiti al contribuente siano effettivamente suoi, che i calcoli delle plusvalenze siano corretti (prezzi di acquisto e vendita, tassi di cambio) e che ogni transazione contestata costituisca davvero un fatto imponibile. Esempio: se l’Agenzia considera come “vendita” tassabile anche un mero trasferimento di crypto tra due wallet dello stesso soggetto, tale presupposto è errato (manca realizzo) e va contestato. Ugualmente, se viene tassata una permuta crypto-crypto senza plusvalenza effettiva (perché magari i due token scambiati avevano lo stesso valore al momento), si può obiettare che non vi sia reddito imponibile reale.
  • Documentare i costi fiscalmente rilevanti: Nel determinare le plusvalenze crypto, il Fisco talvolta assume costo di acquisto zero (specie per coin provenienti da mining, airdrop, hard fork, ecc.) o non riconosce alcune spese. Il contribuente dovrebbe invece documentare tutti i costi e valori iniziali per ridurre l’imponibile: ad esempio, tracciare l’investimento iniziale in criptovaluta (prezzo e data d’acquisto), le commissioni pagate agli exchange, le eventuali spese per mining (hardware, elettricità) se pertinenti. Ogni elemento che riduce il guadagno netto può essere decisivo per far scendere l’imposta evasa sotto soglia penale o comunque per ridurre sanzioni. Esempio: se il Fisco contesta €100.000 di plusvalenze ma non ha considerato €20.000 di costi di acquisto dei coin, portare prove dei costi riduce l’evasione contestata a €80.000, forse evitando il reato (sotto €100k di imposta evasa).
  • Obiettiva incertezza normativa: Per gli anni antecedenti al 2023, la tassazione delle criptovalute non era supportata da una legge chiara ma solo da interpelli e analogie normative. Questo può costituire un argomento di difesa almeno per chiedere l’annullamento delle sanzioni amministrative (invocando l’esimente ex art. 6 D.Lgs. 472/1997) e, se del caso, escludere l’intenzionalità (dolo) in ambito penale. Si può sostenere che il contribuente abbia interpretato la legge in modo ragionevole data la mancanza di norme esplicite. Ad esempio, prima del 2023 molti ritenevano – sia dottrina che professionisti – che le plusvalenze crypto fossero tassabili solo in caso di prelievo in valuta fiat, oppure solo oltre la soglia dei €51.645 come per le valute estere. Un contribuente che non ha dichiarato piccoli scambi crypto-crypto perché convinto (erroneamente) che non fossero imponibili potrebbe far valere la confusione normativa dell’epoca. Questo argomento, se ben fondato (ad esempio avvalorato da pareri professionali o da interpellanze successivamente chiarite), può condurre all’annullamento delle sanzioni nel contenzioso tributario e rendere più difficile provare il dolo nel penale.
  • Non dichiarato non significa automaticamente evasione: Nel contraddittorio con l’ufficio, il contribuente può dimostrare che determinate operazioni non hanno prodotto redditi tassabili. Ad esempio, se l’avviso di accertamento presume redditi da staking solo perché vede arrivi di coin sul wallet, si può spiegare che quei coin sono, ad esempio, il rimborso del prestito di token precedentemente dati in lending e non un interesse, oppure che sono movimenti interni. Se il Fisco applica le presunzioni sui paradisi fiscali (art. 12 D.L. 78/2009) – cioè considera i prelievi da exchange esteri come redditi – il contribuente può provare che quei fondi erano capitali propri trasferiti, già tassati o di origine non reddituale (es. donazione, risparmi). Insomma, occorre reagire attivamente alle presunzioni, fornendo controprove e ricostruzioni alternative credibili.
  • Procedura di accertamento con adesione: Quando si riceve un avviso di accertamento per cripto, può essere conveniente avviare un’istanza di accertamento con adesione. Questo consente di discutere col funzionario le pretese, ottenere eventualmente un ricalcolo più favorevole e, in caso di accordo, beneficiare della riduzione delle sanzioni a 1/3 (oltre che evitare il giudizio). Se si riesce a far comprendere all’ufficio alcuni errori (es. sopravalutazioni, doppie conteggiature) o incertezze, si potrebbe chiudere la vicenda in modo più rapido e con esborso ridotto. Naturalmente bisogna soppesare l’adesione con l’eventuale pendente rischio penale: aderire a un accertamento non impedisce di per sé un procedimento penale se i fatti costituiscono reato, ma mostra un atteggiamento collaborativo e consente di cristallizzare l’imposta evasa su cui eventualmente applicare la causa di non punibilità penale (pagamento integrale, v. infra).
  • Ricorsi e difesa tecnica in giudizio: Se non si trova un accordo, il contribuente può presentare ricorso alla Commissione Tributaria (Corte di Giustizia Tributaria di primo grado). In giudizio tributario, sarà cruciale predisporre una CTU informatica o una perizia di parte sui flussi crypto, per spiegare al giudice la dinamica delle operazioni e contestare le interpretazioni errate del Fisco. Si potranno far valere questioni giuridiche (ad es. retroattività delle sanzioni, interpretazione delle norme) e questioni di merito (valori, nesso tra movimenti e redditi). Vista la tecnicità della materia crypto, è consigliabile affiancare al legale un esperto di blockchain/trading come consulente. L’obiettivo del contenzioso può essere l’annullamento totale dell’atto (se i redditi non erano imponibili o la ricostruzione fiscale è insostenibile) oppure la rideterminazione del dovuto in misura minore (ad es. riconoscimento di costi, riduzione sanzioni). Ricordiamo che il giudice tributario non ha competenza diretta sul penale, ma un esito favorevole nel merito – ad esempio sentenza che accerta imposta evasa sotto €100k o nessuna evasione – avrà forti riflessi positivi anche su un eventuale procedimento penale (venendo meno o riducendosi il fatto di reato).

In ogni caso, è fondamentale muoversi con tempestività: fin dall’avvio delle indagini o dalla notifica del PVC (processo verbale di constatazione) è bene farsi assistere da un professionista esperto di fiscalità internazionale e diritto penale-tributario, per tutelare al meglio i propri diritti e magari transare col Fisco prima che le posizioni si irrigidiscano.

Difese e tutele nel procedimento penale

Se la situazione evolve in un procedimento penale (ad esempio, a seguito di una notitia criminis trasmessa dall’Agenzia delle Entrate alla Procura per superamento soglie di reato), il contribuente – ora indagato/imputato – dovrà attivare specifiche strategie difensive sul piano penale. Anche in questa sede l’obiettivo primario sarà evitare (o attenuare) le sanzioni detentive, facendo emergere elementi a favore dell’incolpato. Le principali linee di difesa penale sono:

  • Pagamento integrale del debito tributario (Art. 13 D.Lgs. 74/2000): La legge prevede una causa di non punibilità se il contribuente estingue completamente il suo debito con il Fisco prima che il processo penale sia troppo avanzato. In particolare, per i reati di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione (artt. 4 e 5), non sono punibili coloro che pagano tutti i debiti tributari (imposte evase, sanzioni amministrative e interessi) tramite ravvedimento operoso o presentando la dichiarazione omessa entro il termine di quella dell’anno successivo, prima che abbiano formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento o indagine penale. In pratica, se un contribuente si autodenuncia e paga spontaneamente quanto dovuto prima di essere scoperto, il reato viene meno. Ma anche dopo l’avvio delle indagini, la legge concede un’ulteriore chance: prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, se il debito tributario è in corso di estinzione mediante rate concordate, il giudice può concedere fino a 3+3 mesi di tempo per completare i pagamenti. Pagato tutto, scatterà la non punibilità (o quantomeno, nei casi diversi dai nostri, una riduzione di pena per i reati omissivi di versamento). Applicazione al caso crypto: se un contribuente viene indagato per infedele dichiarazione su cripto, può attivarsi immediatamente per versare imposte, sanzioni e interessi dovuti su quanto omesso. Ottenuto ciò (ad esempio con accertamento con adesione e pagamento, o ravvedimento prima), egli potrà chiedere l’archiviazione o il proscioglimento per intervenuto pagamento ex art. 13. La Cassazione ha chiarito che la non punibilità opera anche se il pagamento avviene dopo aver avuto sentore dell’indagine, purché formalmente prima dell’apertura del dibattimento. Dunque, il ravvedimento operoso “tardivo” – finché non si è già a giudizio avanzato – può salvare dalla condanna.
  • Prova dell’assenza di dolo specifico: Come detto, serve il fine di evadere. La difesa può cercare di dimostrare che l’imputato non aveva consapevolezza di violare la legge tributaria. Nel campo crypto questo argomento può poggiare sulla complessità e novità del fenomeno: ad esempio, la difesa potrebbe sostenere che l’imputato fosse convinto che le sue operazioni crypto non fossero imponibili (magari perché non convertite in euro, secondo una tesi che – prima della Cassazione 2025 – poteva sembrare plausibile). Se questa convinzione è attestata da comportamenti trasparenti (es. l’imputato ha tenuto traccia pubblica delle operazioni, non ha occultato fondi ma solo non li ha dichiarati per errore interpretativo), si potrebbe argomentare l’assenza di dolo evasivo. Chiaramente è una linea sottile e rischiosa (l’ignoranza della legge non è generalmente scusante), ma in casi di norme poco chiare un errore sul fatto tributario può talvolta escludere il dolo. Ad esempio, se nel 2019 Tizio non dichiarò €10.000 di guadagni crypto perché un consulente gli disse che sotto €51.000 di giacenza non erano tassabili, ciò rivela mancanza di volontà fraudolenta, trattandosi di (errata) interpretazione. La giurisprudenza ammette la non punibilità quando l’errore sull’obbligo fiscale è inevitabile con l’ordinaria diligenza. Non è facile da far valere, ma è una difesa da considerare specialmente per annualità antecedenti alla L.197/2022.
  • Applicazione delle cause di non punibilità specifiche dell’art. 4: L’art. 4 D.Lgs. 74/2000 esclude il reato in alcuni casi di infedeltà “lievi” dovute a valutazioni discordanti. In particolare, il comma 1-bis esclude il reato per valutazioni estimative erronee di elementi attivi/passivi pur esistenti (es. errata valutazione di rimanenze, crediti, ecc.), e il comma 1-ter (come modificato nel 2020) esclude la punibilità se le differenze di valutazione complessivamente incidono meno del 10% sul reddito imponibile. Nel contesto crypto, questo potrebbe applicarsi se la contestazione verte su come si è valutato un certo token a fine anno o se un certo provento fosse reddito o capitale. Tuttavia, la gran parte delle omissioni crypto riguarda interi redditi non dichiarati, non semplici differenze di stima, quindi raramente tali esimenti troveranno spazio.
  • Patteggiamento o sospensione condizionale: Qualora le prove a carico siano solide e non vi siano cause estintive, si può optare per strategie di plea bargaining per contenere il danno. Ad esempio, chiedere un patteggiamento con pena nel minimo edittale (specie se nel frattempo si è pagato il dovuto) per ottenere magari una pena inferiore a 2 anni, che può essere sospesa condizionalmente e non comportare carcerazione. Il patteggiamento nei reati tributari post riforma 2019 richiede di aver estinto il debito tributario, quindi torna l’importanza di pagare il dovuto. Con la sospensione condizionale, l’imputato eviterà di scontare la pena detentiva se nei termini fissati non commette altri reati e adempie ad eventuali obblighi (spesso il pagamento del dovuto è già stato fatto, altrimenti può essere posto come condizione).
  • Questioni procedurali: La difesa potrà infine verificare la correttezza formale del procedimento: ad esempio contestare la competenza territoriale se gli accertamenti sono stati trasmessi in procure non competenti, oppure eccepire vizi nelle notifiche o prescrizione (la dichiarazione infedele si prescrive in 6 anni estensibili a 7 1/2 con atti interruttivi, l’omessa in 8 anni estensibili a 10). Anche se questioni molto tecniche, non vanno trascurate perché un vizio procedurale può talora far cadere l’accusa senza entrare nel merito.

In definitiva, la migliore difesa penale contro le accuse di evasione su criptovalute consiste nella collaborazione attiva: fornire dati e documenti per chiarire ogni movimento e soprattutto attivarsi nel pagare il dovuto. Un contribuente che dimostra pentimento operoso (ravvedimento) e paga spontaneamente le imposte arretrate mette se stesso in una posizione favorevole, potendo ambire all’archiviazione per non punibilità o comunque a pene ridotte ed eventualmente sospese. Viceversa, un atteggiamento ostinato o opaco (es. negare l’evidenza di wallet riconducibili, occultare ulteriormente fondi) può aggravare la posizione e precludere benefici.

Regolarizzazione spontanea: ravvedimento operoso e sanatorie

La via sicuramente preferibile rispetto allo scontro frontale con il Fisco o con la Procura è quella della regolarizzazione volontaria delle omissioni, tramite gli strumenti previsti dall’ordinamento. In materia di criptovalute, considerata l’evoluzione normativa recente, il legislatore ha offerto delle opportunità temporanee di sanatoria, oltre al sempre disponibile ravvedimento operoso. Vediamo come il contribuente può mettersi in regola evitando le conseguenze peggiori:

  • Ravvedimento operoso ordinario: È il meccanismo generale che consente di correggere spontaneamente violazioni tributarie, beneficiando di sanzioni ridotte proporzionalmente alla tempestività del ravvedimento (art. 13 D.Lgs. 472/1997). Chi si accorge di non aver dichiarato redditi crypto o di non aver compilato l’RW può presentare una dichiarazione integrativa e versare le imposte dovute con interessi e sanzioni ridotte. Ad esempio, se entro pochi mesi dalla scadenza si ravvede per imposte non dichiarate, la sanzione del 90% può essere ridotta fino a 1/9 (10%); per l’RW omesso, la sanzione del 3–15% si riduce a 0,5% per ogni anno (1/6 del minimo 3%). Il ravvedimento è ammesso finché non si abbia formale notifica di avvio di accertamento. Quindi, se non avete ancora ricevuto questionari o pvc sulle cripto, agire subito con ravvedimento vi mette al riparo dal penale (come visto, l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 premia proprio chi si ravvede prima di verifiche) e vi fa risparmiare moltissimo sulle sanzioni. Tecnicamente, il ravvedimento si attua presentando una dichiarazione dei redditi integrativa per l’anno in questione (es. Redditi 2024 integrativo, da inviare ora se vi siete dimenticati redditi 2023) in cui si aggiungono i quadri mancanti (RT per plusvalenze, RW per monitoraggio) e si indicano i tributi dovuti. Poi si versa il dovuto con modello F24 usando i codici tributo specifici, comprensivo delle sanzioni ridotte. È consigliabile farsi assistere da un commercialista per il calcolo esatto. Il ravvedimento operoso fa sì che la violazione sia definita prima di qualunque intervento dell’Autorità: non ci sarà nemmeno atto di accertamento (se tutto è corretto) e si eviterà qualunque strascico penale per quell’anno.
  • Presentazione tardiva “annuale”: Se ci si ravvede entro 90 giorni dal termine di presentazione della dichiarazione, la dichiarazione tardiva viene considerata valida a tutti gli effetti, con una piccola sanzione fissa (€25). Passati i 90 giorni, la dichiarazione è formalmente “omessa” ma può comunque essere presentata (ultra-tardiva) e accettata dal Fisco come base per il pagamento delle imposte dovute. Questo invio tardivo non elimina la violazione formale di omissione, ma è utile perché consente di determinare le imposte e eventualmente attivare il ravvedimento (l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 considera non punibili anche i casi di dichiarazione omessa presentata entro la dichiarazione dell’anno successivo, se spontanea). Dunque, se vi siete completamente dimenticati di dichiarare redditi crypto e ormai siete oltre i 90 giorni, presentate comunque la dichiarazione il prima possibile: pagherete la sanzione fissa da €250 (riducibile con ravvedimento) ma quantomeno risulterà fiscalmente il debito d’imposta, che potrete saldare per sanare la posizione.
  • Sanatoria cripto 2023: La L. 197/2022 ha introdotto una procedura di regolarizzazione speciale per le cripto-attività detenute fino al 2021. Entro il 30 novembre 2023, i contribuenti potevano presentare un’istanza di “emersione” delle cripto non dichiarate, versando una somma forfettaria. In particolare, si prevedeva il pagamento di un’imposta sostitutiva del 3,5% annuo sui redditi da cripto non dichiarati e di una sanzione ridotta dello 0,5% annuo sul valore delle cripto non indicate in RW. La sanatoria riguardava tutti i periodi d’imposta fino al 2021 (quindi reddituale 2018–2021 e monitoraggio fino al 2021). Un aspetto delicato era che il contribuente doveva attestare che i fondi investiti in cripto provenissero da attività lecite (non costituenti redditi di reato). In pratica questa “voluntary disclosure” sulle criptovalute ha permesso di mettersi in regola con un costo molto vantaggioso rispetto alle normali sanzioni: ad esempio, chi nel 2019-2020 aveva guadagni crypto mai dichiarati, poteva chiudere pagando il 3,5% (anziché il 26% più 90% di sanzione!) di quegli importi, più lo 0,5% sull’eventuale giacenza non monitorata. Chi ha usufruito della sanatoria si è messo al riparo sia da pretese fiscali ordinarie sia da possibili azioni penali per quegli anni, poiché l’adesione e il pagamento integrale dovrebbero escludere il dolo di evasione (oltre al fatto che comunque si è estinto il debito). Purtroppo questa finestra si è chiusa a fine 2023 e non risulta prorogata per il 2024. Se non ne avete approfittato, resta percorribile il ravvedimento operoso tradizionale, meno conveniente ma sempre utile.
  • Altre definizioni agevolate: Nel 2023-2024 sono state previste anche definizioni agevolate delle liti pendenti e regolarizzazioni di omessi versamenti. Se un contribuente ha un contenzioso in corso in materia crypto (ad es. un avviso per il 2017), potrebbe aver potuto definirlo con stralcio sanzioni ridotte grazie alla definizione liti (DL 34/2023). Occorre valutare caso per caso con il proprio difensore.

In sintesi, dal punto di vista preventivo, la condotta migliore per il contribuente è: regolarizzare spontaneamente appena ci si rende conto di non essere in regola. Il ravvedimento tempestivo neutralizza il rischio penale e riduce drasticamente i costi. Viceversa, aspettare l’accertamento significa incorrere in sanzioni piene e – se le cifre sono importanti – in denunce penali che avrebbero potuto essere evitate. Il consiglio è di fare periodicamente un tax check-up delle proprie posizioni in criptovalute, magari con l’ausilio di un esperto, per assicurarsi di aver dichiarato tutto il dovuto o per rimediare finché si è in tempo. Ricordiamo inoltre che gli scambi di informazioni internazionali (es. il sistema CRS) faranno emergere molte posizioni estere nei prossimi anni, quindi confidare nell’anonimato di un wallet non è affatto prudente: meglio mettersi in regola prima di subire controlli.

Esempi pratici e casi di studio

Di seguito presentiamo alcuni casi concreti semplificati, utili a capire l’applicazione pratica delle regole e delle strategie difensive discusse finora.

Caso 1: Plusvalenza modesta non dichiarata – Mario nel 2024 ha realizzato una plusvalenza di €5.000 vendendo criptovalute, ma non l’ha indicata nella dichiarazione dei redditi (ritenendo erroneamente che sotto €10.000 non si pagasse nulla). Nel 2025 l’Agenzia delle Entrate se ne accorge (tramite controlli incrociati su exchange) e gli notifica un avviso di accertamento: imposta evasa €1.300 (26% di 5.000) più interessi, e sanzione per infedele dichiarazione al 90% = €1.170. Conseguenze: Mario non ha commesso reato (imposta evasa ben sotto €100k), ma deve pagare €1.300 + €1.170 + interessi. Può evitare il contenzioso aderendo all’accertamento, riducendo la sanzione a 1/3 (€390). Avrebbe potuto ravvedersi spontaneamente prima, pagando magari una sanzione ridotta di soli €130 (1/10) ed evitando l’accertamento. Questo caso illustra come importi piccoli conducano a sole sanzioni amministrative, comunque evitabili se si agisce in tempo.

Caso 2: Elevati guadagni non dichiarati – soglia penale superata – Luigi ha ottenuto nel 2023 un profitto di €3 milioni vendendo criptovalute (di cui €2 milioni di plusvalenze) e non ha dichiarato nulla. Il tributo evaso (sostitutiva 26%) è di circa €520.000. Dopo un’indagine finanziaria, nel 2025 la GdF denuncia la cosa. Conseguenze: Qui siamo nettamente sopra le soglie di punibilità penale (imposta evasa ≫ €100k, importi non dichiarati ≫ €2 mln), quindi Luigi viene indagato per dichiarazione infedele (art.4). Sul piano fiscale dovrà versare le imposte dovute (€520k) con interessi e subirà un accertamento con sanzione amministrativa potenzialmente del 180% (€936k). Sul piano penale rischia la reclusione 2–4 anni e 6 mesi. Strategia difensiva: Luigi può innanzitutto pagare integralmente il dovuto appena possibile (magari rateizzando con adesione), così da rientrare nella causa di non punibilità ex art.13. Se paga tutto prima del dibattimento, potrà evitare la condanna penale. Qualora non riesca a saldare per tempo, valuterà un patteggiamento puntando alla sospensione condizionale (visto che è incensurato). In ogni caso, la lezione è che cifre così alte vanno immediatamente sanate per non mettere a repentaglio la propria libertà.

Caso 3: Wallet estero non dichiarato, nessun reddito – Sofia ha acquistato criptovalute per €20.000 su una piattaforma estera nel 2021 e le ha mantenute lì, senza mai vendere fino al 2025. Non sapeva del Quadro RW, quindi non l’ha compilato. Un domani, grazie allo scambio automatico di informazioni, l’Agenzia scopre quel wallet estero di Sofia, ora magari cresciuto di valore. Sofia non ha generato redditi imponibili (solo holding). Conseguenze: Non c’è imposta evasa (nessuna plusvalenza realizzata finora), quindi non c’è reato. Verrà però contestata l’omessa dichiarazione RW per gli anni 2021–2024 con sanzioni del 3–15% del valore. Supponendo valore €50k medio, rischierebbe ~€1.500 per anno (3%). Difesa: Sofia può far valere la sua buona fede e l’incertezza delle regole pre-2023 per cercare almeno la sanzione minima. Meglio, può ancora ravvedersi: presentare ora un RW integrativo per il 2024 e 2023, pagando lo 0,5% annuo (ad esempio €250 totale per due annualità). In tal modo riduce drasticamente la penalità ed evita che le contestino anche gli anni precedenti non più ravvedibili (per il 2021 ormai può solo confidare in una sanzione minima in caso di controllo). Questo caso evidenzia come omissioni RW senza redditi siano spiacevoli ma non catastrofiche, e soprattutto come convenga regolarizzare subito via ravvedimento.

Caso 4: Attività di mining dilettantistico – Marco, privato, partecipa dal 2022 a un mining pool per Ethereum, generando frazioni di ETH. Nel 2024 riceve in totale 1 ETH come ricompensa, del valore medio di €1.800, che mantiene nel proprio wallet (non venduto nel 2024). Marco non inserisce nulla in dichiarazione. Analisi fiscale: Il mining di per sé non è una cessione tassabile; l’ETH ottenuto ha costo zero e costituisce potenzialmente una plusvalenza latente. Fino a quando non lo vende, non ha realizzato un reddito diverso imponibile. Tuttavia, avrebbe dovuto dichiarare nel Quadro RW l’ETH posseduto a fine 2024 (valore circa €1.800), con sanzione 3–15% in caso di omissione. Non avendo venduto, non c’è imposta evasa e quindi niente reato. Difesa/soluzione: Marco può ravvedersi per l’RW omesso, pagando una piccola sanzione. Se in futuro venderà quell’ETH (supponiamo nel 2025 a €2.500), allora in dichiarazione 2026 indicherà €2.500 di plusvalenza (costo zero) tassata al 26%. Caso risolto senza guai penali. Nota: se invece Marco fosse un miner professionale (es. una ditta individuale con 10 ETH prodotti), già nel 2024 avrebbe dovuto dichiarare quei 10 ETH come rimanenze/ricavi d’impresa (valutandoli €18.000 totali), pagando su essi le imposte ordinarie (IRES/IRPEF) indipendentemente dalla vendita.

Caso 5: Exchange fallito e chiavi perse – Alessia aveva 2 BTC su una piattaforma estera che nel 2023 è fallita bloccando i prelievi (es. caso FTX). Inoltre, possedeva 1 BTC in un hardware wallet di cui ha smarrito le chiavi di accesso nel 2022. Di conseguenza, lei non ha più alcuna disponibilità di questi 3 BTC, anche se tecnicamente risultano associati a lei. Alessia nel 2024 non ha indicato nulla nel Quadro RW riguardo a questi asset “persi”. L’Agenzia però potrebbe contestarle l’omessa dichiarazione RW (valore 3 BTC ~ €90.000). Difesa: Alessia può invocare la causa di esclusione prevista dalla Circolare 30/2023: se è in grado di dimostrare lo smarrimento o furto delle chiavi tramite apposita denuncia alle autorità, quelle cripto non vanno indicate. Nel caso dell’exchange fallito, può allegare documentazione della procedura fallimentare attestante l’impossibilità di accedere ai fondi. In tal modo, potrà evitare la sanzione RW sostenendo che quei bitcoin non erano nella sua effettiva disponibilità patrimoniale. Questo esempio evidenzia l’importanza di documentare formalmente eventi avversi (furti, fallimenti di piattaforme) per tutelarsi sul piano fiscale.

Come si vede da questi esempi, le situazioni possibili sono variegate. Il filo conduttore è che il tempestivo ravvedimento e la buona fede documentata possono risolvere o attenuare la gran parte dei problemi, mentre omissioni protratte su grossi importi comportano rischi via via più seri che richiedono interventi decisi (pagamenti, accordi, difesa legale).

Domande frequenti (FAQ)

Domanda: Devo dichiarare le criptovalute anche se non le ho mai convertite in euro?
Risposta: Sì. Il possesso di criptovalute va indicato nel Quadro RW a fine anno (a prescindere dalla conversione). Inoltre, se hai realizzato proventi in cripto (vendendo token, ricevendo interessi in crypto, etc.), questi costituiscono redditi imponibili da dichiarare, anche se non li hai convertiti in moneta legale. La Cassazione ha confermato che la mancata conversione non esclude l’obbligo di dichiarare il reddito in cripto, perché ha comunque un valore economico tassabile.

Domanda: Quali sanzioni rischio se non dichiaro al Fisco i miei redditi da criptovalute?
Risposta: Se ometti di dichiarare redditi (plusvalenze, interessi, ecc.) da cripto, l’Agenzia può recuperare l’imposta evasa più una sanzione amministrativa dal 90% al 180% dell’imposta stessa. Ad esempio, per €10.000 di imposta non dichiarata, la sanzione va da €9.000 a €18.000. In aggiunta dovrai pagare gli interessi di mora. Se invece non hai proprio presentato la dichiarazione, la sanzione sale al 120% (fino a 240%) delle imposte dovute. Oltre alle sanzioni pecuniarie, se gli importi sono molto rilevanti scattano anche le sanzioni penali: in caso di superamento delle soglie di legge, si rischia la reclusione (vedi domanda seguente).

Domanda: Quando l’omissione di criptovalute in dichiarazione diventa reato penale?
Risposta: Diventa reato quando l’evasione supera determinate soglie di punibilità previste dal D.Lgs. 74/2000. In particolare, scatta il reato di dichiarazione infedele (art. 4) se l’imposta evasa eccede €100.000 e i redditi non dichiarati superano il 10% del totale o comunque €2.000.000. Ad esempio, non dichiarare €500.000 di guadagni crypto (imposta evasa ~€130.000) integrerebbe il reato. Se invece non si presenta affatto la dichiarazione, scatta il reato di omessa dichiarazione (art. 5) se l’imposta evasa supera €50.000. Sotto tali soglie, l’illecito resta amministrativo (multa) ma non penale. Attenzione: le soglie valgono per singola imposta e per singolo anno, quindi ad esempio €60k evasi in un anno configurano reato, mentre €30k evasi in due anni diversi (per ciascun anno) no.

Domanda: Posso evitare il processo penale se mi metto in regola dopo?
Risposta: Sì, la legge prevede una non punibilità se il contribuente paga tutto il dovuto prima che il procedimento penale entri nel vivo. In base all’art. 13 D.Lgs. 74/2000, per i reati di infedele o omessa dichiarazione non si procede penalmente se vengono pagate integralmente imposte, sanzioni e interessi tramite ravvedimento operoso o presentando la dichiarazione omessa entro l’anno successivo, purché ciò avvenga prima che l’autore abbia formale conoscenza di verifiche o indagini. In pratica, se ti autodenunci e saldi tutto prima che ti scoprano, non vieni punito. Anche dopo l’avvio del procedimento, hai tempo fino all’apertura del dibattimento per estinguere il debito: il giudice può concederti qualche mese se stai rateizzando. Dunque, pagare il dovuto è la via maestra per uscire pulito (o ottenere quantomeno pene minime).

Domanda: Se ho perso l’accesso ai wallet (chiavi private smarrite), devo comunque dichiararli?
Risposta: No, se puoi provare lo smarrimento o il furto delle chiavi. L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che non vanno indicate in RW le cripto-attività cui il contribuente non può più accedere, a condizione di presentare una denuncia alle autorità di Pubblica Sicurezza comprovante la perdita delle chiavi. Lo stesso vale per cripto bloccate su exchange falliti o inaccessibili: se puoi documentare l’impossibilità di disporne (ad esempio tramite atti ufficiali della procedura fallimentare), non sei tenuto a monitorarle finché restano irrecuperabili. È comunque prudente conservare con cura la documentazione di tali eventi per esibirla in caso di controlli.

Domanda: I proventi da staking vanno dichiarati? E come sono tassati?
Risposta: Sì, i “premi” ricevuti dallo staking di criptovalute sono redditi imponibili. In base alle interpretazioni attuali, tali proventi rientrano negli “altri redditi” da cripto-attività tassati come redditi diversi finanziari, soggetti a imposta sostitutiva 26% (fino al 2024 era con soglia esente €2.000). L’Agenzia delle Entrate in risposta ad interpelli ha assimilato lo staking a una forma di reddito di capitale o diverso a seconda dei casi: se c’è un rapporto contrattuale identificabile (es. staking tramite piattaforma che corrisponde un interesse in crypto), può trattarsi di reddito di capitale; se il premio è generato dalla semplice partecipazione alla validazione (blockchain PoS), viene comunque considerato un provento tassabile come reddito diverso. In ogni caso, va indicato in dichiarazione. Non c’è IVA sullo staking (non è servizio verso un committente), ma ai fini imposte dirette è reddituale. Dunque dovrai sommare i token ricevuti come reward, valutarli in euro al momento della percezione, e applicare il 26% (su 2023-24 oltre franchigia; dal 2025 sempre). Se li rivendi subito, di fatto l’imponibile è il valore di vendita; se li trattieni, hai comunque un reddito percepito in natura.

Domanda: Come può il Fisco scoprire le mie criptovalute non dichiarate?
Risposta: I canali di scoperta si stanno moltiplicando. Primo, lo scambio automatico di informazioni finanziarie internazionali (CRS e accordi bilaterali) fornisce ogni anno all’Agenzia Entrate dati su conti esteri di residenti italiani, inclusi conti presso exchange (se qualificati come conti finanziari). Secondo, dal 2024 gli operatori crypto italiani devono inviare all’OAM e all’UIF una serie di dati sulle operazioni e sui clienti (anche in attuazione della Travel Rule). Terzo, la Guardia di Finanza può svolgere indagini informatiche sulla blockchain, associando indirizzi pubblici a soggetti noti (ad esempio incrociando con dati di exchanges KYC o informazioni ottenute da fornitori di analisi forense blockchain). Inoltre, se prelevi fondi crypto convertendoli in banca, quei movimenti bancari possono giustificare richieste di chiarimenti. Infine, la DAC8 (direttiva UE) dal 2026 obbligherà gli operatori crypto a segnalare alle autorità fiscali tutte le transazioni dei clienti UE, che verranno scambiate tra Stati membri entro il 2027. Insomma, l’era dell’anonimato facile è finita: il consiglio è di non confidare nel segreto, ma di regolarizzare e dichiarare, perché l’Amministrazione finanziaria avrà sempre più mezzi per individuare i patrimoni digitali occultati.

Domanda: Posso compensare perdite e profitti tra diverse criptovalute?
Risposta: Sì, entro certi limiti. Le regole di compensazione delle plus/minusvalenze da cripto sono le stesse dei redditi diversi di natura finanziaria. Questo significa che minusvalenze derivanti da vendite di cripto-attività possono compensare le plusvalenze della stessa categoria realizzate nello stesso periodo d’imposta. Se in un anno hai più perdite che profitti, la parte di minusvalenza eccedente può essere riportata ai periodi d’imposta successivi (fino a 4 anni) e usata in compensazione di futuri redditi diversi finanziari (incluse plusvalenze da cripto). Ad esempio, se nel 2024 hai -€5.000 da una vendita in perdita e +€3.000 da un’altra in guadagno, non paghi imposte e riporti €2.000 di minus al 2025–2028. Le minusvalenze sono utilizzabili solo se correttamente indicate nella dichiarazione dei redditi (Quadro RT) dell’anno in cui si generano. Nota: perdite derivanti da cripto non possono compensare redditi di altra natura (es. redditi di lavoro). Dunque, in sintesi, puoi compensare tra criptovalute diverse tutti i guadagni e perdite capitali all’interno del “monte redditi diversi”.

Domanda: Le sanzioni per quadro RW e per imposte evase possono cumularsi?
Risposta: Sì, sono violazioni distinte e cumulative. La mancata indicazione di attività estere (quadro RW) comporta la sanzione dal 3% al 15% del valore non dichiarato, mentre l’eventuale evasione d’imposta sui redditi generati da quelle attività comporta la separata sanzione del 90-180% dell’imposta evasa. Quindi, ad esempio, se non hai dichiarato €100.000 di cripto su exchange estero che hanno prodotto €10.000 di plusvalenze non tassate, potresti subire sia la multa RW (3-15% di 100k = €3k-15k) sia la multa per infedele (90-180% su €2.600 di imposta evasa = €2.340-4.680). In casi di definizione con adesione o conciliazione, spesso l’Agenzia “concorda” un forfait unico, ma giuridicamente le due sanzioni restano applicabili cumulativamente (salvo il principio generale del cumulo giuridico se riferite al medesimo anno e atto). Da ricordare che la sanzione RW non raddoppia se i paesi esteri sono black list solo per le cripto dal 2023 in poi (la Svizzera ad esempio dal 2024 non è più black list ai fini RW).

Tabelle riepilogative

Di seguito alcune tabelle riassuntive degli aspetti chiave trattati nella guida.

Tabella 1 – Violazioni, sanzioni e soglie (regime Italia, luglio 2025)

ViolazioneSanzione amministrativaSanzione penale
Omessa indicazione monitoraggio (Quadro RW)3% – 15% del valore non dichiarato (6% – 30% se Paese black list). Minimo €258 se dichiarazione entro 90 gg. Ravvedimento: es. 0,5% annuo (1/6 minimo).Non costituisce reato autonomo (violazione formale, punita solo con la sanzione pecuniaria).
Dichiarazione infedele (omessi redditi crypto)90% – 180% dell’imposta evasa. Ravvedimento possibile con riduzioni proporzionali al tempo (es. 1/9 se entro 90 gg).Reato art. 4 D.Lgs. 74/2000 se imposta evasa > €100.000 e redditi occultati > 10% del dichiarato o > €2.000.000. Pena reclusione 2 – 4 anni e 6 mesi + pene accessorie (interdizioni). Non punibile se paga tutto prima accertamento (art.13).
Omessa presentazione dichiarazione (con redditi)120% dell’imposta dovuta (fino a 240% previgente) con minimo €250. Se nessuna imposta dovuta: sanzione fissa €250 – €1.000. Ravvedimento: riduzione a €25 entro 90 gg.Reato art. 5 D.Lgs. 74/2000 se imposta evasa > €50.000. Pena reclusione 2 – 5 anni. Non punibile se si presenta la dichiarazione entro termine anno successivo e si paga tutto prima di controlli (art.13).
Altri reati tributari correlatiPossibili in ipotesi aggravate: es. dichiarazione fraudolenta (art.2) se uso di artifici o documenti falsi per occultare crypto. Pena più grave (reclusione fino 6 anni). Non approfondito qui.

Note: Le soglie penali indicate si riferiscono a ciascun periodo d’imposta e per singola imposta (IRPEF, ecc.). Le sanzioni amministrative sono cumulabili con interessi e con la richiesta dell’imposta evasa. In caso di adesione o definizione agevolata, le sanzioni amministrative possono ridursi (ad es. 1/3). Le cause di non punibilità penale ex art.13 richiedono il pagamento integrale di imposte + sanzioni + interessi.

Tabella 2 – Evoluzione tassazione delle cripto-attività (persone fisiche)

PeriodoRegime fiscale delle plusvalenze cryptoRiferimenti normativi
Fino al 2022Nessuna norma specifica. Applicazione di fatto disciplina valute estere: plusvalenze tassabili solo se la giacenza media > €51.645 per >7 gg, altrimenti esenti. Aliquota come redditi diversi IRPEF (26%). Monitoraggio RW basato su interpretazioni (crypto assimilate a attività estere finanziarie).Prassi AE (Risoluz. 72/E 2016; Circ. 38/E 2013); Art. 67(1)(c-ter) TUIR (valute estere).
2023 – 2024Introdotto regime ad hoc: plusvalenze e altri proventi da cripto tassati al 26% come redditi diversi finanziari. Esenzione per importi ≤ €2.000 complessivi annui (soglia non imponibilità). Oltre soglia, tassazione sull’intero importo. Previsto affrancamento facoltativo al 1/1/2023 (imposta 14%). Obbligo monitoraggio esteso a tutte le cripto dal 2023 (modifica art.4 DL 167/90). IVAFE 0,2% su cripto estere introdotta (dal 2023).L. 197/2022 (Bilancio 2023), commi 126–133, 138, 148; Art. 67(1)(c-sexies) TUIR; DL 167/90 art.4 modificato; DL 201/2011 art.19 modificato (IVAFE cripto).
2025 (transitorio)Aliquota sostitutiva confermata al 26%, abolita soglia di esenzione €2.000 (tutte le plusvalenze imponibili dal primo euro). Affrancamento opzionale al 1/1/2025 (imposta 18%). Ulteriori obblighi monitoraggio invariati.L. 207/2024 (Bilancio 2025), commi 23–29.
Dal 2026Aliquota sostitutiva elevata al 33% sulle plusvalenze e proventi da cripto. Nessuna soglia esente (già eliminata). Regime a regime stabilizzato.L. 207/2024, commi 23-25.

Note: Restano ferme le regole sulla distinzione tra attività privata e attività d’impresa: se il contribuente agisce in veste imprenditoriale/professionale, i proventi crypto sono inquadrati come reddito d’impresa o lavoro autonomo (aliquote IRPEF/IRES ordinarie), non come redditi diversi. Le plusvalenze crypto per soggetti IRPEF non imprenditori non concorrono al reddito complessivo, ma sono soggette a imposta sostitutiva separata (regime “capital gain”). L’imposta sostitutiva va autoliquidata dal contribuente salvo intervenga un intermediario come sostituto. Dal 2023 il contribuente può optare per il regime del risparmio amministrato o gestito presso intermediari abilitati (se disponibili).

Conclusioni

L’emersione fiscale delle criptovalute rappresenta una sfida nuova sia per i contribuenti sia per l’Amministrazione finanziaria. Il legislatore italiano, a partire dal 2023, ha messo ordine nella tassazione dei crypto-asset, chiarendo obblighi e imponibilità, ma ciò è avvenuto dopo anni in cui il vuoto normativo aveva lasciato spazio a interpretazioni discordanti. Oggi chi detiene o investe in criptovalute deve essere consapevole che esistono precisi obblighi dichiarativi: vanno dichiarati i redditi generati e anche il semplice possesso (monitoraggio RW), e che le sanzioni per l’omissione possono essere severe, arrivando nei casi più estremi a implicazioni penali.

Dal punto di vista del contribuente (spesso privo inizialmente di mala fede, ma magari solo mal consigliato), è fondamentale agire per tempo: regolarizzare spontaneamente eventuali omissioni conviene sotto tutti i profili. Gli strumenti del ravvedimento operoso e le sanatorie (quando offerte) permettono di sanare la posizione con costi sostenibili e soprattutto di azzerare il rischio penale, proteggendo la propria libertà e reputazione. Al contrario, ignorare il problema sperando nell’invisibilità digitale è un azzardo: le tracce informatiche e la cooperazione tra Stati rendono sempre più tracciabili le ricchezze virtuali.

Abbiamo visto come la Cassazione stia già dettando principi in materia (criptovalute equiparate a redditi imponibili, NFT tassabili, omissione RW non penalmente rilevante di per sé, ecc.), segnando la strada a procure e tribunali. Chi dovesse trovarsi sotto accertamento o indagine non è però privo di difese: esistono margini di contestazione (su valutazioni, interpretazioni, prove) e la stessa legge penale tributaria offre vie di uscita per chi adempie (art.13). Con un’adeguata assistenza professionale – da parte di avvocati tributaristi, commercialisti esperti in crypto e tecnici forensi – è possibile spesso ridurre i danni, raggiungere accordi col Fisco o ottenere esiti processuali favorevoli.

In conclusione, “prevenire è meglio che curare”: chi investe in cripto dovrebbe adottare un approccio compliance, tenere scrupolosamente traccia delle operazioni e dichiarare il dovuto. Per situazioni pregresse non regolari, la parola d’ordine è ravvedersi il prima possibile. Se invece il controllo è già in corso, niente panico: informarsi sui propri diritti, analizzare in dettaglio le contestazioni e affidarsi a esperti qualificati può fare la differenza tra una soluzione gestibile e un incubo fiscale-penale. Le criptovalute offrono nuove opportunità finanziarie, ma richiedono anche una nuova consapevolezza degli obblighi: con conoscenza e pianificazione si possono evitare problemi e godere dei benefici dell’innovazione finanziaria senza inciampare nelle maglie della legge.


Fonti e Riferimenti

  • Corte di Cassazione – Sez. III Penale – sent. n. 8269/2025 (deposito 28/02/2025): conferma l’imponibilità dei proventi da NFT/cripto e la rilevanza penale della loro omessa indicazione in dichiarazione (reato di dichiarazione infedele).
  • Corte di Cassazione – Sez. VI Penale – sent. n. 19849/2021 (ud. 04/05/2021): esclude la rilevanza penale della mera omissione del quadro RW in assenza di redditi evasi, non configurando reato di infedele o omessa dichiarazione.
  • D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 (agg. 2019): art. 4 (Dichiarazione infedele) – soglie di punibilità: imposta evasa > €100.000 e ricavi non dichiarati > 10% del dichiarato o > €2.000.000; pena reclusione 2–4 anni e 6 mesi. Art. 5 (Omessa dichiarazione) – soglia imposta evasa > €50.000; pena reclusione 2–5 anni.
  • D.L. 167/1990 (monitoraggio fiscale), art. 4 modificato: obbligo Quadro RW esteso espressamente alle cripto-attività dal 2023. Art. 5, c.2 D.L. 167/90: sanzione RW 3–15% (raddoppio Paesi black list).
  • Legge 29 dicembre 2022 n. 197 (Bilancio 2023): commi 126–133: introduce art. 67(1)(c-sexies) TUIR (cripto tassate al 26% come redditi diversi); definisce “cripto-attività”; modifica art. 4 DL 167/90 (RW cripto); commi 138–139: IVAFE 0,2% su valute virtuali estere; commi 140–143: imposta sostitutiva 14% su redditi/perdite crypto pregresse (affrancamento 2023).
  • Legge 30 dicembre 2024 n. 207 (Bilancio 2025): commi 23–25: elimina soglia €2.000 dal 2025, conferma aliquota 26% 2025 e alza aliquota al 33% dal 2026; commi 26–29: nuova rivalutazione cripto al 01/01/2025 con imposta 18% in 3 rate.
  • Circolare Agenzia Entrate 27/10/2023 n. 30/E: chiarimenti su cripto: obblighi RW indipendenti da luogo di detenzione; esonero RW se chiavi perse/furto denunciato; esclusione importi euro transitori da IVAFE/bollo.
  • Risoluzione AE 14/09/2022 n. 517/E: (interpello) qualificazione proventi da mining – conferma non imponibilità IVA e inquadramento ricavi per società come reddito d’impresa (IRES/IRAP); per privati, redditi tassabili come diversi a realizzo (Circ. AE 26/E/2016 analogie valute estere).
  • Sentenza Cass. 26/05/2022 n. 37309 (massimata in Giur. Trib.): afferma che le criptovalute, pur non avendo corso legale, hanno valore di scambio e possono generare redditi imponibili anche senza conversione (principio ripreso poi da Cass. 8269/2025).

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