Hai ricevuto un avviso di accertamento perché il Fisco ti contesta conti correnti o redditi detenuti a Panama?
Panama è considerata una giurisdizione a fiscalità privilegiata e per questo motivo è sotto stretta osservazione da parte dell’Agenzia delle Entrate. Attraverso lo scambio internazionale di informazioni e le segnalazioni di movimenti bancari, il Fisco può risalire a conti, investimenti o redditi non dichiarati e contestare imposte, sanzioni e interessi molto pesanti.
Quando scattano le contestazioni
– Se non sono stati dichiarati conti correnti, depositi o investimenti detenuti a Panama
– Se non è stato compilato il quadro RW per il monitoraggio fiscale
– Se non sono state dichiarate plusvalenze, dividendi o rendite prodotte a Panama
– Se i trasferimenti di denaro da e verso Panama non trovano corrispondenza nei redditi dichiarati in Italia
Cosa rischia il contribuente
– Recupero delle imposte sui redditi non dichiarati
– Sanzioni elevate per omessa compilazione del quadro RW: dal 3% al 15% degli importi non monitorati, che sale al 6-30% trattandosi di Paese black list
– Applicazione di interessi di mora che aumentano notevolmente il debito
– Contestazione del reato di dichiarazione infedele o omessa dichiarazione se le somme superano le soglie penali
– Possibili sequestri preventivi e misure cautelari sui beni
Come difendersi da un avviso di accertamento legato a Panama
– Verificare la correttezza dei dati su cui si basa l’accertamento
– Dimostrare con documentazione bancaria e fiscale che le somme non sono imponibili in Italia o risultano già tassate
– Contestare presunzioni arbitrarie o errori di calcolo da parte del Fisco
– Produrre contratti, estratti conto e atti che giustifichino la provenienza legittima dei fondi
– Far valere la buona fede, soprattutto in caso di omissioni dovute a incertezza normativa
– Presentare dichiarazioni integrative o ricorrere al ravvedimento operoso se la contestazione non è definitiva
– Impugnare l’avviso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni dalla notifica
Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della pretesa fiscale
– La riduzione consistente delle sanzioni applicate
– La sospensione delle procedure esecutive collegate (cartelle, pignoramenti, ipoteche)
– La tutela del patrimonio personale e aziendale
– La possibilità di regolarizzare la propria posizione pagando solo quanto realmente dovuto
Attenzione: le contestazioni relative a conti e redditi detenuti a Panama sono trattate con particolare severità dal Fisco italiano. Spesso però le ricostruzioni si basano su presunzioni che possono essere efficacemente contestate con prove concrete.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale, contenzioso tributario e difesa del contribuente – ti spiega come affrontare un avviso di accertamento legato a Panama e quali strumenti legali puoi utilizzare per difenderti.
Hai ricevuto un avviso di accertamento per conti o redditi a Panama?
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Introduzione
Ricevere un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate relativo a conti bancari o redditi esteri detenuti a Panama è una situazione complessa e insidiosa. L’Italia applica il principio della tassazione mondiale (worldwide taxation) per i residenti fiscali italiani, i quali devono dichiarare tutti i redditi ovunque prodotti nel mondo. In particolare, i paradisi fiscali come Panama sono oggetto di attenzione speciale da parte del Fisco: storicamente Panama figurava tra i Paesi “black list” (a fiscalità privilegiata) privi di trasparenza e scambio di informazioni. Ciò comporta presunzioni fiscali sfavorevoli al contribuente, inversione dell’onere della prova e sanzioni aggravate in caso di omessa dichiarazione.
Dopo lo scandalo dei Panama Papers nel 2016, l’Italia ha intensificato i controlli sui patrimoni offshore: oltre 800 nominativi italiani emersero dai leak dello studio Mossack Fonseca, portando all’apertura di centinaia di istruttorie fiscali. Grazie a tali indagini e agli strumenti di cooperazione internazionale, l’Agenzia delle Entrate ha già recuperato circa 64 milioni di euro da evasori con fondi nascosti a Panama e ha emesso oltre 270 avvisi di accertamento e atti di contestazione negli ultimi anni. Tuttavia, molti procedimenti sono ancora in corso e restano criticità legate ai tempi di accertamento e alla prescrizione.
Questa guida – rivolta a contribuenti (persone fisiche, imprenditori individuali e società) che si trovano dalla parte del “debitore” in una contestazione fiscale – fornisce un’analisi approfondita e aggiornata a luglio 2025 su come difendersi efficacemente da un avviso di accertamento legato a conti o redditi esteri in Panama. Verranno esaminati il quadro normativo italiano e internazionale (incluse normative come il CRS, il FATCA e le vicende Panama Papers), le presunzioni fiscali applicabili, le più recenti sentenze e orientamenti giurisprudenziali, nonché gli strumenti difensivi e le procedure (dall’adesione all’impugnazione in giudizio). Troverete inoltre tabelle riepilogative, esempi pratici, una sezione di domande e risposte (FAQ) e un approfondimento sulle procedure di riscossione coattiva in caso di esito sfavorevole. Il linguaggio è giuridico ma divulgativo, adatto a professionisti legali così come a privati e imprenditori interessati a comprendere i propri diritti e obblighi. L’obiettivo è mettere il contribuente nelle condizioni di conoscere le regole del gioco e di attuare una strategia difensiva solida e tempestiva per tutelare i propri interessi.
1. Contesto internazionale: Panama e la cooperazione fiscale
In questa sezione delineiamo il contesto internazionale entro cui si collocano gli accertamenti fiscali sui redditi esteri, con particolare attenzione al ruolo di Panama e alle iniziative globali di trasparenza finanziaria.
1.1 Panama e i “paradisi fiscali”
Panama è stata a lungo considerata un classico paradiso fiscale, grazie al suo regime di tassazione favorevole e al rigido segreto bancario che, fino a pochi anni fa, rendeva difficile per le autorità straniere ottenere informazioni sui conti ivi detenuti. Per paradiso fiscale si intende uno Stato con bassa o nulla imposizione e assenza di scambio di informazioni fiscali. Proprio queste caratteristiche hanno inserito Panama negli elenchi italiani dei Paesi a fiscalità privilegiata, le cosiddette liste “black list”, fin dagli anni ‘90.
L’iscrizione di un Paese nella black list comporta specifiche conseguenze nel nostro ordinamento: per le persone fisiche che trasferiscono la residenza anagrafica in un Paese black list vige una presunzione legale relativa di residenza fiscale in Italia (art. 2, comma 2-bis del TUIR); inoltre, per gli investimenti e attività finanziarie detenuti in detti Stati senza adeguata dichiarazione scatta la presunzione che tali somme derivino da redditi sottratti a tassazione (art. 12 D.L. 78/2009). Queste presunzioni invertono il normale onere della prova, costringendo il contribuente a dimostrare il contrario (es. dimostrare l’effettiva residenza estera o la provenienza lecita dei fondi) per evitare la tassazione integrale in Italia.
Va evidenziato che negli ultimi anni, a seguito di pressioni internazionali (anche dovute ai Panama Papers), Panama ha compiuto passi verso la collaborazione fiscale. Nel 2016 è stata firmata tra Italia e Panama una Convenzione contro le doppie imposizioni con clausola di scambio di informazioni (ratificata con legge 208/2016, in vigore dal 2017), e dal 2019 Panama ha aderito al sistema di scambio automatico di informazioni finanziarie CRS/OECD. Un decreto ministeriale del 09.05.2019 ha infatti inserito Panama tra le giurisdizioni con cui l’Italia scambia dati finanziari automaticamente. In altre parole, le banche panamensi trasmettono annualmente informazioni sui conti dei soggetti fiscalmente residenti in Italia alle autorità italiane. Questo ha trasformato Panama in un “ex” paradiso fiscale sul piano della trasparenza: la protezione assoluta del segreto bancario è venuta meno.
Tuttavia, ai fini delle normative italiane interne, Panama è tuttora considerata un Paese a fiscalità privilegiata in mancanza di esplicita rimozione dalle liste italiane. L’elenco storico dei Paesi black list (DM 4 maggio 1999 e successivi) viene utilizzato tuttora per alcune presunzioni legali (ad esempio la residenza fittizia, v. supra). Panama figura ancora in tale elenco, malgrado i recenti accordi, in quanto la lista non è stata formalmente abolita ed è riferita al regime fiscale (molto leggero) di Panama. È quindi possibile che il Fisco italiano continui ad applicare le presunzioni proprie dei “paradisi fiscali” per fatti avvenuti negli anni in cui Panama non era collaborativa. Infatti, come vedremo, la presunzione di evasione su somme estere (art. 12 D.L. 78/2009) opera per il solo fatto oggettivo della detenzione non dichiarata in un Paese black list, a prescindere dal successivo adeguamento di quel Paese agli standard di trasparenza.
Esempio pratico: Mario, cittadino italiano, ha depositato €500.000 su un conto a Panama nel 2015 senza dichiararlo al Fisco italiano. Nel 2025 l’Agenzia delle Entrate scopre quel conto tramite uno scambio di informazioni. Benché nel frattempo Panama sia diventata più collaborativa, per gli anni d’imposta passati l’Italia considera Panama un paradiso fiscale: Mario subirà quindi un accertamento basato sulla presunzione che quei €500.000 provengano da redditi sottratti a tassazione in Italia, salvo che riesca a provare il contrario. Inoltre, essendo Panama nella black list per quegli anni, le sanzioni e i termini di accertamento risultano raddoppiati (come si illustrerà oltre).
1.2 Common Reporting Standard (CRS) e cooperazione internazionale
Il Common Reporting Standard (CRS) è il sistema globale di scambio automatico di informazioni finanziarie promosso dall’OCSE e recepito nell’UE dalla direttiva 2014/107/UE (DAC2). L’Italia vi ha aderito dal 2017, imponendo alle proprie istituzioni finanziarie di comunicare all’Agenzia delle Entrate i dati dei conti detenuti da non residenti e, simmetricamente, ricevendo dalle autorità estere i dati sui conti detenuti all’estero da residenti italiani. A luglio 2025 oltre 100 giurisdizioni partecipano al CRS. Panama, come detto, ha attivato lo scambio a partire dal 2019 (dati relativi al 2018).
Il CRS consente al Fisco italiano di venire a conoscenza di: saldi di conto, interessi, dividendi, proventi finanziari e altre informazioni (intestatari, codici fiscali, etc.) relative ai conti finanziari esteri dei propri residenti. Ciò avviene in automatico ogni anno, senza necessità di una richiesta specifica. Pertanto, un contribuente italiano che detiene un conto corrente in Panama oggi non può più confidare nell’anonimato, in quanto la banca panamense segnala i suoi dati alle autorità locali, che a loro volta li trasmettono all’Italia.
Dal punto di vista difensivo, il CRS rappresenta un’arma potente per l’Amministrazione finanziaria, ma i dati ricevuti devono essere analizzati criticamente. Possono infatti verificarsi incongruenze tecniche (es. differenze di cambio, intestazioni differenti, conti cointestati riportati sotto un solo nome) che il contribuente può chiarire. L’esperienza pratica insegna che l’Agenzia invia spesso lettere di compliance anche in caso di lievi discrepanze o quando il contribuente ha dichiarato il conto ma con piccole differenze nei valori. In tali casi, il contribuente – se in buona fede – può spiegare l’equivoco ed evitare sanzioni maggiori. Resta comunque il fatto che omissioni rilevanti (ad esempio un conto completamente non dichiarato) verranno quasi certamente individuate e sanzionate: ignorare la portata del CRS oggi sarebbe estremamente rischioso.
1.3 Accordi FATCA e altre iniziative
Oltre al CRS, merita cenno il FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act) – accordo bilaterale USA-Italia in vigore dal 2014 – che ha istituito lo scambio automatico di informazioni finanziarie tra Italia e Stati Uniti. Pur trattandosi di uno strumento separato (nato dall’iniziativa unilaterale degli USA), FATCA ha segnato l’inizio di una nuova era di trasparenza fiscale globale. Panama non rientra direttamente nel FATCA (se non per rapporti con cittadini/statunitensi), ma l’effetto complessivo di FATCA e CRS è stato quello di ridurre drasticamente le giurisdizioni completamente riservate. Anche celebri piazze offshore come Svizzera, Montecarlo, Singapore, Emirati Arabi Uniti hanno gradualmente aderito a standard di scambio dati o firmato trattati con clausole informative.
Attualmente rimangono pochissimi “buchi neri” finanziari a livello mondiale, spesso micro-Stati o territori politicamente isolati. Dal 2023 l’Unione Europea mantiene una propria lista nera delle giurisdizioni non cooperative, che include ad esempio Samoa Americane, Figi, Guam, Palau, Trinidad e Tobago, Vanuatu e poche altre – tra cui Panama e la Russia – per persistenti difetti di trasparenza o regime fiscale dannoso. Questa lista UE ha effetti limitati (principalmente misure difensive in ambito UE), ma segnala la permanenza di Panama in una posizione di attenzione. In ogni caso, un contribuente italiano con attività a Panama deve essere consapevole che anche Panama ormai scambia informazioni; inoltre l’Italia, grazie alla Convenzione bilaterale, può richiedere informazioni specifiche su contribuenti italiani a Panama in qualsiasi momento (scambio di informazioni su richiesta, ex art. 26 Modello OCSE).
In sintesi, lo scenario internazionale è profondamente mutato: il tempo del segreto inviolabile è finito. Chi ha conti o società offshore a Panama non può più contare sull’opacità del sistema locale e deve aspettarsi controlli incrociati. Allo stesso tempo, l’esistenza di trattati (come quello Italia-Panama) apre anche possibilità difensive: ad esempio, invocare l’applicazione di criteri convenzionali sulla residenza o la corretta imposizione in base al trattato può essere un argomento valido (vedremo più avanti il peso che la Cassazione attribuisce alle Convenzioni internazionali).
2. Normativa italiana applicabile: obblighi e presunzioni
In questa sezione analizziamo la normativa italiana rilevante in caso di avvisi di accertamento su attività estere, distinguendo i casi di persone fisiche (inclusi imprenditori individuali) e società. Vedremo gli obblighi di monitoraggio fiscale, le presunzioni legali di evasione per attività in Paesi black list, i termini di accertamento e le sanzioni amministrative e penali previste.
2.1 Obbligo di monitoraggio fiscale (Quadro RW)
Il monitoraggio fiscale è la disciplina che impone ai residenti in Italia di dichiarare al Fisco le proprie attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero. La norma cardine è l’art. 4 del D.L. 167/1990, il quale stabilisce che le persone fisiche residenti, gli enti non commerciali e le società semplici residenti devono indicare nella dichiarazione dei redditi (quadro RW) tutti gli investimenti all’estero e le attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia. In pratica rientrano: conti correnti e depositi bancari, partecipazioni azionarie, obbligazioni, fondi, immobili esteri, metalli preziosi all’estero, polizze estere, criptovalute detenute su exchange esteri, ecc..
Chi è tenuto al monitoraggio (RW):
- Persone fisiche residenti in Italia – sia cittadini italiani che stranieri fiscalmente residenti. Include anche gli imprenditori individuali per i beni detenuti personalmente (non rientrano invece in RW i beni intestati all’impresa individuale, poiché dichiarati nel quadro dei beni d’impresa).
- Enti non commerciali residenti – es. fondazioni, associazioni, che se detengono attività estere devono monitorarle.
- Società semplici e assimilate residenti – soggetti “trasparenti” che non redigono bilanci formali, anch’essi obbligati a RW.
- Trust e istituti simili, se almeno il disponente o un beneficiario è residente in Italia, nelle ipotesi in cui il trust sia fiscalmente opaco ed estero. In tal caso il trustee deve fornire i dati dei beneficiari per il monitoraggio, oppure il beneficiario stesso dichiara se ha diritto a patrimonio estero.
- Titolari effettivi di entità estere – se un residente ha la disponibilità sostanziale di attività estere tramite società offshore, fondazioni o interposta persona, deve dichiararle come “titolare effettivo”. Questo per evitare che si eluda il monitoraggio semplicemente intestando il conto a una società panamense: l’obbligo risale comunque al beneficiario residente.
Chi è escluso dal monitoraggio:
- Società di capitali ed enti commerciali residenti (Spa, Srl, ecc.) non compilano il quadro RW per le attività estere intestate a loro. Ciò perché tali attività dovrebbero già risultare dal bilancio e dalle dichiarazioni dei redditi ordinarie (ad es. un conto estero di una società italiana compare nel suo stato patrimoniale, e gli interessi attivi esteri sono dichiarati nel conto economico). In sostanza, il monitoraggio è concepito per i patrimoni personali all’estero; se una società ha attività all’estero e non le dichiara, l’irregolarità sarà semmai bilancistica o di dichiarazione del reddito d’impresa, non una violazione RW.
- Soggetti non residenti in Italia: chi è effettivamente residente fiscale all’estero non compila RW per i beni esteri. Attenzione però: la residenza va valutata in concreto. Un cittadino italiano iscritto AIRE ma che di fatto vive in Italia non può dirsi escluso. Viceversa, un italiano che davvero risiede stabilmente fuori (es. a Panama con riconoscimento fiscale locale) non ha obblighi RW in Italia.
- Casi particolari di esonero: es. lavoratori frontalieri con conto estero per accreditare lo stipendio (entro certi limiti), funzionari diplomatici italiani all’estero, ecc., per i quali norme specifiche prevedono esenzioni dal quadro RW. Sono situazioni limitate e ben definite.
Soglie di esenzione e semplificazioni: Per i conti correnti esteri, la legge prevede una soglia sotto la quale non c’è obbligo di monitoraggio: 15.000 € di giacenza massima nel periodo d’imposta. Ciò significa che se durante l’anno il conto non ha mai superato 15.000 € di saldo, non è necessario indicarlo in RW. Questa soglia (introdotta dalla Legge n.186/2014) serve a esonerare conti di modesto importo, tipicamente aperti per esigenze pratiche (es. un conto per spese di viaggio). Tuttavia, attenzione:
- Il calcolo va fatto sul valore massimo giornaliero raggiunto dal conto nell’anno. Basta un picco sopra 15.000 € anche per un solo giorno perché scatti l’obbligo.
- Se vi sono più conti, la soglia si valuta per ciascun conto singolarmente (non come somma).
- Per importi inferiori a 15.000 €, pur non essendovi obbligo, il contribuente può comunque dichiarare il conto senza sanzioni (per trasparenza).
Inoltre, c’è una soglia di 5.000 € di giacenza media annuale sotto la quale, pur dovendo indicare il conto, non si applicano le imposte patrimoniali estere (IVAFE). Ma ai fini del monitoraggio l’obbligo è legato solo alla soglia massima di 15.000 €.
Violazione dell’obbligo RW: La mancata compilazione del quadro RW per attività estere comporta specifiche sanzioni amministrative. L’art. 5, D.L. 167/1990 (modificato dalla L. 97/2013) prevede:
- Sanzione fissa € 250 se il quadro RW è presentato in ritardo ma comunque entro 90 giorni dalla scadenza (ravvedimento operoso breve).
- Sanzione dal 3% al 15% dell’ammontare non dichiarato, se l’attività estera è detenuta in Paesi collaborativi (non black list).
- Sanzione dal 6% al 30% dell’ammontare non dichiarato, se l’attività è detenuta in Paesi a fiscalità privilegiata (black list).
Queste percentuali si applicano sull’intero valore dell’attività non monitorata (non sull’eventuale reddito prodotto, che è altra violazione). Ad esempio, se Tizio aveva €100.000 su un conto a Panama non dichiarato, rischia una sanzione dal 6.000€ fino a 30.000€ solo per la violazione RW. Se invece lo stesso conto era in Francia, la sanzione sarebbe 3.000€–15.000€. Le sanzioni sono per periodo d’imposta: quindi un conto non dichiarato per 3 anni espone a 3 distinte sanzioni (oltre ad eventuali sanzioni per infedele dichiarazione dei redditi).
Va sottolineato che tali sanzioni restano dovute anche se il conto estero non ha prodotto redditi imponibili. Il monitoraggio infatti serve a tracciare gli asset all’estero a prescindere dalla loro redditività. Anche un conto infruttifero o con soldi “fermi” deve essere dichiarato, pena sanzione. Naturalmente, se oltre alla violazione RW c’è stata omessa dichiarazione di redditi esteri (interessi, dividendi, ecc.), allora si aggiungono le sanzioni per infedele o omessa dichiarazione dei redditi (vedi §2.3).
Un dettaglio importante: le sanzioni RW non sono penali ma solo amministrative (pecuniarie). La mancata compilazione di RW di per sé non costituisce reato, neanche per importi elevati. Diverso è se quei capitali occultati derivano da reati diversi (es. riciclaggio, proventi illeciti), ipotesi che esula dall’ambito tributario stretto.
2.2 Presunzione legale di evasione per attività in Paesi black list (art. 12 D.L. 78/2009)
Per contrastare l’occultamento all’estero di capitali sottratti a tassazione, il legislatore italiano ha introdotto nel 2009 una presunzione fiscale legale relativa molto incisiva: l’art. 12 del D.L. 78/2009 (convertito in L.102/2009). Tale norma, al comma 2, stabilisce che “in deroga ad ogni disposizione, gli investimenti e le attività finanziarie detenuti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato (DM 4/5/1999 e DM 21/11/2001) non dichiarati ai sensi dell’obbligo di monitoraggio si presumono, salva prova contraria, costituiti con redditi sottratti a tassazione”. In parole semplici: se un soggetto ha beni o conti in un paradiso fiscale e non li dichiara nel quadro RW, il Fisco può presumere che quei valori derivino da redditi su cui non sono state pagate le imposte in Italia.
Questa presunzione è relativa (iuris tantum): il contribuente ha facoltà di fornire la prova contraria per vincerla. Ma è chiaro l’intento deterrente: invertire l’onere della prova e costringere chi occulta fondi all’estero a giustificarne l’origine. Spesso ciò è difficile, soprattutto a distanza di anni e se non si dispone di documentazione completa.
Contestualmente, la norma prevede conseguenze afflittive ulteriori:
- le sanzioni per le correlate violazioni tributarie sono raddoppiate. In particolare, le sanzioni per infedele/omessa dichiarazione dei redditi (D.Lgs. 471/1997 art.1) raddoppiano se l’evasione è collegata a beni occultati in paradisi fiscali. Quindi, invece del 90% – 180% di aliquota ordinaria per infedele dichiarazione, diventano 180% – 360%, ad esempio.
- i termini di accertamento sono raddoppiati. Il comma 2-bis dell’art. 12 stabilisce che, per gli accertamenti fondati su detta presunzione, i termini ordinari di decadenza dell’accertamento (art.43 DPR 600/1973 per imposte dirette, art.57 DPR 633/72 per IVA) si raddoppiano. Analogamente, il comma 2-ter raddoppia i termini per contestare le sanzioni ex art.20 D.Lgs.472/97. Ciò significa che se normalmente il Fisco ha (ad esempio) fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione per notificare un avviso, in caso di attività estere occultate in black list ha dieci anni.
Le conseguenze dell’art. 12 D.L.78/2009 si possono riepilogare così: se un contribuente non dichiara nel quadro RW investimenti/attività finanziarie in Paesi black list, allora:
- Presunzione di evasione: si presume che tali somme derivino da redditi non tassati in Italia (salvo prova contraria del contribuente).
- Sanzioni raddoppiate: le eventuali sanzioni per infedele/omessa dichiarazione dei redditi legate a quei redditi evasi sono raddoppiate. Anche le sanzioni RW, in sostanza, sono già “raddoppiate” essendo al 6-30% invece di 3-15%.
- Termini di accertamento raddoppiati: l’Agenzia ha il doppio del tempo per emettere accertamenti sia sulle imposte dirette/IVA evase (comma 2-bis) sia sulle sanzioni amministrative (comma 2-ter).
Un aspetto importante chiarito dalla giurisprudenza: questa disciplina non ha efficacia retroattiva. Ciò è stato affermato dalla Corte di Cassazione (sent. n. 2662/2018 e n. 33223/2018) e dalla Corte Costituzionale, escludendo che la presunzione e il raddoppio termini possano applicarsi a violazioni RW commesse prima dell’entrata in vigore del D.L.78/2009. Quindi, se il contribuente ha omesso RW negli anni antecedenti il 2009, non si applica questa presunzione (si applicano però le sanzioni RW all’epoca vigenti). Dal 2009 in avanti la regola vige a pieno regime, salvo naturalmente il rispetto del principio di legalità temporale (non oltrepassare periodi ormai prescritti all’entrata in vigore). Ad oggi, nel 2025, gli accertamenti possono riguardare in generale i periodi d’imposta fino al 2015 (dichiarazione 2016) se non vi è raddoppio, oppure fino al 2010 se c’è raddoppio di termini – ipotizzando nessuna dichiarazione presentata.
Onere della prova inverso: cosa deve fare il contribuente per superare la presunzione? Deve provare che i capitali detenuti a Panama non provengono da redditi evasi in Italia. Ciò può essere fatto ad esempio dimostrando che:
- I fondi derivano da redditi regolarmente dichiarati e tassati in Italia (es. si trattava di risparmi su redditi da lavoro, già tassati, trasferiti poi all’estero). In tal caso serve traccia documentale: buste paga, dichiarazioni passate, bonifici di trasferimento…
- Oppure che derivano da fonti esenti/non imponibili (es. una donazione da un familiare, un’eredità ricevuta da non residente, redditi prodotti quando il soggetto non era residente in Italia, ecc.). Anche qui occorrono atti notarili, documenti esteri, ecc.
- Oppure ancora che sono redditi tassati all’estero a titolo definitivo e non imponibili in Italia per convenzione o per criterio di territorialità (ipotesi rara per persone fisiche, più comune per società che dimostrino trattarsi di utili di stabile organizzazione tassati altrove, etc.).
Da notare: dimostrare che i capitali non sono reddito ma ricchezza accumulata in anni remoti può risultare arduo. La Cassazione ha osservato che per vincere la presunzione servono “elementi gravi, precisi e concordanti” a favore del contribuente, analogamente a quanto richiesto al Fisco per muovere la contestazione. In pratica, bisogna convincere con solide prove che quei soldi non sono frutto di evasione recente. Nella prassi, se le somme sono molto ingenti e l’origine non giustificabile, diventa quasi impossibile ribaltare la presunzione. Non a caso la voluntary disclosure (di cui parleremo) è stata per molti l’unica via praticabile per “sanare” situazioni altrimenti indifendibili sul piano probatorio.
Esempio pratico: Carlo, residente italiano, aveva accumulato €200.000 in contanti da redditi non dichiarati tra il 2012 e 2014 e li ha portati a Panama su un conto nel 2015. Nel 2023 il Fisco scopre quel conto. Avremo: applicazione piena di art.12 D.L.78/09 (gli anni 2012-2014 sono dopo il 2009), quindi presunzione che €200.000 siano redditi evasi; accertamento delle imposte evase relative a quegli anni (IRPEF su €200.000, salvo si provi che parte proveniva da redditi tassati); sanzione infedele al 180% circa dell’imposta evasa (raddoppio); sanzione RW 6-30% su €200.000 per ciascun anno di omessa dichiarazione (con raddoppio sanzione essendo Panama black list); termini raddoppiati (possono accertare anche il 2012 perché rientra nei 10 anni). Se Carlo volesse difendersi, dovrebbe provare magari che una parte di quei fondi erano, ad esempio, redditi di locazioni dichiarati (cosa improbabile se non li ha dichiarati) o che erano frutto di una vendita di immobile già tassata. In assenza di prove, pagherà imposte + sanzioni piene.
Va infine ricordato che la presunzione art.12 opera solo se c’è omessa dichiarazione RW. Se invece il contribuente aveva dichiarato il patrimonio estero ma omesso di tassare i redditi, non scatta questa presunzione specifica (restano comunque le sanzioni per infedele).
2.3 Termini di accertamento e decorrenze (focus su estero)
I termini di accertamento in materia tributaria indicano l’ultimo anno entro cui l’Agenzia delle Entrate può notificare un avviso di accertamento per un dato periodo d’imposta. La regola generale (dopo la riforma del 2015) è: 5 anni successivi a quello di presentazione della dichiarazione (ovvero 7 anni se la dichiarazione è omessa) per le imposte dirette e l’IVA. Ad esempio, per l’anno d’imposta 2019 (dichiarazione presentata nel 2020), il termine scade al 31/12/2025. Se la dichiarazione 2019 non fosse stata presentata, si va al 31/12/2027.
Nel contesto di attività estere non dichiarate, si applicano due eccezioni già accennate:
- il raddoppio dei termini ex art. 12 D.L.78/09: come visto sopra, se l’accertamento è basato sulla presunzione per paradisi fiscali (quindi violazione monitoraggio in black list), i 5 anni diventano 10 (e i 7 diventano 14 in caso di omessa dichiarazione). In sostanza l’Agenzia può andare molto indietro nel tempo per recuperare imposte su redditi esteri occultati. Attenzione: la Consulta ha però limitato l’applicazione ai periodi successivi al 2009, come detto, per cui l’effetto pratico è che al 2025 si può indagare fino al periodo d’imposta 2010 (dichiarazione 2011) se c’è raddoppio. Periodi antecedenti sono decaduti anche col raddoppio perché la norma non c’era ancora.
- il raddoppio dei termini in caso di reati tributari: normativa distinta (art. 43-bis DPR 600/73, introdotto dal 2015) prevede che se vi è obbligo di denuncia penale per un reato tributario (es. dichiarazione fraudolenta), i termini di accertamento raddoppiano. Questa disposizione ha avuto alterne vicende interpretative e profili di incostituzionalità poi sanati: attualmente il raddoppio opera solo se la denuncia penale è presentata entro i termini ordinari. Nel caso di attività estere, potrebbe rilevare se le somme occultate configurano reato (si pensi ad esempio a dichiarazione infedele o omessa dichiarazione sopra soglie di punibilità). In tal caso si sommano potenzialmente due raddoppi: quello “penale” e quello “paradisi fiscali”. La dottrina e prassi ritengono però che tali raddoppi non siano cumulabili oltre un certo limite (non si va oltre il raddoppio più favorevole al fisco). La materia è tecnica, ma in sintesi se un’evasione estera integra reato, l’accertamento è sicuramente tempestivo se fatto entro i termini raddoppiati ex art.12, e la denuncia penale rafforza comunque la posizione erariale per non far decadere l’azione.
Un problema concreto per il contribuente è la difficoltà di difendersi su anni molto risalenti. Se nel 2025 arriva un avviso per l’anno 2011 (grazie al raddoppio termini), il contribuente potrebbe aver perso documenti giustificativi, conti correnti chiusi da tempo, ecc. Questo rende arduo fornire la prova contraria alla presunzione o anche solo contestare il calcolo dell’imposta. Il nostro ordinamento purtroppo consente tali lunghi periodi in materia di estero, a differenza di altri Paesi europei dove il tax audit deve chiudersi in pochi anni. In sede difensiva, comunque, si può far leva sul principio di cooperazione e buona fede: se il contribuente ha difficoltà oggettive a reperire prove per fatti remoti, ciò dovrebbe essere valutato. In alcuni casi estremi, si è eccepita anche l’incostituzionalità di termini eccessivamente lunghi che pregiudicano il diritto di difesa, ma finora le norme in questione hanno retto al vaglio.
Riepilogo termini al 2025:
- Periodi d’imposta 2015 e seguenti: accertabili entro 5 anni (fino a 2021 compreso) o 7 in caso di omessa dichiarazione. Quindi 2015 accertabile fino a 31/12/2021 (se dichiarazione presentata) o 2023 (se omessa). Ormai decaduti al 2025 per via ordinaria, ma se c’è violazione RW in black list scatta raddoppio, portando 2015 accertabile fino al 2025.
- Periodi 2010-2014: ordinariamente decaduti (2010->2016 ecc), ma se art.12 D.L.78/09 applicabile, diventano accertabili fino al 2020-2024 rispettivamente. Dunque per esempio il 2014 con raddoppio decade a fine 2024 (ancora accertabile al momento in cui scriviamo), il 2013 decadeva a fine 2023 e così via.
- Periodi fino al 2009: non coperti dalla norma del 2009 (nessun raddoppio paradisi fiscali retroattivo), quindi decaduti secondo termini ordinari (2009->2015 ultimo anno utile se dichiarazione omessa). Oggi inaccertabili per annualità così vecchie, salvo illeciti penali scoperti dopo (ma anche lì la Cassazione tende a non far valere raddoppi “a sorpresa” postumi).
In pratica, un avviso nel 2025 inerente Panama può riguardare verosimilmente le annualità dal 2011 in poi (con raddoppio) o dal 2015 in poi (senza). Se l’avviso copre anni anteriori, bisognerà verificarne la legittimità alla luce delle norme transitorie e di eventuali cause di sospensione dei termini (es. adesione a voluntary disclosure interrompeva i termini, ecc.).
2.4 Redditi esteri non dichiarati: tassazione e sanzioni
Oltre al profilo patrimoniale (monitoraggio), un accertamento su conti a Panama di solito coinvolge anche i redditi prodotti da quegli asset esteri. Ad esempio, interessi bancari maturati sul conto panamense, dividendi di società offshore, plusvalenze da investimenti finanziari, canoni di affitto di immobili a Panama, ecc.: tutti redditi che, se il contribuente è residente in Italia, dovevano essere dichiarati. Il mancato assoggettamento a tassazione di tali redditi esteri comporta: il recupero dell’imposta evasa (IRPEF o IRES, addizionali, ecc. a seconda dei casi) e l’irrogazione di sanzioni per dichiarazione infedele o omessa dichiarazione.
Le sanzioni previste dal D.Lgs. 471/1997, art.1, sono:
- Dichiarazione infedele (omissione parziale di redditi): sanzione dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta. Ciò si applica se il contribuente ha presentato la dichiarazione dei redditi ma ha omesso di includervi alcuni redditi esteri. È infedele quando l’imposta evasa supera €5.000 e l’ammontare non dichiarato supera il 10% del reddito dichiarato o comunque €2.000.000 di base imponibile (soglie oltre le quali scatta anche il reato, come vedremo).
- Omessa dichiarazione: se il contribuente non ha proprio presentato la dichiarazione annuale (es. perché credeva di essere residente all’estero, oppure volutamente ha occultato tutto), la sanzione è dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di €250. Questo caso è molto grave e spesso coincide con contestazioni di residenza fittizia.
Da notare: in caso di attivo estero non dichiarato, spesso coesistono due violazioni: (a) monitoraggio omesso (sanzione fissa su valore) e (b) redditi omessi (sanzione percentuale sull’imposta evasa). L’Agenzia le contesta cumulativamente. Ad esempio, conto estero con interessi non dichiarati: sanzione RW + sanzione infedele. Entrambe possono essere ridotte tramite definizione agevolata o conciliazione, ma si sommano se non condonate.
Esempio: Giulia, residente, aveva €50.000 su conto Panama nel 2018, generando €500 di interessi non dichiarati. In accertamento: imposta evasa su €500 (tassati al 26% come reddito di capitale) = €130, recuperata; sanzione infedele 90%-180% su €130 (diciamo €117 – €234); sanzione RW 6%-30% su €50.000 (cioè €3.000 – €15.000). Il tutto più interessi legali maturati. È evidente come la componente sanzionatoria sul patrimonio (3-15k) sovrasta quella sul reddito (centinaia di €). Ciò conferma il carattere severo delle norme monitoraggio.
Profili penali
Se le somme occultate sono cospicue, l’illecito tributario può assumere rilevanza penale ai sensi del D.Lgs. 74/2000. In particolare:
- Omessa dichiarazione (art.5 D.Lgs.74/2000): è reato non presentare la dichiarazione annuale dei redditi (o IVA) quando dovuta, se l’imposta evasa supera €50.000. Ad esempio, un residente che “sparisce” fiscalmente sostenendo di essere all’estero mentre era in Italia, rischia questo reato. Pena: reclusione 2 a 5 anni (nel 2023 innalzata a massimo 6 anni). Molti casi di trasferimenti fittizi a Paesi come Montecarlo, Panama, Dubai hanno portato a imputazioni di omessa dichiarazione pluriennale.
- Dichiarazione infedele (art.4 D.Lgs.74/2000): omettere redditi in dichiarazione è reato se l’imposta evasa > €100.000 e gli elementi attivi sottratti > 10% del totale o > €2 milioni. Esempio: un contribuente dichiara 50k di redditi italiani ma non 500k di redditi esteri, evadendo magari 200k di imposta, commette reato. Pena: reclusione 2 a 4.5 anni (massimo elevato a 6 nel 2015 per importi più alti).
- Altri reati: potrebbero configurarsi ipotesi di frode fiscale se, ad esempio, si usano schermi societari per occultare redditi (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, art.3, soglie €30k imposta e condotta fraudolenta). Oppure auto-riciclaggio (art.648-ter1 c.p.) se i proventi evasi vengono impiegati in attività economiche per ostacolarne la provenienza. Quest’ultimo potrebbe riguardare chi trasferisce all’estero fondi neri e li reimpiega tramite società offshore: dal 2014 è punito con reclusione 2-8 anni.
Se scatta il penale, l’Agenzia Entrate trasmette rapporto alla Procura. L’indagine penale può portare a misure cautelari come il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei beni fino a concorrenza delle imposte evase. Ciò significa che al contribuente possono congelare immobili, conti (in Italia) per un valore pari all’evasione contestata. Questo è molto rilevante dal punto di vista del “debitore”: ci si può trovare non solo con cartelle esattoriali, ma anche con beni sequestrati nell’ambito penale, prima ancora di una sentenza definitiva, se il giudice ritiene solido il fumus del reato. In sede difensiva, oltre a contestare l’addebito penale, si può tentare di dimostrare l’assenza del profitto illecito (es: se il reddito era già stato tassato all’estero, l’imposta evasa in Italia è minore). Va segnalato che una definizione fiscale del debito (ad esempio il pagamento integrale delle imposte evase prima della dichiarazione dibattimentale) estingue i reati tributari non fraudolenti per condotta riparatoria (introdotto nel 2019). Quindi, se la somma è pagata integralmente con sanzioni e interessi, il giudice può dichiarare estinto il reato di infedele o omessa dichiarazione. Questo è un forte incentivo a sistemare il debito tributario appena possibile, per evitare guai penali.
In conclusione su questo punto, l’avviso di accertamento è solo l’inizio: in casi gravi si rischiano sanzioni pecuniarie altissime e persino la reclusione. Nella strategia difensiva è fondamentale valutare subito l’eventuale profilo penale e, se necessario, attivarsi con legali penalisti parallelamente al contenzioso tributario.
2.5 Accertamenti verso società e imprenditori: esterovestizione e CFC
Finora abbiamo parlato principalmente di persone fisiche residenti con conti esteri. Ma l’avviso di accertamento legato a Panama può riguardare anche società o situazioni miste (soci persone fisiche attraverso società offshore). Due concetti chiave in ambito societario internazionale sono:
- l’esterovestizione della società, ossia la fittizia localizzazione all’estero di una società che in realtà ha sede di direzione in Italia per usufruire di tassazione privilegiata altrove;
- le CFC (Controlled Foreign Companies), ovvero società estere controllate da soggetti italiani e soggette a imposizione localmente molto bassa, i cui utili possono essere imputati per trasparenza ai controllanti italiani (ex art. 167 TUIR).
Residenza fiscale delle società (criteri generali): l’art. 73 TUIR fissa i criteri per considerare una società “residente” in Italia: se ha sede legale in Italia, sede dell’amministrazione in Italia, oppure oggetto principale in Italia, per la maggior parte del periodo d’imposta. Basta uno di questi requisiti per oltre metà anno perché la società sia residente e quindi tassata in Italia su tutti i redditi ovunque prodotti. Questo criterio sostanziale implica che, ad esempio, una società costituita a Panama ma amministrata di fatto dall’Italia possa essere dichiarata residente fiscale italiana e tassata come tale. Ne consegue che l’Agenzia delle Entrate potrebbe emettere un avviso accertando imposte italiane su tutti gli utili della società panamense, se prova che la gestione avveniva da qui.
Presunzione legale di esterovestizione (art. 73, c.5-bis TUIR): per facilitare tale prova, esiste una norma antiabuso specifica. L’art. 73 c.5-bis TUIR (introdotto nel 2006 e riformato dalla L.208/2015) prevede una presunzione relativa secondo cui si considera residente in Italia la società estera che detiene partecipazioni di controllo in società italiane, se o (a) essa è controllata da soggetti residenti in Italia, oppure (b) il suo CdA è composto in prevalenza da residenti italiani. In tali casi, salvo prova contraria, si presume che la sede amministrativa effettiva della società estera sia in Italia. L’onere di confutare la presunzione spetta al contribuente, che deve dimostrare una reale operatività all’estero e che la struttura non è artificiosa. Questa norma è stata usata in casi celebri (es. la vicenda Dolce & Gabbana, con società in Lussemburgo contestata come esterovestita) per tassare in Italia proventi canalizzati all’estero.
Accertamento su società offshore (esterovestizione): in pratica, se un imprenditore italiano crea una società a Panama e vi fa affluire redditi dall’Italia (es. pagamenti di royalties, di consulenze, oppure fa figurare che gli utili maturano lì), il Fisco può sostenere che quella società è solo un guscio e che l’effettiva attività è condotta dall’Italia. Se prova ciò (o se rientra nella presunzione di cui sopra), emetterà avvisi di accertamento recuperando le imposte italiane su quegli utili “esterovestiti”. Dal punto di vista difensivo, la società/imprenditore dovrà portare evidenze di substance all’estero: uffici, dipendenti, amministratori locali che prendono decisioni, attività svolta realmente a Panama, ecc. Spesso è una battaglia probatoria complessa. La giurisprudenza richiede di dimostrare la sostanza economica estera e non un mero risparmio fiscale. Se l’azienda panamense aveva solo un indirizzo presso uno studio legale e nessun dipendente, sarà difficile convincere. Invece, se è un’azienda con stabilimenti o business reale a Panama, la difesa è più solida (ancorché la presenza di controllanti italiani imponga sempre cautela).
CFC – Tassazione per trasparenza degli utili: l’art. 167 TUIR (riformato nel 2018 per recepire la direttiva ATAD) prevede che se un soggetto residente controlla (direttamente o indirettamente) una società estera a bassa tassazione (aliquota effettiva inferiore al 50% di quella italiana), gli utili di quest’ultima vengano imputati al controllante per trasparenza, a meno che non si dimostri che la CFC svolge un’attività economica effettiva nel mercato locale (analisi sostanza). Panama rientra certamente tra i Paesi a bassa fiscalità rispetto all’Italia. Quindi, un imprenditore italiano che sia socio unico di una società panamense potrebbe ricevere un accertamento CFC: l’Agenzia potrebbe imputargli ogni anno i profitti della società panamense come se fossero reddito personale, tassandoli in Italia indipendentemente dalla distribuzione. Per difendersi, dovrebbe provare che la società non è “artificiosa” e ha mezzi, personale e attività reali autonome (esimente di cui alla normativa CFC). Dopo i Panama Papers, vi è stata attenzione anche su questo fronte: in alcuni accertamenti, l’Agenzia ha contestato che le offshore erano CFC non dichiarate, recuperando imposte.
Caso pratico di società: Alfa Srl (Italia) paga ogni anno €1 milione a Beta Inc (Panama) per consulenze. Beta Inc è posseduta al 100% dall’azionista di Alfa Srl (italiano) e non ha uffici né personale a Panama. L’Agenzia può procedere in più modi: (i) negare deducibilità del costo in Alfa perché verso black list senza valide ragioni (norme sui costi black list, oggi abolite ma all’epoca esistevano), (ii) considerare Beta Inc residente in Italia (esterovestizione) tassando qui quell’1 milione come ricavo non dichiarato, (iii) applicare CFC imputando l’utile di Beta all’azionista. Probabilmente combinerebbe esterovestizione e sanzioni per infedele dichiarazione. Il contribuente dovrà dimostrare magari che Beta Inc ha effettivamente svolto consulenze con persone a Panama (cosa improbabile in questo esempio). In assenza di prove, l’accertamento avrebbe buone chance di tenere.
Sintesi difesa per società/imprenditori:
- Se contestano residenza fittizia all’estero (esterovestizione di persona fisica o giuridica), presentare prove della reale permanenza/attività all’estero: contratti di affitto, bollette, dipendenti, bilanci locali, iscrizioni a registri, ecc.
- Se contestano CFC non dichiarata, argomentare che la società estera svolge attività economicamente significativa (e fornire documenti: p.es. fatture a terzi locali, struttura organizzativa, ecc.), oppure che non c’è controllo nel senso stretto (se partecipazione sotto il 50% ecc.).
- Se contestano componenti di reddito (costi infragruppo) verso Panama come indebiti, occorre giustificarne il valore normale e l’effettiva prestazione (qui entriamo nel transfer pricing eventualmente).
Le più recenti pronunce della Cassazione confermano linea dura: ad es. Cass. n.32975/2018 (imprenditore formalmente a Monaco ma con interessi in Italia) ha confermato la residenza italiana valutando prevalenza di legami economici qui; Cass. 16634/2018 ha ribadito che in passato l’iscrizione in Anagrafe italiani era presunzione assoluta di residenza (regime ora superato), segno di severità storica. D’altro canto, Cass. 24246/2015 e molte successive hanno affermato che se esiste una Convenzione contro doppie imposizioni, i criteri convenzionali prevalgono anche contro Stati black list. Ciò significa, ad esempio, che se una persona fisica o società è considerata residente dell’altro Stato in base alla Convenzione (tie-breaker rule), l’Italia deve cedere. La Cass. 35284/2023 (caso Emirati Arabi) ha confermato proprio questo: un contribuente italiano emigrato negli UAE, pur senza imposta locale sui redditi, è risultato residente Emirati secondo la Convenzione, quindi la presunzione italiana di residenza è stata superata. Questa è una difesa fondamentale: se Panama ha un trattato con l’Italia (dal 2017 sì), e se il contribuente riesce a farsi riconoscere residente in Panama da quell’ordinamento, può invocare la Convenzione per evitare la doppia residenza. Ovviamente deve provare di avere domicilio permanente a Panama, interessi vitali lì, ecc. Nei confronti di società, le Convenzioni in genere usano il criterio della sede di direzione effettiva come tie-breaker (art.4(3) Modello OCSE). Il trattato Italia-Panama presumibilmente farà lo stesso. Quindi, se una società è potenzialmente dual resident, si dovrebbe risolvere a livello di autorità competenti (come previsto dal MLI OCSE dal 2017). In giudizio nazionale, questo argomento convenzionale può spuntare le pretese italiane.
3. Procedura di accertamento e difese stragiudiziali
In questa sezione vediamo come si sviluppa in concreto l’accertamento fiscale su conti esteri e quali strumenti il contribuente ha prima del contenzioso per difendersi o ridurre il danno. Dall’inizio dei controlli alla notifica dell’avviso, esistono infatti fasi e possibilità di interlocuzione.
3.1 Fasi del procedimento di accertamento su dati esteri
Quando l’Amministrazione finanziaria riceve informazioni su un conto o redditi a Panama riconducibili a un residente, generalmente adotta un percorso graduale:
- Lettera di compliance (comunicazione di anomalia): in molti casi, se il contribuente ha presentato dichiarazione (anche parzialmente) ma risultano incongruenze, l’Agenzia prima di emettere un avviso formale invia una lettera di compliance. È una comunicazione bonaria che segnala la difformità (es. “dai dati esteri risulta un conto non dichiarato, la invitiamo a regolarizzare”). Questa prassi, attuata su ampia scala dal 2018 in poi, mira a favorire l’adempimento spontaneo: il contribuente è invitato a presentare una dichiarazione integrativa e a pagare il dovuto con sanzioni ridotte (ravvedimento operoso). Per i conti esteri, migliaia di lettere sono state inviate grazie ai dati CRS.
- Questionario o invito al contraddittorio: talvolta, soprattutto se la posizione è complessa, l’ufficio può inviare un questionario al contribuente chiedendo spiegazioni/documenti su quel conto estero (chi ne è titolare, origine fondi, ecc.) oppure invitarlo a comparire per esporre le sue ragioni. Questo step non è sempre attuato, dipende dalla strategia dell’ufficio. Il contraddittorio endoprocedimentale (cioè prima dell’avviso) in materia di imposte dirette non è obbligatorio per legge, tranne casi particolari, ma la Cassazione lo considera buona prassi in situazioni complesse – e la sua mancanza può essere motivo di ricorso se ha leso il diritto di difesa. Nel contesto Panama, se l’ufficio non ha effettuato accessi o verifiche in loco (dato che all’estero non potrebbe), spesso salta direttamente alla notifica dell’atto impositivo.
- Avviso di accertamento: se il contribuente non aderisce alla compliance o se comunque l’ufficio ritiene di avere elementi sufficienti, procede con l’atto formale: l’avviso di accertamento. Nel caso di omessa dichiarazione (contribuente che non ha proprio fatto dichiarazione in Italia) è spesso direttamente il primo atto inviato. L’avviso contiene il dettaglio della pretesa: imposte evase, sanzioni, interessi, anni d’imposta, motivazioni (es. “conti presso Banca X di Panama non dichiarati – applicazione art.12 DL 78/09 – recupero imposte anno…”, ecc.). Viene notificato al contribuente (anche estero, eventualmente via PEC o tramite raccomandata all’ultimo domicilio noto).
Da questo momento il contribuente ha tipicamente 60 giorni di tempo per reagire, altrimenti l’atto diviene definitivo. Approfondiremo nel §4 le modalità di impugnazione.
È utile notare che il contribuente informato può agire ancor prima: se sa di avere situazioni irregolari (es. riceve notizia di dati trasmessi dal CRS) può autodenunciare la violazione con ravvedimento operoso ancora prima che arrivi qualsiasi lettera. Oggi, ancorché la voluntary disclosure sia chiusa, il ravvedimento operoso rimane lo strumento ordinario per regolarizzare spontaneamente, pagando sanzioni ridotte proporzionali al tempo del ritardo. Una dichiarazione integrativa presentata prima di qualunque controllo permette di limitare i danni: sanzione RW ridotta (p.e. 3% invece di minimo 6%) e sanzione imposte ridotta (1/6 del minimo ad esempio, se ravvedimento entro 2 anni). Se però è già arrivata una lettera di compliance, il ravvedimento è ancora ammesso (la prassi consente ravvedimento finché non c’è formale notifica di accertamento); se invece è arrivato l’avviso, è troppo tardi per il ravvedimento.
La lettera di compliance: come gestirla – Se ricevuta, è consigliabile non ignorarla. Come indicato, due opzioni principali:
- Adesione integrale: presentare dichiarazioni integrative per tutti i periodi indicati, dichiarando asset e redditi esteri, e contestualmente versare le imposte dovute con sanzioni ridotte e interessi (ravvedimento operoso). Questa scelta sana la posizione ed evita l’avviso. È altamente raccomandata quando il contribuente effettivamente ha omesso e non ha basi solide per giustificarsi.
- Mancata adesione: non fare nulla, oppure contestare l’errore (se si ritiene che l’Agenzia abbia sbagliato). In caso di silenzio, l’ufficio quasi certamente emetterà l’accertamento, con sanzioni piene. Se si ritiene il dato errato (ad esempio, il contribuente non aveva affatto conti esteri, magari c’è omonimia o errore), conviene comunque rispondere alla lettera in autotutela spiegando l’equivoco. Ignorare la lettera è sconsigliato perché fa perdere la chance di ravvedimento e peggiora la posizione.
3.2 Strumenti deflativi del contenzioso (adesione, autotutela)
Prima di passare al ricorso in Commissione tributaria, il contribuente ha a disposizione alcuni strumenti “deflativi”, cioè atti a evitare o ridurre il contenzioso, che meritano considerazione:
- Istanza di autotutela: è una richiesta all’ufficio di annullare o correggere l’atto in via amministrativa per vizi o errori evidenti (es. scambio di persona, doppia imposizione già sanata, errore di calcolo). In materia di accertamenti esteri, l’autotutela può essere invocata se, ad esempio, l’avviso si basa su dati palesemente scorretti (conto non intestato al contribuente, imponibile già dichiarato, ecc.). L’ufficio però non è obbligato ad accogliere; spesso, in casi complessi, lascia decidere al giudice. Vale comunque la pena inviare un’istanza se si hanno argomenti oggettivi, anche per mostrare buona fede e eventualmente allegare documenti subito.
- Accertamento con adesione: dopo la notifica dell’avviso (o anche prima, su invito), il contribuente può proporre un’istanza di accertamento con adesione ex D.Lgs. 218/1997. Questo strumento apre un tavolo di trattativa con l’ufficio: l’ufficio convoca il contribuente e le parti discutono per eventualmente rideterminare consensualmente la pretesa. Nel caso di redditi esteri, ad esempio, si potrebbe trovare un accordo sul quantum imponibile (magari riconoscendo alcune prove portate) e sulle sanzioni (che in caso di adesione sono ridotte a 1/3). Se si raggiunge l’accordo, si formalizza un atto di adesione: il contribuente paga quanto concordato (di solito in 8 rate trimestrali) e il contenzioso si chiude lì, senza processo. L’adesione sospende i termini per ricorrere, e se fallisce, l’avviso originario resta valido ma si guadagna tempo (90 giorni in più). Quando conviene? Se il contribuente riconosce in parte il dovuto ma vuole ottenere sconti su sanzioni o evitare il rischio processo, o se vi sono incertezze valutative (es. determinare un reddito estero non documentato). Nei casi di presunzioni, l’ufficio può mostrarsi disponibile a ridurre sanzioni dal massimo al minimo, ad esempio, se il contribuente collabora. È chiaro che se il contribuente ritiene infondato l’accertamento, difficilmente aderirà. Tuttavia, va considerato il risparmio: in adesione le sanzioni sono ridotte di 2/3 (paghi solo 1/3), e non si pagano gli interessi di mora futuri.
- Acquiescenza: se non si vuol fare ricorso, pagando entro 60 giorni dall’avviso, si ha una riduzione delle sanzioni ad 1/3 (simile all’adesione, ma senza trattativa, semplicemente accettando l’atto così com’è). Nel caso di conti esteri, l’acquiescenza può essere valutata quando l’accertamento è corretto e si vuole solo usufruire dello sconto sanzioni senza litigare. Bisogna pagare tutto (o iniziare a rate) entro i 60 giorni, poi non è più impugnabile.
- Reclamo e Mediazione tributaria: fino al 2023, per le liti di valore fino a €50.000, era obbligatoria la fase del reclamo-mediazione prima del processo. In essa, il contribuente presentava il ricorso che fungeva da reclamo: l’ufficio poteva accoglierlo o proporre una mediazione riducendo importi, sanzioni, ecc. Dal 2023, con la riforma del contenzioso (D.Lgs. 149/2022 e D.Lgs. 130/2023), l’istituto del reclamo-mediazione è stato abrogato per i ricorsi notificati dal 2024 in avanti. Dunque, per un avviso notificato oggi di importo modesto, non c’è più quella procedura formale. Tuttavia, nulla vieta che l’ufficio, anche successivamente a un ricorso, possa cercare di transare (attraverso la conciliazione giudiziale in udienza, vedi sotto).
- Ravvedimento operoso post-lettera: già menzionato, ma ribadiamo che se ancora non c’è atto, si può ravvedere, e perfino dopo la lettera di compliance lo si può fare con sanzioni ridotte finché non parte un formale accertamento. Questo è stragiudiziale a tutti gli effetti.
Tra questi strumenti, il più efficace per ridurre il quantum è l’adesione, se c’è margine negoziale. Ad esempio, in un caso di redditi presunti, il contribuente può convincere l’ufficio che non tutto il capitale era evasione (fornendo qualche prova d’appoggio), e l’ufficio potrebbe “stralciare” una parte della pretesa in sede di adesione. Anche la conciliazione in corso di causa può portare a esiti simili con abbattimento sanzioni.
3.3 L’avviso di accertamento: forma, vizi e contenuto
Un avviso di accertamento deve per legge contenere: l’indicazione dell’ufficio emittente, i periodi d’imposta accertati, la motivazione (circostanze di fatto e norme violate), l’imponibile accertato e le aliquote applicate, le sanzioni e gli interessi, nonché l’indicazione dell’ente della riscossione che procederà in caso di mancato pagamento. Dal 2011 gli avvisi di accertamento in materia di imposte dirette e IVA hanno assunto la natura di “avvisi esecutivi”: contengono cioè l’intimazione ad adempiere entro 60 giorni e diventano automaticamente titolo esecutivo decorso tale termine. In pratica, non è più necessaria la successiva cartella esattoriale. L’avviso stesso, scaduti 60 giorni dalla notifica senza ricorso né pagamento, legittima il Fisco ad attivare la riscossione coattiva (dettaglieremo nel §5).
Dal punto di vista difensivo, è importante controllare se l’avviso presenti vizi formali o procedimentali sfruttabili:
- Notifica irregolare: es. invio ad indirizzo sbagliato, o notifica estera non conforme a convenzioni. Un vizio di notifica può far annullare l’atto se contestato in tempo.
- Motivazione carente o per relationem: l’avviso deve spiegare le ragioni. Se si limita a dire “redditi non dichiarati €X su conto estero” senza indicare come sono determinati €X e quali fonti, potrebbe essere illegittimo per difetto di motivazione. La giurisprudenza però ammette motivazione per relationem a documenti noti al contribuente. Ad esempio, se l’avviso richiama un PVC (processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza) consegnato al contribuente, la motivazione è ritenuta sufficiente richiamando quel PVC. Nei casi da scambio dati esteri, spesso c’è un allegato con i dettagli bancari: se manca, il contribuente può eccepire di non aver potuto capire l’origine della pretesa. In giudizio, in tal caso, si potrebbe chiedere l’annullamento o quanto meno l’esibizione dei documenti.
- Mancata attivazione del contraddittorio ove obbligatorio: per taluni accertamenti a tavolino l’ordinamento non prevede obbligo di contraddittorio preventivo (diversamente dalle verifiche in loco per le quali c’è l’obbligo di invito a osservazioni). Tuttavia, se l’accertamento riguarda dati esteri da cooperazione fiscale, vi è un orientamento (basato anche su giurisprudenza UE) che il contraddittorio preventivo sia necessario in virtù della tutela del diritto di difesa. Se l’ufficio non ha mai dato chance di chiarimenti prima di colpire, questa violazione procedurale può essere sollevata. Le Corti tributarie a volte annullano l’atto per difetto di contraddittorio, se provi che ciò ti ha impedito di far valere elementi decisivi. Questo è un motivo di ricorso da valutare caso per caso (non sempre accolto in materia di imposte dirette, dove manca un obbligo generalizzato salvo normative speciali).
- Errore sul presupposto: ad esempio, l’avviso applica art. 12 DL 78/09 a un Paese che non era black list in quell’anno, oppure calcola male le imposte (tassando capitale come fosse reddito). Queste questioni diventano poi motivi di merito del ricorso. Ma se c’è un macroscopico errore (tipo attribuzione di redditi a persona sbagliata), si può anche chiedere annullamento in autotutela immediata.
In definitiva, l’avviso di accertamento su conti Panama va letto con estrema attenzione. Ogni dettaglio – dall’anno contestato, all’importo, alle normative citate – può aprire spiragli difensivi. Per esempio, se l’avviso accerta IRPEF 2015 su 100.000 € come “redditi diversi esteri non dichiarati”, bisogna capire: da dove esce 100k? È il saldo del conto? Sono bonifici in entrata? Lo giustificano con la presunzione redditi sottratti? Hanno applicato aliquota IRPEF massima? E la doppia imposizione (se Panama li avesse tassati)? O ancora: la Convenzione Italia-Panama del 2010 (entrata in vigore 2016) prevedeva lo scambio dal 2016 in poi, quindi se contestano anni precedenti, su che base? Bisogna farsi queste domande e vedere se l’ufficio ha tenuto conto di tutto.
3.4 Onere della prova nel contenzioso tributario
Abbiamo già delineato come, in virtù delle norme speciali, l’onere probatorio subisca inversioni nei casi di estero: tocca spesso al contribuente dimostrare la regolarità fiscale (prova contraria alle presunzioni). In giudizio, ciò significa che il contribuente dovrà produrre documenti e testimonianze a proprio favore. Ad esempio: estratti conto esteri completi per mostrare che i bonifici provenivano da fondi propri, attestazioni di banche sulle date di apertura del conto (magari se aperto con soldi tassati anni prima), evidenze di eventuali tasse pagate all’estero su quei redditi (per invocare credito d’imposta, se del caso).
Dal canto suo, l’Agenzia delle Entrate di solito basa l’accertamento su: i dati trasmessi da Panama (saldi, movimenti), eventuali indizi raccolti (es. segnalazioni antiriciclaggio, notizie da Panama Papers), applica la presunzione legale e richiede il pagamento. In Commissione tributaria, l’Agenzia può limitarsi a esibire quei dati e invocare la norma presuntiva. Spetterà al giudice valutare se tali elementi costituiscono presunzione grave, precisa e concordante di evasione. In casi passati, la Cassazione ha ritenuto che anche un singolo indizio preciso (come la prova di un conto estero non dichiarato) sia sufficiente per legittimare l’accertamento basato su presunzioni, a meno che il contribuente non fornisca prova contraria. Questo orientamento, seppur criticabile, mette il contribuente in posizione scomoda: anche la copia degli estratti conto può non bastare se non spiega l’origine dei fondi. Infatti, la Cassazione già nel 2013 affermava che la copia degli estratti conto esteri di per sé non prova la non imponibilità (sent. n.22508/2013); serve dimostrare la provenienza lecita di quelle somme.
In giudizio tributario non c’è discovery o testimonianze orali (se non casi rari): tutto ruota attorno a documenti. È essenziale quindi documentare il più possibile. Anche scritti privati, email, prospetti bancari, se ben utilizzati, possono dare un quadro. Ad esempio, per dimostrare che Tizio era non residente, portare iscrizione AIRE, contratto di lavoro a Panama, affitto casa a Panama, bollette, iscrizione club locali, etc., per convincere che il centro interessi era fuori. Non si deve lesinare: il giudice è libero nella valutazione, e più prove si adducono più è probabile creare quel ragionevole dubbio che eviti una condanna integrale.
3.5 Simulazione pratica di difesa pre-contenzioso
Caso di studio: Contribuente persona fisica con conto Panama non dichiarato. Mario Rossi, residente in Italia, riceve ad agosto 2025 un avviso per il periodo d’imposta 2018, in cui si contesta: “Disponibilità non dichiarata di conto corrente presso Banco XYZ (Panama) con saldo al 31/12/2018 di $300.000. Presunzione ex art.12 DL 78/09, redditi sottratti a tassazione €260.000 equivalenti, IRPEF evasa €100.000, sanzione infedele 180% (€180.000), sanzione monitoraggio 15% raddoppiato a 30% (€78.000), totale dovuto €100k+180k+78k=€358.000 più interessi”. Mario è sconvolto: quei soldi in realtà provenivano in parte da risparmi accumulati e già tassati in Italia (per €100k) e in parte da un’eredità di uno zio argentino (non tassabile in Italia, €160k). Mario però non aveva fatto nulla di tutto ciò, il conto l’aveva tenuto nascosto temendo impicci. Come può difendersi ora?
Fase 1: immediata – Mario contatta un avvocato tributarista e un commercialista. Entro 30 giorni dalla notifica decidono di presentare istanza di adesione per congelare i termini (guadagnando 90 gg di tempo) e intanto raccogliere prove. Mario fruga nei cassetti e trova: vecchie dichiarazioni dei redditi 2005-2010 dove risultano redditi netti per €120k (a conferma che €100k potevano essere risparmi da redditi tassati), documenti bancari che mostrano prelievi in contanti per €80k nel 2011 (quando chiuse un’attività) e soprattutto copia dell’atto di successione dello zio in Argentina e bonifico di €160k ricevuto sul suo conto italiano nel 2014, poi trasferito a Panama. Questi documenti sono preziosi: dimostrano che €160k erano eredità (non tassabile perché le successioni estere di soggetti non residenti non sono soggette a imposta italiana) e il resto erano redditi dichiarati in parte. Preparano una memoria da portare all’adesione, evidenziando che la base imponibile evasa va fortemente ridotta (forse a zero) poiché i fondi originari non erano redditi imponibili.
Fase 2: adesione – All’incontro, l’ufficio inizialmente è rigido: “Abbiamo segnalazione di €300k non dichiarati, per noi è tutto imponibile”. Ma difesa di Mario esibisce: dichiarazioni reddituali pregresse, estratti contributivi, atto di successione tradotto e legalizzato, bonifico del 2014 verso Panama con causale “eredità”. L’ufficio a quel punto comprende che almeno €160k non sono redditi evasi (eredità) e che Mario effettivamente aveva redditi nei 10 anni precedenti per giustificare il resto. Si concorda così: nessuna imposta evasa su €260k, si riconosce che provengono da basi non tassabili; semmai, residua un’omissione formale di monitoraggio per la quale Mario accetta di pagare la sanzione ridotta. L’ufficio propone di definire con: imposta evasa €0 (quindi niente sanzione infedele), sanzione quadro RW al minimo (3%, non raddoppiato perché alla luce dei documenti considerano Panama ora collaborativa) su €300k = €9.000, ridotta a 1/3 per adesione = €3.000. Mario ovviamente accetta con sollievo. Firma l’atto di adesione, paga €3.000 in un’unica soluzione. L’accertamento è chiuso, l’Agenzia non proseguirà.
Questo scenario positivo richiede però che il contribuente abbia pezze d’appoggio solide. Se Mario non avesse avuto prove dell’eredità, difficilmente l’esito sarebbe stato così favorevole. Si sarebbe magari concordato di tassare una parte (magari 50%) come reddito e l’altra no, andando “a forfait”. La forza dell’adesione sta nel poter chiudere anche con soluzioni di compromesso che un giudice non potrebbe avallare se non supportate da prove. Ad esempio: l’ufficio potrebbe, per transare, togliere le sanzioni o ridurle al minimo, anche oltre il 1/3 di legge, in cambio del pagamento delle imposte. Oppure riconoscere deduzioni non comprovate pur di incassare. Queste flessibilità motivano a tentare l’accordo se l’evidenza documentale è parziale.
Se invece Mario non fosse riuscito a convincere in adesione (o se l’ufficio fosse stato inflessibile), avrebbe comunque potuto impugnare l’avviso in Commissione Tributaria presentando le medesime prove. È probabile che una Commissione, vedendo l’origine eredità, avrebbe comunque annullato gran parte dell’imponibile: infatti i redditi esenti non possono essere tassati nemmeno con presunzione. In Cassazione ci sono stati casi in cui la presunzione black list è stata superata da prove indirette: ad esempio, se il patrimonio estero corrispondeva a redditi dichiarati negli anni passati, il giudice non ha applicato doppia tassazione.
4. Difendersi in giudizio: il ricorso al giudice tributario
Se non si raggiunge una soluzione in via amministrativa, il contribuente deve attivare la tutela giurisdizionale presentando ricorso alla Commissione Tributaria (ora denominata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado, dopo la riforma del 2022). Vediamo gli aspetti salienti del contenzioso tributario in questi casi.
4.1 Presentazione del ricorso e termini
Il termine per impugnare un avviso di accertamento è di 60 giorni dalla notifica (esteso a 90 giorni se si è presentata istanza di adesione entro i primi 60 giorni). Il ricorso va proposto davanti alla Corte di Giustizia Tributaria provinciale competente per territorio (di regola quella del domicilio fiscale del contribuente). Per un soggetto residente a Firenze, ad esempio, la Corte Tributaria di Firenze; per un residente all’estero ancora iscritto all’AIRE in un comune italiano, la sede è quella di tale comune (se incerto, la normativa considera competente la Commissione di Roma per i non residenti senza domicilio fiscale noto).
Dal 2023 il processo tributario consente il deposito telematico degli atti tramite il Portale della Giustizia Tributaria. Il ricorso deve contenere: indicazione del ricorrente e difensore (in tributario è necessaria l’assistenza di un avvocato o commercialista abilitato, salvo cause di valore sotto €3.000 dove è ammessa l’autodifesa), l’atto impugnato, i motivi di diritto e fatto, le conclusioni (ciò che si chiede: annullamento totale/parziale). Va allegata copia dell’atto impugnato e la prova della notifica (es. relata PEC). Inoltre, per valore controversie > €3.000, occorre pagare il contributo unificato (una tassa da €30 a qualche centinaio di euro a seconda del valore).
Nella stesura del ricorso, i motivi tipici in materia di conti esteri potrebbero essere:
- illegittimità della presunzione per carenza presupposti (es. Panama non era black list nel 2018 perché scambio attivo, quindi non applicabile…);
- omessa valutazione di prove (es. l’Agenzia non ha considerato che i fondi provenivano da redditi tassati, violando l’art. xx);
- difetto di motivazione e violazione art.7 Statuto Contribuente se i dati esteri non erano allegati;
- violazione di norme convenzionali (es. Convenzione contro doppie imposizioni: il ricorrente era residente Panama ex art.4 della Convenzione, dunque Italia non poteva tassare quei redditi);
- errore di diritto (es. applicazione errata di aliquote o doppia tassazione di capitale invece che reddito – magari contestare che tassare il capitale sul conto costituisce tassa patrimoniale non prevista);
- prescrizione o decadenza (se l’avviso è fuori termine, o se il raddoppio termini non era applicabile perché la norma non c’era per quell’anno);
- eccesso di potere o sviamento se si dimostra che l’ufficio ha agito con finalità estranee (raro in tributario).
Si richiede l’annullamento integrale o, subordinatamente, la riduzione dell’imponibile/sanzioni come ritenuto di giustizia.
Una volta depositato il ricorso, l’Agenzia delle Entrate (controparte) deve costituirsi in giudizio depositando il controricorso con le proprie difese entro 60 giorni. Spesso allegherà un fascicolo con le prove (es. segnalazioni CRS, corrispondenza con Panama, ecc.). Il contribuente potrà replicare con memorie e depositare ulteriori documenti fino a 20 giorni prima dell’udienza. L’udienza potrà essere in presenza o da remoto (oggi consentito). La decisione di primo grado in genere arriva in 6-18 mesi.
4.2 Sospensione della riscossione
Aspetto cruciale: presentare ricorso non sospende automaticamente la riscossione dell’imposta accertata. Decorso il termine di 60 giorni dalla notifica dell’avviso, questo diviene esecutivo. L’Agenzia Entrate Riscossione potrebbe dunque iniziare le procedure di recupero (salvo che il contribuente abbia pagato un terzo con adesione o altro). Per evitare di subire pignoramenti durante il processo, il contribuente deve chiedere la sospensione. Ci sono due vie:
- Istanza di sospensione al giudice tributario: unitamente al ricorso (o anche dopo, ma in pratica conviene contestuale) si può proporre un’istanza di sospensiva, motivandola con il periculum in mora (danno grave e irreparabile se si pagasse subito) e il fumus boni iuris (motivi del ricorso non pretestuosi, c’è fondatezza). La Commissione fissa di solito un’udienza in tempi brevi (30-60 giorni) per decidere sulla sospensione. Se accordata, la riscossione dell’atto è sospesa fino alla pronuncia di primo grado. Nel nostro esempio, un accertamento da €300k porterebbe certamente grave danno a Mario, quindi chiederebbe sospensione evidenziando magari che rischia di fallire o di dover vendere casa. Se il giudice vede che Mario ha presentato prove serie (es. l’eredità), potrebbe concedere la sospensiva.
- Sospensione amministrativa: in parallelo o in alternativa, si può chiedere all’ente impositore di astenersi dalla riscossione in attesa esito (istanza in autotutela sospensiva). L’Agenzia raramente accoglie se non in presenza di evidenti errori. Ma se c’è dialogo (in adesione, p.es.) si può ottenere informalmente un differimento.
Da rilevare: dal 2016, se il contribuente versa almeno 1/3 delle imposte contestate e fa ricorso, la riscossione del residuo è sospesa ex lege fino alla sentenza di primo grado. Questa regola (art.15-ter DPR 602/73) fu pensata per evitare che il contribuente paghi tutto in caso di esito a lui favorevole in primo grado. In pratica: Mario potrebbe pagare volontariamente 1/3 di €100k = €33k imposte (sanzioni escluse) per congelare il resto. Tuttavia, spesso i contribuenti evitano di esborsare somme notevoli se confidano di vincere. È una scelta strategica. Pagare 1/3 offre comunque la certezza di non subire esecuzioni per il restante per un po’. Se la sentenza di primo grado sarà sfavorevole, allora bisognerà pagare altri 2/3 per evitare ulteriori misure in appello, e così via.
4.3 Giudizio di merito: prove e sentenza
In Commissione, come detto, la partita si gioca sulle prove documentali e sulle argomentazioni giuridiche (interpretazione di norme interne e convenzioni). Il contribuente deve convincere il Collegio giudicante che l’accertamento è infondato o almeno da rivedere.
Nel valutare la presunzione su conti esteri, i giudici possono avere orientamenti diversi: alcuni adottano linea rigida filo-erariale (“se non hai dichiarato avevi intenzioni evasive”), altri più garantisti (“il Fisco deve comunque dimostrare almeno indizi di redditività, non può tassare capitale come reddito senza niente”). È utile citare precedenti giurisprudenziali a supporto: Cassazione e anche pronunce di merito favorevoli. Ad esempio, una Cassazione sovente citata è la n. 11205/2007 che affermò che un conto estero stesso costituisce indizio sufficiente, ma fu prima della norma del 2009. Dopo il 2009, Cass. 31085/2019 (citata in Dominici Associati) ha confermato la presunzione e la non retroattività. Cass. 22508/2013 diceva degli estratti conto non probanti. Ci sono però anche Cass. in cui i contribuenti hanno vinto mostrando che le somme provenivano da fonti tassate, con la Corte che ha dato loro ragione perché l’onere probatorio era assolto.
Un elemento spesso decisivo: la Convenzione contro le doppie imposizioni. Se applicabile (dal 2017 c’è con Panama), il giudice potrebbe esaminare se c’è doppia residenza e risolvere col tie-breaker a favore del contribuente, come fece Cass. 35284/2023 per Emirati. Oppure se c’è doppia imposizione economica su uno stesso reddito, potrebbe considerare il credito d’imposta estero (anche se non richiesto in origine, lo si può invocare in giudizio se si prova che quell’interesse fu tassato a Panama ad esempio).
La sentenza di primo grado può: accogliere totalmente il ricorso (annullando l’atto), accoglierlo parzialmente (annullando in parte l’imponibile o riducendo sanzioni), oppure respingerlo (confermando l’atto). In caso di parziale, di solito il giudice ridetermina l’imposta dovuta o rinvia all’ufficio per ricalcolo. Le spese legali possono essere poste a carico di chi perde (ma spesso in tributario si compensano).
Chi soccombe può appellare in secondo grado (Corte Giustizia Tributaria regionale) entro 60 giorni. Il contenzioso può poi arrivare in Cassazione (solo per motivi di legittimità). Da notare: dal 2023, le Corti tributarie sono composte da giudici professionali (non più giudici onorari). Ci si attende maggiore uniformità e qualità. Inoltre è stato introdotto l’istituto della conciliazione potenziato: anche in appello si può conciliare con sconto sanzioni al 50% (in primo grado era 60%). Quindi, se in primo grado l’Agenzia capisce di rischiare di perdere, potrebbe proporre a quel punto una transazione abbassando la richiesta.
Nel corso degli anni, diversi contribuenti con questioni analoghe (conti in Svizzera, San Marino, Montecarlo, etc.) hanno avuto esiti altalenanti: alcuni hanno ottenuto annullamenti completi, specie quando la documentazione era a loro favore; altri hanno avuto conferme integrali e hanno pagato tutto. In Cassazione attualmente l’orientamento è: la presunzione è valida, ma va comunque data al contribuente chance di provare il contrario, e i giudici di merito devono valutare concretamente le prove, senza preclusioni (vedi Cass. 21694/2020: iscrizione AIRE non salva se rimane domicilio in Italia, ma d’altra parte Cass. 1291/2025: conferma che art.2 c.2-bis TUIR è presunzione relativa e non criterio assoluto).
4.4 FAQ – Domande frequenti sulla difesa
Di seguito alcune domande comuni che i contribuenti si pongono riguardo a casi di avvisi di accertamento legati a conti esteri:
D: Ho ricevuto un avviso per un conto a Panama che in realtà appartiene a mia moglie/nonna/figlio, io sono solo delegato. Posso farlo annullare?
R: Se riesci a provare che l’intestatario effettivo non sei tu ma un’altra persona non fiscalmente a tuo carico, puoi contestare la legittimità dell’accertamento verso di te. Spesso però l’Agenzia colpisce chi ha il nome sul conto. Porta documenti che mostrino che i soldi erano di terzi (es. conferimento fiduciario, procura). Se il conto era cointestato, presumono proprietà al 50%. Potresti far intervenire in giudizio il reale titolare. È una situazione complessa: in mancanza di elementi chiari, il fisco tende a considerare titolare chi appare tale.
D: Il denaro sul conto Panama proviene da redditi già tassati in Italia anni fa. Perché dovrei pagare di nuovo?
R: Non dovresti, in linea di principio. La presunzione colpisce chi non dimostra l’origine. Se hai prove che le somme erano da redditi dichiarati (ad es. vendesti casa e già pagasti eventuale plusvalore, o erano stipendi tassati accantonati), devi esibirle. Il Fisco non può tassare due volte lo stesso reddito. In giudizio farai valere questo e il giudice dovrebbe annullare l’imposta duplicativa. Resterà la sanzione per non aver compilato RW, però.
D: E se i soldi derivavano da attività completamente esenti (es. vincite, donazioni, crypto non tassate)?
R: Lo stesso: se non erano redditi imponibili per legge, non possono diventarlo ora. Ovviamente devi provarne l’origine. Ad esempio, per donazioni: atto notarile; per vincite: certificato del casinò o lotteria; per crypto: tracciabilità acquisti/vendite e normativa dell’anno (prima del 2023 non erano chiaramente tassate, dal 2023 lo sono oltre €2k di guadagno). In assenza di prova specifica, l’ufficio le tratterà come redditi evasi.
D: L’avviso mi chiede di pagare anche sugli interessi maturati sul conto estero. Non erano già tassati alla fonte in Panama?
R: In Panama le banche spesso non applicavano ritenute agli interessi (era un paradiso fiscale anche per questo). Se però hai documentazione che la banca estera ha applicato un’imposta locale su quegli interessi, potresti chiedere il credito d’imposta in Italia (in sede contenziosa si può far valere, se previsto dal trattato, art. 24 conv. Italia-Panama). Tieni presente che l’aliquota IRPEF su interessi esteri è 26%, senza soglie. Quindi vanno dichiarati in Italia e poi chiedi eventualmente credito per tassa estera fino a concorrenza 26%. Se non li hai dichiarati, l’Agenzia te li tassa comunque al 26% + sanzioni.
D: Posso patteggiare col fisco di pagare solo una parte? O tutto ma senza sanzioni?
R: Sì, tramite accertamento con adesione o conciliazione giudiziale. Non “privatamente” senza formalità. Devi attivare quei canali. Nell’adesione puoi ottenere sconti su sanzioni (per legge 2/3 abbuonati) e talvolta ufficiosamente una riduzione base imponibile (ad es. riconoscendo deduzioni non provate). Nella conciliazione in giudizio le sanzioni si riducono al 40% o 50% del minimo a seconda della fase. Un accordo extragiudiziale non è previsto se non dentro questi strumenti. Non c’è arbitrato, si deve passare per procedure formali.
D: E se ignoro l’accertamento e non pago nulla?
R: Pessima idea. Dopo 60 giorni l’avviso diventa definitivo e l’Agenzia potrà iscrivere a ruolo o agire con esecuzione forzata. Ti troverai le cartelle, poi il pignoramento di conti in Italia, stipendio, auto (fermo amministrativo) o ipoteche su immobili. Inoltre, l’importo lieviterà per interessi di mora. Ignorare espone anche a eventuali denunce penali (se importi grossi) non contrastate. È sempre meglio reagire: o paghi con sconto (acquiescenza) o fai ricorso per contestarlo.
D: Ho spostato la residenza a Panama anni fa e ora mi accusano di essere ancora residente in Italia. Come difendermi?
R: Devi dimostrare l’effettività del tuo trasferimento. Art. 2, c.2-bis TUIR presuppone che se un italiano va in un paradiso fiscale, resta residente in Italia salvo prova contraria. Quindi onere tuo. Prepara tutto: iscrizione AIRE tempestiva, contratto di casa a Panama, bollette, tessere sanitarie locali, eventuale lavoro, famiglia se ti ha seguito. Prova che in Italia non avevi più base (venduta casa, recesso da palestre, etc.). La Cassazione ha ultimamente detto che se c’è un trattato di doppia imposizione, quel criterio prevale: Panama ha trattato dal 2016, quindi ad esempio per 2017 in poi se sei considerato residente fiscale panamense secondo il trattato (perché avevi domicilio permanente lì, centro interessi lì), allora l’Italia deve riconoscerlo. Usa questa leva se applicabile. Se però di fatto vivevi ancora gran parte in Italia (magari venivi spesso), sarà dura: l’Agenzia esamina utenze, spese con carte, celle telefoniche per stanare i falsi espatri.
D: I documenti dei Panama Papers sono prove valide? Erano “rubati”…
R: In Italia, la giurisprudenza ha ritenuto utilizzabili le liste ottenute illegalmente all’estero (es. Lista Falciani, Panama Papers) in sede di accertamento fiscale. Non c’è una prova illecita da escludere perché il procedimento tributario non è penale. Inoltre, spesso l’Agenzia poi ha chiesto conferma via accordi ufficiali. Quindi non basarti sulla teoria dell’inutilizzabilità: in generale le Commissioni ammettono quei dati. Dovrai eventualmente contestare la veridicità caso per caso (es. “non sono io il beneficiario di quella offshore nonostante il nome simile”).
D: Ho aderito alla voluntary disclosure anni fa, dichiarando tutto. Possono ancora farmi accertamenti?
R: Se hai fatto voluntary disclosure nel 2015 o 2017 riguardante quelle attività e sei stato ammesso alla procedura, l’Agenzia non può sanzionarti ulteriormente per quelle violazioni sanate (è prevista preclusione di futuri accertamenti su quanto emerso). Dovrai solo esibire la documentazione della VD, le ricevute dei pagamenti effettuati allora, e l’avviso sarà annullato in autotutela. Purtroppo alcuni hanno fatto VD incomplete o non l’hanno fatta affatto: in tal caso oggi non c’è una terza edizione disponibile, quindi tocca difendersi nel merito. Se hai aderito solo per certi anni e magari hai dimenticato qualcosa, su ciò dimenticato possono accertarti. Ma la VD in genere era tombale su quegli importi. L’Agenzia incrocia i nomi VD con Panama Papers: chi ha fatto VD è al sicuro, chi no è bersaglio.
D: È vero che oggi aprire un conto all’estero non serve più a nulla per evadere?
R: Praticamente sì: con lo scambio automatico, il Fisco lo saprà. “Non è sempre così sicuro”, come notano gli esperti. Anzi, rischi di più: se tieni soldi fuori regola, vieni punito più severamente. Ormai l’unico vantaggio di conti offshore potrebbe essere per chi vuole schermare patrimoni da creditori privati o valute particolari, ma dal punto di vista fiscale è uno svantaggio perché appena ti scoprono paghi sanzioni doppie. Perciò, per chi vuole ridurre legalmente il carico fiscale, meglio altre strade lecite (trasferimenti reali di residenza in Paesi UE con regimi attrattivi, regimi impatriati, trust dichiarati, etc.) che non la mera fuga occulta di capitali.
5. Voluntary disclosure e regolarizzazione post-fatto
Un capitolo a parte meritano le procedure di collaborazione volontaria che il legislatore ha offerto in passato per far emergere gli asset esteri occultati. Esse rappresentano un elemento importante anche nella strategia difensiva attuale, sia perché definiscono un precedente, sia perché alcuni contribuenti vi hanno aderito e quindi non dovrebbero più essere oggetto di accertamento per quanto emerso.
5.1 Le edizioni 2015 e 2017 della Voluntary Disclosure
La Voluntary Disclosure (VD) è stata introdotta con la L. 186/2014, attiva nel 2015, come procedura straordinaria che permetteva ai contribuenti di autodenunciare gli asset esteri non dichiarati e i redditi evasi, pagando tutte le imposte dovute ma con sanzioni ridotte e soprattutto benefici penali (non punibilità per reati fiscali connessi). La VD 1.0 ebbe un grande successo: circa 130.000 adesioni entro il termine del nov. 2015, con l’emersione di oltre €60 miliardi di capitali e un gettito incassato intorno a €4-5 miliardi. Le sanzioni RW furono ridotte al minimo e ulteriormente decurtate (1/6 con ravvedimento speciale in VD), e molte violazioni furono coperte da prescrizione. In media, il costo per i partecipanti fu circa l’8% delle somme emerse, molto conveniente rispetto al rischio. È stato definito un “bancomat” per l’Erario, poiché ha permesso di recuperare spontaneamente gettito senza accertamenti.
Nel 2017 il legislatore ha concesso una VD-bis (D.L. 193/2016), con finestre fino a luglio 2017, per chi non aveva aderito la prima volta. La seconda edizione però ebbe scarso risultato: circa 15.000 domande e circa €1 miliardo di capitali emersi. Molti evasori l’avevano ignorata sperando in condizioni migliori o confidando di non essere scoperti, soprattutto quelli con contanti non dichiarati in cassette di sicurezza (novità della VD2). In effetti la VD2 non previde ulteriori sconti e l’autoliquidazione era complessa. Pochissimi con contante si fecero avanti, temendo problemi di provenienza illecita (timore del riciclaggio) e ritenendo la tassazione troppo alta senza anonimato.
Il risultato è che, dopo il 2017, chi ancora deteneva attivi esteri non dichiarati era rimasto fuori dalle sanatorie, e con l’arrivo del CRS è diventato bersaglio quasi certo.
Chi ha aderito alla VD: ha ottenuto benefici penali (non è punibile per dichiarazione infedele, omessa, ecc.) e ha sanato i periodi fino al 2014 (la VD1) o 2015 (VD2). L’Agenzia tuttora sta ultimando i controlli sulle istanze presentate (nel 2023 ancora emergevano accertamenti su VD incomplete, ma in generale se uno ha dichiarato onestamente tutto nella VD, non rischia ulteriori accertamenti su quegli importi). In caso di avviso su somme già oggetto di VD, basta farlo presente allegando la pratica: dovrebbe essere annullato in autotutela (doppi controlli a volte capitano per mancanza di incrocio banche dati).
Chi NON ha aderito: ora non ha uno scudo. Non esiste al momento (luglio 2025) una Voluntary Disclosure 3.0. Ogni tanto circolano proposte di una nuova edizione, magari per contanti o cripto, ma nulla di concreto è in vigore. L’ultima opportunità simile è stata la “tregua fiscale 2023” (Legge di Bilancio 2023) che però riguardava cartelle esattoriali e piccoli debiti, non c’entra con estero. Dunque, il contribuente colpito da accertamento nel 2025 deve difendersi nel merito o utilizzare gli strumenti del processo. L’opzione di pentimento spontaneo oramai è limitata al ravvedimento operoso ordinario prima che l’ufficio contesti (ma se ha già inviato lettera o accertamento, è tardivo).
5.2 Impatto delle voluntary disclosure sulle difese
La VD ha creato un precedente storico: di fatto, ha riconosciuto che tantissimi italiani avevano conti nascosti e li ha graziati in parte. Questo però ha un risvolto: chi non l’ha fatto, agli occhi del Fisco, è un soggetto che ha preferito rischiare. Quindi spesso l’ufficio è meno indulgente in sede di accertamento, sapendo che “hai avuto la tua chance”. In effetti, molti accertati di oggi sono ex potenziali aderenti VD.
Ciò non deve scoraggiare nella difesa, ma far capire che certe argomentazioni di equità (“mi state chiedendo troppo”) potrebbero cadere nel vuoto dato che la legge offriva già una via agevolata. Paradossalmente, in giudizio a volte i difensori provano a dire: “Chiedere ora 300% di sanzioni è incostituzionale perché un anno prima c’era la possibilità di pagare il 20%” – tuttavia i giudici tendono a rispondere che la VD era un condono a tempo, chi non ne ha usufruito ora subisce la legge ordinaria.
La presenza della VD ha comunque fornito molta giurisprudenza interpretativa su norme come il monitoraggio, che viene usata ora. Ad esempio, si è chiarito che la presunzione art.12 non può applicarsi ante 2009 proprio in cause di VD (vd. Cass. 2662/2018). Oppure i conti cointestati tra coniugi in VD hanno fatto emergere la prassi che sanziona entrambi pro-quota. Insomma, ha prodotto prassi utili per situazioni ancora aperte.
5.3 Possibili nuove aperture e collaborazione attiva
Guardando avanti, il Governo potrebbe reintrodurre in futuro qualche forma di collaborazione volontaria, magari mirata alle cripto-attività estere (tema caldo, nel 2023 c’è stato lo “scudo cripto” in legge 197/2022, con scarso successo). Oppure un condono mirato a chi ha ancora contanti nascosti (meno probabile politicamente). Al momento però chi ha redditi a Panama non dichiarati può solo: o mettersi in regola spontaneamente prima che lo scoprano (finché il CRS non li becca, ma oramai li becca), o attendere l’accertamento e poi negoziare/patire le conseguenze.
Una strategia consigliabile per chi volesse “attenuare” la posizione anche in sede difensiva è la collaborazione attiva fin dal controllo: rispondere ai questionari, presentare memorie, pagare almeno in parte il dovuto. Ad esempio, se emergono redditi esteri non dichiarati per certe annualità più recenti ancora ravvedibili, farlo subito può far vedere al giudice un atteggiamento di ravvedimento che a volte influenza le decisioni sulle sanzioni (possibile riduzione per attenuanti). Anche in ambito penale, l’avere aderito a VD (seppur tardivamente, magari a un secondo giro) fu considerato segno di pentimento.
In mancanza di normative nuove, si può anche valutare la via del accertamento con adesione “preventivo” ossia contattare l’ufficio prima ancora che emetta atto, mostrando la volontà di dichiarare. Alcuni uffici accettano di concordare l’ammontare spontaneamente senza avviso (ad esempio emettendo un invito al contraddittorio con esito di adesione). È una sorta di “ravvedimento su invito” informale. Non è un diritto del contribuente, ma tentare un colloquio con l’Agenzia – tramite il proprio consulente – a volte porta a definire il dovuto senza penalizzare troppo.
In conclusione, la lezione delle voluntary è: chi ha regolarizzato dorme sonni tranquilli, chi non l’ha fatto deve ora prepararsi a difendersi con serietà, magari pentendosi tardivamente ma efficacemente tramite gli strumenti ancora possibili, per evitare il peggio.
6. Riscossione coattiva e tutela del patrimonio del contribuente
Dal punto di vista del “debitore” fiscale, non basta vincere o perdere la causa: bisogna considerare gli effetti in termini di riscossione coattiva. Questa sezione spiega cosa succede dopo che l’accertamento diventa esecutivo, quali azioni può intraprendere l’Erario per recuperare le somme e come il contribuente può proteggersi o gestire il pagamento.
6.1 L’avviso di accertamento esecutivo e tempi di pagamento
Come accennato, gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate in materia di tributi statali sono immediatamente esecutivi ex art.29 D.L. 78/2010. Ciò significa che contengono già l’intimazione ad adempiere entro 60 giorni e, in difetto, valgono come titolo esecutivo per la riscossione. Decorso il 60° giorno senza ricorso né pagamento, l’Agente della riscossione (Agenzia Entrate Riscossione, ex Equitalia) può procedere, dopo ulteriori 30 giorni di preavviso, a misure cautelari ed esecutive.
Riassumendo i tempi: notifica avviso -> (0-60 gg) ricorso o pagamento volontario -> (61 gg) titolo esecutivo -> l’Agenzia può iscrivere a ruolo le somme o inviare una sorta di intimazione di pagamento (in genere invia una comunicazione di presa in carico) -> (dopo 30 gg dall’esecutività) se non c’è stata sospensione né pagamento, può avviare pignoramenti. Di solito, però, se sanno che hai fatto ricorso e chiesto sospensiva, attendono l’esito di quest’ultima prima di aggredire (per evitare di dover restituire). Ma formalmente potrebbero agire.
Pagamento dilazionato: se il contribuente non impugna e vuole pagare, ha diritto a chiedere un pagamento rateale in 8 rate trimestrali (se l’importo >€50.000 serve garanzia fideiussoria). Se il contribuente impugna e perde in primo grado, deve versare una quota per non subire esecuzione (generalmente metà, considerando quanto già eventualmente sospeso). Ogni grado di giudizio ha regole (dopo sentenza appello, va pagato 2/3 del residuo, etc.).
6.2 Strumenti di riscossione coattiva
Agenzia Entrate Riscossione (AER) ha a disposizione vari strumenti per recuperare il credito fiscale divenuto definitivo (o provvisoriamente esecutivo):
- Fermo amministrativo: iscrizione al PRA del blocco sui veicoli intestati al debitore, impedendone l’utilizzo legale. Scatta per debiti >€1.000 se non saldati dopo preavviso di 30 gg. È una misura di pressione (non realizza denaro, ma crea disagio).
- Ipoteca: può iscrivere ipoteca sui beni immobili del debitore se il debito supera €20.000 e non pagato. L’ipoteca non porta immediato realizzo ma vincola l’immobile e spinge il debitore a regolarizzare per evitare l’esproprio.
- Pignoramento immobiliare: per debiti consistenti (superiori a qualche decina di migliaia) l’Agenzia può procedere a espropriazione dell’immobile. Serve che abbia notificato una intimazione e siano passati 6 mesi. Se il bene è prima casa e il debitore non ha altri immobili, la legge vieta il pignoramento se è l’unico immobile di residenza e il debito < €120.000. Ma in casi di grandi evasori con più proprietà, il rischio c’è.
- Pignoramento presso terzi: l’AER può pignorare conti correnti bancari del debitore, stipendio, pensione, crediti verso clienti, ecc. Questo di solito è il primo passo perché è veloce e a costo basso. Invia un atto alla banca intimando di bloccare le somme fino a concorrenza del debito. Oppure al datore di lavoro affinché trattenga una quota mensile (di regola 1/10 o 1/7 dello stipendio a seconda dell’importo).
- Sequestro conservativo: l’Agenzia, con autorizzazione del tribunale, può in casi urgenti congelare beni del debitore anche prima che il debito sia definitivo, se c’è pericolo concreto di perdita garanzia (es. il contribuente sta vendendo tutto per espatriare). Questo strumento però è poco usato in ambito fiscale, salvo per crediti doganali o casi eclatanti, perché serve un provvedimento del giudice (simile a misure cautelari penali). In genere usano ipoteca e blocchi standard.
Nel nostro contesto: un contribuente con redditi Panama evasi e avviso di €300k, se non paga e perde, rischia pignoramenti su conti italiani e immobili. Quasi sempre la prima cosa che faranno è guardare l’Anagrafe dei conti bancari italiana: AER ha accesso centralizzato a tutti i conti correnti (censiti dall’Archivio rapporti finanziari). Pertanto sa subito dove il debitore ha depositi/movimentazioni. Manderà pignoramento telematico alle banche. Questo può avvenire anche durante il giudizio se non c’è sospensiva, perché giuridicamente il debito è esecutivo anche se sub iudice (salvo sospensione).
Va notato però che se uno ha un conto a Panama e ha tenuto lì i soldi, AER non può pignorarli direttamente a Panama, non avendo giurisdizione. Potrebbe attivare procedure di cooperazione internazionale di riscossione (alcuni trattati prevedono assistenza nel recupero crediti tributari, specie in UE). Con Panama non so se il trattato includa assistenza alla riscossione: probabilmente no, di solito i trattati vecchi non la prevedono. Quindi se il debitore ha spostato tutti i fondi all’estero e non ha nulla in Italia, il fisco può trovarsi in difficoltà. Tuttavia, se il contribuente mette piede in Italia o ha beni residui (un appartamento ereditato, ad esempio), li colpiranno. In situazioni estreme, si potrebbe arrivare a chiedere un mandato d’arresto europeo se c’è condanna penale per evasione e il soggetto è latitante all’estero, ma qui entriamo nel penale. Sul piano civilistico, il fisco per ora non può aggredire conti all’estero se non tramite eventuali intese bilaterali (con UE e pochi Paesi esiste, con Panama non risulta).
Difese nella riscossione:
- Se il contribuente ha presentato ricorso, come detto deve ottenere sospensione dal giudice. Altrimenti l’unica speranza per fermare un pignoramento è un’istanza di sospensione all’AER o un ricorso al giudice dell’esecuzione per vizi formali dell’atto di pignoramento. Ma se il merito è in mano al giudice tributario, quest’ultimo è competente anche per la sospensione. Quindi meglio prevenire.
- Se c’è un pignoramento del conto, la banca blocca la somma e la versa al fisco dopo 60 giorni. Il contribuente può solo tentare di fare opposizione in tribunale civile se ritiene che quel pignoramento sia su somme impignorabili (es. pensione minima, somme di terzi sul conto). Non è un fronte facile.
- Una volta avviata la riscossione, l’Agenzia può concedere rateizzazioni anche al debitore in contenzioso. Se perdi il ricorso e non hai liquidità, puoi chiedere rate fino a 72 rate (6 anni) o 120 rate in casi eccezionali di grave difficoltà. Pagando regolarmente le rate, eviti ulteriori esecuzioni. La rateazione può essere richiesta dopo la notifica della cartella (che nel nuovo sistema coincide con l’avviso stesso dopo 60 gg, quindi in pratica se ti arriva la comunicazione di presa in carico del debito).
- In casi di evidente errore, puoi chiedere all’Agenzia Entrate Riscossione la sospensione perché hai pendente un ricorso per cassazione o revocazione (se hai già perso nei primi gradi ma confidi di ribaltare, non facile). Oppure se stai transando (conciliazione) puoi far presente di attendere. L’AER è abbastanza automatizzata però: tende a eseguire. Sta al contribuente muoversi.
Tutela del patrimonio: se uno prevede di poter perdere e avere un debito grande, può adottare misure preventive come: trasformare proprietà in trust o fondi patrimoniali, vendere immobili a familiari, ecc. Attenzione però: l’Agenzia può far causa con azione revocatoria per atti dispositivi fatti dopo che il debito era noto (anche dopo notifica accertamento, 5 anni per agire). Quindi se vendo casa alla moglie sotto prezzo per sottrarla, l’Agenzia può far revocare la vendita e pignorare lo stesso. Inoltre se il debito è >€50k, con cartella scaduta si rischia l’iscrizione sul registro dei debitori che impedisce alcune operazioni. Insomma, giuridicamente l’unico modo per proteggere il patrimonio in modo solido sarebbe averlo già intestato ad altri o a un trust prima di avere problemi fiscali. Farlo durante è pericoloso e potrebbe configurare anche reato di sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (art.11 D.Lgs.74/2000) se fatto scientemente per evadere la riscossione. Quindi meglio non intraprendere atti spericolati a posteriori. Piuttosto, negoziare un pagamento sostenibile.
6.3 Quando conviene transare e quando combattere fino in fondo
Un debitore si trova spesso davanti al dilemma: mi conviene pagare (tutto o in parte) o fare anni di causa? La risposta dipende da:
- Solidità della propria difesa: se hai ottime prove e questioni di diritto a favore, vale la pena lottare sino in Cassazione per annullare tutto. Se la posizione è oggettivamente indifendibile (es. capitale enorme non giustificabile), magari puntare a ridurre sanzioni con adesione è più realistico.
- Entità del debito e impatto sulla vita: un debito enorme può portare a rovina economica; in tal caso il contenzioso può essere un modo per guadagnare tempo e cercare soluzioni (anche extra-fiscali, come liquidare beni per pagare). Se invece il debito è relativamente pagabile senza mandarti in miseria, potresti voler chiudere subito per evitare aggravio di interessi e stress.
- Rischio penale: se c’è un procedimento penale parallelo, l’estinzione del debito fiscale aiuta a ottenere magari patteggiamenti o cause di non punibilità. In questi casi pagare è quasi d’obbligo per salvare la fedina penale. Ad esempio, per omessa dichiarazione, se paghi tutto prima del dibattimento ottieni la non punibilità (art.13 D.Lgs.74/2000 riformato). Quindi la difesa penale può prevalere: paghi il fisco e poi magari fai ricorso per farti restituire se vinci (ma intanto hai risolto il penale).
- Precedenti giurisprudenziali su casi analoghi: se vedi che in 9 cause su 10 i contribuenti hanno perso su conti esteri, forse conviene patteggiare. Viceversa, se c’è un trend di annullamenti su un certo vizio (es. anni fa la notifica via PEC a indirizzo errato fece annullare molti atti), sfrutti quell’onda in giudizio.
A volte, come difensore, si può adottare strategia mista: contestare in giudizio per guadagnare tempo e intanto proporre all’Agenzia una conciliazione. Soprattutto dopo la prima sentenza, se non è nettamente a favore di qualcuno, entrambe le parti hanno interesse ad accordarsi. Ad esempio, se in primo grado il giudice dimezza la pretesa, l’Agenzia potrebbe proporre di finirla lì con pagamento di quel dimezzato (rinunciando ad appello) e contribuente accetta per non rischiare Cassazione. Oppure, se il giudice dà ragione al contribuente, l’Agenzia può allettarlo con un compromesso (magari far pagare solo sanzione minima RW) per evitare di andare in appello/Cassazione. Con la riforma 2023, la conciliazione è incoraggiata anche in appello.
Conclusione sulla tutela del debitore: il contribuente-debitore deve agire su due fronti: difesa legale (ridurre o annullare l’obbligo) e gestione finanziaria (salvaguardare liquidità e beni per poter pagare eventualmente). Una comunicazione chiara col Fisco può aiutare: ad esempio, se sai di dover pagare ma non hai soldi subito, segnalare disponibilità a rateazione prima che inizino i pignoramenti può spingere AER a non essere aggressiva. In fin dei conti, anche l’Erario preferisce incassare gradualmente che fare aste giudiziarie dispendiose.
7. Domande e risposte frequenti (FAQ)
D1: Cosa devo fare per primo se ricevo un avviso di accertamento per conti o redditi a Panama?
R: La prima cosa è segnarsi la data di notifica e contare 60 giorni: è il tempo utile per decidere il da farsi (pagare o ricorrere). Quindi, recati subito da un professionista (avvocato tributarista o commercialista) con l’atto e tutti i documenti possibili relativi ai conti contestati. In parallelo, se l’importo è elevato, valuta di chiedere una sospensione (presentabile solo con il ricorso) e magari fai un’istanza di adesione per guadagnare tempo. Non lasciare trascorrere i 60 giorni senza azione, altrimenti l’accertamento diventa definitivo e partirebbe la riscossione.
D2: Che differenza c’è tra paradiso fiscale “black list” e paese collaborativo?
R: Per la normativa italiana, un Paese “black list” storicamente è uno con regime fiscale privilegiato e niente scambio info. Panama lo era fino a qualche anno fa. Un paese collaborativo (“white list”) è quello con accordi di trasparenza con l’Italia. La differenza pratica: se il conto è in black list, le sanzioni RW sono doppie (6-30% contro 3-15%), e si applica la presunzione art.12 DL 78/09 per redditi evasi. Se invece è in paese white list (es. UE, USA, ecc.), la presunzione specifica non c’è (anche se comunque l’Agenzia può contestare redditualmente). Dal 2019 Panama scambia info, ma formalmente l’elenco black list delle persone fisiche include ancora Panama. Quindi ai fini delle presunzioni l’Agenzia la considera black list almeno fino al 2019.
D3: Ho soldi su un conto estero che provengono da evasione IVA (vendite non fatturate in Italia). Possono tassarmeli di nuovo come IRPEF?
R: Situazione spinosa. Tecnicamente, se hai già subito (o subirai) un accertamento IVA per quelle vendite non dichiarate, tassare anche il capitale come reddito IRPEF potrebbe essere una duplicazione. Però, spesso l’Agenzia in questi casi contesta l’IVA evasa e anche il ricavo come imponibile diretto non dichiarato (IRES/IRPEF). Legalmente è ammissibile: IVA colpisce il consumo, IRPEF il reddito. Tu hai evaso entrambi. Quindi sì, possono chiederti entrambi i tributi. Se invece hai già pagato tutto in ambito IVA e le somme sul conto sono il netto ricavo, puoi provare a evitare la doppia tassazione integrale magari invocando il principio di capacità contributiva (difficile, la legge lo consente). In ogni caso, il fatto che i fondi derivino da evasione interna peggiora il quadro, perché conferma che sono redditi non tassati.
D4: In caso di avviso su conti esteri, posso coinvolgere nel ricorso altri coobbligati (es. soci, contitolari)?
R: Il ricorso va fatto da chi riceve l’avviso. Se più soggetti hanno ricevuto avvisi analoghi (es. marito e moglie cointestatari, ciascuno tassato pro quota), potete fare un ricorso congiunto per trattarli insieme, evidenziando che il fatto è unico e evitare decisioni contrastanti. Se invece solo uno è destinatario ma l’altro ritiene di avere interesse (es. l’erede di un deceduto, o l’amministratore della società coinvolto), può intervenire o fare ricorso parallelo se notificato anche a lui. Dipende dal caso. In generale, la Commissione tributaria può riunire cause connesse. Conviene segnalare tutte le relazioni.
D5: Quanto dura tutto il contenzioso?
R: Abbastanza: primo grado 1-2 anni, secondo grado altri 1-2 anni, Cassazione se ci si arriva altri 2-3 anni. Totale potenzialmente 5-6 anni o più. Durante questo tempo, se hai sospeso la riscossione, il debito è congelato (tranne interessi). Se invece non c’è sospensiva, potresti aver dovuto pagare delle rate provvisorie. Quindi è un percorso lungo e oneroso. Ecco perché spesso conviene risolvere prima se possibile.
D6: Le sentenze tributarie possono portare anche a condanne penali o viceversa?
R: Il giudice tributario no, decide solo questioni fiscali (può semmai segnalare fatti a Procura se emergessero reati non noti, ma è raro in sede di giudizio). Il procedimento penale è autonomo: lì valuteranno il dolo, le soglie evase, etc. Tuttavia, l’esito del giudizio tributario può influenzare il penale: ad esempio se in tributi viene accertato che non c’era evasione (annullamento avviso), cade spesso la base del reato (manca imposta evasa > soglia). All’opposto, se in tributario si chiude con conciliazione e pagamento, il penale può estinguersi per intervenuto pagamento (salvo reati fraudolenti). Quindi i due procedimenti comunicano tramite gli esiti, ma formalmente le prove si scambiano limitatamente. Una sentenza tributaria non vincola il penale, e viceversa una condanna penale (ad es. per dichiarazione infedele) fa presumere il debito ma non sostituisce la decisione del giudice tributario su quanto devi pagare.
D7: Un accertamento “coattivo” che significa?
R: Credo tu ti riferisca al termine accertamento esecutivo (talvolta detto impropriamente coattivo): significa che l’atto di accertamento vale anche come atto di riscossione senza bisogno di cartella. “Coattivo” in generale indica la fase di riscossione forzata (pignoramenti, ecc.). L’avviso ormai include già la minaccia di esecuzione e l’indicazione di Agenzia Riscossione come soggetto attuatore. Quindi accertamento coattivo è un modo di dire che dopo l’accertamento ci sarà la coattiva senza soluzione di continuità.
D8: Cosa succede se durante la verifica scoprono che ho nascosto soldi a Panama?
R: Dipende dalla fase: se è durante una verifica fiscale (tipo Guardia di Finanza che fa accesso in azienda e trova documenti di conti esteri), scriveranno un PVC con quelle risultanze. Poi seguirà l’accertamento come abbiamo descritto, ma con la differenza che hai già avuto il contraddittorio in sede di verifica (possono averti chiesto lì chiarimenti). Una volta contestato, i passaggi difensivi restano gli stessi. Se invece te lo chiedono informalmente (es. questionario) e ammetti di avere il conto, forse ti inviteranno a fare istanza di adesione spontanea. In linea teorica potresti in quel momento ricorrere a ravvedimento (se la verifica non è formale ancora). Ma quando la GdF lo scopre, di solito è tardi per ravvedersi perché c’è un PVC.
D9: Le criptovalute su exchange esteri sono equiparate ai conti esteri?
R: Sì. Dal 2022-2023 è stato chiarito che le cripto sono attività finanziarie estere da indicare in RW (sopra €15k di valore come soglia per conti, se su exchange estero). Molti paragonano i wallet a conti. In più, dal 2023 i guadagni cripto >€2.000 sono tassati al 26%. Quindi se hai ad esempio Bitcoin su una piattaforma di Panama e non dichiari niente, rischi un futuro accertamento simile: sanzione RW 6-30% se considerano Panama un paese non cooperativo, e tassazione dei capital gain non dichiarati. Non c’entra più art.12 DL 78/09 (quello parla di investimenti black list: cripto non c’erano nel 2009, ma di fatto l’attività finanziaria estera c’è). Finora non ci sono stati tantissimi accertamenti su cripto, ma dal 2024 (grazie agli obblighi DAC8) inizierà lo scambio automatico di info anche su cripto. Quindi scenario simile a conti tradizionali. Regolati per tempo!
D10: Se per ipotesi in futuro facessero una voluntary disclosure ter, potrei aderire anche se ho già un contenzioso in corso?
R: Difficile ipotizzare. In passato, per chi aveva contenziosi poteva aderire a definizioni agevolate (tipo condono liti pendenti). Una VD-ter potrebbe escludere chi è già stato scoperto (come fu per la rottamazione, escludeva chi era già oggetto di accertamento definitivo). Se fosse permesso, probabilmente dovresti rinunciare al ricorso e pagare quanto previsto dalla nuova VD. Ma sinceramente, non è all’orizzonte una terza edizione generalizzata. Di solito concedono pace fiscale per ruoli/cartelle, non tanto per nuovi capitali esteri. Dunque, non contare su questo scenario. Meglio impostare la difesa sul quadro normativo attuale.
Conclusione
Affrontare un avviso di accertamento legato a conti o redditi in Panama richiede un approccio multidisciplinare: fiscale, legale e strategico. Abbiamo visto come il quadro normativo sia complesso e rigoroso verso chi ha occultato attività all’estero, ma anche come esistano strumenti e tutele per far valere le proprie ragioni. Il punto di vista del contribuente (“debitore”) deve essere attivo e documentato: non subire passivamente le presunzioni del Fisco, ma rispondere con fatti, prove e argomenti giuridici.
In sintesi, per difendersi efficacemente:
- Conoscere le regole: sapere cosa prevede la legge (obblighi RW, presunzioni black list, termini) aiuta a capire dove attaccare e dove invece non ci sono scappatoie.
- Agire tempestivamente: attivarsi entro i termini (adesione, ricorso) è fondamentale. Il tempo è un fattore cruciale sia per le difese sia per evitare azioni esecutive.
- Documentare tutto: la vittoria spesso dipende dalla capacità di dimostrare la realtà economica (origine lecita dei fondi, residenza effettiva all’estero, etc.). Recuperare ogni pezzo di carta utile, anche dall’estero, è uno sforzo necessario.
- Valutare accordi e sanzioni: essere flessibili se serve, accettare di pagare il giusto dovuto (imposte eventualmente evase) cercando però di abbattere le sanzioni e evitare il penale. Meglio pagare qualcosa subito con sconto che pagare molto di più dopo anni, se la posizione non è forte.
- Proteggere il proprio patrimonio: utilizzare gli strumenti legali (sospensioni, rateazioni) per evitare che la riscossione coattiva distrugga i propri beni prima ancora di un verdetto finale.
- Farsi assistere da professionisti esperti: casi internazionali richiedono competenze specialistiche. Un avvocato tributarista e un commercialista esperto di fiscalità internazionale possono fare la differenza nell’individuare vizi di legge o nello stimare correttamente le imposte eventualmente dovute (ad es. applicazione di crediti d’imposta esteri, ecc.).
L’Agenzia delle Entrate dispone oggi di strumenti informativi potenti (dati CRS, scambi su richiesta, intelligence da leaks) e di norme che le danno vantaggi (inversione onere della prova). Ciò non significa che il contribuente sia senza speranza: le Commissioni tributarie e la Corte di Cassazione hanno più volte affermato principi a tutela, come la necessità che la sostanza economica prevalga sulla forma e che le Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni vengano rispettate. Inoltre, qualora l’amministrazione ecceda (ad es. chiedendo il 300% di sanzioni su chi spontaneamente si era messo in regola tardivamente), è possibile invocare i principi generali di proporzionalità e non duplicazione delle pene, argomenti che talora trovano ascolto in sede giudiziaria.
Dal lato pratico, questa guida ha anche evidenziato come uno scenario di evasione internazionale si possa risolvere in modi molto diversi: dal caso in cui il contribuente dimostra tutto e ottiene annullamento totale, al caso in cui invece viene confermata l’evasione e scattano non solo tasse e sanzioni ma anche condanne penali. Ogni situazione è a sé: ciò che fa la differenza è la preparazione e la condotta del contribuente. Chi si mostra diligente nel fornire informazioni, eventualmente ammette gli errori e cerca un accordo, spesso riesce a limitare i danni. Chi invece persiste in atteggiamenti ostruzionistici o nasconde ulteriormente la verità, rischia conseguenze peggiori (basti pensare che l’omessa collaborazione può portare a valutazioni d’ufficio tutte sfavorevoli e a inasprimenti sanzionatori).
In conclusione, “come difendersi” da un accertamento su conti di Panama significa: difendere i propri diritti di contribuente, evitando richieste indebite o duplicazioni, ma al contempo regolarizzare ciò che effettivamente è dovuto, sfruttando le opportunità di riduzione sanzioni offerte dalla legge. Il tutto con l’obiettivo di chiudere la vicenda nel modo più rapido e indolore possibile, per potersi concentrare sul futuro in un contesto fiscale ormai sempre più trasparente e globale.
Fonti e Riferimenti
- Agenzia delle Entrate – Circolare n. 38/E del 23/12/2013, chiarimenti su indagini finanziarie e monitoraggio.
- Agenzia delle Entrate – Provvedimento 9 maggio 2019, aggiornamento paesi scambio automatico informazioni (inserimento di Panama).
- D.L. 78/2009 conv. L.102/2009, art. 12 commi 2, 2-bis, 2-ter: presunzione investimenti esteri in black list e raddoppio termini.
- D.L. 167/1990 conv. L.227/1990, art. 4 e 5: obbligo di monitoraggio fiscale (Quadro RW) e relative sanzioni.
- D.Lgs. 74/2000, artt. 4,5,10-bis,10-ter,11: reati tributari (dichiarazione infedele, omessa, sottrazione fraudolenta) – rilevanza in ambito estero.
- TUIR (DPR 917/1986), art. 2 c.2-bis: presunzione residenza per italiani in Paesi black list; art. 73 commi 3 e 5-bis: criteri residenza società ed esterovestizione.
- Cassazione Civile Sez. Trib. n. 24246/2015: prevalenza criteri convenzionali OCSE (tie-breaker) sulla presunzione interna di residenza.
- Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 32975/2018: contestazione residenza imprenditore a Monaco, conferma residenza in Italia per prevalenza interessi.
- Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 21694/2020: l’iscrizione AIRE non è decisiva se persiste domicilio in Italia.
- Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 35284/2023: contribuente Emirati Arabi, presunzione black list vinta da criteri convenzionali, residenza estera riconosciuta.
- Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 19843/2024: contribuente a Monaco, confermata residenza in Italia 2006-2010 per legami economici (importanza prove contrarie).
- Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 1291/2025: ribadito che art.2 c.2-bis TUIR non crea criterio assoluto ma presunzione relativa (onere prova a carico contribuente).
- Cassazione Penale n. 20040/2019: estinzione reato tributario per pagamento integrale debito (art.13 D.Lgs.74/2000) – rilevanza collaborazione post-factum.
- Corte Costituzionale n. 42/2017: legittimità ed irretroattività raddoppio termini accertamento, principio tutela affidamento del contribuente.
- Camera dei Deputati – Dossier Le black list, 2019 – evoluzione normativa Paesi black list (DM 4/5/99 e DM 21/11/01).
- Decreto MEF 4.5.1999 e 21.11.2001 – elenchi Paesi a fiscalità privilegiata (Black list persone fisiche e giuridiche).
- Legge 208/2015 (Stabilità 2016) – modifiche art.73 TUIR (presunzione esterovestizione estesa a tutti i Paesi, non solo black list).
- D.Lgs. 149/2022 e D.Lgs. 130/2023 – riforma processo tributario (giudici tributari professionali, abrogazione reclamo-mediazione).
- Agenzia Entrate Riscossione – Linee guida pignoramenti e rate, 2022 (circular) – condizioni per azioni esecutive e piani di dilazione debiti tributari.
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Conclusione
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