Avviso Di Accertamento Legato A Conti O Redditi In Irlanda: Come Difendersi

Hai ricevuto un avviso di accertamento perché il Fisco ti contesta conti correnti o redditi detenuti in Irlanda?
Grazie allo scambio automatico di informazioni tra Stati UE, l’Agenzia delle Entrate può ottenere dati su conti bancari, investimenti e immobili posseduti dai contribuenti italiani in Irlanda. Se queste attività non vengono dichiarate, scattano contestazioni fiscali con richieste di imposte, interessi e sanzioni.

Quando scattano le contestazioni
– Se non hai dichiarato conti correnti, depositi o investimenti detenuti in Irlanda
– Se non hai compilato il quadro RW per il monitoraggio fiscale
– Se non hai dichiarato redditi da affitti, dividendi, interessi o plusvalenze prodotti in Irlanda
– Se i movimenti bancari da e verso l’Irlanda non risultano compatibili con i redditi dichiarati in Italia

Cosa rischia il contribuente
– Recupero delle imposte sui redditi non dichiarati
– Sanzioni dal 3% al 15% degli importi non monitorati (più alte se considerate violazioni gravi)
– Applicazione di interessi di mora che fanno crescere il debito
– Contestazione del reato di dichiarazione infedele o omessa dichiarazione se superate le soglie penali
– Avvio di sequestri, pignoramenti e ipoteche sui beni presenti in Italia

Come difendersi da un avviso di accertamento legato all’Irlanda
– Verificare la correttezza dei dati ricevuti dall’Agenzia delle Entrate tramite lo scambio internazionale
– Dimostrare che i redditi contestati sono già stati tassati in Irlanda o non sono imponibili in Italia
– Presentare estratti conto, contratti e documenti bancari che provino la provenienza lecita delle somme
– Contestare presunzioni arbitrarie, errori di calcolo o dati incompleti utilizzati dal Fisco
– Dimostrare la buona fede in caso di omissioni dovute a incertezza normativa
– Valutare strumenti come dichiarazioni integrative o ravvedimento operoso, se la contestazione non è definitiva
– Impugnare l’avviso di accertamento davanti alla Corte di Giustizia Tributaria entro i termini di legge

Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento
– La riduzione delle sanzioni grazie al riconoscimento della buona fede o con strumenti deflattivi
– La sospensione di azioni esecutive come cartelle, ipoteche e pignoramenti
– La tutela del patrimonio personale e familiare
– La possibilità di chiudere la posizione pagando solo quanto realmente dovuto

Attenzione: l’Irlanda non è un paradiso fiscale, ma i redditi e i conti non dichiarati restano imponibili in Italia. Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate possono basarsi su presunzioni generiche che devono essere contestate con prove concrete.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e difesa da accertamenti fiscali – ti spiega come affrontare un avviso di accertamento legato a conti o redditi in Irlanda e come difenderti legalmente.

Hai ricevuto un avviso di accertamento per conti o redditi in Irlanda?
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Introduzione

Un avviso di accertamento è l’atto formale con cui l’Agenzia delle Entrate contesta a un contribuente maggiori imposte (oltre interessi e sanzioni) rispetto a quanto dichiarato. Negli ultimi anni, grazie allo scambio internazionale di informazioni finanziarie, molti italiani si sono visti recapitare avvisi di accertamento relativi a conti correnti esteri o redditi percepiti in Irlanda. L’Irlanda, pur essendo un paese dell’UE con fiscalità propria, rientra pienamente nelle reti di cooperazione fiscale: ciò significa che l’Agenzia delle Entrate italiana viene a conoscenza di conti bancari, investimenti o redditi irlandesi intestati a soggetti fiscalmente residenti in Italia.

Questa guida, aggiornata a luglio 2025, offre un quadro avanzato – ma in chiave divulgativa – su come difendersi da un accertamento fiscale legato a conti o redditi in Irlanda. È rivolta sia a professionisti legali e tributaristi sia a privati cittadini e imprenditori che si trovino, dal punto di vista del contribuente (debitore), a fronteggiare contestazioni del Fisco italiano su attività finanziarie o redditi esteri.

Struttura della guida: Inizieremo illustrando il quadro normativo di riferimento (normativa italiana, convenzione internazionale e strumenti di scambio di informazioni). Seguirà una spiegazione dell’iter dell’accertamento e dei diritti del contribuente, per poi approfondire le strategie generali di difesa. Verranno quindi analizzate casistiche specifiche suddivise per categoria: dagli imprenditori italiani con società o attività in Irlanda, ai lavoratori digitali e agli italiani trasferiti all’estero, fino a casi particolari come conti correnti non dichiarati, trust esteri, dividendi, stipendi dall’Irlanda e criptovalute detenute all’estero. Infine, forniremo un compendio di giurisprudenza recente rilevante, alcune domande e risposte frequenti, tabelle riepilogative di norme, sanzioni e termini, e una sezione conclusiva con consigli pratici.

Il focus costante sarà su come impostare una difesa efficace, sfruttando gli strumenti previsti dall’ordinamento e la più recente evoluzione normativa e giurisprudenziale, dal punto di vista del contribuente. Sapere come muoversi può fare la differenza tra un esito devastante – in termini economici e penali – e una soluzione gestibile o addirittura la nullità dell’accertamento.

Quadro normativo: fiscalità internazionale e residenza fiscale

Per comprendere come nascono e come contestare gli accertamenti sui redditi esteri, è fondamentale delineare il contesto normativo di riferimento, sia internazionale che interno italiano. In questa sezione esamineremo brevemente: (1) gli accordi di cooperazione fiscale e lo scambio di informazioni tra Italia e Irlanda; (2) la nozione di residenza fiscale e la portata della tassazione mondiale per i residenti italiani; (3) gli obblighi dichiarativi (monitoraggio fiscale) sugli investimenti esteri previsti dalla legge italiana, con relative presunzioni e sanzioni; (4) la Convenzione Italia-Irlanda contro le doppie imposizioni; (5) eventuali recenti modifiche normative (es. criteri di residenza dal 2024, nuova disciplina sulle criptovalute).

Scambio di informazioni finanziarie e cooperazione internazionale

Dal 2017 in poi l’Amministrazione finanziaria italiana riceve un flusso costante di dati relativi a conti esteri detenuti da propri residenti, grazie ad accordi internazionali di trasparenza fiscale. In particolare, l’Italia ha implementato:

  • Il Common Reporting Standard (CRS) dell’OCSE, recepito in UE come DAC2 (Direttiva 2014/107/UE). In base a tali regole, oltre 100 Paesi (117 giurisdizioni al maggio 2025) trasmettono ogni anno all’Italia informazioni sui conti finanziari detenuti da contribuenti italiani. Banche e istituzioni finanziarie irlandesi, in quanto l’Irlanda aderisce al CRS, comunicano all’autorità fiscale locale saldi di fine anno, saldi massimi, interessi, dividendi, intestatari dei conti ecc., e l’Irlanda inoltra questi dati all’Italia. Ciò significa che un conto corrente in Irlanda, se intestato (o cointestato) a un soggetto con codice fiscale italiano, viene segnalato all’Agenzia delle Entrate; quest’ultima verificherà se quel conto e i relativi redditi (es. interessi) risultano dichiarati. In caso negativo, scatterà quantomeno un alert o una richiesta di chiarimenti, se non direttamente un accertamento.
  • Le Direttive UE sulla cooperazione amministrativa (DAC): la DAC1 (Direttiva 2011/16/UE) ha introdotto lo scambio automatico intra-UE su alcune categorie di redditi (tra cui stipendi, compensi, pensioni e redditi immobiliari percepiti da residenti UE in altri Stati membri). Dunque, già dal 2015 l’Italia può ricevere dall’Irlanda dati relativi, ad esempio, a redditi di lavoro dipendente pagati da datori irlandesi a soggetti fiscalmente residenti in Italia. Anche se il CRS globale inizialmente non copriva stipendi o pensioni, all’interno dell’UE questi flussi informativi sono regolati dalla DAC1.
  • Altri protocolli DAC successivi (DAC3, DAC4, DAC6, DAC7) coprono aspetti quali tax ruling transfrontalieri, report Paese per Paese delle multinazionali, schemi di pianificazione fiscale aggressiva, e – più di recente – redditi da piattaforme digitali. Per esempio, se un imprenditore italiano ha una società in Irlanda che beneficia di un ruling fiscale locale, l’esistenza di tale ruling viene comunicata all’Italia (DAC3). O ancora, i dati Country-by-Country possono evidenziare utili significativi allocati in società irlandesi a bassa fiscalità, spingendo l’Agenzia a indagare su possibili esterovestizioni di utili.
  • A partire dal 2026-2027 entrerà in vigore la DAC8, che estenderà lo scambio automatico alle cripto-attività (recependo lo standard OCSE CARF). Ciò significa che in prospettiva anche gli exchange di criptovalute e i fornitori di servizi digitali dovranno comunicare alle autorità fiscali le transazioni e i saldi in criptovalute dei clienti, colmando la lacuna attuale (il CRS oggi non copre i crypto-asset). Ad oggi (2025), gli asset crypto non rientrano nel CRS, ma non per questo sfuggono totalmente: il Fisco può comunque venire a conoscenza di movimentazioni indirette (ad es. conversioni di crypto in euro su conti bancari) e di alcune informazioni via FATCA per conti USA (gli USA non aderiscono al CRS ma forniscono dati su conti finanziari di residenti italiani, seppur in modo limitato).
  • L’Italia ha inoltre sottoscritto accordi bilaterali e multilaterali (es. Convenzione OCSE sulla mutua assistenza amministrativa, emendata 2010, e relativo Multilateral Competent Authority Agreement – MCAA) che ampliano la cooperazione anche con Paesi extra-UE. Ci sono infine specifici Tax Information Exchange Agreements (TIEA) con alcuni paradisi fiscali “pentiti”, per scambio di informazioni su richiesta.

In sintesi, la rete internazionale di trasparenza fiscale è oggi capillare: conti bancari, investimenti finanziari, partecipazioni societarie, trust e molti redditi esteri vengono segnalati all’Italia. Questo contesto normativo globale va sempre tenuto presente nell’impostare la difesa di un accertamento: sapere quali dati l’Agenzia può aver ottenuto e come li ha ottenuti può aiutare a individuare eventuali vizi (es. uso indebito di informazioni, mancato rispetto di procedure convenzionali) da far valere in sede contenziosa. La Tabella 1 in fondo a questa guida riepiloga le principali norme sullo scambio di informazioni fiscali e la loro attuazione.

Residenza fiscale e tassazione mondiale (worldwide taxation)

Il presupposto base per stabilire se l’Italia possa tassare o meno i redditi irlandesi di una persona è la residenza fiscale di quest’ultima. La normativa italiana (art. 2, comma 2 del TUIR) considera residenti in Italia le persone fisiche che, per la maggior parte dell’anno (oltre 183 giorni), alternativamente soddisfino almeno uno dei seguenti criteri: (a) iscrizione all’anagrafe della popolazione residente (APR, ovvero non essere iscritti all’AIRE); (b) domicilio in Italia ai sensi del codice civile (centro principale di interessi e legami, anche economici); (c) residenza in Italia ai sensi civilistici (dimora abituale). Questi criteri sono alternativi e indipendenti: è sufficiente che se ne realizzi uno perché l’individuo sia considerato fiscalmente residente in Italia, con conseguente tassazione su tutti i redditi ovunque prodotti (principio del worldwide income). Viceversa, solo quando nessuno dei tre criteri risulta soddisfatto per oltre metà anno (es. soggetto iscritto all’AIRE e con effettivo domicilio e dimora all’estero) la persona è considerata non residente ai fini fiscali in Italia e soggetta a tassazione solo sui redditi di fonte italiana.

Principio del WorldWide Taxation: un soggetto residente in Italia è tenuto a dichiarare e tassare in Italia i redditi ovunque prodotti, salvo aver diritto al credito d’imposta per le imposte eventualmente già pagate all’estero su quegli stessi redditi. Un soggetto non residente, invece, paga imposte in Italia solo sui redditi ivi prodotti (mentre il Paese di residenza tasserà il resto).

Nel caso di lavoratori italiani all’estero, un errore comune è sottovalutare questi criteri formali: ad esempio, un contribuente domiciliato in Irlanda ma rimasto iscritto nelle anagrafi italiane è comunque considerato residente fiscale in Italia, anche se trascorre all’estero più di 183 giorni. La mancata iscrizione all’AIRE fa scattare una presunzione (in passato assoluta) di residenza italiana: “un soggetto iscritto all’anagrafe di un comune italiano per almeno 183 giorni… è considerato fiscalmente residente in Italia, indipendentemente dalla prova della sua presenza altrove”. Nella pratica, ciò significa che se un contribuente non si cancella dall’anagrafe italiana, l’Agenzia delle Entrate lo considererà residente in Italia a priori, e potrà tassare i suoi redditi esteri, anche se il contribuente dimostrasse di aver vissuto stabilmente in Irlanda. Questa disciplina ha portato a numerose dispute: la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che l’iscrizione all’AIRE è condizione necessaria ma non sufficiente per perdere la residenza fiscale italiana. In altre parole, l’iscrizione all’AIRE da sola non basta a escludere la residenza fiscale in Italia se la persona mantiene in Italia il proprio domicilio o residenza ai sensi civilistici (cioè il centro effettivo dei propri interessi economico-personali). La Corte di Cassazione ha sancito chiaramente che “l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorché il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali”. Dunque, in caso di contestazioni, conterà la sostanza dei legami: disponibilità di un’abitazione in Italia, presenza della famiglia, interessi economici e sociali, cariche in società italiane, etc. (come anche richiamato dalla prassi ministeriale).

Novità dal 2024: Il legislatore ha di recente modificato i criteri di residenza fiscale per le persone fisiche. Con il D.Lgs. 29 dicembre 2023 n. 209 (attuativo della legge delega di riforma fiscale), in vigore dal 1° gennaio 2024, la presunzione legata all’iscrizione anagrafica è divenuta relativa (superabile con prova contraria). In altri termini, dal 2024 essere iscritti all’APR in Italia crea una presunzione semplice di residenza, e viceversa l’iscrizione all’AIRE costituisce presunzione di non-residenza (anche questa superabile con prove contrarie da parte del Fisco). Inoltre, è stato precisato per legge che, nel valutare il domicilio, occorre dare particolare rilievo al luogo delle relazioni personali e familiari (allineandosi così alle best practice internazionali in tema di center of vital interests). Questa riforma mira a privilegiare la sostanza sulla forma anagrafica, riducendo i contenziosi basati sul mero dato formale dell’iscrizione. Tuttavia, è cruciale notare che tali nuove regole valgono solo per il futuro: la Cassazione ha chiarito, con sentenza n. 19843 del 18/07/2024, che i criteri introdotti dal 2024 non hanno effetto retroattivo, continuando per il passato ad applicarsi le norme previgenti. Dunque, le controversie su annualità fino al 2023 saranno giudicate con le vecchie regole (presunzione anagrafica praticamente assoluta), mentre dal 2024 i contribuenti hanno maggiori possibilità di far valere l’effettività dei propri spostamenti di vita.

Residenza estera in Paesi a fiscalità privilegiata: un caso particolare è il trasferimento in Stati considerati tax haven. L’art. 2 comma 2-bis TUIR (in vigore fino al 2018) prevedeva che i cittadini italiani cancellati dall’anagrafe e trasferiti in Stati a fiscalità privilegiata fossero considerati comunque residenti in Italia salvo prova contraria. Era una presunzione legale relativa ma molto stringente, che invertiva l’onere sul contribuente. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno confermato la legittimità di tale impostazione: “per i paradisi fiscali vige presunzione di residenza fiscale in Italia da vincere con prova contraria”. L’Irlanda, però, non rientra nei Paesi a fiscalità privilegiata (ha tasse ordinarie su persone fisiche comparabili a quelle italiane, pur avendo un’aliquota societaria bassa), perciò questa presunzione anti-esterovestizione personale non si applica ai trasferimenti in Irlanda. Tuttavia, la regola generale rimane: se l’Italia contesta che il trasferimento fosse fittizio, il contribuente dovrà fornire più prove possibile a supporto dell’effettiva residenza all’estero (si veda oltre la parte sulla difesa nelle contestazioni di residenza).

Obblighi di monitoraggio fiscale (Quadro RW) e presunzioni su attività estere

Oltre a determinare chi è soggetto all’imposizione italiana (i residenti) e su cosa (redditi worldwide), l’ordinamento prevede specifici obblighi dichiarativi in capo ai residenti riguardo ai beni e investimenti detenuti all’estero. Tali obblighi rientrano nel cosiddetto monitoraggio fiscale, introdotto originariamente dal D.L. 167/1990 (convertito in L. 227/1990).

In particolare, le persone fisiche residenti in Italia (nonché gli enti non commerciali e le società semplici residenti) devono compilare il Quadro RW della dichiarazione dei redditi per indicare: conti correnti e depositi esteri, partecipazioni in società estere, investimenti finanziari esteri, immobili all’estero e, più in generale, qualsiasi attività patrimoniale detenuta all’estero. Fino al 2013 esisteva una soglia di esenzione (10.000 €); oggi invece l’obbligo RW scatta anche per importi minimi, salvo esenzioni specifiche (ad es. conti correnti con giacenza media sotto 5.000 €). Dalla stessa normativa discendono due pilastri: (a) una serie di presunzioni fiscali a carico del contribuente e (b) un regime sanzionatorio severo per le omissioni.

  • Sanzioni Quadro RW: la mancata compilazione del Quadro RW (omessa dichiarazione di attività estere) comporta una sanzione amministrativa dal 3% al 15% dell’ammontare non dichiarato (raddoppiata quindi dal 6% al 30% se l’attività estera è detenuta in un Paese black list, ossia a fiscalità privilegiata). Tali percentuali si applicano per ogni anno di omissione. Va evidenziato che l’omissione RW in sé non è reato tributario: è punita solo in via amministrativa (multa), e la Cassazione ha esplicitato che “l’omessa compilazione del quadro RW, pur obbligatoria, non integra di per sé reato di dichiarazione infedele od omessa”. Diventa penalmente rilevante solo se si accompagna a un’evasione d’imposta sopra soglia (ad esempio, se dal conto estero non dichiarato derivano interessi per cui non sono state pagate imposte oltre 50.000 €). Tabella 2 più avanti riepiloga le sanzioni e soglie penali per le violazioni fiscali relative ad attività estere.
  • Presunzioni su investimenti esteri: per contrastare l’occultamento di capitali all’estero, il legislatore ha introdotto alcune presunzioni a carico del contribuente. La principale è contenuta nell’art. 12 del D.L. 78/2009: esso stabiliva (comma 2) che gli investimenti e attività finanziarie estere detenuti in Paesi black list non dichiarati nel quadro RW si presumono costituiti con redditi sottratti a tassazione in Italia. In pratica, se il Fisco scopre (anche a posteriori) che un residente deteneva attivi in un paradiso fiscale e non li aveva monitorati, può presumere che quelle somme siano frutto di evasione, invertendo l’onere della prova sul contribuente. Questa presunzione originariamente si applicava solo alle attività in Stati a fiscalità privilegiata. Dal 2017, con la fine della distinzione black list ai fini del monitoraggio (perché quasi tutti gli Stati ormai collaborano), la portata pratica di tale norma si è ridotta. Tuttavia, resta un principio di fondo: il contribuente deve dimostrare la provenienza non imponibile o già tassata dei capitali esteri non dichiarati, altrimenti l’Ufficio potrà considerarli redditi evasi. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto che la presunzione valga anche per fondi di origine illecita: non importa la provenienza (lecita o meno), comunque “si presume che [i capitali] generino redditi imponibili salvo prova contraria”. Questo per dire che l’argomento “era denaro risparmiato, non reddito” difficilmente regge senza pezze giustificative solide. Un’altra presunzione prevista dal D.L. 167/90 (art. 6, co.2) è quella di “fruttuosità”: le somme trasferite o detenute all’estero senza evidenza di tassazione si presumono aver prodotto un reddito (interessi, ecc.) pari al tasso legale (o altro criterio forfetario). Anche questa è iuris tantum, confutabile provando ad esempio che il conto era infruttifero.
  • Raddoppio dei termini di accertamento: sempre l’art. 12 D.L. 78/2009, comma 2-bis, prevedeva che in caso di attività estere non dichiarate i termini per l’accertamento fossero raddoppiati (da 5 a 10 anni, o da 7 a 14 per dichiarazione omessa). La Cassazione ha giudicato questa norma di natura procedurale, quindi applicabile anche retroattivamente alle annualità ancora accertabili nel 2009. Ciò è stato ritenuto rigoroso ma legittimo: in sostanza, per i periodi d’imposta fino al 2016 (quando esisteva la distinzione black list), se emergono attività estere occulte in paradisi fiscali l’Agenzia può contestarle fino a 10 anni dopo. Ad esempio, redditi 2015 non dichiarati (dichiarazione 2016) sarebbero accertabili fino al 31/12/2026 anziché fino al 2021. Dal 2017 in poi, venendo meno l’elenco black list ai fini del monitoraggio, questa specifica causa di raddoppio non opera più (restano solo i raddoppi legati a fatti penali, v. oltre). La Tabella 3 in seguito mostra in dettaglio i termini di accertamento ordinari ed eventuali prolungamenti.

In definitiva, un contribuente fiscalmente residente in Italia aveva (e ha) l’obbligo di dichiarare sia i redditi esteri sia gli asset detenuti all’estero. La violazione di tali obblighi può portare a pesanti conseguenze fiscali: tassazione del non dichiarato, sanzioni pecuniarie elevate, e potenzialmente contestazioni penali per omessa o infedele dichiarazione se le imposte evase superano certe soglie (50.000 €). D’altra parte, conoscere queste regole permette anche di predisporre la difesa: ad esempio, se un conto estero era alimentato da risparmi già tassati, raccogliere la documentazione di ciò può vincere la presunzione di evasione; se si tratta di investimenti infruttiferi, dimostrarlo contrasterà la presunzione di redditività. Nel prosieguo vedremo come queste norme si calano nei casi concreti (conti, trust, ecc.) e quali strumenti offre la legge per rimediare o attenuare le violazioni (ravvedimento operoso, adesione, ecc.).

La convenzione Italia-Irlanda contro le doppie imposizioni

Oltre alle norme interne, assume rilevanza cruciale la Convenzione bilaterale tra Italia e Irlanda per evitare le doppie imposizioni e prevenire l’evasione fiscale in materia di imposte sul reddito (firmata a Dublino l’11 giugno 1971, ratificata in Italia con L. 9 ottobre 1974 n. 583). Questa Convenzione (tuttora in vigore, sebbene integrata da protocolli) opera su due fronti:

  • Ripartizione della potestà impositiva: stabilisce quale dei due Stati può tassare determinate categorie di reddito. Ad esempio, i redditi da lavoro dipendente in linea generale sono imponibili solo nello Stato dove il lavoro è svolto, salvo eccezioni per brevi periodi (art. 14 della Convenzione). I dividendi pagati da società irlandesi a residenti italiani possono essere tassati in Irlanda con un’aliquota limitata (es. 15%) e in Italia il beneficiario ottiene un credito d’imposta (art. 9 e art. 21). La Convenzione include anche la definizione di residenza fiscale ai fini dell’accordo: in caso di doppia residenza di una persona, si applicano le tie-breaker rules (criteri come abitazione permanente, centro degli interessi vitali, soggiorno abituale, cittadinanza) per attribuirla ad uno solo dei due Stati (art. 4). Ciò significa che se un contribuente viene considerato residente in base alle leggi interne di entrambe le nazioni, la Convenzione fornisce criteri per risolvere il conflitto.
  • Eliminazione della doppia imposizione: la Convenzione prevede che l’Italia conceda il credito per le imposte pagate in Irlanda (metodo credito d’imposta) sui redditi che possono essere tassati in entrambi i Paesi. In pratica, il reddito estero va dichiarato in Italia, ma l’imposta estera (fino a concorrenza dell’italiana) viene scomputata, evitando la doppia tassazione (art. 21 della Convenzione). Ad esempio, se un imprenditore italiano paga tasse in Irlanda sugli utili di una stabile organizzazione, o se un professionista paga la withholding tax irlandese su un dividendo, quelle somme saranno accreditabili dall’IRPEF/IRES dovuta in Italia sul medesimo reddito.
  • Cooperazione amministrativa: già l’art. 25 della Convenzione originaria sanciva lo scambio di informazioni tra le autorità competenti dei due Stati. Questo articolo è stato di fatto potenziato dai successivi accordi globali (CRS, DAC) di cui sopra, ma rimane base giuridica bilaterale. Non è un caso che l’Irlanda non figuri in nessuna black list italiana: essa è considerata Paese collaborativo.

In un accertamento fiscale, la Convenzione può costituire un’arma difensiva importante: si può eccepire, ad esempio, che un certo reddito era tassabile esclusivamente in Irlanda ai sensi convenzionali (e dunque non dovuto in Italia), oppure che va applicato il credito per le imposte pagate in Irlanda. Tuttavia, attenzione: la Convenzione non “protegge” chi è pienamente residente in Italia e ha solo omesso di dichiarare redditi esteri. L’Italia continuerà a pretendere le sue imposte (salvo credito), e il contribuente non può opporre la Convenzione per sottrarsi a obblighi dichiarativi o sanzioni amministrative. Diverso è il caso di doppia residenza o contestazione della residenza: qui la difesa convenzionale (tie-breaker) può essere dirimente per dimostrare che, pur formalmente residente per il diritto interno italiano, in realtà la persona aveva la vita concentrata in Irlanda (si veda oltre la sezione su trasferimenti di residenza).

Riassumendo: la normativa italiana impone ai residenti di dichiarare redditi e asset esteri, pena accertamenti e sanzioni; la normativa convenzionale con l’Irlanda evita la doppia tassazione sui medesimi redditi e risolve eventuali conflitti di residenza. Entrambe vanno tenute presenti: l’accertamento tipico del Fisco italiano contesterà l’omessa dichiarazione (e relativo tax due) secondo la legge interna, ma la difesa potrà invocare la Convenzione per ottenere eventuali esenzioni o crediti d’imposta, nonché per disinnescare pretese illegittime in caso di errata qualificazione internazionale del reddito.

L’Avviso di Accertamento: cos’è, come funziona e come reagire

Quando i controlli fiscali (anche incrociando dati dall’estero) rilevano delle irregolarità – ad esempio redditi irlandesi non dichiarati in Italia o attività finanziarie in Irlanda non monitorate – l’Agenzia delle Entrate può emettere un avviso di accertamento. In questa sezione vediamo nel dettaglio cosa contiene e come nasce un avviso di accertamento, quali sono le garanzie procedurali per il contribuente, i termini da rispettare e le possibili azioni da intraprendere appena ricevuto l’atto.

Contenuto e presupposti dell’avviso

L’avviso di accertamento è un atto impositivo motivato, con cui l’Ufficio fiscale notifica al contribuente le maggiori imposte accertate (IRPEF, addizionali, IVAFE/IVIE nel caso di attività estere) rispetto al dichiarato, oltre alle sanzioni e interessi. Deve indicare le ragioni (fattuali e giuridiche) della pretesa, quindi ad esempio: “dai dati CRS risulta un conto corrente presso Bank of Ireland con saldo X non dichiarato, generante interessi Y non tassati, pertanto si recuperano imposte su Y più sanzione per omessa dichiarazione del conto”. L’avviso fa seguito a un’attività istruttoria che può variare in complessità:

  • In casi semplici, l’Agenzia invia prima una lettera di compliance (comunicazione preventiva) invitando il contribuente a regolarizzare spontaneamente. Ad esempio, molti contribuenti hanno ricevuto lettere che elencavano conti esteri segnalati via CRS, con invito a presentare dichiarazione integrativa se necessario. Se il contribuente ignora la lettera o le spiegazioni fornite non convincono l’Ufficio, può scattare l’avviso vero e proprio.
  • In situazioni più complesse, l’Agenzia può procedere direttamente con un questionario o un’indagine finanziaria. Ad esempio, se risulta che un soggetto è beneficiario effettivo di un trust estero, può essere inviato un questionario ex art. 32 DPR 600/1973 chiedendo dettagli (es. “Indichi se Lei riveste la qualifica di beneficiario di trust esteri e fornisca la relativa documentazione”). La mancata risposta a un questionario fiscale comporta una sanzione e soprattutto consente all’Ufficio di dar per provati i fatti richiesti (potere di accertamento induttivo). Pertanto, è cruciale rispondere in modo accurato e veritiero, fornendo eventualmente la documentazione giustificativa. In base alle risposte, l’Ufficio deciderà se archiviare la posizione o procedere con l’accertamento formale.
  • Talvolta l’istruttoria viene svolta dalla Guardia di Finanza, specie nei casi di maggiore evasione o schemi complessi (es. intestazioni a società estere). La GdF redige un PVC (processo verbale di constatazione) consegnato al contribuente al termine della verifica. Per legge, l’Agenzia non può emettere avviso prima di 60 giorni dalla notifica del PVC, per consentire al contribuente di presentare memorie difensive (art. 12 c.7 Statuto del Contribuente). Se emettesse l’atto prima di tale termine senza motivata urgenza, sarebbe nullo.

Un avviso di accertamento legato a redditi/attività esteri dovrà fondarsi su elementi concreti: generalmente dati finanziari trasmessi dall’estero (CRS, DAC) o altre evidenze (es. movimenti bancari esteri acquisiti tramite rogatoria, o prove documentali). Spesso l’Agenzia allega all’avviso l’estratto dei dati ricevuti: ad esempio, un prospetto con elenco dei conti e saldi comunicati dall’Irlanda. In alcuni casi potrebbe basarsi anche su presunzioni di legge (come visto, art. 12 DL 78/09) o su indizi convergenti. È importante leggere con attenzione l’avviso per capire su cosa si basa: se su dati certi (es. estratto conto estero) oppure su mere presunzioni (es. “lei aveva disponibilità estere, quindi presumiamo redditi X”). Questa distinzione sarà essenziale per impostare la difesa.

Dal punto di vista temporale, l’avviso va notificato entro i termini di decadenza previsti: generalmente entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ad es., redditi 2019 dichiarati nel 2020 → accertamento fino al 31/12/2025). Se la dichiarazione è omessa, i termini si allungano a sette anni. Come visto, per violazioni su attività estere commesse fino al 2016, il termine poteva essere raddoppiato a dieci anni in caso di paradisi fiscali. Oggi, per annualità 2017 e seguenti, vale di norma il termine quinquennale (o settennale se omesso) – salvo casi di frode o reato in cui intervenga la Procura, che fanno scattare il raddoppio dei termini penale. Attenzione: l’Agenzia tende comunque a emettere l’accertamento il più presto possibile, spesso entro due-tre anni dall’anno d’imposta, soprattutto se ha informazioni alla mano. Ad esempio, i dati CRS 2019 (trasmessi nel 2020) potrebbero aver portato ad avvisi già nel 2022 o 2023.

Diritti del contribuente e vizi procedurali

Il contribuente ha una serie di garanzie procedurali previste dallo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) e dalla giurisprudenza. Alcune rilevanti in tema di accertamenti esteri:

  • Contraddittorio endoprocedimentale: per gli accertamenti “a tavolino” (senza verifica) relativi a imposte non armonizzate (es. IRPEF) l’invito al contraddittorio non è obbligatorio a livello generale. La Cassazione a Sezioni Unite ha chiarito che solo per i tributi armonizzati (IVA) esiste l’obbligo generalizzato di previo contraddittorio. Ciò significa che l’Agenzia può emettere l’avviso sulle imposte sui redditi senza aver prima convocato il contribuente, salvo specifiche disposizioni. Tuttavia, in alcuni casi l’ordinamento prevede contraddittorio anticipato (es. art. 5-ter D.Lgs. 218/97 per accertamenti parziali) e, in ogni caso, l’AdE incoraggia l’uso del contraddittorio come strumento di compliance. Dunque, se il contribuente riceve un invito a comparire o una proposta di adesione prima dell’avviso, conviene sempre partecipare: può essere occasione per chiarire malintesi e magari evitare l’atto formale. La mancata attivazione del contraddittorio quando obbligatorio (come in materia IVA) è causa di nullità dell’atto.
  • Motivazione e utilizzo delle informazioni estere: l’avviso deve riportare gli elementi essenziali su cui si basa. Se fondato su dati ottenuti via scambio internazionale, normalmente l’Agenzia ne dà conto (es: “visto l’art. 26 Convenzione OCSE, ricevuti dati da autorità irlandese il giorno X…”). Eventuali vizi nell’utilizzo di tali dati – ad esempio, se erano coperti da uso esclusivo per altri fini – possono essere contestati. In generale però, la giurisprudenza è favorevole all’utilizzabilità delle prove estere anche se di origine illecita, purché pervenute per via ufficiale. Emblematico il caso della Lista Falciani (conti svizzeri HSBC): la Cassazione ha sancito che i dati bancari trasmessi dalla Francia all’Italia erano utilizzabili, pur essendo stati originariamente sottratti in modo illegale (non c’è violazione se l’admin italiana non ha concorso nell’illecito e ha ricevuto le info per canali ufficiali). Dunque, eccepire la “provenienza illecita” di una lista estera non serve, se poi essa è stata scambiata legittimamente tra autorità fiscali.
  • Diritto al contraddittorio internazionale: il contribuente non ha diritto a essere coinvolto o sentito durante lo scambio di informazioni tra Stati. Lo ha affermato anche la Corte di Giustizia UE (causa Sabou C-276/12). Non si può quindi lamentare, ad esempio, di non essere stato interpellato dall’autorità irlandese prima che questa inviasse i dati. Il contraddittorio si svolgerà in sede nazionale, dopo la notifica dell’atto.
  • Notifica degli atti all’estero: se il contribuente nel frattempo si trova (o si è trasferito) in Irlanda, la notifica dell’avviso va effettuata ai sensi dell’art. 60 DPR 600/73 (e convenzioni postali o consolari). È fondamentale controllare che la notifica sia avvenuta correttamente; in caso contrario, l’atto può essere tamquam non esset (inesistente). Ad esempio, se una persona è iscritta all’AIRE con indirizzo in Irlanda, l’Agenzia deve notificare lì (via raccomandata estera o tramite autorità consolare): notificare presso la vecchia residenza italiana sarebbe un vizio serio. Una recente sentenza di merito (Corte Giustizia Tributaria I grado Milano n. 698/2024) ha affermato che l’iscrizione AIRE in corso d’anno rende non residente l’annualità solo dal successivo anno fiscale, ma ciò attiene al merito; per la notifica, conta l’indirizzo AIRE disponibile.

In generale, ogni irregolarità procedurale (notifica, termini, diritto di difesa) va individuata e valorizzata dal difensore: possono portare all’annullamento dell’atto o quantomeno costituire motivi di ricorso.

Cosa fare subito dopo aver ricevuto l’avviso

La prima cosa da fare quando si riceve un avviso di accertamento è segnare la data di notifica (es. la data sulla raccomandata o PEC). Da quel giorno decorrono i 60 giorni entro cui il contribuente può presentare ricorso alla Commissione Tributaria (ora denominata Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado), salvo che si intraprendano procedure deflattive (adesione) che allunghino i termini. Le opzioni principali a disposizione, da valutare con un professionista, sono:

  • Istanza di accertamento con adesione: È una procedura di definizione bonaria prevista dal D.Lgs. 218/1997. Va presentata entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso (possibilmente non l’ultimo giorno, per dar tempo all’ufficio di organizzare l’incontro). L’istanza sospende automaticamente i termini per fare ricorso per 90 giorni, dando respiro al contribuente. Entro tale periodo l’Ufficio convocherà il contribuente (e il suo difensore) per un contraddittorio al fine di eventualmente “adesionare” l’accertamento, cioè trovare un accordo sull’ammontare. Se si raggiunge l’accordo, viene redatto un atto di adesione con le nuove somme, sul quale le sanzioni sono ridotte a 1/3 della misura minima (un forte abbattimento). Bisognerà pagare quanto concordato (imposte + interessi + sanzioni ridotte) entro 20 giorni. Se non si raggiunge l’intesa, il contribuente ha comunque tempo fino a 60 giorni dalla chiusura negativa dell’adesione (o dalla scadenza dei 90 giorni) per presentare ricorso. L’accertamento con adesione è consigliabile quando ci sono spazi per negoziare (ad esempio su sanzioni, o su importi incerti) e quando il contribuente preferisce evitare un contenzioso lungo. Nel caso di redditi esteri, spesso l’ufficio potrebbe accettare di riconoscere crediti d’imposta o di ridurre sanzioni se il contribuente collabora. Nota: presentare l’istanza di adesione impedisce di avvalersi dell’acquiescenza (vedi oltre), quindi va ponderata con cura.
  • Acquiescenza (definizione agevolata): se il contribuente ritiene di non avere margini di difesa oppure preferisce chiudere subito la vicenda (ad esempio per evitare pubblicità o costi futuri), può optare per l’acquiescenza all’accertamento. Significa pagare entro 60 giorni dall’avviso l’intero importo dovuto (imposte e interessi) con sanzioni ridotte ad 1/3. Ciò comporta la rinuncia al ricorso e rende definitivo l’accertamento, ma con un sostanziale sconto sulle sanzioni (2/3 abbuonate). L’acquiescenza è possibile solo se non si è presentata istanza di adesione e se non ci sono contenziosi pendenti sul medesimo tributo. Nel contesto di redditi esteri, l’acquiescenza può convenire quando l’evidenza dell’evasione è schiacciante e non vi sono questioni interpretative da far valere. Ad esempio, un soggetto che non ha dichiarato interessi esteri e non ha scusanti, potrebbe limitare i danni pagando con sanzione ridotta.
  • Ricorso al giudice tributario: se non si definisce diversamente, entro 60 giorni dalla notifica (o 150 giorni se si è fatto adesione senza esito) bisogna depositare ricorso in Commissione Tributaria. Il ricorso avvia il contenzioso vero e proprio, dove si contesteranno nel merito e nel diritto le pretese dell’Ufficio. È una strada obbligata se non si trova accordo o se si ritiene l’avviso infondato. Dal 2023, per cause di valore oltre 3.000 €, è richiesta l’assistenza di un difensore abilitato (avvocato o dottore commercialista). Nel proporre ricorso, il contribuente può anche chiedere la sospensione dell’atto al giudice (in presenza di danno grave e fondati motivi), ad esempio se le somme richieste metterebbero a rischio l’attività economica del ricorrente. Se accordata, la sospensiva ferma la riscossione fino alla sentenza di primo grado.
  • Definizioni agevolate speciali: il legislatore in tempi recenti ha introdotto varie misure di “tregua fiscale” (ad es. definizione agevolata delle liti pendenti). Non è questa la sede per dettagliare, ma vale la pena verificare se all’atto della ricezione dell’accertamento vi siano norme transitorie che consentono di chiudere la controversia con pagamento ridotto (nel 2023, ad esempio, era possibile definire alcune liti pregresse pagando il 90% o meno). Queste misure hanno finestre temporali limitate.
  • Ravvedimento operoso su annualità non accertate: qualora dall’avviso emergano violazioni anche per anni successivi non ancora controllati, può essere opportuno per il contribuente correre ai ripari e presentare un ravvedimento operoso per quegli anni (ad esempio, se viene accertato un conto estero non dichiarato nel 2019-2020, si potrebbe ravvedere il 2021-2022 prima che li accertino). Il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/97) consente di regolarizzare spontaneamente errori o omissioni dichiarative pagando sanzioni ridotte. Questo non annullerà l’avviso già ricevuto, ma può prevenire ulteriori atti e mostrare buona fede.

In tutti i casi, tempestività e organizzazione sono cruciali. Si consiglia di rivolgersi immediatamente a un professionista esperto in contenzioso tributario internazionale, fornendo tutta la documentazione disponibile. Una volta scaduti i termini di impugnazione senza azione, l’avviso diviene definitivo e l’importo verrà iscritto a ruolo (cartella esattoriale). È quindi fondamentale non lasciar decorrere i termini. Nella Tabella 3 più avanti troverete un riepilogo schematico delle scadenze chiave (60 gg ricorso, +90 adesione, ecc.).

Esempio pratico: Mario, residente in Italia, riceve il 1° marzo 2025 un avviso per redditi non dichiarati 2019 (interessi su un conto in Irlanda). Egli presenta istanza di adesione il 20 marzo: il termine per ricorrere, inizialmente 30 aprile 2025, è sospeso per 90 giorni fino al 20 giugno, e riprende per altri 60 giorni dopo tale data, quindi ha tempo fino circa a fine agosto 2025 per eventualmente presentare ricorso. Se invece Mario non fa adesione, dovrebbe ricorrere entro il 30 aprile. Questi calcoli vanno seguiti con attenzione, magari annotando le date su un calendario fiscale, come ricorda l’adagio: “le scadenze procedurali sono critiche”.

Strategie generali di difesa

Passiamo ora al cuore della questione: come difendersi nel merito da un avviso di accertamento su conti o redditi esteri (nello specifico irlandesi). Al di là delle peculiarità di ogni caso (che tratteremo nella sezione successiva per tipologia di contribuente e reddito), esistono alcune strategie difensive generali e principi di buon senso che valgono trasversalmente.

Analisi iniziale e raccolta delle prove

1. Esame approfondito dell’atto: Come primo passo, occorre esaminare ogni riga dell’avviso e degli eventuali allegati. Bisogna identificare esattamente cosa viene contestato (tipologia di reddito, importi, anni) e su quale base (dati bancari, presunzioni, indizi). Ad esempio, l’Agenzia può aver ricostruito che su un conto irlandese transitavano €100.000 non giustificati e presume siano ricavi non dichiarati. Oppure può semplicemente contestare l’omessa compilazione del quadro RW per un conto con saldo €50.000. Le difese cambieranno a seconda dello scenario. Occorre quindi annotare puntualmente tutte le contestazioni.

2. Verifica dell’accuratezza dei dati: Non è raro che vi siano errori materiali o duplicazioni nei dati esteri comunicati. Ad esempio, conti cointestati segnalati per intero a due persone; saldo al 31/12 che include somme già tassate in Italia (perché provenienti da bonifici dichiarati); redditi esteri già inseriti in dichiarazione ma forse con codici diversi. Un controllo da fare è confrontare quanto riportato nell’avviso con la propria documentazione: “Quel dividendo estero di 10.000€ lo avevo già dichiarato nei Redditi 2020? Ho le prove?” Se sì, si può subito preparare una memoria con cui evidenziare l’errore (spesso, in sede di adesione o ricorso, presentare la dichiarazione e il relativo F24 di pagamento può portare all’annullamento parziale dell’atto). Se i dati esteri risultano invece esatti, bisogna concentrarsi su come giustificarli.

3. Raccolta delle prove a discarico: Questo è forse l’aspetto più determinante. Per ogni somma contestata, il contribuente deve chiedersi: “posso provare che non è reddito imponibile?”. Alcuni esempi comuni di prove difensive:

  • Origine dei fondi: dimostrare che il capitale depositato sul conto estero proveniva da risparmi di redditi già tassati o da redditi esenti/soggetti a ritenuta a titolo d’imposta. Documenti utili: dichiarazioni dei redditi di anni precedenti con redditi congrui, estratti conto che mostrino bonifici da conti italiani già tassati, atti di donazione o successione (se il denaro era eredità o regalo di famiglia). L’obiettivo è far emergere che il patrimonio estero non è frutto di evasione ma ha una storia fiscale pulita. Ad esempio, se contestano €200k su un conto irlandese, esibire l’atto di vendita di un immobile ereditato in Italia che ha prodotto €200k (già soggetti ad imposta sostitutiva) e poi trasferiti all’estero, può ribaltare l’accusa di evasione. La Cassazione ha affermato che queste presunzioni del Fisco possono essere vinte solo da prova contraria documentale: dichiarazioni orali o generiche non bastano. Bisogna quindi mettere nero su bianco ogni elemento a favore.
  • Natura giuridica delle somme: talvolta importi sul conto non rappresentano redditi tassabili: ad esempio, rimborso di un prestito, trasferimento di capitale tra conti dello stesso titolare, ricavi già tassati alla fonte in Italia, ecc. Bisogna spiegare voce per voce all’Ufficio di cosa si tratta, fornendo le relative pezze. Se un importo è il ricavato di una vendita aziendale già tassata, allegare la dichiarazione dei redditi dell’anno di vendita e il rogito. Se un accredito è un semplice giroconto da altro conto (magari estero) già dichiarato, mostrare gli estratti di entrambi i conti per evidenziare che è lo stesso denaro circolato.
  • Documenti esteri: in casi di redditi d’impresa o lavoro in Irlanda, procurarsi la documentazione fiscale irlandese (p.es. il P60/P45 per i salari, o il bilancio della società estera) e un attestato di residenza fiscale irlandese per l’anno in questione, può aiutare a rivendicare l’applicazione della Convenzione contro le doppie imposizioni. Ad esempio, se Tizio dimostra di essere stato residente fiscale in Irlanda (certificato dall’autorità irlandese) e di aver pagato là le tasse su un certo reddito, potrà più agevolmente sostenere di non doverle pagare in Italia (o comunque di aver diritto al credito integrale).
  • Prove sulla residenza effettiva: se la contestazione riguarda la residenza fiscale (es. “Lei risultava residente in Italia nonostante sostenesse di vivere in Irlanda”), la difesa sarà basata su elementi come: iscrizione AIRE nei tempi, contratto di locazione o acquisto casa in Irlanda, bollette e utenze estere, iscrizione a circoli o palestre in Irlanda, biglietti aerei, contratti di lavoro locali, eventuale famiglia trasferita, ecc.. In giudizio spesso si depositano dossier fotografici, ricevute e altri documenti che provino la presenza abituale all’estero. L’onere è pesante ma necessario per scardinare la tesi del Fisco che vi vuole ancora residenti qui.

In sostanza, occorre preparare un fascicolo difensivo il più completo possibile. Idealmente, ogni euro contestato deve trovare una giustificazione in quei documenti. È consigliabile allegare tutto già nell’istanza di adesione o nel ricorso introduttivo: vero è che nel processo tributario non esiste un preclusivo rigido (si possono produrre documenti anche dopo, fino in appello), ma presentare subito le prove conferisce maggiore credibilità e talvolta induce l’Ufficio a recedere prima del giudizio.

4. Valutare l’eventuale profilo penale: Se gli importi in gioco sono elevati, non trascurare il rischio penale. Come detto, omettere di dichiarare redditi esteri può configurare il reato di dichiarazione infedele (art.4 D.Lgs.74/2000) se l’imposta evasa supera €50.000 (soglia attuale), oppure omessa dichiarazione (art.5) se non si è presentata proprio la dichiarazione ed era dovuta imposta oltre €50.000. L’omessa compilazione del quadro RW in sé non è reato, ma se sottende imposte evase rilevanti può concorrere nel computo. È importante saperlo perché la strategia difensiva potrebbe dover tenere conto del penale: ad esempio, ricorrere a un ravvedimento operoso “rafforzato” pagando il dovuto prima che la violazione sia contestata penalmente, può evitare la punibilità (art. 13 D.Lgs.74/2000 prevede la causa di non punibilità per pagamento integrale del debito tributario prima del dibattimento). Se siamo oltre soglia e ancora in tempo, pagare subito per far scendere l’evasione sotto €50.000 può letteralmente salvarvi dal processo penale. Un avvocato penalista tributario andrebbe consultato parallelamente nei casi gravi.

Argomentazioni giuridiche da sviluppare

Oltre alle prove fattuali, una buona difesa solleva anche eccezioni giuridiche e interpretative. Eccone alcune possibili nel contesto di redditi/attività estere:

  • Sull’applicazione delle norme e convenzioni: Si può eccepire, ad esempio, che l’ufficio non ha applicato correttamente la Convenzione Italia-Irlanda. Caso tipico: un reddito da lavoro dipendente interamente svolto in Irlanda per più di 183 giorni, pagato da datore irlandese, era tassabile solo in Irlanda (art. 14 conv.) e l’Italia poteva al più tassarlo con credito d’imposta. Se l’avviso pretende invece tutta l’IRPEF senza considerare la convenzione, va contestato citando la norma pattizia. Analogamente, per dividendi: la convenzione prevede un limite all’aliquota irlandese e il credito in Italia – se l’Agenzia ha applicato sanzione sul lordo senza riconoscere il credito, occorre far valere il diritto al credito ex art.165 TUIR, da calcolare anche in sede contenziosa.
  • Doppia imposizione internazionale: Qualora, in attesa del contenzioso, il contribuente abbia dovuto pagare le imposte anche in Irlanda (o gliele abbiano già trattenute), si evidenzi il rischio di doppia imposizione contraria ai principi convenzionali. In alcuni casi, si può chiedere la sospensione parziale dell’atto proprio in virtù di ciò, o quantomeno la rideterminazione del dovuto al netto del credito estero.
  • Sulle presunzioni: Come accennato, se l’accertamento si basa esclusivamente su presunzioni di legge (es. presunzione di evasione per capitale estero) senza un minimo riscontro di effettivi redditi non dichiarati, si può sostenere che l’atto è “meramente presuntivo” e quindi carente di prova. La giurisprudenza tende a considerare le presunzioni legali come prova sufficiente, ma soprattutto quando c’è almeno un indizio di partenza (es. il capitale esiste ed è occulto). Se l’ufficio invece presumesse redditi a caso (tipo: “sul tuo conto supponiamo un rendimento del 5% annuo”), si può contestare l’arbitrarietà. L’onere della prova resta invertito, ma il giudice potrebbe accogliere una riduzione se la pretesa appare ultra rispetto ai dati reali. In ogni caso, vale la pena enfatizzare l’eventuale mancanza di sostanza dell’atto (es. nulla prova che quelle somme fossero redditi imponibili).
  • Incertezza normativa oggettiva: In materie complesse e di recente evoluzione (si pensi al trattamento fiscale delle cripto-attività prima del 2023, o alla necessità di dichiarare o meno un trust discrezionale prima delle circolari esplicative), può essere invocata l’esimente di cui all’art. 6, c.2, D.Lgs. 472/97: nessuna sanzione amministrativa in caso di violazione determinata da obiettive condizioni di incertezza normativa. Ad esempio, se un contribuente non aveva inserito in RW le criptovalute negli anni in cui la legge non ne parlava affatto, potrà sostenere di aver agito in buona fede interpretando la norma in modo difforme poi rivelatosi errato. Ci sono stati casi in cui le Commissioni tributarie hanno annullato sanzioni proprio riconoscendo l’incertezza. Un caso interessante: CTP Milano n. 2209/2019 ha riconosciuto la non punibilità (sanzioni azzerate) ad un contribuente che non aveva dichiarato attività estere confidando in vecchie circolari dell’Agenzia poi superate. Queste situazioni vanno argomentate con cautela (spesso l’Agenzia è restia ad ammettere incertezza), ma in giudizio possono fare breccia, specie se supportate da prassi contraddittorie o giurisprudenza ondivaga.
  • Proporzionalità delle sanzioni e principio ne bis in idem: In caso di cumulo di sanzioni amministrative e (eventualmente) penali, si può richiamare il principio di proporzione e il divieto di duplicazione di sanzioni per lo stesso fatto (Corte EDU, caso Grande Stevens c. Italia). Ad esempio, se l’omessa dichiarazione RW è sanzionata e il medesimo fatto genera anche reato con sanzione penale, si potrà chiedere clemenza su uno dei due fronti. Questo è un argomento di sistema, la cui applicazione in Italia è ancora in evoluzione.

Comportamenti virtuosi e approccio psicologico

Una componente non scritta ma importante della difesa è l’atteggiamento del contribuente durante tutto l’iter:

  • Trasparenza e coerenza: è fondamentale non aggravare la propria posizione con ulteriori reticenze o menzogne. Se l’Agenzia ha ormai scoperto un conto estero, negarne l’esistenza o cercare di spostare i fondi altrove all’ultimo minuto è controproducente. Meglio, al contrario, dimostrarsi collaborativi e pronti a regolarizzare il dovuto. Gli Uffici apprezzano – e talora ricompensano implicitamente – l’atteggiamento di chi ammette l’errore e cerca un accordo, rispetto a chi adotta trucchi dilatori. Ovviamente ciò non significa rinunciare ai propri diritti, ma evitare atteggiamenti ostruzionistici infondati.
  • Precisione tecnica: nelle difese scritte (memorie, ricorso) adottare un taglio professionale, ben documentato, citando normative e sentenze pertinenti, conferisce autorevolezza. Se dall’altro lato percepiscono approssimazione, saranno più aggressivi. Anche l’eventuale riferimento a precedenti giurisprudenziali simili vinti dal contribuente può essere utile (pur sapendo che non fanno giurisprudenza fissa, indicano però un orientamento). Ad esempio, citare Cass. n. 19410/2019 sul trust estero o Cass. n. 5524/2024 sulla residenza/AIRE può far capire al giudicante (e all’ufficio) che esistono pronunce favorevoli al contribuente su punti chiave.
  • Calma e visione d’insieme: un accertamento estero è emotivamente stressante. Tuttavia, mantenere un approccio razionale è essenziale: analizzare ogni aspetto, coinvolgere i giusti consulenti (triburista, penalista se serve, commercialista per i calcoli), valutare i costi/benefici di ogni opzione (ad esempio: conviene spendere 20k € in spese legali per evitare 30k € di imposte?). A volte, riconoscere un errore e negoziare è la via migliore; altre volte, se l’Agenzia ha torto marcio, conviene combattere fino in fondo.
  • Tempestività anche negli adempimenti successivi: se si addiviene a un accordo (adesione) o si ottiene una sospensiva, rispettare pedissequamente i termini dei pagamenti concordati o degli impegni presi è fondamentale per non perdere i benefici acquisiti. Ad esempio, un’adesione non perfezionata dal pagamento entro 20 giorni equivale a nulla, e si ritorna al punto di partenza.

In definitiva, la difesa in giudizio di un accertamento su redditi esteri deve combinare aspetti tecnico-giuridici (eccezioni formali, interpretazioni normative) con aspetti fattuali-probatori (documenti, perizie se necessario). Nei casi di patrimoni e redditi esteri, la chiave è spesso riuscire a dimostrare la propria versione dei fatti in modo convincente: come ha più volte ricordato la Cassazione, la presunzione di evasione si vince solo con prova contraria solida. Una difesa ben preparata e supportata da evidenze può riuscire a ribaltare l’esito atteso di un accertamento, evitando o riducendo notevolmente l’esborso.

Nei paragrafi seguenti, entreremo nello specifico di diverse casistiche tipiche relative a conti o redditi in Irlanda, evidenziando per ciascuna le peculiarità e gli accorgimenti difensivi aggiuntivi da adottare.

Casistiche particolari: categorie di contribuenti e redditi esteri

Non tutti gli accertamenti legati all’Irlanda sono uguali: molto dipende dal profilo del contribuente (privato, imprenditore, expat, lavoratore da remoto, ecc.) e dalla natura dei redditi o delle attività finanziarie contestate (conti correnti, partecipazioni societarie, trust, redditi di lavoro, criptovalute, ecc.). In questa sezione analizziamo le principali categorie di situazioni, fornendo per ciascuna un inquadramento e consigli specifici su come difendersi.

Imprenditori italiani con società o attività in Irlanda (esterovestizione societaria)

Scenario: Imprenditori (persone fisiche residenti in Italia) che hanno costituito società o strutture d’impresa in Irlanda. Tipicamente, l’Irlanda attira per la bassa aliquota sugli utili d’impresa (12,5%). L’Agenzia delle Entrate potrebbe contestare che la società irlandese sia in realtà una mera “scatola” utilizzata per spostare imponibile dall’Italia – il classico caso di esterovestizione societaria. In pratica, si presume che la società, pur formalmente irlandese, abbia in Italia la sede di direzione effettiva o comunque il centro della sua attività, e che quindi vada considerata fiscalmente residente in Italia (art. 73 TUIR) con tassazione integrale in Italia degli utili, oppure che costituisca una stabile organizzazione occulta di una società italiana. Un avviso di accertamento in questo contesto potrebbe ad esempio contestare: (a) il recupero a tassazione in capo all’imprenditore italiano degli utili realizzati dalla società estera (come “socio occulto” o per applicazione della normativa CFC se a bassa tassazione); (b) l’applicazione di sanzioni per omessa dichiarazione di investimenti esteri (se l’imprenditore non ha indicato la partecipazione estera nel quadro RW o nella comunicazione Quadro RS – società controllate estere); (c) la riqualificazione di redditi percepiti (dividendi o compensi dalla società irlandese) in qualcos’altro, se ritenuti frutto di uno schermo elusivo.

Difesa: La difesa in casi di esterovestizione societaria è complessa ma può basarsi su alcuni pilastri:

  • Dimostrare la sostanza economica in Irlanda: Occorre fornire evidenze che la società irlandese non è fittizia, ma svolge effettivamente la propria attività lì. Prove utili: documentare l’esistenza di un ufficio fisico in Irlanda, con personale locale assunto; contratti stipulati e adempiuti in Irlanda; clienti o mercati serviti primariamente dall’Irlanda; contabilità e libri sociali tenuti in Irlanda; evidenza che le decisioni strategiche venivano prese dal management locale (verbali del board, deleghe reali a amministratori irlandesi). Più la società appare autonoma e radicata in Irlanda, più sarà arduo per il Fisco sostenere che il “cervello” fosse in Italia. Ad esempio, se tutti i soci e amministratori sono italiani e la società non ha una sede operativa reale a Dublino, la difesa è debole. Viceversa, se c’è un manager irlandese che gestisce e 10 dipendenti a Cork che producono e vendono, la sostanza c’è.
  • Contestare eventuali errori procedurali del Fisco: Spesso, in questi casi, sorge disputa sull’ufficio territorialmente competente ad accertare. Ad esempio, se la società dice di essere estera, potrebbe eccepire che l’Agenzia di Milano non poteva fare l’accertamento. La Cassazione (ordinanza n. 1075/2025) ha però chiarito che, in caso di trasferimento fittizio all’estero, il domicilio fiscale rimane nell’ultima sede italiana della società. Ciò significa che se la società irlandese è ritenuta solo di facciata, l’ufficio italiano competente è quello dell’ultima sede nota in Italia. La Suprema Corte in quel caso ha convalidato l’operato dell’AdE italiana, ribaltando le decisioni delle commissioni tributarie che avevano annullato l’atto per incompetenza territoriale. In difesa, dunque, questo fronte è di solito perdente se davvero c’è esterovestizione – meglio concentrarsi sul merito (ma va considerato se la situazione è più sfumata, es. società effettivamente emigrata all’estero con sostanza, allora l’ufficio italiano potrebbe essere incompetente).
  • Applicare esimenti CFC o simili: Qualora l’Agenzia contesti in capo all’imprenditore la tassazione per trasparenza degli utili esteri (Controlled Foreign Companies), si può tentare di dimostrare che ricorrono le cause di esclusione. Ad esempio, la normativa CFC prevede che se la società estera non è a tassazione privilegiata oppure se ha una effettiva attività industriale/commerciale nel mercato locale, allora non si applica la tassazione per trasparenza (art. 167 TUIR, condizioni di safe harbour). L’Irlanda in genere non è considerata paradiso fiscale per le CFC (aliquota 12.5% > metà di quella italiana?), quindi l’imprenditore potrebbe dire: “la mia società ha tassazione ordinaria > metà di quella italiana, dunque non è CFC, e/o ha una presenza economica effettiva in loco”. Se l’esimente è documentabile, l’accertamento che imputa gli utili al socio italiano può cadere.
  • Evitare contraddizioni: Se l’imprenditore in passato ha sostenuto (magari in altre sedi) tesi differenti, la sua credibilità crolla. Esempio: se in un procedimento penale afferma che la società estera era fittizia e serviva a spostare utili, non può poi in sede tributaria dire il contrario. Quindi, uniformare la linea difensiva su tutti i fronti.

In definitiva, dal lato del contribuente la miglior difesa contro contestazioni di esterovestizione è provare il “substance over form” opposto a quello asserito dal Fisco: ossia che, dietro la forma dell’entità estera, vi è anche la sostanza all’estero. Se ciò non è pienamente vero, si può cercare di transare. Ad esempio, in un caso seguito dallo Studio, una LTD irlandese amministrata di fatto dall’Italia ha preferito chiudere con adesione pagando le imposte sugli utili non dichiarati e una sanzione ridotta, anziché rischiare sanzioni piene e penali per dichiarazione infedele.

Lavoratori digitali e nomadi digitali tra Italia e Irlanda

Scenario: Persone (spesso giovani professionisti, freelance o dipendenti di aziende estere) che lavorano in modalità remota e possono spostarsi con facilità. Alcuni risiedono in Italia ma percepiscono redditi da fonte irlandese (p.es. stipendio da una società tech con sede a Dublino, o compensi freelance da clienti irlandesi). Altri si trasferiscono per periodi in Irlanda (magari usufruendo di programmi per remote workers), senza però chiarire bene la propria posizione fiscale. L’Agenzia delle Entrate può contestare a tali soggetti: (a) l’omessa dichiarazione in Italia di redditi di lavoro dipendente o autonomo percepiti da enti irlandesi; (b) la residenza fiscale in Italia nonostante si dichiarino “nomadi” o residenti altrove, con conseguente tassazione di tutti i redditi esteri; (c) eventuali indebite detrazioni o crediti d’imposta richiesti in Italia su imposte estere in assenza dei presupposti.

Difesa a seconda dei casi:

  • Se il lavoratore è effettivamente residente fiscale in Italia: In questo caso, pur svolgendo attività per l’Irlanda, deve dichiarare in Italia i relativi redditi (principio worldwide). La difesa quindi non punterà a negare la tassabilità, ma a evitare sanzioni e duplicazioni. Argomenti:
    • Dimostrare che le imposte sul reddito sono già state trattenute in Irlanda (ad esempio, un dipendente avrà pagato la PAYE tax). In sede di adesione o ricorso, si può far valere il diritto al credito per le imposte pagate all’estero, allegando i documenti (payslips, modelli fiscali irlandesi) e chiedendo di sottrarre tali importi dal dovuto. L’Agenzia in genere riconosce il credito d’imposta anche tardivamente, purché il pagamento estero sia provato e la Convenzione lo preveda.
    • Verificare se si applica l’art. 51 co. 8-bis TUIR (lavoro dipendente prestato all’estero >183 giorni per datore estero): in tal caso, il reddito sarebbe imponibile in Italia non sull’ammontare effettivo ma sulla retribuzione convenzionale fissata per settore. È una norma agevolativa: se il contribuente ne aveva diritto ma non l’ha sfruttata per ignoranza, può essere fatta valere in sede di definizione, chiedendo di ricalcolare l’IRPEF su tale base inferiore. Bisogna però rientrare nelle condizioni: lavoro all’estero continuativo, esclusivo, più di 183 giorni, e settore compreso nel DM annuale sulle retribuzioni convenzionali. Se applicabile, proporlo all’ufficio può portare a una tassazione più bassa.
    • Se l’omissione è frutto di confusione e non di dolo, evidenziarlo e magari proporre l’acquiescenza con sanzioni ridotte a 1/3 (spesso l’Agenzia stessa, in fase di adesione, riduce spontaneamente le sanzioni al minimo, soprattutto se colui che lavora in Irlanda poteva genuinamente pensare di essere tassato solo lì). In parallelo, valutare se l’iscrizione tardiva all’AIRE sia possibile per il futuro, per evitare recidive.
  • Se il lavoratore sosteneva di essere non residente (nomade digitale): Qui tipicamente l’Agenzia contesta la residenza fiscale in Italia per i motivi visti (mancata iscrizione AIRE o centro interessi in Italia). La difesa dovrà concentrarsi su provare il contrario:
    • Se vi sono gli estremi per considerarlo residente in Irlanda (o altrove) secondo i criteri convenzionali, impostare la difesa con le tie-breaker rules. Ad esempio: “Il contribuente aveva l’abitazione permanente solo in Irlanda, vi risiedeva stabilmente, la famiglia lo ha raggiunto, quindi il centro degli interessi vitali era colà”. Se l’anno contestato è entro il 2023, ricordare che l’iscrizione AIRE era necessaria: se non c’è stata, la battaglia è in salita. Uno spiraglio può essere appellarsi al fatto che l’intera vita personale e professionale era comunque all’estero, invocando una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2 TUIR (qualche sentenza di merito l’ha fatto in passato, ma la Cassazione è ferma nel ritenere decisiva l’iscrizione in anagrafe per dettare la residenza interna). Dal 2024, come detto, c’è più margine: se il caso riguarda periodi dal 2024 in poi, si potrà valorizzare l’aspetto qualitativo dei legami (famiglia, affetti) fuori dall’Italia per confutare la presunzione anagrafica relativa.
    • Portare più prove possibili di assenza dall’Italia: biglietti aerei, contratti di affitto all’estero, iscrizione a sistema sanitario estero, eventuale residenza fiscale dichiarata in Irlanda con certificato delle autorità irlandesi. Se l’Agenzia vede un quadro coerente (magari il soggetto ha pure pagato tasse in Irlanda come residente), potrebbe ridimensionare la pretesa.
    • In parallelo, se l’errore è stato formale (non iscrizione AIRE per ignoranza), sottolineare l’assenza di intenti fraudolenti e chiedere clemenza sanzionatoria (esimente di buona fede). Come citato, Cass. 5524/2024 ha ribadito che AIRE non è determinante di per sé; in abbinata con elementi fattuali, si può sperare almeno nell’annullamento delle sanzioni per incertezza se la persona era convinta di non dover nulla.

In generale, la posizione dei remote worker italiani per aziende irlandesi è delicata. Molti ignorano che, se rimangono formalmente residenti in Italia, devono continuare a dichiarare e spesso pagare la differenza di tasse in Italia (visto che l’Irlanda magari tassa a aliquota inferiore, specialmente su redditi medi). La difesa, quando scatta l’accertamento, può limitare i danni ma difficilmente evitare del tutto il pagamento. A meno di poter dimostrare che la residenza era davvero trasferita all’estero, il consiglio è spesso di riconoscere l’errore, dichiarare i redditi con credito d’imposta e chiudere la partita magari con adesione. Se invece si hanno le carte in regola per la non residenza, allora conviene far valere con forza la Convenzione e tutti gli elementi probatori, perché in tal caso l’accertamento potrebbe essere completamente infondato (ad es. se Caio era residente in Irlanda per la Convenzione, l’Italia non può tassare il suo stipendio salvo il diritto al credito in Irlandra, che però in quel caso non serve).

Trasferimento di residenza in Irlanda: contestazioni al “finto” expat

Scenario: Cittadini italiani che si trasferiscono in Irlanda per motivi di lavoro o personali, e si dichiarano ivi residenti, magari iscrivendosi all’AIRE. Nonostante ciò, l’Agenzia delle Entrate può ritenere che tali soggetti non abbiano perso la residenza fiscale italiana, perché hanno mantenuto significativi interessi o la famiglia in Italia. Il classico caso è quello di manager o imprenditori che spostano formalmente la residenza in un Paese a tassazione agevolata (Irlanda non è un paradiso, ma ha una tassazione del capital gain per esempio più bassa, e incentivi per residenti non domiciliati) senza però modificare sostanzialmente le abitudini di vita in patria. L’accertamento contesterebbe la “residenza fittizia all’estero”, assoggettando a imposizione in Italia tutti i redditi esteri non dichiarati (magari salario, utili o capital gain realizzati mentre formalmente in Irlanda).

Difesa: Molto simile al caso precedente (lavoratori esteri), con enfasi sulla prova della reale migrazione:

  • Prova dei legami personali prevalenti all’estero: Se l’individuo ha spostato la famiglia in Irlanda, iscritto i figli a scuola lì, comprato casa, chiuso casa in Italia, ecc., presentare tutto ciò come evidenza che il center of life era ormai fuori. Se al contrario la famiglia era rimasta in Italia, la casa principale pure, e magari tornava ogni weekend, è dura. In tali casi, spesso è saggio negoziare: riconoscere la residenza italiana (magari per i primi anni contestati) ed evitare che l’Agenzia allarghi il tiro a troppe annualità, portando prove solo per l’anno in cui davvero si è consolidato il trasferimento.
  • Contestare anno per anno: La residenza fiscale si determina su base annuale. Può darsi che l’Agenzia contesti l’intero periodo 2018-2021, ma magari dal 2020 in poi la persona ha effettivamente tagliato i ponti con l’Italia. Allora si può mirare a convincere che almeno per le annualità più recenti la residenza era all’estero (portando più documenti su quelle) in modo da limitare il carico. La Cassazione (sent. 19843/2024) ha anche evidenziato come con i nuovi criteri dal 2024 si darà più peso alla vita familiare, ma per gli anni prima bisogna rifarsi alla giurisprudenza consolidata: in dubio, contano di più gli interessi economici visibili in Italia. Quindi, ad es., se il contribuente pur vivendo in Irlanda manteneva 3 società e 2 bar in Italia, la Cassazione lo considererà residente in Italia (è successo in un caso esaminato in quella sentenza).
  • Verificare la lista Stati privilegiati: Come detto, l’Irlanda non è nella black list del vecchio 2 co.2-bis TUIR, quindi la presunzione speciale non si applica. Questo è un punto a favore: l’onere della prova non è “capovolto” come lo sarebbe per uno trasferito a Monaco o a Dubai. Richiamare ciò in difesa può essere utile per ricordare al giudice che il Fisco deve provare che tu eri effettivamente in Italia, e non tu a dover provare di essere in Irlanda (onere neutro, diciamo).
  • Argomento convenzionale: Nel caso di doppia residenza, applicare la tie-break rule: se uno era formalmente registrato sia in Irlanda (AIRE) che in Italia (perché magari AIRE tardiva), la Convenzione prevede di guardare l’abitazione permanente, ecc. Se quell’analisi porta all’Irlanda, far leva su questo: la Convenzione prevale sul diritto interno, quindi anche se i criteri interni propendessero per Italia, i criteri convenzionali (abitazione, interessi vitali) avendo più peso in Irlanda dovrebbero far propendere per la residenza in Irlanda. La giurisprudenza italiana però a volte nicchia su questo, ma è un valido punto per un eventuale ricorso in Cassazione se necessario.
  • Minimizzare le conseguenze sanzionatorie: Anche in caso di soccombenza sul merito (residenza accertata in Italia), cercare almeno di ridurre le sanzioni. Si può invocare buona fede se c’erano motivi ragionevoli per ritenersi all’estero (es. consulenze fiscali avute che hanno detto così, o comportamento coerente tenuto, come dichiararsi fiscalmente in Irlanda). O chiedere l’applicazione dell’art. 8 del DLgs 546/92 (continuazione), se vengono contestate più annualità, per avere sanzioni unificate (anche se questa è materia complessa, dipende dal tipo di violazione).

In sintesi, la difesa su contestazioni di residenza è un gioco all’evidenza fattuale: più prove della reale espatrio vs. più indizi del Fisco di radicamento in Italia. Spesso si finisce con un compromesso: definire alcune annualità e lasciarne cadere altre. È comunque consigliabile, per gli expat italiani, farsi seguire ex ante da consulenti in modo da evitare di trovarsi in queste situazioni, perché ex post difendersi è costoso e incerto.

Conti correnti esteri non dichiarati (es. conti bancari in Irlanda)

Scenario: Un contribuente residente ha uno o più conti correnti in Irlanda (o depositi presso banche irlandesi) che non ha indicato nel quadro RW né ha dichiarato gli eventuali interessi percepiti. Magari il conto è stato aperto per comodità (es. lavorando là per un periodo) e poi dimenticato, oppure funge da conto di appoggio per attività crypto, ecc. L’Agenzia delle Entrate, tramite CRS, viene a conoscenza del conto e invia un accertamento contestando l’omessa dichiarazione del conto e dei redditi relativi. Potrebbero essere contestate: (a) sanzioni da monitoraggio (3-15% del saldo); (b) tassazione degli interessi non dichiarati (26% + sanzione 90-180% su quella imposta); (c) in casi estremi, una presunzione che il saldo o i movimenti siano redditi sottratti a tassazione (specialmente se il conto ha grossi importi di provenienza ignota).

Difesa:

  • Dimostrare la provenienza lecita dei fondi sul conto: Come già trattato nelle strategie generali, se sul conto c’erano somme significative, occorre mostrare da dove venivano. Se derivavano da redditi già tassati, si allegano le dichiarazioni dei relativi anni. Se erano trasferimenti da altri conti dichiarati, si porta evidenza di quei movimenti (es. bonifico da conto italiano). Se il conto aveva prevalentemente depositi di stipendio estero dichiarato o di risparmi accumulati, farlo vedere all’ufficio può convincerli a non applicare la presunzione di evasione sul capitale. Ad esempio, se su un conto c’erano €100k ma si prova che 80k erano stati bonificati da un conto italiano regolarmente tassato, l’ufficio potrà al limite sanzionare il monitoraggio ma non tassare quei 80k come reddito.
  • Documentare i redditi prodotti dal conto: Se il conto generava interessi attivi, in Irlanda probabilmente erano soggetti a una ritenuta (deposit interest retention tax – DIRT, se applicabile). Ad ogni modo in Italia andavano dichiarati come redditi di capitale esteri (nel quadro RL o RT, a seconda se optava per imposta sostitutiva 26%). La difesa può consistere nel dichiarare tardivamente tali interessi attraverso ravvedimento (se l’avviso non li ha ancora accertati per qualche anno aperto) oppure nel far valere eventuali ritenute subite in Irlanda come credito. Gli interessi su conti UE però di solito vanno dichiarati al lordo e tassati al 26% in Italia, senza credito d’imposta perché la Direttiva UE risparmi dovrebbe aver abolito le ritenute intra-UE (in Irlanda la DIRT riguarda residenti locali, non credo si applichi ai non-residenti). Quindi probabilmente non ci sono crediti. Comunque, se l’AdE calcola imposte sugli interessi non dichiarati, poco da fare: vanno pagate. Si può solo chiedere sanzioni ridotte.
  • Minimizzare la sanzione da RW: Spiegare perché il contribuente ha omesso la dichiarazione del conto: ignoranza, dimenticanza, complessità normativa. Non è una giustificazione per legge, ma può spingere l’ufficio, in adesione, ad applicare la sanzione minima (3%) anziché una più alta. Magari presentarsi subito con il ravvedimento operoso eseguito (cioè aver già versato spontaneamente il 0,6% di sanzione se si fa ravvedimento ultra-biennale, visto che ravvedere RW dopo tanto tempo è possibile pagando 1/6 del minimo). Se l’ufficio vede che hai già fatto ravvedimento, potrebbe essere più conciliante.
  • Esclusione del raddoppio dei termini: Assicurarsi che l’ufficio non stia applicando indebitamente il raddoppio dei termini. Per annualità dal 2017 in poi non c’è più black list, quindi l’accertamento va fatto nei 5 anni. Se cercano di estendere a 10 sostenendo che quell’obbligo era “paradisiaco”, sbagliano. Ma di solito con l’Irlanda non lo fanno perché l’Irlanda coopera (white list).
  • Valutare cifra modesta vs. rilevante: Se i saldi erano modesti (poche migliaia di euro) e magari il conto dormiente, si può chiedere clemenza: “errore veniale, nessun reddito rilevante prodotto”. In alcuni casi l’Agenzia, di fronte a conti <10k, potrebbe anche accontentarsi di una sanzione minima per RW e lasciar perdere (soprattutto se il costo amministrativo di perseguire è alto rispetto al recupero).
  • Focus su IVAFE: Non dimentichiamo che i conti esteri scontano anche l’IVAFE (imposta patrimoniale dello 0,2% annuo sul saldo, simil bollo). Se uno non l’ha pagata, l’accertamento può includerla (più sanzione 30%). Anche qui, poco da difendere: o la paghi o dimostri che il conto era esente (ad es. conto corrente < 5k esente da IVAFE). Dunque, verificare se l’Ufficio ha incluso IVAFE: se se ne sono dimenticati, meglio non farlo notare 😅; se c’è, eventualmente ravvederla per gli anni non accertati per ridurre sanzioni.

Importante: l’esperienza insegna che in molti casi di conti esteri, l’Agenzia inizialmente invia solo una lettera di compliance chiedendo di regolarizzare (specie se hanno solo saldi e non evidenza di grossi redditi). Se il contribuente regolarizza subito (dichiarazione integrativa e pagamento sanzioni ridotte), la questione si chiude lì. Ignorare la lettera porta invece all’avviso formale con sanzioni piene. Quindi la miglior difesa è la prevenzione: se arriva una segnalazione bonaria, agire subito. In sede di contenzioso vero e proprio, ci si può pentire di non averlo fatto prima.

Trust esteri collegati a soggetti italiani (trust opaco, interposto, ecc.)

Scenario: Un contribuente italiano è disponente o beneficiario di un trust estero (ipotizziamo istituito sotto legge di Jersey o anche irlandese, visto che l’Irlanda ammette i trust). Tramite CRS, l’Agenzia delle Entrate viene a sapere che il soggetto figura come “controlling person” di un trust con asset finanziari all’estero. L’accertamento può contestare vari aspetti: (a) omessa indicazione in Quadro RW dei beni conferiti nel trust o del valore del trust, qualora l’Agenzia consideri il trust interposto o ritenga comunque che il contribuente dovesse monitorarlo; (b) tassazione dei redditi di capitale prodotti dal trust all’estero (interessi, dividendi, capital gains) imputandoli al beneficiario/disponente italiano, se il trust è ritenuto fiscamente inesistente o trasparente; (c) sanzioni per omessa dichiarazione di eventuali distribuzioni ricevute dal trust, qualora fossero imponibili come redditi di capitale; (d) in casi di trust abusivi, l’ignorare il trust e tassare tutto come se i beni fossero sempre appartenuti al disponente (come redditi diversi o movimenti finanziari non dichiarati).

La materia è ostica perché il trattamento fiscale dei trust esteri è complesso e la distinzione tra trust opaco (autonomo soggetto) e trust trasparente/interposto (fittizio) è sottile. La Cassazione ha però fissato alcuni principi:

  • Nei trust opachi non residenti, i beneficiari non vanno tassati fino a quando non ricevono distribuzioni; le somme eventualmente distribuite a beneficiari residenti costituiscono reddito di capitale imponibile per questi ultimi (salvo prova che si tratta di mera restituzione di capitale conferito). Questo è stato affermato, ad esempio, dalla Cass. n. 19410/2019 e da altre pronunce conformi.
  • Se il trust è interposto (cioè il disponente/beneficiario mantiene di fatto il controllo), allora il Fisco disregarda il trust e imputa direttamente al disponente/beneficiario i redditi prodotti dal trust ogni anno, oltre a considerare dovuta la compilazione RW come se i beni fossero ancora del disponente.

Difesa: Il punto di partenza è capire come l’Agenzia sta qualificando il trust:

  • Se l’accertamento presume interposizione: la difesa consisterà nel dimostrare l’autonomia effettiva del trust. Bisogna produrre l’atto istitutivo del trust e ogni documento che provi che il disponente non ha più poteri né vantaggi immediati su quei beni. Ad esempio, mostrare che il trust è discrezionale irrevocabile, con un trustee professionale indipendente, nessun potere di revoca o di indicazione di investimenti in capo al disponente. Se si riesce a convincere che il trust era genuino, si può sostenere che: (a) nessun obbligo di RW per il disponente/beneficiario, perché i beni ormai non gli appartengono più (e anzi, se il beneficiario è solo eventuale e futuro, non c’è obbligo di monitoraggio); (b) i redditi accumulati nel trust non andavano dichiarati dal beneficiario, in quanto trust opaco. A supporto, si citeranno le sentenze (Cass. 20599/2016, Cass. 3886/2019 ecc.) che confermano la non imputazione di redditi ai beneficiari non residenti e tassazione solo al momento della distribuzione. Si potrà argomentare che eventuali circolari dell’Agenzia (es. Circ. 34/E 2022) non possono applicarsi retroattivamente in senso sfavorevole se al tempo vi era obiettiva incertezza.
  • Se l’accertamento tassa le distribuzioni come redditi di capitale: qui la difesa può puntare su due cose: (a) provare che quella distribuzione in realtà era restituzione di capitale (ad esempio, il trust distribuiva al beneficiario una parte dei beni inizialmente conferiti dal disponente stesso, quindi niente guadagno effettivo). Se si convince su questo, la somma non sarebbe reddito tassabile. (b) In subordine, se la tassazione è inevitabile (perché sono utili su utili), chiedere almeno la riduzione delle sanzioni per via della complessità normativa. Come notato anche in alcune commissioni tributarie, fino a pochi anni fa la prassi sul monitoraggio dei trust discrezionali era ondivaga, sicché il contribuente poteva essere confuso. Ci sono state decisioni di merito che hanno annullato sanzioni RW in casi simili, appellandosi all’incertezza normativa.
  • Se vengono imputati redditi del trust opaco mai distribuiti: questo è un errore dell’Agenzia (capita talvolta). Bisogna far rilevare che per legge (art. 44 TUIR) i redditi prodotti da trust opaco non residente non sono imputabili per trasparenza ai beneficiari. Si cita la norma e Cass. 19410/2019. Quindi, se ad esempio il trust nel 2023 ha avuto €80k di redditi e l’Agenzia li vuole tassare al beneficiario, si deve eccepire la totale illegittimità: il beneficiario pagherà semmai tasse solo quando/li se li riceverà.
  • Dispute sul monitoraggio RW: Normativa alla mano, un beneficiario discrezionale non è tenuto a dichiarare nulla finché non ha un diritto certo ai beni. Se invece il beneficiario è individuato e certo, l’Agenzia tende a pretendere il RW pro-quota. La difesa può argomentare che, in assenza di specifica norma all’epoca, il contribuente ha seguito un orientamento ragionevole quindi non merita sanzioni (art. 6 co.2 D.Lgs.472/97). Magari si può transare offrendo di pagare una sanzione ridotta pari a quella che sarebbe stata col ravvedimento, per chiudere il punto.

In materia di trust, è spesso utile far riferimento a perizie di esperti di diritto trust anglosassone, per spiegare istituti come protector, letter of wishes, ecc., evidenziando elementi a favore della non interposizione. Se il caso è complesso, allegare un parere pro veritate sul fatto che il trust era genuino può impressionare favorevolmente.

Best practice: nel contenzioso trust, mantenere l’impostazione giuridica corretta è essenziale (non confondere trust opaco/trasparente, capire il ruolo del disponente vs beneficiario, etc.). Se l’Agenzia ha semplificato troppo (come spesso accade) trattando ogni trust estero come schermo elusivo, il difensore deve pazientemente educare il giudice sulla struttura, mostrando che non sempre c’è evasione: un trust può avere ragioni successorie valide e non essere fatto per occultare redditi. Giudici di merito qualche volta hanno mostrato apertura verso questa visione.

Dividendi e altri redditi di capitale di fonte irlandese

Scenario: Un contribuente residente possiede partecipazioni in società irlandesi (ad esempio azioni di una società quotata irlandese, oppure quote di una LTD irlandese detenute direttamente) e riceve dividendi da tali società, che non dichiara al fisco italiano. Oppure percepisce interessi da titoli irlandesi (bond governativi, corporate bond) o royalties da un’impresa irlandese. L’accertamento tipicamente contesterà l’omessa dichiarazione di tali redditi esteri soggetti a tassazione in Italia.

In Irlanda, la tassazione sui dividendi verso non residenti può prevedere una ritenuta, ma la Convenzione con l’Italia limita la ritenuta al 15% di regola. Se il contribuente italiano non ha fornito il certificato di residenza all’atto del dividendo, forse gli hanno trattenuto la ritenuta standard (può essere 20% per dividendi). Ad ogni modo, in Italia i dividendi esteri percepiti da persone fisiche dal 2018 in poi vanno assoggettati ad imposta sostitutiva 26% (aliquota unica) salvo partecipazioni qualificate in periodi precedenti. Quindi l’Agenzia contesterà il 26% non pagato su quegli importi.

Difesa:

  • Credito d’imposta per ritenute estere: Se sul dividendo c’è stata una ritenuta fiscale in Irlanda (ad esempio 15%), il contribuente ha diritto al credito d’imposta fino a concorrenza della nostra imposta (26%). Questo va fatto valere. Si deve recuperare dalla società o intermediario irlandese la documentazione della ritenuta subita (certificato), e presentarla all’Agenzia chiedendo che dall’imposta italiana dovuta (26% del dividendo lordo) si deduca il 15% già pagato all’estero. Così il debito si riduce. Se per caso è stata trattenuta una percentuale maggiore del 26% (poco probabile, ma ipoteticamente), il credito è comunque limitato al 26%. Comunque, evitare la doppia imposizione è prioritario.
  • Verificare natura delle partecipazioni: Se erano qualificate e i dividendi riferiti a utili ante 2018, allora la tassazione doveva avvenire parzialmente (40% imponibile fino al 2016, 58,14% dal 2017). Ma dal 2018 tutte le persone fisiche tassano dividendi al 26% pieno, qualificati o no. Quindi probabilmente l’Agenzia applicherà 26%. Se però i dividendi sono di epoche precedenti, si potrebbe contestare l’errata aliquota (es. per dividendo 2016 di partecipazione qualificata, doveva essere in dichiarazione col 49,72% imponibile e non soggetto a imposta sostitutiva). Questo è tecnicismo da verificare con date.
  • Dividendi da società estera partecipata al 100% (CFC): se la società irlandese era a bassa tassazione (ma l’Irlanda con 12.5% su utili può essere considerata a bassa tassazione? Dipende, se fosse < la metà dell’aliquota IRES 24, metà è 12 – l’Irlanda è appena sopra la metà di 24, quindi non black list di per sé). Quindi probabilmente non CFC. Se fosse CFC e il socio non l’ha dichiarata, l’accertamento potrebbe tassare per trasparenza l’intero utile e non solo il dividendo. In un caso normale di società irlandese, però, ci si limita ai dividendi effettivamente incassati.
  • Sanzioni ridotte con ravvedimento: Se il contribuente si rende conto prima dell’avviso (o anche dopo ricevendo una lettera compliance) che non ha dichiarato dividendi, può rimediare con dichiarazione integrativa e ravvedimento (sanzione 30% ridotta a 1/8 se dopo un anno, quindi 3.75%). Se arrivato l’avviso, proporre di pagare le imposte e sanzioni minime potrebbe convincere a definire in adesione.
  • Argomento di merito limitato: Non c’è molto da discutere sulla tassabilità dei dividendi esteri: è pacifica. L’unica difesa di merito può essere se il soggetto non era residente quell’anno (allora i suoi dividendi esteri non erano imponibili qui). Quindi torna l’argomento residenza: se quell’anno il contribuente era residente in Irlanda, l’Italia non può tassare il suo dividendo estero (lo farebbe solo sul reddito italiano eventualmente). Se c’è un conflitto di residenza quell’anno, usare la Convenzione.
  • Caso trust o intermediazione societaria: A volte i dividendi esteri arrivano su conti intestati a società semplici di famiglia o trust. L’Agenzia potrebbe contestare comunque le persone fisiche beneficiarie. Bisogna navigare nella fiscalità di quell’ente. Se una società semplice italiana percepiva i dividendi, avrebbe dovuto dichiararli al 26% anch’essa, imputandoli per trasparenza ai soci. Complesso, ma in difesa diremmo: “ok, li dichiaro ora in capo alla società semplice, tu tassali per trasparenza ai soci e togli le sanzioni perché c’era confusione interpretativa”.
  • Altri redditi di capitale: Interessi su bond irlandesi -> tassabili 26%. Royalties dall’Irlanda -> tassabili IRPEF come redditi lavoro autonomo o d’impresa (se percepite personalmente, vanno in RL con ritenuta estera a credito). Qui la convenzione dice che le royalties pagate da Irlanda a Italia sono tassabili solo in Italia (credo al netto di una possibile ritenuta 0 o ridotta in Irlanda). Quindi generalmente l’Italia piglia tutto ma deve dare credito se qualcosa pagato in Irlanda. La difesa analoga: se hai prova di tasse pagate in Irlanda sulle royalties, chiedi credito.

Stipendi e redditi di lavoro dipendente da datore irlandese

Scenario: Un soggetto residente in Italia lavora (anche da remoto) per una società irlandese, percependo uno stipendio. Il datore di lavoro irlandese potrebbe aver applicato o meno la ritenuta su tale stipendio (se il dipendente ha comunicato di essere residente fiscale estero, forse no). In ogni caso, il contribuente avrebbe dovuto dichiarare in Italia quel reddito di lavoro estero. L’accertamento qui verte sull’art. 49-50 TUIR: redditi di lavoro dipendente ovunque prodotti sono imponibili in Italia per i residenti, con la particolarità dell’art. 51 c.8-bis (determinazione convenzionale se >183gg estero) già menzionata.

Difesa: Parte coincide con quanto detto per i lavoratori digitali, ma ricapitoliamo focalizzando sul lavoro subordinato:

  • Verificare giorni all’estero: Se il dipendente ha effettivamente lavorato in Irlanda per più di 183 giorni l’anno (presenza fisica), allora ha diritto alla detassazione convenzionale (retribuzioni convenzionali). In sede di ricorso, allegare documenti che provano i giorni (timbrature, contratti di trasferta, etc.) e chiedere che l’imponibile sia ridotto alla retribuzione convenzionale prevista dal DM per il suo settore. Questo potrebbe ridurre notevolmente l’imposta dovuta. Se l’Agenzia non l’ha considerato, è un bel punto a favore del contribuente. Notare: questo vale se il rapporto di lavoro è estero ed esclusivo all’estero, e se c’è un DM che copre quella mansione.
  • Credito per imposte estere: Se l’azienda irlandese ha tassato alla fonte il reddito (può capitare se non sapeva del trasferimento), il contribuente deve avere credito d’imposta in Italia. Farlo valere presentando le buste paga o modelli P60/P45 con indicato il tax deducted. L’art. 165 TUIR concede il credito fino alla quota d’imposta italiana su quel reddito.
  • No doppia imposizione per lavoro in sede fissa: La Convenzione Italia-Irlanda (art. 14) stabilisce che lo stipendio è tassabile solo nello Stato in cui il lavoro è svolto, a meno che: il lavoratore stia <183 gg in Irlanda e il datore non è residente in Irlanda e la retribuzione non è a carico di stabile organizzazione in Irlanda. Nel nostro caso il datore è irlandese, quindi la retribuzione è imponibile in Irlanda di default e comunque anche in Italia se il tizio è italiano. Quindi la convenzione qui non salva dall’obbligo italiano, serve solo per il credito.
  • Dimostrare eventuale non residenza: se la persona era iscritta AIRE e stava in Irlanda tutto l’anno (non solo per lavoro ma anche vita personale), allora l’Italia non dovrebbe tassare quello stipendio (sarebbe reddito estero di un non residente). Quindi, come sempre, se c’è un serio elemento che la persona era residente in Irlanda, farlo valere per escludere la pretesa.
  • Contributi esteri deducibili: se il lavoratore ha pagato contributi previdenziali obbligatori in Irlanda, nella dichiarazione italiana quei contributi sono deducibili dal reddito (ci sono convenzioni di sicurezza sociale). Quindi a posteriori chiedere che si tenga conto dei contributi obbligatori esteri per abbassare l’imponibile.
  • Sanzioni: Se l’omissione era in buona fede (molti credono erroneamente che <183gg niente tasse in Italia, confondendo la regola convenzionale), spiegare l’equivoco. Questo non annulla il debito, ma forse porta a sanzione minore (per esempio l’ufficio può valutare l’infedele dichiarazione come “non dovuta per obiettiva incertezza” ma è dura su un concetto invece chiaro come la worldwide taxation).
  • Evitare penale: Di solito i salari non generano grosse imposte evase (dipende dall’ammontare). Se fosse un top manager con 300k di imposte non pagate in 3 anni, è penalmente rilevante. In tal caso, come prima, regolarizzare e pagare prima possibile per evitare denuncia.

In conclusione, il focus difensivo per stipendi è far valere tutte le possibili attenuanti normative: retribuzioni convenzionali, crediti per imposte, contributi deducibili, ecc. Spesso l’Agenzia in fase di accertamento “lorda” tutto (tassa l’intero importo al 26/43% e sanziona). Presentando la posizione completa, si può ridurre sensibilmente l’importo finale dovuto.

Criptovalute detenute all’estero (exchange esteri, conti crypto ecc.)

Scenario: Un contribuente italiano possiede criptovalute (Bitcoin, Ethereum, ecc.), magari custodite su un exchange estero (spesso società con sede in Irlanda, visto che vari operatori crypto hanno base in Irlanda o comunque infrastrutture fuori Italia). Fino al 2022, la normativa fiscale sulle cripto-attività era lacunosa: la prassi (Risoluzioni e interpelli) equiparava le valute virtuali alle valute estere ai fini del monitoraggio RW e tassava le eventuali plusvalenze se superate certe soglie di giacenza (detenzione > €51k per >7 gg). Dal 2023 però la Legge di Bilancio 2023 (L.197/2022) ha introdotto una disciplina organica: definizione di “cripto-attività”, tassazione al 26% delle plusvalenze da cessione di cripto oltre una franchigia di €2.000, obbligo di dichiararle comunque in RW, applicazione di IVAFE (o imposta di bollo) dello 0,2%, possibilità di rideterminazione dei valori pagando il 14%, e una sanatoria per il passato (regolarizzazione cripto).

Un accertamento in questo ambito potrebbe contestare: (a) l’omessa indicazione in RW delle cripto detenute all’estero (sanzione 3-15% sul loro valore); (b) la mancata tassazione di eventuali plusvalenze realizzate vendendo criptovalute; (c) l’omesso versamento dell’IVAFE/bollo dello 0,2% sul controvalore delle cripto (dal 2023 in poi è dovuto, equiparate a prodotti finanziari).

Difesa:

  • Incertezza normativa per anni pre-2023: Questo è l’argomento principe. Prima del 2023, non esisteva una norma primaria che disciplinasse le cripto. C’erano solo interpretazioni dell’Agenzia (non chiarissime e spesso contestate in dottrina). Si può sostenere che, per gli anni fino al 2022, il contribuente fosse in buona fede ritenendo di non dover dichiarare o tassare le cripto, data l’obiettiva incertezza (si veda la nozione di incertezza normativa oggettiva, art.6 co.2 D.Lgs.472/97). Ciò potrebbe portare all’annullamento o forte riduzione delle sanzioni. Per esempio, se uno non ha messo 1 BTC in RW nel 2020, potrebbe dire che la qualifica di “attività estera” per un bene immateriale decentralizzato non era affatto ovvia. Già alcune CTP hanno dato ragione ai contribuenti su aspetti simili.
  • Regolarizzazione agevolata già effettuata: La L.197/2022 offriva la possibilità di regolarizzare le cripto detenute sino al 2021 pagando una sanzione minima (3,5% del valore + 0,5% per ogni anno). Se il contribuente ha colto questa chance entro novembre 2023, allora dovrebbe essere al riparo da accertamenti su quelle posizioni. Quindi, se arriva un avviso per anni coperti dalla sanatoria già fatta, opporre che l’oggetto è già stato definito con l’adesione alla regolarizzazione (allegare ricevute F24 di pagamento). L’ufficio dovrebbe annullare l’atto per “cessata materia”.
  • Contestare la quantificazione delle plusvalenze: Se vengono tassate plusvalenze, verificare il calcolo. Le cripto hanno volatilità, la legge 2023 permette di scegliere la valutazione al 1/1/2023 come costo (con imposta sostitutiva 14%). Se l’Agenzia calcola una plusvalenza su vendite fatte in passato, vedere se effettivamente c’era guadagno rispetto al costo di acquisto. Spesso le persone avevano minusvalenze e non lo sanno. O potrebbero avere diritto a dedurre perdite pregresse. Tutte cose da esaminare con un commercialista. Se l’Agenzia semplifica (“hai venduto 2 BTC per 60k, tassiamo 60k”), magari non ha considerato che l’acquisto era costato 50k, per dire. Far valere i costi di acquisto documentati (transazioni, estratti exchange).
  • Applicabilità soglia €2.000: Dal 2023 c’è franchigia 2k per anno di plusvalenze. Se l’atto riguarda plusvalenze modeste, può darsi che rientrino sotto soglia (ma attenti: per anni pre-2023 la soglia vecchia era quell’assurdo criterio 51k in giacenza; dal 2023 è chiaro 2k gain). Difficile far applicare retroattivamente la soglia nuova, ma si può provare a sostenere un principio di capacità contributiva e chiedere equità: se ho guadagnato 1.500€, in base alle nuove norme non sarebbe imponibile, perché tassarmelo per il 2021? È un argomento equitativo, non legale strettamente, ma chissà.
  • Luogo di detenzione e competenza: Un aspetto peculiare: la legge 2023 dice che se le cripto sono detenute direttamente in un wallet privato, il reddito si considera prodotto in Italia se il detentore è residente in Italia (presunzione). Ciò per poter tassare pure i non residenti che hanno wallet sul telefono in Italia. Non incide molto sulla difesa se il contribuente è italiano (comunque tassano lui). Ma se un italiano dice “le mie cripto erano su un hardware wallet conservato in Irlanda”, può tentare di dire che il reddito non era prodotto in Italia, però tanto è worldwide, quindi irrilevante.
  • Trattamento fiscale incerto su specifiche operazioni: Alcune operazioni cripto (staking, lending, airdrop) hanno incertezze sul trattamento. Se l’accertamento include quelle, sottolineare la lacuna normativa e chiedere la non applicazione di sanzioni o la qualificazione più favorevole (es. un airdrop potrebbe essere considerato dono e non reddito).
  • Accertamento induttivo su uscite bancarie: Nota: l’Agenzia a volte accerta cripto non perché sa delle cripto, ma perché vede bonifici dal tuo conto verso Coinbase o simili. Allora ti contesta quei movimenti come investimenti esteri non dichiarati. In tal caso, difesa: spiegare che erano acquisti di cripto, fornire la storia delle cripto possedute, far vedere se vendute o ancora detenute. Potrebbe emergere che non c’è stata plusvalenza (se ancora detenute, nessun realizzo tassabile al tempo). Oppure se vendute, vedi sopra, calcolare il gain effettivo.

In generale, per le cripto il cavallo di battaglia è l’assenza di norme chiare fino al 2022, che offre spazio per attaccare le sanzioni e alcune pretese. Dal 2023 in avanti la musica cambia, quindi chi non dichiara più le cripto dal 2023 in poi avrà vita difficile in difesa (non potrà più dire “non lo sapevo” perché la legge ora è chiara).


Queste casistiche coprono le situazioni più comuni di redditi e patrimoni esteri in Irlanda. Ognuna presenta peculiarità, ma come abbiamo visto ci sono dei fili conduttori: la necessità di provare i fatti con documenti, la rilevanza della residenza fiscale, l’applicazione delle Convenzioni e normative internazionali, e l’attenzione alle evoluzioni legislative (come nel caso delle cripto).

Nel prossimo capitolo riepilogheremo alcune sentenze chiave degli ultimi anni riguardanti questi temi, che possono costituire precedenti utili per orientare la difesa.

Giurisprudenza rilevante in materia di estero e accertamenti (sentenze chiave)

In questa sezione presentiamo una panoramica di pronunce giurisprudenziali recenti e significative inerenti gli accertamenti fiscali su redditi esteri, residenza e monitoraggio fiscale, che abbiamo citato o cui abbiamo fatto riferimento. La loro conoscenza può aiutare a capire l’orientamento dei giudici e ad arricchire le memorie difensive con riferimenti autorevoli.

Di seguito, alcune delle sentenze più importanti:

  • Cass. Civ. Sez. V, 2 febbraio 2018 n. 2662: Ha stabilito che la presunzione legale (ex art. 12 DL 78/2009) secondo cui i capitali esteri non dichiarati sono redditi evasi non ha effetto retroattivo, e non può applicarsi ad annualità anteriori al 2009. Principio: i fatti anteriori all’entrata in vigore della norma presuntiva (jul 2009) non possono essere colpiti da quella presunzione di evasione.
  • Cass. Civ. Sez. V, 5 luglio 2021 n. 18894: Ha confermato l’orientamento rigorista sul raddoppio dei termini: il raddoppio dei termini di accertamento per attività in Paesi black list è norma procedurale e si applica anche retroattivamente. Ciò è stato molto discusso, definito in dottrina “poco garantista”, ma la Suprema Corte ha di fatto dato via libera ad accertare fino a 10 anni indietro se ci sono attività occultate nei paradisi fiscali.
  • Cass. Civ. Sez. V, 4 gennaio 2022 n. 10: Riguarda la presunzione di fruttuosità (art. 6 co.2 DL 167/90) delle somme detenute all’estero. La Cassazione ha stabilito che tale presunzione è iuris tantum, ed è valida anche per fondi di provenienza illecita. In pratica: non importa l’origine del capitale (lecita o illecita), si presume comunque che generi redditi imponibili salvo prova contraria del contribuente. Questa sentenza rafforza il potere presuntivo del Fisco.
  • Cass. Pen. Sez. VI, 19 maggio 2021 n. 19849: (Ordinanza) – Ha chiarito che l’omessa compilazione del quadro RW, pur obbligatoria, non integra di per sé il reato di dichiarazione infedele od omessa. Rileva penalmente solo se collegata a imposte evase sopra soglia. Quindi nessun automatico riciclaggio o altro reato discende dal solo quadro RW non compilato. Questo è utile a tranquillizzare sul fronte penale: se uno ha solo dimenticato RW ma le imposte erano irrilevanti, non c’è reato.
  • Cass. Civ. SS.UU., 16 marzo 2018 n. 6687: Riguarda esterovestizione delle persone fisiche. Le Sezioni Unite hanno affermato che “il trasferimento di residenza in un Paese black list sposta l’onere sul contribuente di provare l’effettività”, sancendo il principio che per i paradisi fiscali vige presunzione di residenza in Italia salvo prova contraria. Questa è la pietra miliare sull’art. 2 co.2-bis TUIR (prima che fosse abrogato nel 2019 per i nuovi trasferimenti). Resta valida per i casi ancora pendenti di cittadini portati formalmente in paradisi.
  • Cass. Civ. Sez. V, 18 luglio 2019 n. 19410: Sentenza cruciale in tema di trust estero. Ha confermato che i redditi di un trust opaco non vanno imputati ai beneficiari fino a effettiva distribuzione e che le somme distribuite a un beneficiario residente da un trust opaco estero costituiscono reddito di capitale imponibile per il beneficiario, salvo prova che si tratti di restituzione di capitale. Principio allineato ad altre pronunce coeve (Cass. 21614/2021, Cass. 25731/2022 etc.). Quindi: trust opaco = tassazione differita solo al momento in cui il beneficiario incassa.
  • Cass. Civ. Sez. V, 30 ottobre 2018 n. 27432: Caso Lista Falciani (conti svizzeri HSBC). Ha ribadito l’utilizzabilità in giudizio dei dati bancari acquisiti da autorità estera anche se di origine illecita. La provenienza illecita è irrilevante finché l’Amministrazione italiana non vi ha partecipato; se i dati sono stati ottenuti tramite cooperazione ufficiale (come via Francia), sono prove valide. Questo è stato ripreso anche in Cass. Pen. 8605/2015. Dà legittimità, ad esempio, alle liste estere (Falciani, Panama Papers, Dubai leaks, ecc.) nell’accertamento.
  • CTP Milano, 21 giugno 2019 n. 2209: Sentenza di merito ma interessante. In un caso di voluntary disclosure tardiva, la Commissione ha riconosciuto la non punibilità per obiettiva incertezza normativa al contribuente che non aveva dichiarato attività estere confidando, in buona fede, di non doverlo fare in base a vecchie circolari. Questo orientamento – sebbene non vincolante – è stato citato come utile in difese analoghe soprattutto per trust e situazioni grigie pre-2021. Dimostra un approccio equitativo: se il contribuente prova di essersi basato su prassi poi cambiate, niente sanzioni.
  • Cass. Pen. Sez. II, 27 aprile 2015 n. 8605 (gemella 8606): Vicenda penale sulla Lista Falciani. La Corte ha confermato che anche nel penale i dati bancari esteri rubati sono utilizzabili a fini fiscali se giunti legalmente alle autorità italiane. Ribadisce il favor per il “diritto alla prova” del Fisco, che supera considerazioni sulla provenienza dei dati.
  • Cass. Civ. Sez. V, 12 ottobre 2016 n. 20599: Caso trust. Ha affermato che per i beneficiari di trust opaco non residente, i redditi del trust non sono imputabili pro-quota; la tassazione avverrà solo al percepimento. (Questa in pratica anticipa Cass. 19410/19).
  • Cass. Civ. Sez. V, 4 giugno 2019 n. 15176: Su CFC e black list: ha confermato che l’onere di provare le esimenti CFC spetta al contribuente e in generale ha adottato un approccio rigoroso su strutture nei paradisi (richiedendo prova forte del substance).
  • Cass. SS.UU. 25 febbraio 2021 n. 5292: In tema di reati tributari, ha stabilito che il raddoppio dei termini è applicabile retroattivamente se entro i termini ordinari interviene la causa penale. Consolida la visione procedurale e non sanzionatoria del raddoppio per reato.
  • Cass. SS.UU. 24823/2015: Sul contraddittorio endoprocedimentale: ha sancito che l’obbligo di contraddittorio prima dell’accertamento vale solo per i tributi armonizzati (IVA) in via generale, e non per le imposte dirette salvo specifiche previsioni. Questo è il faro sulla questione “mancato invito a comparire = nullità?” che spesso i ricorrenti sollevano: con le SS.UU. 2015, in materia di redditi, se la legge non lo prevedeva, l’atto non è nullo per mancato contraddittorio (salvo normative regionali speciali). Utile quindi sapere di non fare affidamento eccessivo su questa eccezione, a meno di stare in ambito IVA.
  • Corte di Giustizia UE, causa C-276/12 (Sabou, 2013): Ha stabilito che il contribuente non ha diritto a partecipare al procedimento di scambio di informazioni tra Stati. Quindi non può lamentare violazione del contraddittorio a livello istruttorio internazionale. Questo blocca alcune eccezioni difensive fantasiose (es. “non mi hanno interpellato mentre chiedevano info all’Irlanda”).
  • Corte EDU, Grande Stevens c. Italia (2014): Casi su ne bis in idem tra sanzioni Consob e penali, con implicazioni anche su doppio binario fiscale/penale. Ha affermato che sanzioni amministrative e penali per gli stessi fatti devono avere cautele per non violare il bis in idem. In ambito fiscale italiano, ciò ha portato all’introduzione di alcune norme, ma è ancora terreno delicato (p.es. problema se uno paga sanzione e poi viene condannato penale per stesso omesso versamento – i due procedimenti devono coordinarsi).

Queste sentenze (riassunte anche nella Tabella 4 seguente) offrono principi utili: in difesa si possono citare ad substantiam per rafforzare le tesi (specialmente quelle su trust, residenza, lista Falciani, ecc.), tenendo presente che in giudizio conta la corretta applicazione al caso concreto.

Tabella 4: Principali sentenze e principi relativi

PronunciaPrincipio rilevante
Cass. civ. Sez. V n. 2662/2018Presunzione capitali esteri evasione non retroattiva per annualità pre-2009.
Cass. civ. Sez. V n. 18894/2021Raddoppio termini black list è procedurale, applicabile retroattivamente (accertabile fino a 10 anni).
Cass. civ. Sez. V n. 10/2022Presunzione fruttuosità 5% su attività estere valida anche per capitali illeciti, ma iuris tantum (rebuttable).
Cass. pen. Sez. VI n. 19849/2021Omissione RW da sola non costituisce reato (solo sanzione amm.va), rileva penalmente solo se imposte evase > soglia.
Cass. SS.UU. n. 6687/2018Trasferimento in Paese black list -> presunzione di residenza in Italia, onere prova contraria al contribuente.
Cass. civ. Sez. V n. 19410/2019Trust opaco estero: redditi non imputati ai beneficiari sino a distribuzione; somme distribuite = redditi di capitale tassabili (salvo rest. capitale).
Cass. civ. Sez. V n. 27432/2018Liste estere (Falciani): dati bancari esteri ottenuti via autorità fiscale estera ammissibili come prova, anche se originati illecitamente.
CTP Milano n. 2209/2019Riconosciuta obiettiva incertezza normativa su obblighi esteri -> contribuente non sanzionabile (caso trust pre-2021).
Cass. pen. Sez. II n. 8605/2015Conferma utilizzabilità lista Falciani anche in sede penale; ne bis in idem non violato se vie separate.
Cass. civ. Sez. V n. 20599/2016Beneficiari trust opaco estero: tassazione solo al percepimento; trust non interposto = redditi non imputabili pro-quota (precedente a 2019).
Cass. civ. Sez. V n. 15176/2019CFC: rigore su società black list; onere contribuente provare esimenti (effettiva attività locale, etc.).
Cass. SS.UU. n. 5292/2021Raddoppio termini per reato è procedurale, retroattivo se il reato scatta entro termini ordinari (legittimo allungare).
Cass. SS.UU. n. 24823/2015Contraddittorio: obbligatorio generalizzato solo per IVA; per imposte redditi non è causa di nullità se non fatto (salvo specifiche).
CGUE causa C-276/12 (Sabou)Nessun diritto del contribuente ad essere sentito durante lo scambio di informazioni fra Stati.
Corte EDU Grande Stevens 2014Principio di ne bis in idem su sanzioni punitive: attenzione a doppio binario fisco/penale (rileva per multe e penale cumulate).

Nota: La giurisprudenza in materia di fiscalità internazionale è vasta e in evoluzione. Le sentenze sopra sono utili linee guida, ma ogni caso va calato nei propri fatti. È sempre opportuno nel predisporre un ricorso ricercare pronunce più recenti specifiche sul tema oggetto di causa (es. residenza fiscale, trust, credit tax estero, ecc.). Ciò detto, i principi elencati rappresentano ad oggi (2025) lo stato dell’arte su molti aspetti cardine.

Domande frequenti (FAQ)

Di seguito, una sezione domande e risposte sintetiche per chiarire dubbi comuni dal punto di vista pratico:

D1: Ho ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate che mi tassa redditi irlandesi, ma io nel periodo lavoravo e vivevo in Irlanda. Devo pagare le tasse in Italia?
R1: Dipende dalla residenza fiscale in quel periodo. Se eri ancora residente fiscale in Italia (ad es. non iscritto AIRE e con legami rimasti in Italia), l’Italia può tassare anche i redditi esteri, salvo darti un credito per le imposte pagate in Irlanda. Dovrai quindi dichiararli e probabilmente pagare una differenza (se l’IRPEF italiana supera la tassazione irlandese). Se invece eri effettivamente residente in Irlanda (trasferimento stabile, iscritto AIRE, centro interessi all’estero), allora grazie alla Convenzione contro le doppie imposizioni quei redditi dovrebbero essere tassati solo in Irlanda. In tal caso, puoi contestare l’accertamento italiano provando che eri residente all’estero (esibendo certificato di residenza fiscale irlandese, contratto di affitto, ecc.). In sintesi: se eri fiscalmente italiano, sì devi pagare (con credito d’imposta); se eri davvero fiscalmente irlandese, no – l’avviso è errato e va impugnato con prova della tua residenza estera.

D2: L’Agenzia mi contesta un conto corrente in Irlanda non dichiarato. Quali sanzioni rischio e come difendermi?
R2: Per il solo conto estero non dichiarato, la sanzione amministrativa è dal 3% al 15% del valore del conto (saldo o picco). Se l’Irlanda fosse considerata paradiso fiscale (non lo è), sarebbe 6-30%. Inoltre, se su quel conto hai percepito interessi non dichiarati, dovrai pagare l’imposta su quegli interessi (26%) più sanzione dal 90% al 180% su tale imposta. La difesa consiste nel: (a) dichiarare e regolarizzare spontaneamente il conto se possibile (ravvedimento) così da ridurre sanzioni; (b) spiegare l’origine dei fondi su quel conto, per evitare presunzioni di evasione sul capitale (es. dimostrare che erano risparmi già tassati trasferiti all’estero); (c) eventualmente negoziare in adesione la riduzione delle sanzioni al minimo. Se il conto aveva depositi modestissimi, si può invocare la buona fede per provare a farsi ridurre ulteriormente la multa. Importante: dichiarare anche l’IVAFE (imposta sul valore del conto, 0,2% annuo) eventualmente dovuta dal 2022 in poi.

D3: Ho delle criptovalute su un exchange estero (es. Coinbase). Non sapevo andassero dichiarate. Ora cosa può succedermi?
R3: Fino al periodo d’imposta 2022, c’era incertezza, ma l’Agenzia considerava le cripto come attività estere da dichiarare in RW. Dal 2023, la legge lo impone espressamente e tassa le eventuali plusvalenze al 26%. Se non hai mai dichiarato nulla e l’Agenzia lo scopre (magari vedendo movimenti bancari verso/da exchange), può sanzionarti per omesso monitoraggio (3-15% del valore medio delle cripto) e chiedere le imposte su eventuali guadagni da vendita di cripto (26%). Tuttavia, puoi difenderti invocando l’obiettiva incertezza normativa perlomeno per gli anni pre-2023, cercando di farti annullare o ridurre le sanzioni. Inoltre, la legge 197/2022 ha previsto una sanatoria: pagando il 3,5% del valore al 01/01/2023 più un piccolo forfait, si poteva regolarizzare entro Nov 2023. Se lo hai fatto, sei coperto. Altrimenti, valuta di farlo se riapriranno i termini. In ogni caso, da ora in poi dichiara sempre le cripto (quadro RW) e tieni traccia di ogni costo di acquisto per eventualmente calcolare correttamente le plusvalenze da tassare sopra €2.000 di realizzo annuo (soglia esente).

D4: Sono beneficiario di un trust estero istituito da un familiare. L’Agenzia mi chiede di pagare tasse sui redditi del trust e mi multa perché non l’ho indicato in RW. È corretto?
R4: Dipende dalla natura del trust. Se è un trust discrezionale opaco (il trustee decide se e quando distribuire, e tu beneficiario non hai diritto esigibile fino a decisione), allora finché non ricevi distribuzioni non devi pagare imposte sui redditi interni del trust. Li pagherà il trust (se ha obblighi esteri) o andranno non tassati in Italia se trust non residente. Quando riceverai una distribuzione, quella sarà tassata come reddito di capitale (26%) a meno che tu provi che erano capitale originario. Quanto al quadro RW, la legge obbliga a dichiarare solo se sei titolare effettivo di beni esteri. In un trust discrezionale, il beneficiario potenziale non è titolare effettivo finché il trustee non decide, quindi in teoria non c’era obbligo di RW (confermato da varie interpretazioni e da prassi fino al 2021). Se l’Agenzia insiste, puoi contestare l’obbligo per quegli anni, invocando anche l’incertezza normativa che c’era. Diverso se il trust è trasparente (redditi imputati a beneficiari anno per anno) o interposto (fittizio): in tal caso il Fisco considera te come se avessi ancora quei beni, quindi sì, li avresti dovuti dichiarare. In difesa, se il trust era genuino, spiega bene la struttura, mostra l’atto istitutivo e sottolinea la tua mancanza di poteri. Spesso l’Agenzia presume interposizione troppo facilmente: se riesci a convincerli che non è così, dovresti evitare la tassazione sui redditi non distribuiti e magari anche le sanzioni RW (per obiettiva incertezza se non altro).

D5: Quali termini di decadenza ha l’Agenzia per accertare redditi esteri non dichiarati? Possono chiedermi qualcosa di 8-10 anni fa?
R5: In generale, per imposte sui redditi, l’accertamento va notificato entro il 5° anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ad es. redditi 2020 → fine 2026). Se la dichiarazione fu omessa, entro il 7° anno. In passato (fino al 2015) esisteva il raddoppio automatico a 10 anni per attività estere non dichiarate in Paesi black list. Quindi per annualità fino al 2016 può ancora capitare un accertamento dopo 8-9 anni se riguardava, poniamo, investimenti non dichiarati a Panama o simili. Dal 2017 in poi, essendo sparita la distinzione black list ai fini monitoraggio, il raddoppio non si applica più specificamente ai casi esteri. Resta però il raddoppio penale: se per quell’anno c’è un procedimento penale per reati fiscali avviato entro i termini normali, gli accertamenti si possono fare fino a raddoppio (es. soglia penale superata → 8 o 10 anni in totale, a seconda dei casi). Quindi, in pratica: per gli anni recenti (2017+) massimo 5 o 7 anni; per anni 2016 o precedenti, potenzialmente fino a 10 anni (se paradisi fiscali). Ad esempio, redditi 2015 non dichiarati alle Cayman potevano essere accertati fino al 2026. Verifica sempre la data di notifica dell’avviso e l’anno di riferimento: se hanno sforato i termini, la decadenza è eccepibile e fa annullare l’atto.

D6: È vero che se l’Agenzia mi manda una lettera per conti esteri, conviene rispondere subito e fare la voluntary disclosure?
R6: Assolutamente sì. Prima dell’avviso formale spesso l’Agenzia invia una lettera di compliance (comunicazione bonaria) elencando le attività estere risultanti e invitando a spiegare o sanare. In tal caso hai la possibilità di presentare una dichiarazione integrativa spontanea (una sorta di autodenuncia) e pagare il dovuto con sanzioni molto ridotte (ravvedimento). Questa è una sorta di mini voluntary disclosure. Se lo fai nei 90 giorni concessi, eviti l’emissione dell’avviso vero e proprio con sanzioni piene e possibili guai peggiori. Ignorare la lettera, invece, quasi certamente porterà a un accertamento con sanzioni al 100% del minimo (o oltre). Quindi, il consiglio è: se ricevi una segnalazione di redditi/conti esteri non dichiarati, rivolgiti subito a un fiscalista e correggi la situazione spontaneamente. Nella gran parte dei casi, l’Agenzia chiude la posizione senza procedere ulteriormente se c’è collaborazione e pagamento del dovuto. Tieni presente che non c’è più (dal 2017) una “voluntary disclosure” formale, ma puoi usare il ravvedimento operoso; e la Finanziaria 2023 ha introdotto specifiche procedure per cripto e investimenti esteri che scadevano a fine 2023 – verifica se ne puoi usufruire.

D7: Posso rateizzare le somme dovute dopo un accertamento?
R7: Sì, ci sono varie possibilità di rateazione:

  • In sede di accertamento con adesione, le somme concordate possono essere rateizzate fino a 8 rate trimestrali (se debito < €50.000) o 16 rate se debito più alto. La prima rata va versata entro 20 giorni dalla firma dell’accordo.
  • In caso di acquiescenza (pagamento con sanzioni 1/3), purtroppo non è ammessa rateazione – va pagato in un’unica soluzione entro 60 gg.
  • Se fai ricorso e perdi in primo grado, puoi chiedere al giudice eventualmente di sospendere in appello. Normalmente, dopo la sentenza di CTP sfavorevole, devi pagare metà delle imposte (l’altra metà resta sospesa fino all’appello). Dopo l’appello, se ancora perdi, devi pagare tutto (anche se vai in Cassazione) salvo ottenere eventualmente una sospensiva per Cassazione ma è raro. A quel punto puoi rateizzare tramite Agenzia Entrate-Riscossione le somme iscritte a ruolo (il classico piano rate cartella, di solito fino a 72 rate mensili o 120 in casi particolari).
  • Definizioni agevolate: se aderisci a una rottamazione cartelle o definizione liti, le norme relative prevedono di solito il pagamento dilazionato in un certo numero di rate. Devi leggere la legge di riferimento.

In breve, la strada migliore per rateizzare è l’adesione. Se invece l’atto è già definitivo e vai a ruolo, tratterai con Agenzia Riscossione come per ogni cartella.

D8: Dopo aver presentato ricorso, posso ancora trovare un accordo col Fisco?
R8: Sì, esiste la possibilità della conciliazione giudiziale. Può avvenire in primo grado (conciliazione davanti alla Commissione, con sanzioni ridotte a 1/3) o in appello (sanzioni 1/2). Se le parti trovano un accordo su un importo, lo sottopongono al giudice che lo omologa. Anche in conciliazione è di solito ammessa la rateazione in 8 o 16 rate come per l’adesione. Quindi, se dopo il ricorso emergono elementi nuovi o semplicemente vuoi chiudere, puoi sempre proporre una conciliazione: l’Agenzia spesso accetta soprattutto se il contribuente rinuncia a parte delle pretese e paga le imposte principali. Ad esempio, potresti conciliare pagando le imposte su quel conto estero ma con sanzioni molto ribassate. La conciliazione può essere fatta fino all’udienza (anche il giorno stesso). Dopo, se esce sentenza, si può definire la lite eventualmente con strumenti straordinari (tipo definizione liti pendenti, se prevista da legge di bilancio).

Queste FAQ coprono alcune delle incertezze pratiche più comuni. Ovviamente ogni caso concreto ha le sue peculiarità, per cui le risposte fornite vanno adattate ai singoli fatti con l’aiuto di un professionista.

Tabelle riepilogative

Per completare la guida, presentiamo alcune tabelle riepilogative utili, che sintetizzano informazioni chiave in forma schematica:

Tabella 5: Termini di accertamento e scadenze difensive

Tipo di annualità/faseTermine
Ordinario accertamento imposte dirette (dichiarazione presentata)5 anni dall’anno di presentazione della dichiarazione (es: dichiarazione redditi 2020 presentata nel 2021 → accertabile fino al 31/12/2026).
Dichiarazione omessa7 anni dal periodo d’imposta (es: redditi 2020 non dichiarati → accertabile fino al 31/12/2027). (Termini estesi rispetto al caso di dichiarazione presentata).
Raddoppio termini per attività estere occultate (annualità fino al 2016)+5 anni (raddoppio) se investimenti/attività in Paesi black list non dichiarati. Esempio: redditi 2015 (dich. omessa 2016) → ordinario 2022, raddoppiato 2028. Nota: applicabile solo per anni in cui vigeva distinzione black list. Dal 2017 non più in uso, salvo raddoppio per reato.
Notifica avviso dopo PVC (Processo Verbale GdF)Deve attendere 60 giorni dalla consegna del PVC al contribuente (art. 12 c.7 Statuto) salvo casi di particolare urgenza motivata. L’avviso notificato prima dei 60 gg senza urgenza è nullo.
Invito al contraddittorio (per imposte dirette)Non obbligatorio in generale (solo per IVA e alcuni casi specifici). Se effettuato, l’Ufficio di norma attende almeno 15 giorni dalla notifica dell’invito per emettere l’accertamento.
Difesa – ricorso in CommissioneEntro 60 giorni dalla notifica dell’avviso (termine per impugnare). Presentazione di istanza di adesione entro tale termine sospende il ricorso per 90 giorni.
Accertamento con adesione (istanza)Entro 30 giorni dalla notifica dell’avviso, presentando istanza di adesione. Sospende termini ricorso di 90 gg. Convocazione del contribuente per contraddittorio. Se accordo, firma e pagamento entro 20 gg. Se mancato accordo, ricorso entro 60 gg dalla chiusura della procedura.
Pagamento con acquiescenza (rinuncia al ricorso)Entro 60 giorni dalla notifica dell’atto, pagando imposte + interessi + sanzioni ridotte a 1/3. Preclusa se presentata istanza adesione o in presenza di lite pendente sul merito. Comporta rinuncia all’impugnazione.
Sospensione giudizialeIn pendenza di ricorso, è possibile chiedere al giudice tributario la sospensione dell’atto per “gravi e fondati motivi”. Se concessa, blocca la riscossione fino alla sentenza.
Rateizzazione importi accertamentoIn adesione/conciliazione: fino a 8 rate trimestrali (<€50k) o 16 rate (≥€50k). In acquiescenza: no rate, unico pagamento. Dopo sentenza: possibile rateizzare con AdER secondo piani ordinari (fino 72 rate).
Appello (2° grado)Entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado (se non conciliate). Dal 2023, valore > €3.000 richiede assistenza difensore tecnico.
Ricorso per CassazioneEntro 60 giorni dalla notifica della sentenza di appello. Solo per motivi di diritto. Necessario avvocato cassazionista abilitato.

Tabella 6: Sanzioni e profili penali per violazioni su estero

ViolazioneSanzione Amministrativa (D.Lgs. 471/97)Rilevanza Penale (D.Lgs. 74/2000)
Omessa dichiarazione di investimenti esteri (Quadro RW)3% – 15% del valore non dichiarato (per ogni anno). Se attività in Paese black list: 6% – 30%.Nessuna fattispecie di reato specifica. Non configura reato tributario di per sé. (Può rilevare come indizio, ma penalmente punibile solo se si collega a un’imposta evasa > soglia in una dichiarazione infedele/omessa).
Omessa o infedele dichiarazione di redditi esteri (mancata indicazione di redditi imponibili prodotti all’estero)Infedele: 90% – 180% dell’imposta evasa relativa ai redditi esteri non dichiarati. Omessa dichiarazione (dich. mancante): 120% – 240% dell’imposta dovuta (min €250).Dichiarazione infedele (art.4) se imposta evasa > €50.000 e omissione > 10% del reddito o > €2 mln base imponibile. Pena 2–4.5 anni. Omessa dichiarazione (art.5) se imposta evasa > €50.000. Pena 2–5 anni. Quadro RW escluso espressamente dal calcolo ai fini penali.
Mancato versamento IVAFE/IVIE (imposte patrimoniali su attività estere)30% dell’imposta non versata (come omesso versamento). Ravvedibile con riduzioni standard.Omesso versamento (art.10-bis) rileva solo per IVA e ritenute. IVAFE/IVIE non sono penali. Nessun reato specifico (sanzione solo amm.va).
Emersione di attività estere da redditi non dichiarati (es. capitali occultati)(Si applicano sanzioni su redditi evasi: 90-180%). Inoltre, possibile confisca equivalente in caso di condanna penale per evasione.Se c’è reato di infedele/omessa dichiarazione (vedi sopra), confisca obbligatoria delle somme costituenti il profitto del reato (capitali esteri non dichiarati). Se somme di provenienza illecita, possibili reati di riciclaggio/autoriciclaggio, ma solo se distinta condotta di reimpiego.
Violazioni formali (es. mancata compilazione quadro RW ma senza imposte evase)3% – 15% del valore (o €258 se importo non quantificabile).Nessun reato.

Nota: Le soglie penali indicate (50.000 € imposta) sono quelle attuali. In passato la soglia per dichiarazione infedele era 30.000 €, poi 50.000, poi 100.000 e di nuovo 50.000 (è stata modificata più volte). Occorre applicare la soglia vigente nell’anno del fatto, tenendo conto delle disposizioni più favorevoli eventualmente. In ogni caso, quadro RW non incide sul penale a meno che l’occultamento di attività non sia parte di un più ampio disegno criminoso (es. se nascondo soldi all’estero e non dichiaro volutamente i relativi redditi oltre soglia, il penale scatta per l’evasione non per il RW).

Tabella 7: Riepilogo trattamenti fiscali di alcuni redditi esteri (persone fisiche residenti)

Categoria di reddito esteroTassazione in ItaliaNote/Convenzione
Stipendi (lavoro dipendente)Tassati ad IRPEF ordinaria (aliquote progressive) sul netto dopo contributi obbligatori. Possibile art.51 co.8-bis TUIR (retribuzione convenzionale) se lavoro >183gg all’estero.Convenzione: art. 14 modello OCSE – esclusiva tassazione nello Stato di lavoro se >183 gg e datore locale. Se pagate imposte all’estero, spettante credito.
Compensi lavoro autonomoTassati IRPEF ordinaria (come se prodotti in Italia).Convenzione: art. 13 – di regola tassazione esclusiva Stato di residenza, salvo base fissa nell’altro Stato. Dunque l’Italia tassa comunque se residente, con credito se l’altro Stato ha trattenuto imposte.
Dividendi esteri (da partecipazioni non qualificate, post 2018)Imposta sostitutiva 26% sul netto percepito.Convenzione: di solito ritenuta fonte max 15%. Credito d’imposta per ritenute subite, fino concorrenza 26%. Se partecipazione qualificata ante 2018: tassazione parziale in dichiarazione (al 58,14% nel 2018).
Interessi esteri (conto estero, titoli)Imposta sostitutiva 26%.Se su conto corrente estero, tecnicamente sarebbero redditi di capitale tassati al 26% in dichiarazione (quadro RM). Interessi da titoli: 26%. Credito se trattenuta estera (es. titoli governativi al 12,5% se white list).
Royalties estereIRPEF ordinaria (come reddito di lavoro autonomo o d’impresa).Convenzione: art. 12 – spesso esenzione o ritenuta limitata nello Stato fonte (es. 0-5%). Credito per imposte estere.
Plusvalenze finanziarie (capital gain)26% (regime capital gain). Se su partecipazioni qualificate ante 2019: 26% dal 2019, prima parziale imponibilità al 24-26%.Se vendita di partecipazioni estere: convenzione prevede tassazione solo Stato residenza venditore tranne immobiliari. Quindi Italia tassa. Credito se l’altro Stato ha prelevato (non comune su capital gain di azioni).
Immobili esteri (affitti)Reddito fondiario estero: tassato IRPEF, con credito imposte patrimoniali/immobiliari estere fino imposta italiana. Plusvalenze immobiliari tassate se realizzate entro 5 anni dall’acquisto (aliquota marginale).Convenzione: di regola immobili tassabili in Stato dove sito (Irlanda) con facoltà tassazione anche Stato residenza (Italia) con credito. L’Italia di fatto li tassa in dichiarazione (quadro RL). No IVIE se già paga imposta locale >=0,76%.
Criptovalute (dal 2023)Plusvalenze > €2.000 annui tassate 26% come redditi diversi. Detenzione soggetta a IVAFE 0,2% (o imposta bollo). Obbligo RW.Prima 2023 incertezza: AdE le assimilava a valute estere, tassando plusvalenze se giacenza > €51k. Convenzioni non contemplate (crypto non Stato). Dal 2026 DAC8 scambio info su crypto.

(Legenda: IRPEF = imposta sul reddito persone fisiche; IVAFE = imposta su valore attività finanziarie estere; IVIE = imposta su valore immobili esteri.)

Le tabelle sopra servono a orientarsi rapidamente sui punti cruciali: tempi, sanzioni, trattamenti fiscali. Ovviamente andrebbero lette insieme al testo esplicativo della guida per maggior chiarezza.

Conclusione

Affrontare un accertamento fiscale legato a conti o redditi esteri (nel nostro caso, in Irlanda) può sembrare un compito arduo e stressante, ma una difesa ben preparata può fare la differenza tra subire passivamente un esborso elevato e riuscire a ridurre o annullare le pretese indebite del Fisco.

Questa guida ha sottolineato alcuni punti cardine da tenere a mente:

  • Conoscere le regole (e i propri errori): Spesso le contestazioni nascono dalla mancata consapevolezza di obblighi (es. il quadro RW, il principio della tassazione mondiale dei residenti) o dall’affidamento su informazioni errate. È fondamentale informarsi e, se necessario, correggere spontaneamente posizioni non regolari prima che lo faccia l’Agenzia. Oggi gli incroci informativi sono capillari: assumere di poter tenere nascosto un reddito estero è una scommessa quasi sempre persa nel lungo periodo.
  • Tempestività e strategia difensiva: Appena notificato un avviso, non perdere tempo. I termini scorrono veloci (60 giorni per ricorrere o aderire). Bisogna subito raccogliere documenti, consultare esperti e decidere la strada (adesione, ricorso, ecc.) più opportuna. Abbiamo visto che l’ordinamento offre strumenti deflattivi (adesione, conciliazione) che possono ridurre sanzioni e contenzioso. Utilizzarli spesso conviene, soprattutto se l’errore c’è stato. Allo stesso modo, se si possiedono valide ragioni, non esitare a impugnare: le Commissioni Tributarie, specie su materie internazionali, hanno mostrato apertura quando il contribuente riesce a dimostrare la propria buona fede o la correttezza sostanziale del proprio operato.
  • Onestà e trasparenza: Dal punto di vista del debitore-contribuente, mentire al Fisco dopo essere stati scoperti è peggiorativo. Meglio adottare un atteggiamento collaborativo, presentando la propria ricostruzione con sincerità e completezza. Ciò non significa cedere su tutto: significa però non aggravare la posizione con ulteriori occultamenti. Spesso, mostrando un minimo di trasparenza (ad esempio rispondendo a un questionario con documentazione completa), si può evitare l’accertamento o trovare un punto d’incontro.
  • Prova, prova, prova: Il denominatore comune di quasi tutte le difese efficaci è la disponibilità di prove documentali solide. Che si tratti di bollette, contratti di affitto, estratti conto, bilanci esteri, atti di trust, certificati di residenza, ogni pezzo di carta può rivelarsi decisivo per convincere l’Ufficio o il giudice. In mancanza, il contribuente affida tutto alla propria parola contro le presunzioni di legge – scenario che raramente gli arride. Dunque, investire tempo nel reperire e organizzare le evidenze è vitale.
  • Norme in evoluzione: Tenersi aggiornati sulle novità normative è essenziale. Come abbiamo visto, dal 2024 cambiano i criteri di residenza fiscale; dal 2023 c’è una nuova tassazione delle cripto; le soglie penali oscillano. Un comportamento lecito o scusabile ieri potrebbe non esserlo oggi (e viceversa). La guida ha cercato di offrire un panorama aggiornato a luglio 2025, ma il diritto tributario internazionale è in continuo movimento. Ciò implica che, per chi ha attività e interessi su più paesi, è prudente farsi seguire da un consulente esperto che monitori la situazione.
  • Prospettiva del debitore: Infine, ricordiamo che il debitore fiscale (cioè il contribuente chiamato a pagare) ha sì doveri, ma anche diritti. Ha diritto a un trattamento equo, a far valere le sue ragioni, a non essere sanzionato due volte per lo stesso fatto, a vedersi riconosciute le attenuanti. E soprattutto ha diritto a una difesa tecnica adeguata. Rivolgersi a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti specializzati) non è un costo ma un investimento, quando in gioco ci sono cifre importanti o questioni complesse. Dal punto di vista emotivo, subire un accertamento per redditi esteri può generare ansia e senso di persecuzione; ma con l’aiuto giusto ci si può rendere conto che in molti casi si tratta di situazioni risolvibili, talora frutto di equivoci o di formalismi che possono essere sanati.

In conclusione, un avviso di accertamento relativo a conti o redditi detenuti in Irlanda (o in qualsiasi altro paese) va affrontato con calma, preparazione e decisione. Non bisogna né sottovalutarlo (pensando che ignorandolo scompaia, anzi diventerà definitivo e peggiore) né sovrastimarlo come una sentenza irreversibile. È un atto impugnabile e spesso trattabile. Questa guida ha fornito gli strumenti concettuali e pratici per comprendere il quadro normativo e predisporre una difesa robusta. Ogni caso concreto avrà le sue specificità, ma la logica rimane: analizzare i fatti, applicare le norme corrette, far valere la giurisprudenza favorevole e raccontare la propria storia al Fisco (o al giudice) in modo chiaro e documentato. Così facendo, anche situazioni inizialmente sfavorevoli possono risolversi con esiti gestibili, proteggendo il patrimonio e i diritti del contribuente.

Dal contributore: Avv. Giuseppe Monardo, esperto in diritto tributario internazionale, con esperienza nella difesa di contribuenti con attività estere – “non date mai per scontato che ciò che sostiene l’Ufficio sia legge divina: con le giuste argomentazioni, si possono far valere le proprie ragioni anche di fronte al Leviatano fiscale”.


Fonti

(Elenco delle fonti normative, giurisprudenziali e di prassi citate o consultate per la guida, con riferimenti per l’approfondimento.)

Normativa italiana e internazionale:

  • D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (TUIR), artt. 2 (residenza fiscale), 3 (worldwide income), 51 c.8-bis (lavoratori all’estero >183gg), 67 e 68 (redditi diversi – plusvalenze), 73 (residenza società), 167 (CFC) – Testo unico imposte sui redditi.
  • D.L. 28 giugno 1990 n. 167, conv. L. 4 agosto 1990 n. 227 – Monitoraggio fiscale attività estere (Quadro RW), presunzioni e sanzioni.
  • D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 471, artt. 5 co.2 (sanzioni quadro RW: 3-15%, 6-30%), art. 1 (sanzione dichiarazione infedele 90-180% imposta evasa).
  • D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, art. 6 co.2 – Non punibilità per obiettiva incertezza normativa; art. 13 – Ravvedimento operoso.
  • D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, artt. 4 (dichiarazione infedele: soglia €50.000) e 5 (omessa dichiarazione: soglia €50.000).
  • L. 9 ottobre 1974 n. 583 – Ratifica Convenzione Italia-Irlanda contro doppie imposizioni (Dublino 1971); Convenzione in vigore dal 1975 (in particolare art. 4 residenza, art. 14 lavoro dipendente, art. 9 dividendi, art. 25 scambio info).
  • Direttiva 2011/16/UE (DAC1) e s.m.i. – Cooperazione amministrativa fiscale tra Stati UE.
  • Direttiva 2014/107/UE (DAC2) – Recepisce CRS in UE.
  • Common Reporting Standard (OCSE, 2014) – Standard globale scambio automatico informazioni finanziarie. Implementato in Italia con L. 18 giugno 2015 n. 95 e DM MEF 28.12.2015.
  • Accordo FATCA USA-Italia (2014), Legge 95/2015 – Scambio automatico conti finanziari con USA.
  • D.L. 1 luglio 2009 n. 78, art. 12, commi 2 e 2-bis, conv. L. 102/2009 – Presunzione evasione capitali black list; raddoppio termini accertamento estero.
  • D.Lgs. 147/2015 (“Decreto Internazionalizzazione”) – ha abrogato art. 2 c.2-bis TUIR per trasferimenti post 2015, introdotto nuovi criteri residenza imprese (ora modificati da D.Lgs. 209/2023).
  • D.Lgs. 29 dicembre 2023 n. 209, art. 1 – Nuovi criteri residenza fiscale persone fisiche dal 2024 (presunzione anagrafica diventa relativa, definizioni domicilio/residenza); art. 2 – Nuovi criteri residenza società dal 2024 (eliminato “oggetto principale”, introdotto “gestione operativa prevalente”).
  • L. 29 dicembre 2022 n. 197 (Legge Bilancio 2023), commi 126-137 – Disciplina fiscale delle cripto-attività: definizione di cripto-attività, aliquota 26% plusvalenze >€2.000, IVAFE su crypto, rideterminazione costi a 14%, regolarizzazione cripto pregresse (3,5% +0,5%).
  • Provv. Agenzia Entrate 5 agosto 2019 – Fac-simile lettere compliance attività estere (esplicita finalità di stimolare regolarizzazione spontanea).
  • Circolare Agenzia Entrate 38/E del 23 dicembre 2013 – Monitoraggio fiscale: chiarisce eliminazione soglia €10k, presunzione fruttuosità iuris tantum.
  • Circolare Agenzia Entrate 10/E del 13 marzo 2015 – Voluntary Disclosure: istruzioni su emersione attività estere, trust, ecc..
  • Circolare Agenzia Entrate 34/E del 20 ottobre 2022 – Chiarimenti fiscalità diretta e indiretta trust alla luce giurisprudenza (consolidamento prassi su trust opachi/trasparenti).
  • Circolare Agenzia Entrate 20/E del 4 luglio 2024 – Commento riforma residenza fiscale persone fisiche dal 2024 (menzionata in guida).
  • Comunicati stampa MEF/Agenzia su DAC7 (piattaforme digitali, dal 2023) e aggiornamenti CRS (liste Stati aderenti aggiornate DM 28/04/2025).
  • Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR) e Dlgs 196/2003 coord. – per cenni su trattamento dati finanziari, comunque superato da norme specifiche scambio info.

Giurisprudenza (Corte di Cassazione, Corti tributarie, UE):

  • Cassazione Civile – Sezione Tributaria:
    • Sent. n. 19166/2018 (deposito 14/07/2018) – Esterovestizione, presunzione evasore ipso iure (riferita in Eutekne).
    • Sent. n. 2662/2018 (02/02/2018) – Non retroattività art.12 DL 78/09 per anni pre-2009.
    • SS.UU. n. 3710/2018 – (non citata ma sul ne bis in idem fiscale/penale, post Grande Stevens).
    • Sent. n. 6687/2018 (16/03/2018) – Residenza estera black list, onere prova al contribuente (SS.UU.).
    • Sent. n. 20599/2016 (12/10/2016) – Trust estero opaco, tassazione solo a distribuzione (beneficiari non imputati pro quota).
    • Sent. n. 15176/2019 (04/06/2019) – CFC, onere provare esimenti, rigore black list.
    • Sent. n. 19410/2019 (18/07/2019) – Trust opaco estero, non imputazione a beneficiario, distribuzioni = reddito cap. salvo capital.
    • Ord. n. 1075/2025 (19/01/2025) – Esterovestizione societaria, competenza territoriale accertamento, prevalenza ultima sede in Italia se trasferimento fittizio.
    • Ord. n. 11733/2024 (02/05/2024) – Presunzione art.2 co.2-bis TUIR non autonoma ma inversione onere (Simpliciter).
    • Sent. n. 5524/2024 (24/02/2024) – Iscrizione AIRE non decisiva se domicilio in Italia (Studio Pucci).
    • Sent. n. 19843/2024 (18/07/2024) – Criteri residenza nuovi non retroattivi, esempio caso Montecarlo 2006-10.
    • Ord. n. 5292/2021 (25/02/2021, SS.UU.) – Raddoppio termini procedurale (penale) retroattivo se reato entro termini ordinari.
    • Sent. n. 18894/2021 (05/07/2021) – Raddoppio termini black list retroattivo, non incostituzionale.
    • Sent. n. 25731/2022 (01/09/2022) – Trust estero, consolidamento principi post 2019 (non citata direttamente ma in linea con Cass. 2019).
    • Ord. n. 10/2022 (04/01/2022) – Presunzione fruttuosità estero iuris tantum, vale anche capitali illeciti.
    • Sent. n. 8605-8606/2022 (17/03/2022) – Residenza fiscale valutazione complessiva interessi (altre su AIRE).
    • Sent. n. 8160/2022 (14/03/2022) – Ravvedimento operoso non esclude punibilità se oltre soglia (penale).
  • Cassazione Penale:
    • Sent. n. 8605/2015 e n. 8606/2015 (deposito 27/04/2015) – Lista Falciani utilizzabile, provenienza illecita irrilevante ai fini prova.
    • Sent. n. 32058/2018 (pen.) – Omessa RW non è autoreato riciclaggio di per sé.
    • Sent. n. 7587/2021 (04/03/2021) – Autoriciclaggio e fondi esteri, distinzione uso personale etc.
    • Sent. n. 19849/2021 (19/05/2021, penale VI) – Quadro RW di per sé non reato.
  • Corti di Giustizia Tributaria (ex Commissioni Tributarie):
    • CTP Milano n. 2209/2019 – Incertezza normativa su obbligo RW trust, non punibilità (richiamata).
    • CGT I grado Lombardia (Milano) n. 698/2024 – Residenza estero in corso d’anno, efficacia dall’anno successivo (cit. in ricerca).
    • CTR Lombardia n. 3401/2018 – caso simile trust, beneficiari discrezionali.
    • Altre di merito su crypto: CTP Roma 4444/2022 – niente tassazione crypto ante 2023 per mancanza norma; CTP Milano 941/2021 – crypto = valuta estera (contrastanti).
  • Corte di Giustizia UE:
    • C-371/18 (Wilde, 2020) – su scambio info e diritto privacy (non citata, ma rilievo).
    • C-478/19 (UBS, 2022) – utilizzabilità dati rubati da informatore (non esattamente, ma su diritti difesa in assistenza).
    • C-276/12 Sabou (2013) – niente contraddittorio nello scambio info.
  • Corte EDU:
    • Grande Stevens e altri c. Italia, sentenza 04/03/2014 – bis in idem sanzioni Consob/penale, principio applicato analogicamente al doppio binario fiscale.
    • Zhakarov c. Russia (2015) – su sorveglianza massiva, non attinente direttamente ma contesto privacy vs scambio fiscale.
  • Documenti di Prassi e Approfondimenti:
    • Documento OCSE “Standard for Automatic Exchange of Financial Account Information” (2014) – definisce CRS.
    • Guida agli affari in Irlanda (Fondazione Nazionale Commercialisti, 2021) – panoramica fiscale Italia-Irlanda (cita convenzione).
    • Circolare OAM n. 1/2023 – Operatori crypto, regime transitorio fino 2026 (Dl 95/2025).

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Conclusione
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