Sei un imprenditore e ti contestano un reato tributario?
Quando un’impresa si trova in difficoltà fiscali, le contestazioni penali possono colpire direttamente l’imprenditore. Dichiarazione infedele, omesso versamento IVA o ritenute, emissione o utilizzo di fatture false: sono alcune delle accuse più frequenti. Difendersi significa dimostrare la realtà dei fatti e contestare la presenza del dolo, elemento indispensabile per la responsabilità penale.
I principali reati tributari contestati agli imprenditori
– Dichiarazione infedele o fraudolenta
– Omessa dichiarazione dei redditi o dell’IVA
– Emissione o utilizzo di fatture per operazioni inesistenti
– Omesso versamento dell’IVA o delle ritenute previdenziali e fiscali
– Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte
Cosa rischia l’imprenditore
– Condanne penali con pene detentive anche superiori a 4 anni nei casi più gravi
– Sanzioni pecuniarie elevate e interdittive (es. divieto di contrattare con la PA)
– Sequestri preventivi e confisca di beni aziendali e personali
– Azioni esecutive parallele da parte dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione
Come difendersi da un reato tributario
– Dimostrare l’assenza di dolo, cioè la mancanza della volontà di evadere
– Provare che si tratta di errori formali, difficoltà di liquidità o cattiva gestione non fraudolenta
– Contestare la ricostruzione del Fisco con documenti contabili, estratti bancari e prove di operazioni effettive
– Eccepire vizi di notifica, prescrizione o carenza di motivazione negli atti di accertamento
– Usufruire di strumenti deflattivi come il ravvedimento operoso o la definizione agevolata, se ancora possibile
– Difendersi in sede penale con un avvocato esperto in diritto tributario e penale d’impresa
Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’assoluzione in sede penale in mancanza di dolo o di prove sufficienti
– La riqualificazione della violazione da penale ad amministrativa con riduzione delle sanzioni
– La sospensione di sequestri e pignoramenti
– La tutela del patrimonio aziendale e personale
– La possibilità di continuare l’attività senza blocchi devastanti
Attenzione: i reati tributari colpiscono direttamente l’imprenditore e non solo la società. Intervenire subito con una strategia difensiva adeguata è l’unico modo per evitare danni economici e conseguenze penali gravi.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e penale d’impresa – ti spiega quali sono i reati tributari più contestati agli imprenditori e come difenderti legalmente.
Sei un imprenditore accusato di reato tributario?
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Introduzione
I reati tributari rappresentano una delle aree più delicate del diritto penale d’impresa in Italia. Per un imprenditore (o comunque per un contribuente titolare di partita IVA), essere accusato di un reato fiscale significa affrontare possibili pene detentive, sanzioni pecuniarie elevate e pesanti conseguenze patrimoniali e reputazionali. In questa guida aggiornata a luglio 2025, esamineremo in dettaglio i principali reati tributari previsti dall’ordinamento italiano (dalla dichiarazione infedele all’omessa dichiarazione, dall’utilizzo o emissione di fatture false all’occultamento di scritture contabili, ecc.), con un taglio avanzato ma dal linguaggio chiaro e divulgativo. L’obiettivo è fornire a imprenditori, professionisti e avvocati una panoramica completa su come difendersi da tali accuse, tenendo conto delle più recenti novità normative e delle sentenze aggiornate di legittimità. Il tutto sarà affrontato dal punto di vista del debitore, ossia del contribuente accusato, illustrando le possibili strategie difensive e processuali (dalla definizione agevolata del debito tributario alle scelte di rito, come patteggiamento e messa alla prova).
Nell’affrontare ciascun reato, indicheremo le norme di riferimento, i requisiti (soglie di punibilità, elemento soggettivo del dolo, ecc.), le pene previste e le eventuali cause di non punibilità o attenuanti speciali. Saranno richiamate le sentenze più recenti della Corte di Cassazione e delle Sezioni Unite che chiariscono l’interpretazione delle norme (ad esempio sulla distinzione tra frode fiscale e dichiarazione infedele, o sulle condizioni per accedere a riti alternativi). Verranno inoltre illustrate possibili soluzioni pratiche e accorgimenti utili per chi si trova coinvolto in un procedimento penale tributario: come comportarsi in caso di verifiche fiscali, come sfruttare le opportunità offerte dal ravvedimento operoso, come gestire l’interlocuzione con l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza, nonché come evitare errori che possano pregiudicare la difesa.
Prima di entrare nel merito dei singoli reati, presentiamo un quadro generale della normativa e una tabella riepilogativa delle fattispecie principali, con relative soglie e sanzioni. Proseguiremo poi con l’analisi dettagliata di ciascun reato tributario e, successivamente, con una sezione dedicata alle strategie difensive e processuali trasversali (patteggiamento, sospensione del procedimento con messa alla prova, eccezioni di particolare tenuità del fatto, ecc.). In chiusura, proporremo una serie di Domande e Risposte frequenti (FAQ) per chiarire i dubbi più comuni e fornire consigli pratici immediati.
Nota: Le fonti normative verranno citate puntualmente (es. articoli del D.Lgs. 74/2000, che costituisce la “legge madre” in materia di reati fiscali), così come le pronunce giurisprudenziali rilevanti (in particolare sentenze di Cassazione). Tutte le fonti utilizzate sono elencate in una sezione finale separata, per consentire al lettore di approfondire e verificare le informazioni riportate.
Quadro Normativo Generale e Soglie di Punibilità dei Reati Fiscali
La disciplina penale tributaria italiana è in larga parte contenuta nel Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, più volte modificato negli ultimi anni per inasprire le pene e ampliare le situazioni punibili. Il principio di base è distinguere tra violazioni fiscali meramente amministrative (sanzionate con multe o sanzioni tributarie) e violazioni talmente gravi da costituire reato. Il confine è generalmente tracciato attraverso soglie di punibilità: solo oltre certi importi di imposta evasa o di elementi falsificati scatta il penale. Ad esempio, presentare una dichiarazione infedele è reato solo se l’imposta evasa supera 100.000 € e gli elementi nascosti superano il 10% del reddito o i 2 milioni di €; ommettere la dichiarazione diventa reato se l’imposta non dichiarata supera 50.000 €. Al di sotto di tali soglie, l’evasione rimane illecito amministrativo (con sanzioni pecuniarie anche salate), ma non comporta processo penale.
Negli ultimi anni il legislatore ha abbassato molte di queste soglie e aumentato le pene. Ciò è avvenuto in particolare con il D.L. 124/2019 (convertito nella L. 157/2019), noto come “decreto fiscale 2020”, che ha abbassato la soglia della dichiarazione infedele da 150.000 a 100.000 € e aumentato le pene da 1–3 anni a 2–4 anni e 6 mesi. Contestualmente, per i reati di omesso versamento IVA o ritenute si era inizialmente ipotizzato di ridurre la soglia (rispettivamente 150.000 € e 250.000 €) a 100.000 € e 150.000 €, ma in sede di conversione tali soglie sono rimaste immutate. Una riforma molto recente – il D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 in attuazione della delega fiscale 2023 – ha però rivisto proprio i reati di omesso versamento, introducendo nuove soglie e condizioni: in futuro la soglia per l’omesso versamento di ritenute sarà ridotta a 50.000 € e quella per l’IVA a 75.000 €, con il reato che si configurerà solo se il contribuente non avrà nemmeno avviato un piano di rateizzazione entro un certo termine. Di queste novità diremo meglio più avanti, perché rappresentano un importante cambiamento di prospettiva (“funzionalizzazione riscossiva” della sanzione penale, volta a incentivare il pagamento anziché punire fine a sé stesso).
Va anche ricordato che per alcuni reati – soprattutto quelli “fraudolenti” – non è prevista una soglia quantitativa per l’esistenza del reato: ad esempio, emettere fatture per operazioni inesistenti è considerato reato a prescindere dall’importo, anche se poi è previsto un trattamento sanzionatorio più mite se l’ammontare delle fatture false è inferiore a 100.000 €. Questo perché si ritiene che taluni comportamenti, per la loro natura fraudolenta, mettano comunque in pericolo il bene giuridico “Erario” anche in presenza di somme non ingenti. Nel caso delle fatture false, la Corte Costituzionale ha confermato la legittimità dell’assenza di soglia, data l’“insidiosità” particolare di tale artificio evasivo.
Oltre al D.Lgs. 74/2000, occorre menzionare altre norme chiave: ad esempio l’art. 12 del medesimo decreto, che prevede pene accessorie (come l’interdizione dagli uffici direttivi di imprese o dalle professioni) in caso di condanna per reati tributari gravi, oppure l’art. 13 e 13-bis che disciplinano rispettivamente le cause di non punibilità tramite pagamento del debito e le attenuanti speciali/premiali (inclusa la condizione per accedere al patteggiamento, di cui parleremo a breve). Inoltre, dal 2019 alcuni reati fiscali sono inseriti nel catalogo del D.Lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti: significa che, se il reato è commesso nell’interesse della società, anche la società può essere sanzionata con pesanti sanzioni pecuniarie e misure interdittive. Sono inclusi in questo elenco i reati più gravi, come la dichiarazione fraudolenta (art. 2 e 3), l’emissione di fatture false (art. 8) e la sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (art. 11), tra gli altri. Ciò rende ancora più cruciale, per l’imprenditore, adottare modelli organizzativi idonei e strategie di compliance fiscale: prevenire il reato evita conseguenze sia penali personali sia aziendali.
Di seguito presentiamo una tabella riassuntiva dei principali reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000, con indicazione semplificativa delle soglie di punibilità e delle pene edittali (aggiornate alle ultime modifiche). Questa tabella offre una panoramica di riferimento, che sarà poi approfondita sezione per sezione.
Tabella riepilogativa dei principali reati tributari (D.Lgs. 74/2000)
Art. (D.Lgs. 74/2000) | Fattispecie | Soglia di punibilità | Pena (reclusione) | Note |
---|---|---|---|---|
Art. 2 | Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti | Nessuna soglia minima (reato in ogni caso); trattamento sanzionatorio aggravato se importi fittizi > 100.000 € | 4 – 8 anni (se >100.000 €); altrimenti 1 anno e 6 mesi – 6 anni | Reato a dolo specifico (“al fine di evadere”); non punibile ex art. 13 se pagamento integrale prima del dibattimento. Patteggiamento solo con debito pagato. |
Art. 3 | Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (es. operazioni simulate, documenti falsi, artifici contabili) | Sì: imposta evasa > 30.000 € e >5% del reddito dichiarato (o >1,5 mln €) | 3 – 8 anni | Simile ad art. 2 ma con mezzi fraudolenti diversi. Richiede comportamento fraudolento idoneo a ostacolare l’accertamento. Cause di non punibilità e patteggiamento: v. note art. 2 (regime analogo). |
Art. 4 | Dichiarazione infedele (omessa indicazione di redditi o indicazione di elementi passivi fittizi, senza artifici fraudolenti) | Sì: imposta evasa > 100.000 € e elementi attivi sottratti >10% del totale dichiarato (o > 2 mln €) | 2 – 4 anni e 6 mesi (aumentata dal 2019; prima era 1–3 anni) | Errori di valutazione non punibili. Non punibile se contribuente si ravvede pagando tutto spontaneamente prima di controlli (art. 13 c.2). Patteggiamento solo con pagamento integrale. |
Art. 5 | Omessa dichiarazione annuale (redditi o IVA) | Sì: imposta evasa > 50.000 € | 2 – 5 anni (aumentata; prima era 1–4 anni) | Se la dichiarazione viene presentata entro il termine dell’anno successivo (es. ravvedimento entro scadenza periodo imposta succ.), il fatto non è punibile. Omessa dichiarazione del sostituto d’imposta: soglia 50.000 € ritenute non versate, pena 2–5 anni. Patteggiamento subordinato a pagamento. |
Art. 8 | Emissione di fatture o altri documenti falsi (operazioni inesistenti) | Nessuna soglia di configurabilità; fascia attenuata se importi < 100.000 € | 4 – 8 anni (se importi falsi ≥100.000 €); 1 anno e 6 mesi – 6 anni se importi <100.000 € | Reato speculare all’art. 2 (lato emittente). Ogni periodo imposta si considera reato unico anche se fatture multiple. Patteggiamento: richiede verosimilmente pagamento IVA dovuta sulle fatture emesse (spesso non versata). |
Art. 10 | Occultamento o distruzione di documenti contabili (per evadere o consentire evasioni) | Nessuna soglia (reato di pericolo) | 3 – 7 anni (aumentata dal 2019; prima max 6) | Condotta: tenere o distruggere libri e scritture obbligatorie in modo da non consentire la ricostruzione del reddito/volume affari. Se fatto integra reato più grave (es. bancarotta fraudolenta), si applica quest’ultimo. |
Art. 10-bis | Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (es. ritenute IRPEF dipendenti) | Sì: imposta non versata > 150.000 € (soglia attuale). Dal 2024: soglia abbassata a 50.000 € | fino a 3 anni (attuale: reclusione 6 mesi – 2 anni, secondo norme vigenti; riforma 2024 potrebbe rimodulare) | Reato omissivo proprio. Si perfeziona al termine previsto per il versamento (oggi entro il 31/10 anno successivo per ritenute risultanti da CU). Non punibile se si paga tutto prima del dibattimento. Novità 2024: reato solo se contribuente non attiva rateizzazione entro 31/12 anno seguente dichiarazione; cause forza maggiore rilevanti. |
Art. 10-ter | Omesso versamento IVA dovuta annualmente | Sì: IVA non versata > 250.000 € (attuale). Dal 2024: soglia abbassata a 75.000 € | fino a 2 anni (attuale: reclusione 6 mesi – 2 anni; possibile aumento in riforma) | Simile a 10-bis, ma per IVA annuale. Consumato al termine di pagamento saldo IVA (attualmente 16/03 anno successivo, con possibilità di lieve differimento). Non punibile se si paga tutto entro dibattimento. Riforma 2024: condizione obiettiva punibilità = mancata richiesta di rateizzo entro anno successivo. Forza maggiore post-incasso esclude il dolo. |
Art. 10-quater | Indebita compensazione di crediti tributari non spettanti o inesistenti | Sì: crediti indebitamente compensati > 50.000 € annui | 6 mesi – 2 anni (attuale, per crediti non spettanti) ; 1 – 5 anni (per crediti inesistenti, secondo modifiche D.L. 124/2019) | Uso illecito di crediti per non pagare imposte. Comma 1: crediti “non spettanti” (esistenti ma non dovuti): pena minore. Comma 2: crediti “inesistenti” (fittizi): pena più alta (fino a 5 anni). Non punibile ex art. 13 se paga tutto prima dibattimento solo per crediti non spettanti (comma 1). Per crediti inesistenti ravvedimento operoso possibile prima dei controlli (non previsto da art.13 espressamente). |
Art. 11 | Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte | Sì: importo del debito tributario > 50.000 € (base); aggravante se > 200.000 € | 6 mesi – 4 anni (base); aggravato: fino a 6 anni | Esempi: alienare beni simulatamente, creare vincoli fittizi (es. ipoteche simulate) per rendere inefficace la riscossione. Reato di pericolo concreto: occorre idoneità dell’atto a ostacolare l’Erario. Se l’Erario riesce comunque a soddisfarsi, ciò non estingue il reato ma può incidere sulla valutazione di tenuità o sul dolo. Rientra tra reati presupposto 231 (fino 400 quote sanzione ente). |
(Legenda: per “imposta evasa” si intende la differenza tra l’imposta dovuta e quella dichiarata (o non versata) al netto di quanto eventualmente versato; per “elementi attivi sottratti” o “passivi fittizi” si intendono rispettivamente i ricavi non dichiarati e i costi inesistenti indicati). Tutte le soglie si intendono per singola annualità d’imposta. Le pene indicate sono quelle edittali massime e minime previste dalla legge; la pena in concreto viene poi determinata dal giudice tenendo conto di eventuali attenuanti, aggravanti e del concorso di reati. In corsivo sono segnalate le novità non ancora in vigore al luglio 2025 ma di imminente applicazione.
Come si nota dalla tabella, i reati si possono dividere in due macro-categorie: reati dichiarativi (artt. 2, 3, 4, 5), in cui la violazione avviene nell’atto della dichiarazione annuale (presentata infedele, omessa, o fraudolenta con artifici), e reati in materia di documenti e pagamenti (artt. 8, 10, 10-bis, 10-ter, 10-quater, 11), in cui la condotta è scollegata dalla presentazione della dichiarazione ma riguarda l’emissione di documenti falsi, la tenuta delle scritture contabili o l’adempimento dei versamenti dovuti. Quasi tutti richiedono il dolo specifico di evasione, ossia l’intenzione di evadere le imposte; questo significa che errori genuini, se provati come tali, escluderebbero il reato (restando sanzionabili solo come illeciti amministrativi). Tuttavia, va detto che la giurisprudenza è spesso rigorosa nel valutare la buona fede: ad esempio, una “crisi di liquidità” non programmata potrà in rari casi scusare l’omesso versamento, ma non una carenza di fondi dovuta al normale rischio d’impresa (in linea di massima, l’imprenditore deve accantonare quanto necessario per pagare IVA e ritenute, anche a costo di sacrifici aziendali). Su questo tema vi sono state oscillazioni: nel 2022 una sentenza sembrò aprire alla non punibilità in caso di comprovata forza maggiore finanziaria, mentre nel 2023 la Cassazione è tornata a escluderla richiamando il principio che la difficoltà economica ordinaria non esime dal reato. La riforma del 2024 ha comunque inserito esplicitamente una causa di non punibilità per gli omessi versamenti dovuti a cause non imputabili sopravvenute (ad es. eventi di forza maggiore dopo aver trattenuto le imposte).
Nei capitoli successivi, analizzeremo uno per uno i reati elencati, evidenziando per ciascuno gli elementi costitutivi, gli ultimi orientamenti giurisprudenziali e le possibili linee difensive specifiche. Procederemo in ordine di articolo, iniziando dai reati “dichiarativi” (che si consumano al momento della dichiarazione annuale) e poi con i reati in materia di documenti e versamenti.
Reati Dichiarativi: frodi fiscali e dichiarazioni non veritiere
Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (Art. 2 D.Lgs. 74/2000)
Descrizione della condotta: Si tratta di una delle forme più gravi di evasione fiscale, comunemente nota come frode fiscale mediante fatture false. Consiste nel indicare in dichiarazione elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o documenti che attestano operazioni mai realizzate (in tutto o in parte). In pratica l’imprenditore “compra” costi falsi: inserisce nella contabilità e nella dichiarazione fatture di acquisto relative a beni/servizi inesistenti, così da abbattere indebitamente il reddito imponibile (o detrarre IVA che in realtà non è mai stata versata allo Stato). Per configurare il reato è richiesto il dolo specifico: l’uso delle fatture deve avvenire “al fine di evadere le imposte”. Non esiste invece una soglia di imposta evasa come elemento costitutivo: qualsiasi utilizzo di fatture false è penalmente rilevante, anche se ovviamente importi molto piccoli potranno, in fase giudiziale, portare ad applicare la particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) o altre mitigazioni. L’assenza di soglia è stata ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale, dato l’elevato allarme sociale di questo artificio evasivo.
Pena e circostanze: Il trattamento sanzionatorio è articolato su due livelli. Normalmente la pena è la reclusione da 4 a 8 anni. Tuttavia, se l’ammontare degli elementi passivi fittizi (cioè il totale delle fatture false utilizzate) non supera 100.000 € in un periodo d’imposta, si applica una pena più lieve: reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni. Questa sorta di attenuante legale (comma 2-bis) è stata introdotta nel 2019 per graduare la risposta punitiva in base alla gravità economica della frode, pur mantenendo punibile anche la frode “piccola”. Importante: la soglia dei 100.000 € si riferisce all’importo fittizio delle operazioni, non all’imposta evasa in sé. Ad esempio, se un contribuente usa fatture false per 90.000 € + IVA, resterà nella fascia inferiore di pena (1,5–6 anni), anche se l’IVA evasa potrebbe essere circa 19.800 €; se invece usa fatture per 150.000 €, ricadrà nella fascia 4–8 anni.
Difesa e casi particolari: Per difendersi da un’accusa di art. 2, la strada maestra è contestare la falsità delle operazioni. Se si riesce a dimostrare che le fatture contestate si riferivano in realtà ad operazioni realmente effettuate (magari eseguite da soggetti diversi o eseguite parzialmente, dunque non completamente fittizie), potrebbe venir meno l’elemento oggettivo del reato. Tuttavia, la giurisprudenza è ormai molto ampia nel considerare “operazione inesistente” anche quelle solo parzialmente inesistenti: ad esempio, fatture emesse per lavori edili eseguiti solo in minima parte sono considerate comunque false per l’intero importo eccedente il valore reale. La Cassazione ha di recente ribadito che “sono operazioni inesistenti le fatture relative a lavori solo parzialmente eseguiti”, se vi è una sproporzione evidente tra quanto fatturato e quanto effettivamente realizzato. In una pronuncia del 2025 (Cass. pen. n. 28368/2025), ad esempio, è stato ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 2 nel caso di un appaltatore che aveva contabilizzato fatture per opere mai completate dal subappaltatore, senza rettificarle, traendone vantaggio fiscale: la Corte ha valorizzato il fatto che l’amministratore, pur consapevole dell’inadempimento parziale, non avesse stornato i costi fittizi, evidenziando così il fine di evasione. Dunque, se alcune operazioni sono solo in parte fittizie, il comportamento dell’imprenditore dopo averne preso coscienza diventa decisivo: correggere la contabilità ed emettere note di credito potrebbe evitare l’accusa di frode; al contrario, mantenere i costi gonfiati in dichiarazione integra dolo di evasione.
Un’altra linea difensiva può riguardare la posizione soggettiva del contribuente: talvolta le frode mediante fatture coinvolgono più persone (emittenti e utilizzatori, consulenti, prestanome). L’imprenditore utilizzatore potrebbe sostenere di non essere stato consapevole della falsità delle fatture (ad esempio perché fornite dal fornitore): però questa difesa è credibile solo in casi molto particolari, giacché la frode solitamente è ordita con la partecipazione attiva di chi beneficia dei costi fittizi. Se vi è un professionista (es. un commercialista) coinvolto, si può discutere del concorso di persone: la Cassazione ha chiarito che il professionista può rispondere di concorso in dichiarazione fraudolenta solo se partecipa nella fase di commissione del reato, e non per condotte successive (no concorso “postumo”). Questo rilievo può essere utile per limitare le responsabilità ai diversi attori.
Cause di non punibilità e circostanze attenuanti: Per l’art. 2, la legge prevede benefici solo a fronte di comportamenti attivi del contribuente prima di essere scoperto. In particolare, l’art. 13, comma 2 D.Lgs. 74/2000 (come modificato nel 2019) stabilisce che i reati “dichiarativi” come questo “non sono punibili se i debiti tributari, comprensivi di sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento […] a seguito di ravvedimento operoso”, purché avvenga prima che l’autore abbia formale conoscenza di verifiche o procedimenti penali. Ciò significa che se l’imprenditore si ravvede spontaneamente, presenta una dichiarazione integrativa corretta e paga tutte le imposte evase con relative sanzioni prima di essere sotto indagine, non verrà punito per la frode. Questa è una novità importante: originariamente (prima del 2019) la causa di non punibilità per pagamento non si applicava alle frodi, ma solo ai reati più “lievi” di omesso versamento; ora invece anche chi ha utilizzato fatture false può salvarsi integralmente pagando tutto spontaneamente. Ovviamente, una volta partite le verifiche o le perquisizioni, il ravvedimento non evita più il processo.
Se invece il pagamento avviene dopo che si è stati scoperti (ad esempio durante il processo), non c’è esonero dal reato, ma resta ferma la possibilità di ottenere attenuanti. L’art. 13-bis prevede infatti una diminuzione di pena fino a metà in caso di pagamento integrale dei debiti tributari prima della sentenza di primo grado. Inoltre, come vedremo, il fatto di aver pagato può aprire la via al patteggiamento: la Cassazione (Sez. Unite) ha stabilito nel 2023 che per i reati tributari fraudolenti l’accesso al patteggiamento è condizionato all’integrale pagamento del dovuto. Dunque, se l’imprenditore intende negoziare una pena ridotta ex art. 444 c.p.p., dovrà prima saldare il conto col Fisco (comprensivo di imposte, interessi e sanzioni amministrative).
Patteggiamento e confisca: Come appena accennato, non è possibile chiedere l’applicazione di pena su accordo (patteggiamento) per l’art. 2 se non si dimostra di aver estinto il debito tributario prima dell’apertura del dibattimento. In caso contrario, il giudice deve rigettare la richiesta. Questa regola, sancita dalla Cassazione n. 24340/2024, si fonda sull’art. 13-bis, comma 2, D.Lgs. 74/2000 e vale in generale per i reati ex artt. 2, 3, 4, 5. Va inoltre ricordato che nei reati di frode fiscale trova applicazione l’obbligo di confisca del profitto del reato (art. 12-bis D.Lgs. 74/2000): ciò significa che, in caso di condanna, il giudice disporrà la confisca delle somme corrispondenti all’imposta evasa (o beni di valore equivalente) salvo che queste siano già state versate all’Erario. Anche per questo conviene arrivare al giudizio avendo già pagato: evitare la confisca e aprirsi le porte a patteggiamento e sospensione condizionale.
In sintesi, difendersi da un’accusa ex art. 2 implica:
- Verificare la realtà delle operazioni contestate: se possibile, portare prove che non erano interamente fittizie (anche se la giurisprudenza considera reato pure le sovrafatturazioni parziali, questo può almeno ridimensionare la gravità).
- Dimostrare eventualmente la buona fede o l’assenza di consapevolezza (difesa difficile, ma ipotizzabile in casi di frodi carosello molto complesse dove l’imprenditore finale ignori la falsità a monte).
- Se il procedimento non è ancora iniziato e la violazione è effettiva, valutare il ravvedimento operoso: sanare subito per evitare del tutto il penale.
- In fase processuale, se non si prospetta l’assoluzione nel merito, attivarsi per pagare integralmente il dovuto: questo può consentire il patteggiamento (pena ridotta di 1/3), e di ottenere la sospensione condizionale se la pena patteggiata resta entro i 2 anni.
- Considerare la messa alla prova (ne parleremo più avanti): dal 2023, reati con pena massima fino a 6 anni come questo possono accedere alla probation con estinzione finale del reato. Tuttavia, il giudice nel concederla guarderà certamente al comportamento riparativo: senza pagamento del debito, l’esito positivo potrebbe essere dubbio. Alcuni giudici negano la MAP se il debito è ingente e l’impegno di pagamento insufficiente.
- Tenere conto dei possibili riflessi 231: se la frode è stata perpetrata nell’interesse o vantaggio della società, quest’ultima rischia sanzioni. Una strategia difensiva può essere dotare la società di un modello organizzativo idoneo e sostenere che si tratta di iniziativa individuale dell’amministratore, in violazione dei protocolli (questo per escludere la responsabilità dell’ente). In ogni caso, pagando il dovuto e cooperando, si può cercare di evitare sanzioni interdittive all’azienda.
Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (Art. 3 D.Lgs. 74/2000)
Descrizione: L’art. 3 punisce chi, con artifici diversi dalle false fatture, presenta una dichiarazione fraudolenta. È una norma di chiusura che copre le frodi “tecniche” non fondate su fatture per operazioni inesistenti. La condotta consiste nel porre in essere operazioni simulate o avvalersi di documenti falsi o altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare gli accertamenti, indicando nella dichiarazione elementi attivi inferiori al reale o elementi passivi fittizi, quando ricorrono congiuntamente determinate condizioni di soglia. Un esempio tipico: un’impresa che simula vendite di beni a società compiacenti estere per creare fondi neri (operazioni soggettivamente simulate), oppure che altera le scritture contabili (es. doppi bilanci) per nascondere ricavi. Altri “mezzi fraudolenti” possono essere false valutazioni con documentazione ingannevole, crediti fittizi fatti risultare mediante raggiri contabili, ecc. La differenza rispetto alla dichiarazione infedele semplice (art. 4) sta proprio nell’inganno predisposto: qui non c’è una mera omissione o falsità nella dichiarazione, ma un quid pluris di attività fraudolenta volta a rendere più difficile la scoperta dell’evasione.
Soglie e pena: L’art. 3, a differenza dell’art. 2, prevede sin dall’origine delle soglie di punibilità. Affinché vi sia reato occorre che: (a) l’imposta evasa > 30.000 € per ciascun tributo; e (b) gli elementi attivi sottratti > 5% di quelli dichiarati o comunque > 1.500.000 € (oppure, nel caso di crediti o ritenute fittizie, che queste > 5% dell’imposta o comunque > 30.000 €). Queste condizioni, simili a quelle dell’infedele ma con valori diversi, servono a escludere ipotesi bagatellari. Se tali soglie sono superate e sono stati usati mezzi fraudolenti, scatta il reato. La pena edittale attuale, aggiornata dal 2019, è reclusione da 3 a 8 anni (prima era 1 anno e 6 mesi – 6 anni, quindi anche qui c’è stato un forte inasprimento). Non c’è, a differenza dell’art. 2, un “doppio binario” legato alla soglia di 100.000 €, perché qui la soglia è già intrinseca nella fattispecie per la punibilità.
Esempi pratici di condotte:
- Operazioni simulate soggettivamente: es. triangolazioni fittizie con società estere o cartiere italiane per far risultare costi (o per gonfiare i costi di acquisto e ridurre l’utile) senza usare false fatture, ma con veri passaggi documentali tra entità giuridiche diverse (in tal caso potrebbe configurarsi anche l’art. 4 in concorso, ma se c’è messa in scena orchestrata si tende a qualificarlo art. 3).
- Operazioni simulate oggettivamente: es. cessione fittizia di un ramo d’azienda a una società controllata con sovrapprezzo, creando una minusvalenza artificiale; o creazione di fondi occulti mediante sovrafatturazione di beni reali ma tra parti correlate (quest’ultima ipotesi è borderline: se le fatture sono reali ma i valori gonfiati consensualmente, giurisprudenza tende comunque a far ricadere in art. 2 come operazioni parzialmente inesistenti, come visto sopra).
- Documenti falsi diversi dalle fatture: ad esempio contraffare registri IVA, libri contabili, mastrini di banca o altri documenti extracontabili per giustificare indebitamente costi o mancati ricavi. Una recente sentenza ha ritenuto che la falsificazione dei mastrini bancari per occultare ricavi integrasse gli “altri artifici” dell’art. 3, distinguendoli dalla semplice infedele.
- Mezzi fraudolenti “non documentali”: la norma parla di “altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria”. Ciò può includere condotte come: occultare parte di incassi in conti esteri occulti e predisporre in Italia solo documentazione parziale; uso di software doppi per tenere una contabilità parallela (doppio binario contabile), etc. La legge però precisa che “la mera violazione di obblighi di fatturazione o di registrazione di ricavi, o la mera sottofatturazione, non costituiscono di per sé mezzi fraudolenti”. Questo per dire: se uno semplicemente non registra alcune fatture di vendita (nascondendo ricavi) o registra ricavi inferiori (fatture con importi inferiori al reale) senza ulteriori artifici, non è art. 3 ma ricade nell’art. 4 (dichiarazione infedele). Serve qualcosa in più, un artifizio atto a sviare i controlli.
Linee difensive:
- Come per l’art. 2, il primo obiettivo di difesa è cercare di riqualificare i fatti in qualcosa di meno grave (idealmente farli rientrare nel semplice art. 4 infedele, magari anche sotto soglia). Ciò può avvenire sostenendo che in realtà non vi era un complesso meccanismo fraudolento, ma solo omissioni o irregolarità contabili senza volontà di ingannare. Ad esempio, se l’accusa è di aver simulato operazioni infragruppo, la difesa potrebbe argomentare che erano operazioni reali ma mal gestite, non finalizzate all’evasione. Oppure, se si contestano “documenti falsi”, verificare se davvero sono falsi o se invece erano valutazioni diverse ma plausibili.
- Contestare l’idoneità ingannatoria: si può tentare di dimostrare che gli eventuali artifici messi in atto non erano idonei ad ostacolare l’accertamento, e che l’Amministrazione avrebbe potuto comunque individuare la difformità (questo però è difficile come linea, perché la giurisprudenza è portata a considerare “mezzo fraudolento” qualsiasi condotta non immediatamente evidente che crei un ostacolo, anche solo potenziale, alle verifiche).
- Verificare il rispetto delle soglie: se l’imposta evasa risultasse, a conti fatti, sotto i 30.000 € oppure se i ricavi non dichiarati fossero entro il 5% del totale, il reato non sussiste. A volte l’accusa può computare come “imposta evasa” importi lordi, che però andrebbero ricalcolati correttamente (tenendo conto di eventuali detrazioni spettanti, ecc.). Rideterminare l’imposta evasa può quindi far scendere sotto soglia e portare all’assoluzione per insussistenza del fatto.
- Sul piano probatorio, se l’accusa si basa su ricostruzioni indiziarie (es. movimentazioni bancarie non giustificate, omessa registrazione di vendite), la difesa può provare a fornire giustificazioni alternative non fraudolente (es. le somme sul conto estero erano capitali propri non soggetti a tassazione; la mancata fatturazione era frutto di disordine amministrativo e non di un disegno preordinato, etc.). Si tratta di smontare l’elemento “fraudolento”: se cade l’artificio, potrebbe restare un illecito amministrativo o al più una dichiarazione infedele dolosa (punita meno severamente).
- Anche per l’art. 3 vale la possibilità del ravvedimento operoso prima del procedimento, con integrale pagamento del dovuto, che estingue il reato ex art. 13 comma 2. Quindi, in fase pre-processuale, se l’imprenditore si rende conto della situazione, può sanare e autodenunciarsi fiscalmente per evitare il penale (purché lo faccia spontaneamente e tempestivamente).
- Se si arriva a processo, il discorso su patteggiamento e attenuanti è uguale all’art. 2: serve pagare tutto per poter patteggiare, e il pagamento tardivo consente almeno l’attenuante del risarcimento del danno (art. 62 n.6 c.p.) e la speciale attenuante del nuovo art. 13-bis (riduzione fino a 1/2 della pena).
- Da notare che alcuni autori evidenziano possibili questioni di principio su come l’art. 3 delinei il confine con l’art. 2 e con l’art. 4: la Cassazione in varie pronunce ha tracciato la differenza tra frode fiscale (artt. 2-3) e dichiarazione infedele in base alla presenza di “attività preparatorie ingannevoli” nel primo caso, assenti nel secondo. In un caso del 2024 la Cassazione ha rigettato la tesi difensiva che cercava di far rientrare come infedele una condotta in realtà fraudolenta, ribadendo che il discrimine sta nell’impiego di mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento. Ciò serve in difesa per capire che, se non ci sono mezzi insidiosi, il fatto non è art. 3.
In sintesi: la difesa contro una contestazione ex art. 3 punterà a negare la natura fraudolenta degli atti compiuti e/o a ridurre il tutto a un’omissione fiscale ordinaria (infedele). Tattiche come il pagamento del dovuto e la cooperazione con le autorità fiscali sono fortemente consigliate per attenuare eventuali conseguenze penali.
Dichiarazione infedele (Art. 4 D.Lgs. 74/2000)
Descrizione: È il reato tributario forse più comune, quello della “semplice” evasione oltre soglia, priva di artifici o falsi grossolani. Si ha dichiarazione infedele quando un contribuente, “fuori dai casi di frode” (quindi senza fatture false né altri mezzi fraudolenti), indica nella dichiarazione annuale elementi attivi inferiori a quelli effettivi od elementi passivi inesistenti, in modo tale da superare certe soglie di punibilità. In parole povere, l’imprenditore non dichiara parte dei ricavi o indica costi fittizi, senza però aver messo in atto artifici sofisticati per coprire queste mancanze. È un po’ la versione “base” del reato di frode fiscale, distinta da questa principalmente per la assenza di mezzi fraudolenti. Il classico esempio: l’imprenditore “occulta corrispettivi” (non emette fatture su alcune vendite, o le emette per importi inferiori al reale), oppure gonfia alcuni costi (ad es. dichiarando più costi di quelli documentati, ma senza creare documenti falsi: magari imputando spese personali tra i costi aziendali, o raddoppiando quantitativi su fatture reali, etc.). Queste condotte, se superano le soglie, integrano il reato di dichiarazione infedele.
Soglie e condizioni: L’art. 4 prevede due condizioni cumulative perché vi sia reato:
- (a) l’imposta evasa > 100.000 € (per ciascuna imposta, IVA o imposte sui redditi, considerata singolarmente);
- (b) la somma degli elementi attivi sottratti all’imposizione (cioè ricavi non dichiarati, ecc.) supera il 10% dell’ammontare totale degli elementi attivi dichiarati, oppure in valore assoluto supera 2.000.000 €.
Quindi occorre sia un certo livello di evasione d’imposta in termini finanziari (>100k €), sia una rilevanza percentuale o quantitativa nel bilancio dell’impresa (oltre il 10% del fatturato, o comunque più di 2 milioni di base imponibile sottratta). Se manca anche solo una delle due condizioni (es. evasi 120k € ma è meno del 10% del dichiarato, oppure superato 10% ma imposta evasa è 80k €), non c’è reato, ma solo illecito amministrativo. Le soglie attuali, come già detto, sono state abbassate nel 2019 (prima erano 150k € e 3 milioni € rispettivamente). Va anche ricordato che per espressa previsione, non si considerano penalmente rilevanti ai fini dell’art. 4 alcune discrepanze “fisiologiche” o errori di valutazione: il comma 1-bis esclude qualunque rilevanza penale per differenze dovute a errata classificazione di elementi reali, errata valutazione che rimane nei limiti di stime ragionevoli, violazioni dei principi di competenza temporale, difetto di inerenza o indeducibilità di costi reali. Inoltre il comma 1-ter aggiunge che le valutazioni che differiscono meno del 10% dalle corrette non danno luogo a reato e non si computano nel calcolo delle soglie. Queste clausole servono a evitare che incertezze interpretative o lievi scostamenti di valutazione (es. stima di rimanenze di magazzino, valutazione di immobili, qualificazione di un costo come deducibile o meno) facciano scattare un penale: se i valori contestati sono oggettivamente esistenti ma trattati diversamente in buona fede, non c’è reato ma caso mai un accertamento tributario.
Pena: La cornice edittale è reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi. Questo è il risultato dell’aggravamento del 2019 (prima era 1–3 anni; il decreto legge voleva portare a 2–5 anni, ma in conversione il max è stato leggermente ridotto a 4 anni e 6 mesi). Con una pena massima superiore a 4 anni, la dichiarazione infedele oggi è delitto non di lieve entità, con conseguenze anche in punto di misure cautelari e di termini di prescrizione (prescrizione base 6 anni, aumentabile fino a 7 anni e mezzo per atti interruttivi, e – essendo sotto 6 anni il massimo – soggetta al regime di improcedibilità d’appello introdotto dalla riforma 2022, come vedremo nelle strategie difensive generali). Da notare che la soglia di 2 milioni di imponibile sottratto e la pena >4 anni fanno sì che spesso la dichiarazione infedele viaggi al confine con i reati più gravi: per importi sottratti di molto superiori ai 2 milioni, è probabile che vi siano stati anche artifici, scivolando quindi nell’ambito delle frodi (art. 3). L’art. 4 copre insomma i casi di evasione “sostanziosa” ma attuata in maniera semplice, senza sceneggiature: tipico di imprese medio-piccole che lavorano in nero per una parte consistente, o di professionisti che non fatturano una parte dei compensi.
Difendersi dall’accusa di dichiarazione infedele: Qui le strategie difensive sono spesso su due fronti: tecnico-contabile e giuridico. Sul piano contabile, l’obiettivo del difensore è spesso far scendere i numeri sotto soglia o dimostrare che le discrepanze rientrano tra quelle non punitive per legge.
- Contestazione del calcolo dell’imposta evasa: L’“imposta evasa” va determinata tenendo conto di quanto dichiarato e di quanto effettivamente dovuto. Se ad esempio il Fisco contesta ricavi non dichiarati, bisogna anche considerare i costi correlati eventualmente deducibili che il contribuente avrebbe potuto sottrarre se avesse dichiarato quel ricavo. Spesso l’Agenzia calcola l’imposta evasa in base al solo maggiore imponibile, ma la difesa può opporre che su quel reddito aggiunto spetterebbero deduzioni/detrazioni ulteriori, riducendo l’imposta netta evasa. Inoltre, vanno sottratti eventuali acconti versati, crediti compensati, ecc., che possono abbattere il dovuto. Tutto ciò per vedere se realmente supera 100.000 €. Ad esempio, se contestano 120.000 € di IVA non versata su vendite occultate, ma il contribuente aveva un credito IVA pregresso non utilizzato, l’imposta evasa effettiva potrebbe essere inferiore.
- Valutazioni e incertezze normative: Le clausole di non punibilità di cui ai commi 1-bis e 1-ter dell’art. 4 danno ottimi appigli difensivi. Bisogna evidenziare se le differenze contestate derivano da valutazioni discrezionali: es. accantonamenti a fondi rischi, criteri di ammortamento, criteri di competenza temporale. Se sì, si può affermare che rientrano nei margini di tolleranza e quindi non integrano il reato (anche se magari l’ufficio ha riqualificato l’operazione in rettifica). La Cassazione è attenta a questo: non ogni errore in dichiarazione è reato, ma solo le falsità “grossolane” su dati di fatto. Un caso pratico: costi effettivamente sostenuti ma ritenuti non inerenti o non deducibili – la legge dice che la loro indebita deduzione non configura reato (a meno che non siano costi fittizi, cioè mai sostenuti). Quindi se l’accusa considera infedele aver dedotto, poniamo, spese di rappresentanza oltre i limiti, ciò non dovrebbe costituire reato (è violazione tributaria amministrativa).
- Prova del difetto di dolo specifico: L’art. 4 richiede il dolo specifico di evadere. Una difesa può basarsi sul sostenere che l’errore dichiarativo è frutto di negligenza o errore tecnico, senza volontà di evasione. Ad esempio: l’imprenditore ha sbagliato a contabilizzare alcune fatture attive come se fossero dell’anno successivo, dichiarandole quindi in ritardo; oppure ha applicato in buona fede un’interpretazione fiscale poi rivelatasi scorretta (case frequenti su deducibilità di certe spese). Se si convince che vi è un errore scusabile o un fraintendimento, potrebbe mancare il dolo. Certo, per importi grandi e percentuali elevate, sostenere l’assenza di dolo è arduo, ma non impossibile in scenari molto tecnici. Ad esempio, controversie sull’inquadramento fiscale di certe operazioni straordinarie: se c’è un parere di un fiscalista che suggeriva una tesi poi smentita, l’imprenditore può aver agito pensando lecito ciò che faceva (potenziale errore sul fatto o sulla legge tributaria non immediatamente riconoscibile). L’ordinamento italiano è rigido sul “errore di diritto” (ignorantia legis non excusat), ma vi è margine quando la norma tributaria è particolarmente oscura o di difficile interpretazione.
- Causa di non punibilità per pagamento spontaneo: Come per gli altri reati dichiarativi, se prima di sapere di ispezioni o indagini il contribuente presenta una dichiarazione integrativa e paga tutto il dovuto, la non punibilità scatta ex art. 13 c.2. Ciò può avvenire entro il termine di presentazione della dichiarazione dell’anno successivo (di fatto il ravvedimento operoso è ammesso fino a quando non iniziano verifiche); l’art. 13 espressamente cita la presentazione della dichiarazione omessa entro il termine dell’anno successivo oppure il ravvedimento operoso: per dichiarazione infedele, il ravvedimento consiste nel presentare una integrativa e pagare sanzioni ridotte. Se fatto in tempo utile, l’art. 4 cessa di essere punibile. Questo è un punto cruciale: appena il contribuente si rende conto dell’errore e prima che glielo contesti la Finanza, corregga e paghi – così uscirà dal penale.
- Pagamenti tardivi ed effetti processuali: Se l’accertamento è già iniziato o si è stati denunciati, rimane comunque la possibilità di pagare il dovuto prima dell’apertura del dibattimento in primo grado e ottenere quantomeno circostanze attenuanti. Pur non essendoci più la non punibilità dopo la formale conoscenza del procedimento, pagare anche a processo iniziato è sempre suggerito: incide sul trattamento sanzionatorio (attenuante ad effetto speciale ex art. 13-bis con riduzione fino a 1/3 se pagamento entro il giudizio di primo grado, e fino alla metà se entro appello, stando alle modifiche del 2019) e, soprattutto, consente l’accesso a riti alternativi. Infatti, vale anche qui il principio già enunciato: niente patteggiamento se non hai pagato. La Cassazione ha annullato sentenze di patteggiamento per dichiarazione infedele quando il debito non era estinto. Quindi chi vuole patteggiare (ad esempio puntando a una pena sotto 2 anni sospesa) dovrà prima provvedere al versamento integrale del tributo, interessi e sanzioni amministrative. Ad esempio, Cass. pen. n. 9216/2024 ha ribadito proprio che per il reato di omessa dichiarazione (analogamente infedele) l’accesso al patteggiamento è subordinato al pagamento integrale.
- Particolare tenuità del fatto: L’art. 131-bis c.p. (non punibilità per particolare tenuità) può applicarsi anche ai reati tributari, e la riforma “Cartabia” del 2022 ha imposto al giudice di valutare anche il comportamento successivo alla commissione del reato nell’apprezzare la tenuità. Ciò significa che, in un caso di dichiarazione infedele non enorme e magari con condotta riparatoria (pagamento, adesione a definizioni agevolate), il giudice può dichiarare il reato non punibile per tenuità, se ritiene che l’offesa sia modesta. La Cassazione, con sentenza n. 4145/2025, ha affermato che anche in presenza di evasione non irrisoria il giudice deve considerare la condotta successiva (ad esempio il pagamento tramite rottamazione delle cartelle) come indice di possibile tenuità, a meno che ovviamente non ricorra già la causa di non punibilità speciale dell’art. 13. In quel caso, a Bologna un giudice d’appello aveva negato la tenuità solo in base all’importo elevato evaso; la Cassazione ha censurato questo approccio, perché dopo la riforma occorre valutare globalmente l’entità del danno e la resipiscenza del contribuente. In pratica, se un contribuente paga tutto, anche in ritardo, e l’evaso era poco sopra soglia (diciamo 120k su soglia 100k), si potrà sostenere la particolare tenuità: il giudice deve almeno motivare sul perché la esclude, considerando l’adempimento come segno di ridotta offensività. Questa è un’importante arma difensiva per chi, magari a processo avanzato, ha già saldato i conti: si può chiedere l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. per evitare condanna.
Conclusione sulla difesa in caso di dichiarazione infedele: È un reato in cui spesso non c’è molto da “negare” sul fatto (i documenti parlano: ricavi mancanti o costi inesistenti), ma c’è molto da lavorare su quantificazione e atteggiamento. L’obiettivo ideale è trasformare la vicenda penale in una pura questione fiscale: ad esempio, facendo emergere che le violazioni erano di natura amministrativa (valutazioni, incertezze) più che una frode deliberata. In ogni caso, risolvere il debito col Fisco è praticamente obbligatorio per sperare in esiti favorevoli: o sotto forma di ravvedimento pre-processuale (esimente ex lege), o come pagamento in corso di causa (attenuanti e patteggiamento). Dal punto di vista pratico per l’imprenditore, se si è persa la chance di evitare il processo, conviene procedere ad una definizione agevolata in sede tributaria (tipo conciliazione giudiziale o accordo in adesione) pagando il dovuto e poi far valere ciò nel penale, magari ottenendo una pena mite (spesso la dichiarazione infedele, specie se la prima volta che commette reato, porta a pene attorno a 1-2 anni, facilmente sospendibili con la condizionale, specialmente dopo il pagamento). Addirittura, in qualche circostanza, combinando pagamento integrale e tenuità, si potrebbe avere un proscioglimento. La Cassazione ha precisato che il pagamento integrale può essere considerato ai fini della tenuità, purché la somma evasa non sia di per sé troppo elevata da escludere in concreto una lieve offensività.
Omessa dichiarazione (Art. 5 D.Lgs. 74/2000)
Descrizione: Questo reato scatta quando un soggetto obbligato non presenta affatto la dichiarazione annuale dei redditi o IVA (o anche quella del sostituto d’imposta) entro i termini di legge, al fine di evadere. In altre parole, l’imprenditore (o il legale rappresentante della società) salta completamente l’adempimento dichiarativo, occultando così al Fisco l’esistenza di redditi e imposte dovute. Si distingue dalla dichiarazione infedele perché qui non c’è un documento falso o incompleto: semplicemente la dichiarazione non viene presentata. È considerata una condotta più grave dell’infedele sotto il profilo oggettivo (perché omettere del tutto la dichiarazione rende più difficile all’Erario ricostruire i dati), infatti la pena massima è più alta. Tuttavia ha soglie di punibilità più basse, in quanto l’omissione totale è di per sé un comportamento anomalo.
Soglie e casi particolari: Per la dichiarazione dei redditi/IVA, l’art. 5 richiede che l’imposta evasa superi 50.000 €. Questa soglia non è stata toccata dal 2019 ed è inferiore a quella dell’infedele, in considerazione della maggiore gravità percepita. Attenzione: per l’omissione, a differenza dell’infedele, non è richiesta una soglia sul valore dei ricavi non dichiarati o percentuale: basta la soglia d’imposta (50k). Quindi anche se i ricavi nascosti sono relativamente piccoli ma generano più di 50k di imposta (ad es., persona fisica in aliquota alta che non dichiara 130k di reddito, evadendo ~50k di IRPEF), c’è reato. Un caso particolare è la omessa dichiarazione del sostituto d’imposta (certificazione unica mod. 770): qui la soglia è anch’essa 50.000 €, riferita alle ritenute non versate, e la pena identica (2–5 anni).
Il reato di omessa dichiarazione si consuma alla scadenza del termine di presentazione (esempio: per i redditi 2024, termine 30 novembre 2025; se non invio il dichiarativo entro quella data, e l’imposta evasa è oltre soglia, il reato è consumato il 1° dicembre 2025). Esiste però una clausola di salvezza nell’art. 5, comma 2: “ai fini del comma 1 non si considera omessa la dichiarazione presentata entro 90 giorni dalla scadenza”. Ciò in base alle norme tributarie che considerano la dichiarazione tardiva (entro 90gg) valida seppur sanzionata amministrativamente. Quindi se un imprenditore dimentica di presentare la dichiarazione entro novembre ma la presenta spontaneamente entro 3 mesi (es. a febbraio successivo) pagando la sanzione, non incorrerà in responsabilità penale (sempre che non siano nel frattempo iniziate verifiche, ma tipicamente 90 giorni è breve). Anche se oltre i 90gg, l’art. 13, comma 2 offre una chance: se la dichiarazione omessa viene presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione per il periodo d’imposta successivo, e contestualmente si versa tutto il dovuto, il reato non è punibile. In pratica: se ometto la dichiarazione 2023 (scad. nov 2024), ho tempo fino a nov 2025 per ravvedermi (presentare la dichiarazione per il 2023 e pagare imposte, interessi, sanzioni) prima di eventuali controlli; in tal caso non sarò punibile.
Pena: Dopo la riforma del 2019, è reclusione da 2 a 5 anni. Nel decreto legge iniziale era previsto l’aumento a 2-6 anni se l’imposta evasa superava 100k, ma la legge di conversione ha lasciato 2-5 in ogni caso. Quindi attualmente non c’è distinzione se l’imposta evasa è 60k o 600k: in entrambi i casi 2-5 anni (il giudice valuterà poi in concreto). La soglia resta 50k di imposta evasa: su questo non c’è flessibilità (50.001 € evasi = potenzialmente reato, 49.999 = solo sanzione amministrativa). Nota: 50k si intende per singola imposta. Se uno omette sia IVA che imposte dirette, vanno valutate separatamente; se ad es. evade 40k IVA e 40k IRES, tecnicamente nessuna supera 50k, quindi niente penale (anche se in totale il danno è 80k). Se invece una delle due supera soglia, scatta reato limitatamente a quella dichiarazione (si può essere imputati per omessa dichiarazione IVA e non per omessa redditi, o viceversa).
Difesa e strategie: L’omessa dichiarazione è spesso più facile da provare per l’accusa (basta che l’Agenzia documenti il mancato invio del modulo e calcoli l’imposta dovuta) e offre meno spazi interpretativi rispetto alla dichiarazione infedele. Tuttavia, esistono diverse vie difensive:
- Controversia sull’obbligo dichiarativo: in rari casi, la difesa può argomentare che non vi era obbligo di presentare la dichiarazione. Per esempio, se l’imputato sostiene di non aver superato le soglie minime di reddito per avere l’obbligo (difficile per imprese, ma può capitare in casi particolari o anni di inizio attività). Oppure contestare l’identificazione del soggetto obbligato (ad esempio, se c’è confusione su chi fosse l’amministratore al momento). Queste sono eccezioni tecniche (es. l’atto costitutivo era nullo, la società non formalmente esistente? casistica limitata).
- Soglia di imposta evasa: Come sempre, controllare i calcoli. Se la Guardia di Finanza ha ricostruito un imponibile occultato e un’imposta evasa, la difesa può verificare se quell’imponibile è corretto, se sono state considerate eventuali spese deducibili a fronte dei ricavi non dichiarati, crediti d’imposta, ecc. Ad es., se un imprenditore ha omesso la dichiarazione perché in perdita fiscale (pensava di non dover nulla) ma poi l’ufficio gli imputa ricavi non contabilizzati, la difesa deve vedere se magari c’erano costi correlati. Se l’imposta evasa viene ridimensionata sotto 50k, cade il reato. Ricordiamo però: nel caso di omessa dichiarazione IVA, se uno non presenta la dichiarazione ma ha comunque versato (ipotesi strana: di solito chi omette, non versa neanche), l’imposta evasa potrebbe essere nulla. Se, poniamo, un contribuente ha versato durante l’anno tutta l’IVA ma omette il modello annuale (per mera dimenticanza, succede raramente), tecnicamente l’“imposta evasa” è zero, e quindi non c’è reato (sanzione amministrativa per omissione formale, ma non penale). Quindi la difesa guarderà se effettivamente c’è un’imposta non pagata. Per le imposte sui redditi, se il contribuente ha subito ritenute d’acconto o acconti, vanno scomputati.
- Mancanza di dolo specifico: Questo è un terreno delicato. Dire “ho dimenticato di fare la dichiarazione” non scusa, se poi comunque non hai pagato le imposte: la norma richiede il fine di evadere, e la giurisprudenza ritiene normalmente che la volontà di non presentare la dichiarazione implica di per sé il fine di evasione (non c’è quasi mai un motivo lecito per omettere). Tuttavia, in situazioni particolari, si potrebbe sostenere che mancava la volontà, per esempio per cause di forza maggiore: casi limite potrebbero essere gravi impedimenti personali nei termini di legge (malattie, incidenti) senza colpa, uniti al fatto di aver poi rimediato appena possibile. In genere questi casi trovano soluzione nella causa di non punibilità ex lege del ravvedimento entro l’anno successivo. Se però l’imprenditore non ha presentato la dichiarazione perché erroneamente convinto di non doverla (es. credeva che la società fosse inattiva, o l’aveva delegata al consulente che non l’ha inviata), potrebbe mancare il dolo. Ci sono state sentenze che assolvono amministratori se provano di aver dato incarico al commercialista e questi, all’insaputa del cliente, non ha presentato nulla. In tal caso si discute di errore sul fatto o carenza di elemento soggettivo.
- Ravvedimento operoso tardivo: Se prima che l’autorità se ne accorga il contribuente presenta la dichiarazione omessa (anche se tardiva di mesi) e paga, scatta la non punibilità (art. 13 c.2). Ciò può avvenire addirittura anche successivamente alla scadenza annuale, purché prima di verifiche. Nella pratica, succede che qualcuno ometta la dichiarazione e poi, spaventato dall’odore di controlli, presenta “tardivamente”: se lo fa entro l’anno successivo è salvo. Ad esempio, Cass. pen. n. 24340/2024 menziona proprio la presentazione della dichiarazione omessa entro l’anno successivo come causa di non punibilità.
- Pagamento integrale prima del dibattimento: Per i reati di omesso versamento (tra cui si includono omessa dichiarazione del sostituto in parte, ma qui parliamo di omessa dichiarazione di per sé), l’art. 13 comma 1 riguarda i 10-bis/ter/quater, non direttamente l’art. 5. Tuttavia, come per l’infedele, pagare tutto prima del dibattimento non evita la condanna (non c’è causa estintiva in art. 13 per l’art. 5), ma concede l’attenuante 13-bis e, più praticamente, la possibilità di patteggiare. La Cassazione ha confermato che anche per l’omessa dichiarazione (reato “dichiarativo”) si applica la preclusione al patteggiamento se non c’è stato pagamento. Quindi, l’imprenditore che, a dibattimento già iniziato, decida di voler chiudere con patteggiamento, dovrà prima pagare tutto il dovuto (magari tramite un accordo con l’Erario o in estremis accendendo un mutuo). Diversamente, il patteggiamento verrà rigettato dal giudice su impugnazione del PM o del PG (come successo nel caso di Palermo deciso dalla Cass. 24340/24).
- Messa alla prova: Con la riforma Cartabia, l’omessa dichiarazione (pena massima 5 anni) rientra tra i reati per cui è possibile chiedere la sospensione del processo con messa alla prova. Ciò offre un ottimo strumento difensivo: in molti tribunali già si concedeva la MAP per l’omessa dichiarazione quando la pena massima era 4 anni (prima del 2019), figurarsi ora che è formalmente 5 ma la soglia elevata a 6 anni è stata introdotta. La messa alla prova consente all’imputato di evitare condanna svolgendo lavori utili e, verosimilmente, pagando il debito durante il periodo di prova. Anzi, inserire nel programma di MAP l’impegno a pagare (magari ratealmente) il debito erariale aumenta moltissimo le chance che il giudice la conceda, perché evidenzia la volontà di riparare il danno. Attenzione però: la Cassazione ha anche avallato il diniego della MAP in casi in cui il debito tributario era enorme e l’impegno di pagamento del richiedente appariva del tutto inadeguato (es. proponeva poche centinaia di euro a fronte di centinaia di migliaia evase). In generale comunque, per un’imposta evasa di poco sopra i 50k, la MAP è percorribile e porta all’estinzione del reato se completata con successo, il che è un esito ottimo.
In sintesi, la difesa nell’omessa dichiarazione ruota molto attorno al fattore temporale: se si riesce a sanare l’omissione tempestivamente (entro 90gg o entro l’anno successivo) si evita il penale. Se no, in fase processuale, l’enfasi va sul pagamento del dovuto e sull’accesso a riti alternativi. Data la pena minima alta (2 anni), l’imprenditore rischia teoricamente la detenzione, ma è abbastanza comune che, pagando e patteggiando, la pena si attesti attorno a 1 anno e mezzo (ridotta da 2 e qualcosa) e quindi sospesa condizionalmente. Anche qui, come negli altri reati, evitare la recidiva è importante: se uno ha omesso dichiarazioni per più anni di fila, verrà imputato per più reati in continuazione e la pena aumenterà. Difensivamente, può convenire chiedere il giudizio abbreviato (riduzione 1/3 pena senza bisogno di pagamento come condizione), se si mira solo a contenere la pena e non si può patteggiare perché manca il pagamento. Ma bisogna valutare caso per caso.
Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (Art. 8 D.Lgs. 74/2000)
Descrizione: Questo reato è il complementare dell’art. 2, visto però dal lato di chi emette le fatture false, anziché di chi le utilizza in dichiarazione. È punito infatti chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. In pratica, l’emittente (spesso una cosiddetta cartiera, società fittizia creata all’uopo) crea documentazione fiscale falsa che permetterà a qualche altro contribuente di evadere (deducendo costi o detraendo IVA). Si noti che qui il fine richiesto è leggermente diverso: non è “al fine di evadere le proprie imposte”, bensì per consentire ad altri l’evasione. Ciò significa che anche chi personalmente non avrebbe imposte da evadere (magari perché la cartiera è in perdita o ha crediti fittizi) commette reato se emette documenti falsi con lo scopo di far evadere il destinatario. Tipicamente, il meccanismo è: l’emittente fattura operazioni inesistenti, incassa il corrispettivo + IVA dal beneficiario, e poi non versa l’IVA e sparisce, mentre il beneficiario porta in detrazione quell’IVA e in costo l’importo della fattura abbattendo i propri redditi.
Struttura e pena: L’art. 8 è stato modificato specularmente all’art. 2: oggi prevede una pena base da 4 a 8 anni, con una fattispecie attenuata (comma 2-bis) a 1 anno e 6 mesi – 6 anni se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture è inferiore a 100.000 € per periodo d’imposta. Quindi, proprio come per chi utilizza fatture false, anche per chi le emette c’è la distinzione sopra/sotto 100k euro totali annui di falsi. È irrilevante se l’emittente poi non presenta dichiarazione o altro: l’ordinamento punisce la semplice emissione (o consegna) del documento falso, trattandolo come reato di pericolo, perché potenzialmente in grado di danneggiare l’Erario tramite l’uso che ne farà il terzo. Inoltre, ai fini del computo, l’emissione di più fatture false nello stesso anno è considerata un unico reato (quindi non tante emissioni separatamente punite ma un cumulo, salvo ovviamente se spalmate su anni diversi, in tal caso un reato per anno).
Profili difensivi: La difesa di chi è accusato di aver emesso fatture false può seguire linee analoghe a quelle per l’utilizzatore, con alcune peculiarità:
- Negare la falsità delle operazioni: Se possibile, dimostrare che le operazioni fatturate erano reali (anche solo in parte). Ad esempio, se un piccolo fornitore è accusato di aver emesso fatture per lavori mai svolti, si può portare evidenza di aver svolto effettivamente almeno una parte dei lavori o fornito beni (fotografie di cantieri, testimoni, contratti, DDT, ecc.). Come già visto, la giurisprudenza considera “falsa” la fattura anche se l’operazione è stata solo parzialmente eseguita e il valore fatturato eccede di molto il reale. Però in difesa, provare una parziale esistenza può aiutare almeno a ridurre il dolo (magari convincere che l’emittente pensava di completare i lavori successivamente, o che c’era una parte di verità).
- Ruolo soggettivo dell’imputato: Spesso le fatture false sono emesse da teste di legno o prestanome (il classico nullatenente cui è intestata la cartiera). In giudizio, costoro a volte confessano di aver prestato il nome dietro compenso, ecc. La difesa qui può cercare di minimizzare la responsabilità sostenendo che l’imputato era inconsapevole dell’uso fraudolento (tesi quasi sempre poco credibile: per definizione, se hai emesso fatture senza reali operazioni, non puoi non sapere che serviranno a evadere). Ma se, ad esempio, l’imputato afferma di aver emesso fatture convinto che i lavori sarebbero stati fatti da un subappaltatore e invece non lo sono stati – ossia cerca di spostare il dolo verso altrui raggiri – può tentare di scagionarsi. Sono scenari limite: in genere, l’emittente di fatture false è parte consapevole del disegno criminoso.
- Calcolo dell’importo fittizio totale: Se la differenza tra cadere nella fascia 4-8 o in quella 1.5-6 anni è rilevante, la difesa può controllare se effettivamente l’importo complessivo delle fatture false superi 100k per anno. Magari alcune contestazioni sono oltre il periodo o alcune fatture in realtà documentavano operazioni soggettivamente inesistenti (i.e. c’era un’operazione reale con altro soggetto, che la giurisprudenza considera comunque falsa ai fini fiscali ma a volte in passato giuridicamente venivano distinte; oggi no, tutto considerato “inesistente” comunque). In sostanza, cercare spunti per dire che quell’importo era da considerare parzialmente legittimo. Ciò potrebbe non evitare la condanna, ma posizionarla nella fascia bassa (fino a 6 anni).
- Pagamento dell’IVA non versata: Un’emittente di fatture false in teoria genera anche un debito IVA verso lo Stato (perché ha emesso fatture con IVA, incassata dal cliente). Se quell’IVA l’avesse versata all’Erario, il danno erariale sarebbe limitato (il cliente scarica IVA indebitamente, ma lo Stato ha già incassato l’IVA dall’emittente… scenario raro: di solito l’emittente non versa nulla, essendo appunto fittizio). Tuttavia, immaginando un caso in cui l’emittente viene scoperto prima di scomparire e versa l’IVA incassata, resterebbe comunque il reato (perché l’idoneità a far evadere il cliente c’era) ma potrebbe attenuare la gravità concreta e permettere patteggiamenti più miti o tenuità. Non c’è una causa di non punibilità per pagamento in art. 13 espressa per l’art. 8, ma pagare spontaneamente l’IVA e segnalare all’AdE che la fattura era errata (nota di credito) sarebbe un ravvedimento operoso un po’ atipico che forse farebbe rientrare la condotta nella non punibilità ex art. 13 comma 2 (un ragionamento di scuola: se l’emittente “ravvede” la fattura falsa emettendo nota di variazione e restituendo l’IVA al cliente e allo Stato prima di controlli, potrebbe sostenere che il fatto è non punibile, ma non è chiarissimo se la norma copra l’emissione – direi di sì, art.13 c.2 parla di debiti tributari estinti a seguito di ravvedimento operoso anche per art. 2 e 3, quindi per simmetria dovrebbe valere per 8, ma la lettera cita solo 2-5. In realtà la lettera di art.13 c.2 non menziona 8, parla di 2,3,4,5, dunque formalmente la non punibilità per ravvedimento non si applica all’emittente, un aspetto peculiare: l’utilizzatore se ravvede (non usa più la fattura e paga) si salva, l’emittente anche se ci ripensa e annulla fattura può essere punito perché la norma non lo include. Questo appare una lacuna, ma coerente con la volontà di punire fortemente chi genera l’inganno).
- Patteggiamento e condotte riparatorie: Anche per l’art. 8, la Cassazione e la legge richiedono il pagamento del debito tributario per patteggiare. Qui il “debito tributario” dell’emittente è formalmente l’IVA sulle fatture emesse (che risulta a suo carico in dichiarazione). Dunque l’emittente che vuole patteggiare dovrebbe versare l’IVA relativa alle fatture incriminate (più eventuali sanzioni e interessi). Spesso gli emittenti sono nullatenenti o soggetti “di comodo” che non hanno di che pagare; in tali casi, patteggiare diventa quasi impossibile perché non possono soddisfare la condizione. Tuttavia, talvolta l’emittente è lo stesso imprenditore che poi magari si è fatto compensare altrove o ha in mano i soldi; se decide di collaborare, pagare quell’IVA può essere una scelta per mitigare la propria posizione. Il pagamento dell’IVA aiuta anche a evitare la confisca per equivalente di quei proventi illeciti.
- Tenuità del fatto: Non è frequente per art. 8, ma ipotizzabile se l’importo delle fatture false è di poco sopra soglia (es. 60k) e l’imputato è incensurato, ha anche magari cooperato. Il giudice deve valutare tutte le circostanze: aver restituito la somma al fisco potrebbe supportare la tesi di una ridotta offensività residua. Però dato che la condotta è fraudolenta, convincere per la tenuità è più arduo che non per un’infedele borderline.
In sintesi: la difesa dell’emittente di fatture false è complicata perché l’atto in sé di emettere un documento fiscale senza contropartita reale è difficilmente giustificabile se non con la complicità nell’evasione. Spesso la migliore strategia è collaborare con gli inquirenti, magari rivelando la filiera di frode (questo potrebbe non cancellare il reato ma può portare a benefici, ad esempio circostanze attenuanti generiche, riduzione di pena per contributo efficace alle indagini). Altra mossa è negoziare un patteggiamento fornendo in cambio il pagamento di quanto dovuto. Se l’emittente è un prestanome, la sua difesa punterà a evidenziare la sua condizione di figura marginale che eseguiva direttive altrui (a volte i giudici riconoscono ruoli diversi; tuttavia la pena è la stessa a livello edittale, ma nel concreto il giudice può modulare diversamente per chi è il capo e chi il prestanome). L’obiettivo pragmatico sarà evitare un cumulo di anni di carcere: se uno ha emesso fatture per milioni di euro su più anni, rischia teoricamente parecchio. In questi casi, anche la messa alla prova di solito è preclusa perché la pena massima è 8 anni (>6). Quindi occorre lavorare sulle attenuanti e magari chiedere un giudizio abbreviato con cui avere 1/3 di sconto automatico (che su 8 anni massimi è significativo). Come sempre, la specificità del caso guiderà la difesa.
Occultamento o distruzione di documenti contabili (Art. 10 D.Lgs. 74/2000)
Descrizione: Questo reato punisce chi, al fine di evadere le imposte o di consentire ad altri di evadere, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari. È quindi un reato “strumentale”: l’imprenditore elimina le tracce contabili ufficiali, rendendo difficile (o impossibile) accertare l’ammontare di quanto avrebbe dovuto dichiarare. Si pensi a chi, prima di un controllo, fa sparire registri IVA, distrugge hard disk contenenti contabilità, brucia le fatture; oppure occulta libri sociali durante un fallimento (quest’ultimo è anche reato fallimentare se c’è fallimento, ma può concorrere con quello tributario se c’è finalità fiscale). L’elemento chiave è che tale condotta deve impedire o ostacolare gravemente la ricostruzione dei redditi o del giro d’affari. Se ad esempio mancano alcune fatture ma ci sono altre fonti per ricostruire i dati, la giurisprudenza discute se il reato sia configurabile: tendenzialmente sì, se l’agente voleva impedire i controlli, anche se magari in concreto qualcosa si ricostruisce.
Pena: Attualmente reclusione da 3 a 7 anni. Innalzata nel 2019 (era 1–6 anni prima). Non vi sono soglie di punibilità né soglie di importanza: anche la distruzione di documenti contabili per evadere qualunque importo configura il reato (ma ovviamente, se l’evasione sottostante fosse modestissima, si potrebbe valutare la particolare tenuità, benché non usuale in questi casi).
Rapporti con altri reati: L’art. 10 ha la clausola “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, dunque se la stessa condotta integra un reato più grave si applica quest’ultimo. Ciò tipicamente riguarda la bancarotta fraudolenta documentale: se l’imprenditore viene dichiarato fallito e ha sottratto o falsificato i libri contabili, risponde di bancarotta (più grave, punita con pene fino a 8-10 anni). In tal caso, di regola non si cumula anche il reato fiscale di occultamento se il fine era anche fiscale, perché la bancarotta prevale (principio di specialità, reato fallimentare assorbe la violazione tributaria, secondo alcuni orientamenti). Ma non sempre è pacifico: se l’occultamento avviene fuori da un contesto di fallimento, si applica art. 10; se poi successivamente fallisce, spesso si procede per bancarotta e non per art. 10. Insomma, dipende dalle circostanze. Per la difesa, può essere un punto da monitorare per evitare doppie incriminazioni: andrebbe eventualmente eccepito il ne bis in idem se provano a contestare entrambi.
Difesa nel merito: Un elemento fondamentale da esaminare è l’effettiva impossibilità di ricostruzione causata dall’occultamento. La legge richiede che i documenti siano occultati/distrutti “in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari”. La difesa potrebbe cercare di dimostrare che, nonostante la mancanza di quei documenti, la ricostruzione era comunque possibile (ad esempio grazie a copie elettroniche, movimenti bancari, documenti presso terzi). Se ciò è vero, potrebbe mancare un presupposto del reato. Su questo la giurisprudenza non è univoca: alcuni ritengono che basta l’idoneità a ostacolare significativamente, altri richiedono l’effettiva impossibilità. Una recente pronuncia (Cass. n. 32058/2015) affermava che se la contabilità è ricostruibile tramite fonti alternative (es. le fatture attive erano comunque note tramite clienti, etc.), non c’è reato, ma è dibattuto. In difesa, comunque, è bene evidenziare ogni traccia rimasta che ha consentito accertamenti (così suggerendo che la distruzione non ha raggiunto lo scopo).
- Negare il dolo specifico: Un’altra strada è provare che la distruzione/occultamento non fu fatta “al fine di evadere o di consentire evasione”. Ad esempio, sostenere che i documenti sono andati persi per cause accidentali (incendio, allagamento, furto) senza intento illecito. Se c’è prova di ciò (denunce, perizie) e appare credibile, manca l’elemento soggettivo. Chiaramente se uno aveva backup e non li consegna, la tesi dell’incendio non copre il dolo – anzi, dimostra volontà. Ma a volte gli imprenditori poco organizzati smarriscono documenti. Lì si gioca sul confine con l’art. 10: se fu negligenza grossolana, non è penale (ma potrebbe costare sanzioni amministrative per irregolare tenuta delle scritture). Se invece fu un’azione deliberata (es. libri spariti proprio all’avvio di un controllo), difficile convincere diversamente. Un caso difensivo plausibile: l’imprenditore spiega di aver portato le scritture dal commercialista per la dichiarazione e di non sapere dove siano finite (scarica colpa su altri, insinuando che non è dolo suo; magari fornisce alcune pezze d’appoggio). Se il commercialista conferma smarrimento, può generare dubbio sulla volontarietà.
- Parziale occultamento: Se solo una parte delle scritture manca, si può sostenere che non c’è stata volontà di occultare tutto e che i redditi erano comunque in parte ricostruibili. Ad esempio, se mancano i registri IVA acquisti ma i registri vendite ci sono, la difesa dirà: l’imponibile delle vendite era conosciuto, dunque il volume d’affari era ricostruibile almeno per l’IVA vendite, e per i costi l’Erario semmai ci ha guadagnato perché non potendo provarli li ha disconosciuti (questo argomento punta a far percepire che il danno erariale non c’è stato o è minimale). Non è una vera esimente, però può convincere il giudice per particolare tenuità se per esempio i costi occultati erano pochi.
- Particolare tenuità: Non facile qui, perché l’ordinamento vede malissimo chi nasconde libri (è reato “di pericolo” aggravato). Però se, poniamo, un piccolo imprenditore individuale non ha tenuto la contabilità per ignoranza e produce comunque ricevute e estratti conto mostrando l’entità modesta del suo giro d’affari, il giudice potrebbe valutare la tenuità (specialmente post riforma Cartabia, guardando alla concreta offensività). Dopotutto, se l’evasione sottesa era minima, la distruzione di documenti riflette un’offesa limitata. Cass. 4145/25 citava che il pagamento integrale può essere considerato ai fini di 131-bis anche per frodi; analogamente, se uno poi paga tutto e consegna documentazione ricostruita, potrebbe invocare tenuità.
- Rapporto con condono o definizioni: Se dopo la distruzione l’imprenditore ha definito col fisco i redditi col metodo induttivo (es. adesione, pagando tasse su ricostruzione presuntiva), la difesa può sottolineare che il debito erariale è stato estinto e quindi non c’è danno. Non elimina il reato, ma incide su eventuale patteggiamento e valutazione di clemenza.
Relativamente a misure alternative: Patteggiamento e messa alla prova qui incontrano gli stessi ostacoli: l’art. 10 non è escluso dalla preclusione di art.13-bis patteggiamento (che nominava 2-5, 10-bis/quater, non l’art. 10, quindi in teoria potrebbe essere patteggiabile senza pagamento? In realtà art.13-bis c.2 letteralmente esclude patteggiamento per 2-5, non cita 8,10,11. Ciò vuol dire che per l’art. 8 e 10 formalmente il pagamento non è condizione di legge per patteggiare. La Cassazione SU 2023 parlava di reati “dichiarativi” per cui è escluso senza pagamento, quindi art. 10 essendo reato di documentazione forse si può patteggiare anche senza aver pagato. Difatti, art. 10 non implica un “debito tributario” immediatamente quantificabile, è condotta di ostacolo. Quindi la preclusione al patteggiamento non dovrebbe applicarsi all’art. 10 (e nemmeno all’art. 8 e 11). Questo è un dettaglio rilevante: un imputato di occultamento scritture può teoricamente patteggiare anche senza aver sanato il dovuto – e infatti la ratio della legge era: se non paghi, non patteggi per reati dichiarativi, mentre per reati come occultamento o emissione non c’è quell’obbligo). Quindi opportunità in più per difesa: patteggiare su art. 10 senza condizione, ottenendo pena ridotta di 1/3. Con la pena minima 3 anni ridotta a 2, potrebbe beneficiarne di sospensione se incensurato.
La messa alla prova invece è esclusa a priori per art. 10 perché pena max 7 anni (>6), dunque non accessibile.
Riassumendo la difesa su art. 10: si giocherà su dimostrare cause lecite o accidentali della mancanza di documenti, minimizzare l’impatto di tale mancanza sulla possibilità di accertare il dovuto (e magari evidenziare che l’evasione conseguente è stata comunque calcolata e pagata). Se la contabilità è stata in parte conservata, stressare quell’aspetto per escludere un occultamento totale. Ogni elemento di confusione gestionale (invece di volontà fraudolenta) va valorizzato: ad es. se l’azienda aveva una contabilità caotica, il disordine non è penalmente rilevante; se l’azienda perde i documenti perché il consulente li ha smarriti, non c’è dolo dell’imprenditore. Bisogna creare alternative narrative credibili alla tesi accusatoria di “nascondere per evadere”.
Omesso versamento di ritenute certificate (Art. 10-bis D.Lgs. 74/2000)
Descrizione: Questo reato colpisce chi, pur avendo operato ritenute fiscali sui redditi di terzi (ad esempio ritenute IRPEF sui dipendenti o sui lavoratori autonomi) risultanti dalle certificazioni (le CU, ex CUD), non le versa allo Stato entro la scadenza prevista, per un importo complessivo annuo superiore a una certa soglia. È un reato di omissione finanziaria: l’imprenditore in questo caso ha già trattenuto dalle retribuzioni dei dipendenti la quota fiscale (o dai pagamenti ai collaboratori la ritenuta d’acconto), ma non l’ha riversata all’Erario. Di fatto, trattiene indebitamente denaro altrui (dello Stato, ma anche del dipendente a cui risulta trattenuto). È considerato grave moralmente perché l’imprenditore ha fatto da “sostituto d’imposta” e ha abusato di quelle somme.
Soglia e consumazione: La soglia attualmente è 150.000 € di ritenute non versate per periodo d’imposta. Questo fu l’innalzamento introdotto nel 2015 (prima era 50.000 €). Il D.L.124/2019 voleva abbassarla a 100.000, ma come detto non fu confermato in legge di conversione. Ora, con la riforma 2024 in arrivo, sarà abbassata addirittura a 50.000 € di nuovo, con un meccanismo diverso di configurazione del reato. Comunque, allo stato: se un datore di lavoro nel 2024 non versa 120k di ritenute (certificate nelle CU dei dipendenti), non ha reato perché sotto 150k; se ne omette 200k, sì (per la parte sopra soglia integrerà reato, di solito considerato tutto). Il momento consumativo è stabilito dalla legge: “entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta relativa all’anno di riferimento”, cioè il 30 novembre dell’anno successivo. In altre parole, se nel 2023 ho operato ritenute, dovevo versarle mensilmente, ma la scadenza penale finale è il 30/11/2024 (termine 770). Se a quella data ho un arretrato >150k ancora non versato, scatta il reato. La riforma 2024 sposterà questo termine al 31 dicembre anno successivo e lo condizionerà alla mancata rateizzazione.
Pena: reclusione fino a 2 anni (precisamente da 6 mesi a 2 anni). Questa è rimasta tale anche dopo il 2019, perché quel decreto non modificò il 10-bis (voleva abbassare soglia, non cambiare pena). La riforma 2024 potrebbe modulare diversamente (non noto il dettaglio di pena, ma probabilmente simile). Essendo pena bassa, è reato di competenza tribunale monocratico e soggetto a prescrizione breve (6 anni). E anche suscettibile di messa alla prova (massima 2 anni, rientra ampiamente).
Difesa e peculiarità: La difesa classica per omesso versamento ritenute è spesso incentrata su dimostrare lo stato di illiquidità incolpevole. Trattandosi di un reato di pura omissione con dolo generico (volontà di non pagare pur essendo dovuto), l’unica scusa è l’assenza di colpevolezza: se l’imprenditore può provare che non ha potuto versare per circostanze di forza maggiore, potrebbe mancare il dolo. Ad esempio, Cass. pen. n. 39835/2022 ha ritenuto che una crisi di liquidità grave e non prevedibile può escludere l’elemento soggettivo, quando l’omesso versamento non è frutto di una libera scelta ma di impossibilità economica sopravvenuta. Ciò però è un orientamento minoritario: l’orientamento prevalente era che la crisi finanziaria rientra nel rischio d’impresa e non esime (Cass. 37826/2023 ha ribadito che la crisi di liquidità del contribuente non può essere invocata come forza maggiore se è espressione del rischio d’impresa ordinario). Tuttavia, la riforma 2024 viene proprio a codificare un criterio: il nuovo art. 13 comma 3-bis prevede la non punibilità di 10-bis/10-ter se il mancato pagamento dipende da cause non imputabili sopravvenute al momento di fare le ritenute o di incassare l’IVA. Quindi se, ad esempio, dopo aver fatto le ritenute, l’azienda subisce un evento catastrofico (conto bancario bloccato per frode subita, pignoramenti imprevisti da terzi, ecc.) che la priva dei fondi, potrà esserci esimente. La difesa dunque, già ora, deve raccogliere evidenze di eventuali cause di forza maggiore: es. mancati pagamenti dai clienti di importo equivalente proprio in quei mesi, interventi normativi che hanno impattato (si pensi ai lockdown COVID, durante i quali infatti il legislatore sospese alcuni termini di versamento).
Altre difese possibili:
- Verifica soglia con precisione: Se l’importo è intorno a 150k, vedere se davvero tutte le ritenute certificate non sono state versate. A volte l’azienda magari ha versato una parte, e allora l’importo evaso è sotto soglia. Oppure verifica se veramente le ritenute fossero dovute: ad esempio, se alcune “ritenute risultanti dalle certificazioni” in realtà non dovevano essere operate (casi anomali, ma magari figure di collaboratori non soggetti a ritenuta). In generale, però, di solito le CU parlano chiaro.
- Eventuale ravvedimento/adempimento prima della scadenza penale: Questo reato è peculiare perché la condotta si protrae per tutto il periodo fino alla scadenza. Se entro il 30 novembre anno successivo pago, non c’è reato. Quindi c’è un margine lungo di ravvedimento o pentimento. Uno potrebbe non versare mensilmente ma poi fare un maxi-versamento prima della fine del termine: in tal caso penalmente è salvo (anche se pagherà sanzioni e interessi). Dunque la difesa punta a dimostrare eventuali pagamenti tardivi ma prima della scadenza. Se invece già scaduto il termine, resta la causa di non punibilità dell’art. 13 comma 1: se paga tutto (imposta, sanzioni, interessi) prima del dibattimento, non è punibile. Questa è una grossa opportunità: l’art. 13 c.1 è pensato proprio per 10-bis, 10-ter, 10-quater. Quindi convincere il cliente a pagare (magari ratealmente tramite definizioni con l’Agenzia) è spesso la strategia migliore: si ottiene l’archiviazione o il proscioglimento per intervenuta causa di non punibilità. Il problema pratico è che chi non ha versato ritenute spesso non ha soldi… ma può darsi cerchi di trovarli per evitare il processo. Va ricordato: questo pagamento va fatto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Quindi c’è tempo fino all’udienza dibattimentale (non solo fino all’avviso di conclusione indagini, come era un dubbio, ma proprio apertura dibattimento).
- Patteggiamento e attenuanti: Considerando l’esistenza di art. 13 c.1, se uno non paga e arriva a dibattimento, non può patteggiare perché quell’art.13 dice che se non hai pagato 10-bis non è proprio punibile (ma qui attenti: la lettera di art. 13 c.1 è “non sono punibili se, prima del dibattimento, i debiti sono stati estinti…”, non dice nulla di patteggiamento. E Cass. SU 2023 nello spiegare la logica ha detto: per 10-bis/ter/quater il patteggiamento sarebbe ammissibile in linea di principio anche se non paghi, ma se non paghi e arriva dibattimento, vieni condannato perché non hai usato la causa di non punibilità. In realtà, però, c’era dibattito se si potesse patteggiare senza aver pagato: e la risposta recente è sì, la Cassazione nel 2025 (sentenza 12348/2025, rif. Ramelli blog) ha affermato che è consentito il patteggiamento per 10-bis/ter/quater anche se l’imputato non ha pagato il debito, contrariamente a 2-5 dove è vietato. Ciò perché la legge non lo vieta espressamente e la ratio è diversa. Dunque, in assenza di pagamento, un imputato di omesso versamento ritenute può patteggiare e prendere una pena (mentre se pagasse, otterrebbe l’impunità). Questo scenario è particolare: conviene ovviamente pagare per non essere punito affatto. Ma se proprio non può pagare, potrà patteggiare un magari modesto 6-8 mesi di reclusione (che verrà quasi sicuramente commutata in pena sospesa o lavoro di pubblica utilità). Quindi la difesa se il cliente non riesce a raccogliere fondi punterà al patteggiamento.
- Messa alla prova: Con pena max 2 anni, questi reati erano già MAP-abili anche prima della riforma. Molti tribunali concedevano la MAP a chi, incensurato, non aveva versato ritenute ma magari era disponibile a pagare a rate e fare lavori utili. Ora, con la riforma Cartabia, la MAP è ancora più incoraggiata. La difesa può proporla presentando un programma che include l’obbligo di pagamento del debito (magari attraverso un piano di rateazione formalizzato con l’Agenzia). Questo risolve due problemi: permette di evitare condanna penale (se la MAP va bene il reato si estingue) e assicura allo Stato di incassare. Molti giudici la vedono di buon occhio. Attenzione però: se il debito è molto alto e il piano di pagamento modesto (es. 200k di ritenute e propone di pagare 10k in 2 anni), il giudice può ritenere la prova non adeguata e negarla. Bisogna quindi presentare un progetto credibile, magari concordato con l’Erario (adesione a rateizzazione decennale e alcuni versamenti immediati). Cass. 39124/2018 ha detto che un debito tributario molto rilevante può essere elemento ostativo alla MAP se l’imputato non dimostra una seria prospettiva di adempiervi.
Riassunto difesa 10-bis: Agire su tre fronti: (1) se possibile, rimuovere la causa (pagare entro i termini o far scendere sotto soglia). (2) se il termine è trascorso, utilizzare l’art. 13: pagamento integrale prima del dibattimento per ottenere la non punibilità. (3) se non si riesce a pagare per intero, valutare il patteggiamento (per chiuderla con pena ridotta) oppure la messa alla prova (per guadagnare tempo e provare a pagare in parte, estinguendo reato alla fine). In parallelo, raccogliere elementi su eventuali cause di forza maggiore per convincere la Procura magari a chiedere archiviazione (ci sono stati casi in cui se il contribuente documentava di aver privilegiato i pagamenti di stipendi e contributi in momento di acuta crisi, alcune procure hanno ritenuto di non procedere – ma è discrezionale). Da luglio 2025 in poi, molto dipenderà dall’attuazione pratica delle nuove norme: è possibile che se uno chiede la rateizzazione e la ottiene entro l’anno successivo, nemmeno scatterà più il reato (nuova condizione oggettiva). Quindi la difesa dovrà anche considerare il nuovo scenario: se l’imputazione è per un fatto 2024, e nel 2025 l’imprenditore ottiene un piano di rate da Equitalia, potrebbe eccepire che il reato neanche si perfeziona secondo la novella (questo dipende da come la norma transitoria regolerà i fatti commessi prima della vigenza). Sarà un terreno interessante e potenzialmente favorevole per la difesa.
Omesso versamento IVA (Art. 10-ter D.Lgs. 74/2000)
Descrizione: Simile al precedente, punisce chi non versa l’IVA dovuta annualmente (in base alla dichiarazione annuale IVA) per un importo superiore alla soglia di legge. In pratica, se un imprenditore presenta la dichiarazione IVA annuale (o anche se non la presenta, ma in genere la presenta perché altrimenti è anche omessa dich.), e risulta un debito IVA non versato oltre soglia, commette reato. Il termine di versamento dell’IVA dovuta per l’anno è solitamente il 16 marzo dell’anno successivo (salvo rateizzazioni entro novembre); la norma però faceva riferimento originariamente al termine di pagamento dell’acconto di dicembre, ma poi è stata uniformata alla dichiarazione annuale (questi dettagli temporali ora vengono chiariti: la riforma 2024 la sposta a 31 dicembre anno successivo, analogamente al 10-bis, se non rateizza).
Soglia: Attualmente 250.000 € di IVA non versata. Era stata introdotta nel 2006 come 50.000 €, poi portata a 250k nel 2015 (Renzi), e nel 2019 volevano ridurla a 150k, ma conversione non lo fece. La delega 2023 ora l’abbassa a 75.000 €. Quindi c’è stata molta oscillazione. Va calcolata per anno d’imposta.
Pena: uguale a 10-bis, quindi 6 mesi – 2 anni di reclusione. Reato di competenza monocratica, tempi prescrizione brevi.
Difesa: Ricalca quasi esattamente quella per l’omesso versamento ritenute, con la differenza che qui non c’è di mezzo il “denaro altrui” (per le ritenute c’è un disvalore aggiuntivo perché hai trattenuto soldi di dipendenti). L’omesso versamento IVA viene talvolta percepito un pelo meno grave moralmente: il contribuente potrebbe dire “non avevo i soldi per l’IVA perché i clienti non mi hanno pagato”. In effetti una causa frequente è questa: l’IVA è esigibile allo Stato anche se il cliente non paga la fattura (salvo regime IVA per cassa). Quindi molti imprenditori in crisi accumulano debiti IVA perché incassano tardi dai clienti e intanto usano quel poco che incassano per pagare stipendi o fornitori essenziali, rimandando l’IVA. Questa “crisi di liquidità” è l’argomento principe di difesa, come per le ritenute. E come tale, soggetta alle stesse riserve: difficile che la Cassazione l’accetti come scusante, salvo eventi straordinari. Alcune sentenze hanno escluso il dolo quando c’erano prove di impossibilità (ad es. azienda col conto bloccato per frode subita, etc.). Con la riforma, come detto, la legge riconosce cause non imputabili dopo l’incasso come esimente.
- Causa di non punibilità art. 13 c.1: Vale pure qui: se prima dell’apertura dibattimento il contribuente paga integralmente l’IVA dovuta + sanzioni + interessi, non è punibile. Questo spinge molti a trovare accordi con l’Agenzia Entrate (rateizzazioni) e magari chiedere rinvii del processo in attesa di completare il pagamento. Spesso i tribunali concedono tempo se vedono un piano serio, proprio per favorire la causa estintiva.
- Patteggiamento: Anche per omesso IVA, la Cassazione (SU e altre) ha affermato che è ammissibile il patteggiamento anche senza pagamento, perché la norma non lo proibisce a differenza di frodi. Quindi, se uno non può pagare i 250k, può sempre dire: faccio patteggiare a magari 1 anno -> sospensione condizionale se incensurato. Come per le ritenute, conviene comunque pagare perché l’assenza di pena è meglio di una pena anche minima; però se non paga, patteggiare è piano B.
- Messa alla prova: Anche qui possibile e anzi incentivata. Molti casi pre-Cartabia già la concedevano (pena massima 2 anni, reato non escluso). Con la riforma è tra i reati esplicitamente menzionati come rientranti nella MAP estesa. Idem discorso: serve un programma che includa un piano di pagamento dell’IVA (es. rottamazione cartelle, rateizzazione decennale, etc.). Così se in 2 anni di prova l’imputato paga una parte e dimostra di proseguire, ottiene estinzione del reato a fine MAP.
Difesa integrativa: Oltre a tutto ciò, magari contestare l’importo: a volte Agenzia calcola l’IVA non versata includendo anche sanzioni o interessi, ma il reato è solo sull’imposta. Quindi la soglia considera solo l’imposta. Se, per dire, in cartella ci sono 270k di cui 240k imposta e 30k interessi, niente reato perché imposta sotto 250k (bisogna stare attenti a questo). Oppure se l’azienda aveva crediti IVA in compensazione che l’AdE non ha riconosciuto, la difesa può dire che in buona fede l’imprenditore pensava di aver versato tramite compensazione, e c’è errore scusabile (a volte succede con crediti IVA contestati). Se quell’errore è onesto, il dolo manca.
Riassunto 10-ter: Simile al 10-bis. La priorità del difensore: se ancora c’è tempo, far versare (es. far usare ravvedimento operoso frazionato: su IVA c’è possibilità di ravvedimento entro un anno con sanzioni ridotte). Se in giudizio, sfruttare art. 13 (pagare e ottenere non punibilità). Se no, patteggiare o MAP. E nel discorso difensivo, documentare contingenze eccezionali (es. evidenziare che l’imprenditore ha versato tutto il resto – contributi, stipendi – e solo l’IVA no, ad indicare che non era evasione preordinata ma ultima risorsa per tenere a galla l’azienda). In alcuni casi, i giudici riconoscono almeno attenuanti generiche per questo.
Indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti (Art. 10-quater D.Lgs. 74/2000)
Descrizione: Questo reato è più tecnico: riguarda l’utilizzo in compensazione (modello F24) di crediti d’imposta falsi o che comunque il contribuente non aveva diritto di usare, per non pagare tributi dovuti. In parole semplici, l’imprenditore invece di versare IVA o ritenute o altri contributi, presenta un F24 dove li compensa con un “credito” fiscale (ad es. credito IVA di anni precedenti, credito ricerca e sviluppo, bonus vari) che in realtà non è dovuto o non esiste. Così azzera il pagamento. Se l’importo compensato indebitamente supera la soglia, è reato. La norma distingue due ipotesi:
- Comma 1: crediti non spettanti: cioè crediti reali ma che il contribuente non aveva diritto a utilizzare, magari perché maturati da altri soggetti o per altre annualità, o perché vincolati. Ad esempio, uso un credito d’imposta per investimenti che formalmente esiste ma che in realtà non mi spettava (magari perché non ho rispettato i requisiti).
- Comma 2: crediti inesistenti: cioè del tutto fittizi, inventati. Ad esempio, dichiaro di avere un credito IVA di 100k quando in realtà non l’ho mai maturato (frode documentale) o produco false dichiarazioni per creare crediti.
Soglia: Unica soglia 50.000 € annui di importo indebitamente compensato, come prevista originariamente (non ricordo modifiche su soglia, credo rimasta 50k per entrambe ipotesi). La riforma 2019 non la toccò, credo.
Pene: La versione attuale, per come scritta su siti specialistici: 6 mesi – 2 anni per crediti non spettanti (comma 1), e 1 – 5 anni per crediti inesistenti (comma 2, equiparata in gravità a frode). Ci fu questa differenziazione introdotta nel 2019: prima era unico (6 mesi-2 anni per tutti). Dal 2019, il decreto legge aveva previsto 1-6 anni per inesistenti, ridotto in conversione a 1-5, mentre i non spettanti restano contravvenzionali (max 2 anni). Questo riflette la diversa malizia: usare crediti “non spettanti” può anche succedere per equivoco, mentre “inesistenti” è proprio frode deliberata. La delega 2023 ne parla: forse inseriscono un comma 2-bis per definire una causa di non punibilità se definisci in via amministrativa le violazioni (forse esdebitazione tramite sanatoria? Il testo delega art. 23 DL 34/2023 prevedeva non punibilità se definisci i crediti R&S inesistenti pagando una percentuale, era una norma speciale poi decaduta, forse l’hanno resa permanente?). Non so i dettagli finali.
Difesa: È complessa, perché implica aspetti tributari intricati. Essenzialmente:
- Negare il carattere non spettante/inesistente del credito: se l’Agenzia dice “non spettante”, la difesa può cercare di dimostrare che invece era spettante. Esempio: contestazione su credito R&S – difesa porta perizie, documenti che mostrano che l’attività era R&S valida e quindi il credito era legittimo. Se si convince il giudice che il credito era dovuto, allora l’F24 compensativo era lecito e non c’è reato. Spesso però il penale arriva dopo che in sede fiscale è stato accertato il diniego del credito. Ci sarebbero due sedi parallele: tribunale tributario e penale. La difesa dovrebbe far sospendere il penale in attesa del giudizio tributario, perché se in Commissione Tributaria vinci e ti riconoscono il credito, il penale cade (manca fatto). Non c’è un vincolo legale, ma il buon senso suggerisce di attendere. In realtà, a volte i due procedono scollegati; comunque la difesa può far valere la decisione favorevole eventuale come nuova prova in penale (ad es. archiviazione se il credito esiste).
- Importo sotto soglia: Verificare come è calcolato il supero di 50k. Il meccanismo può essere contorto: se uno ha usato 100k di credito dei quali 60k non spettanti e 40k spettanti, tecnicamente reato per 60k. Ma se fisco nega tutto e poi in giudizio tributario ne ammette una parte, il conteggio reato potrebbe scendere sotto soglia. Quindi di nuovo, attendere definizione in sede amministrativa aiuta.
- Dolus malus: specie per crediti non spettanti, la difesa può sostenere che l’imprenditore fosse convinto in buona fede di avere quel credito. Ad esempio: interpretazione controversa di una norma di incentivo, lui l’ha interpretata estensivamente ma c’era circolare restrittiva non notata. Se appare errore ragionevole, niente dolo specifico (qui è dolo generico, quindi anche colpa basterebbe per escludere reato). Cass. 45807/2019 infatti ha escluso reato di indebita compensazione in un caso di credito R&S se c’era incertezza normativa e contribuente supportato da parere professionale (sintomo di buona fede). Quindi evidenziare consulenze avute, comportamenti trasparenti (dichiarato il credito nella dichiarazione), richiesta di ruling magari.
- Ravvedimento operoso: Prima del 2019, ravvedersi su crediti indebitamente usati (cioè presentare F24 integrativo pagando il dovuto) non era contemplato come esimente specifica. Ma la delega 2023 ha inserito un comma 2-bis in art. 13 D.Lgs. 74: non punibilità quando le violazioni sono definite e le somme versate integralm. dal contribuente. Questo appare rivolto proprio ai crediti indebitamente compensati: se paghi tutto (forse anche con sanzioni ridotte) prima del dibattimento, non punibile. Era già prassi: anche se la legge prima non lo diceva espressamente per 10-quater, molti ritenevano applicabile analogicamente art.13 c.1 come per 10-bis/ter. Alcune procure infatti chiedevano archiviazione se debitore sanava il credito (versando imposte dovute). Ora, se la legge lo scrive, ancor meglio: difesa deve far definire la pratica con AdE (spesso con atto di adesione o ravvedimento) e versare il dovuto, poi produrre prova in penale per chiedere proscioglimento per non punibilità.
- Patteggiamento: Se non ha pagato, patteggiare il comma 1 è possibile (pena bassa, e nemmeno condizione legale di pagamento perché condizione c’era solo per 2-5). L’orientamento su 10-quater è come per 10-bis/ter: patteggiamento permesso anche se debito non pagato (credo Cass. 24340/24 ne parlasse di riflesso, evidenziando che patteggi non vietato per questi). Quindi, come fallback se non riesce a pagare.
- Tenuità: Per crediti poco sopra 50k, se poi ha pagato magari può darsi.
- Messa alla prova: Comma 1 ha pena max 2 anni -> MAP fattibile; comma 2 max 5 anni -> MAP fattibile (soglia 6 anni). Dunque, anche per crediti inesistenti che portano 5 anni, c’è spazio MAP. Pre-Cartabia era arguibile se quell’art. 10-quater fosse reato ostativo alla MAP, ma ora con soglia 6 anni generica e l’elenco reati ammessi includendo frode aggravata, direi 10-quater rientra nel novero (non è escluso esplicitamente e max 5 anni <6). Quindi ottima opzione: presentare come in altri una MAP con impegno a pagare eventuale debito residuo e fare attività riparative.
In conclusione, la difesa in 10-quater deve avere competenze tributarie forti. A differenza di altri, c’è ampia possibilità di dimostrare non colpevolezza per errori interpretativi. Un trend per esempio: crediti “Ricerca & Sviluppo” degli anni 2015-2019, l’Agenzia ne sta contestando a pioggia come inesistenti. Molte aziende inconsapevoli li avevano compensati (consigliate da consulenti). Qui la difesa può efficacemente dire che c’era incertezza e che l’azienda si è fidata di consulenti e di normative poco chiare. Già questo può convincere a livello soggettivo. E ovviamente, se possibile, poi restituire i crediti (magari usando le sanatorie – proprio nel 2023 è stata varata una sanatoria per crediti R&S inesistenti con pagamento del solo 20% del dovuto senza sanzioni, in cambio di non punibilità ex lege – se uno l’ha usata, produce la quietanza e il reato è estinto per legge, credo fosse nel DL 34/2023 citato in result [23]).
Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (Art. 11 D.Lgs. 74/2000)
Descrizione: È un reato diverso dai precedenti perché non colpisce l’evasione in sé, ma i comportamenti successivi tesi a rendere inefficace la riscossione coattiva di imposte già dovute. In sostanza, l’imprenditore (o chi per esso) occulta o aliena fraudolentemente beni propri o altrui, oppure compie altri atti simulati o fraudolenti su di essi, allo scopo di evitare che lo Stato possa pignorare quei beni per riscuotere le imposte non pagate. Esempi tipici: un imprenditore ha un grosso debito con l’Erario (cartelle esattoriali) e per non farsi sequestrare la casa la vende fittiziamente a un parente per 1 euro; oppure simula il trasferimento di stock di merci a un’altra società compiacente; oppure costituisce un fondo patrimoniale includendo tutti i suoi beni personali quando già aveva debiti fiscali, al fine di renderli non attaccabili (questo caso è comunissimo: mettere case e auto in trust o fondo patrimoniale). Questi atti, se l’importo del debito fiscale superava soglia, integrano reato. Lo scopo specifico deve essere di sottrarsi al pagamento di imposte o relativi interessi/sanzioni.
Soglia e aggravante: La soglia di rilevanza è 50.000 € di imposte (comprese accessorie) non pagate a cui l’atto si riferisce. Es: ho un debito IVA di 60k e simulo la cessione dell’auto a mio fratello, ecco reato. C’è poi un aggravante se il debito eccede 200.000 €: in tal caso, la pena aumenta (max 6 anni invece di 4). Precisamente, la norma punisce due condotte:
- Comma 1: alienazioni simulate o atti fraudolenti sui propri o altrui beni, per sottrarsi al pagamento di imposte sul reddito o IVA ovvero sanzioni/ interessi relativi (quindi valgono anche multe, direi).
- Comma 2: la stessa cosa riferita a sottrarsi al pagamento di un debito risultante da procedure di composizione o accordi (transazione fiscale ex art. 182-ter LF ecc.): ipotesi rarissima praticata, possiamo tralasciare.
Pena: 6 mesi – 4 anni base; aggravata (se debito >200k) fino a 6 anni. Quindi uno scenario: reato piuttosto modulato, non altissima pena base.
Difesa: Questo reato è interessante perché spesso confina con la normalissima gestione patrimoniale lecita. Non ogni atto a riduzione del patrimonio è reato: dev’essere fraudolento e mirato a sottrarre garanzie al Fisco. La difesa in genere contesta:
- Mancanza di elemento soggettivo specifico: bisogna provare che l’intento dell’atto non era di sottrarsi al fisco. Magari do motivi alternativi: ho venduto l’immobile a mio figlio perché aveva bisogno di casa, non per non farlo pignorare (difficile se avevo cartelle, ma se posso mostrare contesto non sospetto, es: la vendita è avvenuta quando ancora non c’era iscrizione a ruolo o non sapevo del debito). Oppure, la costituzione del fondo patrimoniale: lo faccio per tutela familiare generica, non con quell’intento (ma se era subito dopo la notifica delle cartelle appare pretesto).
- Assenza di atti simulati o fraudolenti: se l’atto è reale e a valore di mercato, non c’è inganno verso creditori. Esempio: vendere un immobile effettivamente ad un terzo al suo valore e incassare soldi, non è reato (perché non è fraudolento, il Fisco può rivalersi sul ricavato se lo trova). Invece vendere sotto banco, o a un prestanome, sì. La difesa può sostenere che l’operazione era genuina. Ad es. l’imprenditore cede l’azienda a Tizio: l’accusa dice che è fittizia cessione per non pagare tasse, la difesa porta prove che Tizio ha pagato prezzo congruo, la cessione è autentica (il fisco potrà sempre aggredire quell’incasso presso l’ex imprenditore). Se dimostri che non c’era artificio (nessa simulazione di persona o prezzo), può cadere l’accusa.
- Importo debito sotto soglia: verificare se effettivamente il debito tributario eccedeva 50k al momento dell’atto. Spesso i ruoli includono sanzioni e interessi, bisogna sommare tutto (la norma dice “imposte, sanzioni e interessi” totali >50k). Se il debito era 40k e lui comunque ha fatto quell’atto, penalmente non rileva (resterà rilevante civilmente o forse può integrare altri reati come sottrazione pignoramento ex art 388 c.p., se c’era già esecuzione).
- Atto non idoneo ad impedire riscossione: L’accusa deve provare l’idoneità a rendere inefficace la riscossione. Difesa può dire: quell’atto in realtà non lede le ragioni erariali perché, es., i beni venduti erano comunque gravati da ipoteca del Fisco o di banca e sarebbe stata inefficace l’esecuzione comunque. Se i beni erano già fuori capienza, la cessione è irrilevante. Non so se i giudici accolgono: di solito guardano se c’è potenzialità di danno.
- Comparazione con fattispecie di reato similari: a volte atti del genere vengono contestati come riciclaggio o autoriciclaggio se i proventi di reati fiscali vengono occultati. Ma considerato che c’è reato specifico, quell’assorbimento è guidato dal principio specialità (reato tributario speciale su reato comune). La difesa se servisse, evidenzia come la condotta è tipicamente inquadrabile solo in art. 11 (evitando imputazioni di riciclaggio che sarebbero peggiori come pena).
- Ravvedimento operoso “tardivo”: Non c’è causa di non punibilità per chi fa marcia indietro su un atto fraudolento (tipo, rivela il bene occultato spontaneamente). Non formalizzata, però se prima del processo l’imprenditore paga l’imposta per cui aveva fatto quell’atto, la volontà criminale viene meno. Non estingue reato, ma la difesa può chiederne valutazione come attenuante o tenuità del fatto: se la sottrazione non ha causato danno finale perché poi il debitore ha pagato l’Erario, l’offesa è minima. Un esempio: Cass. 36060/2018 ha escluso punibilità per particolare tenuità in un caso in cui il contribuente dopo l’atto ha definito e pagato il debito, segnalando che andava valutato quell’aspetto (non punibilità perché condotta post-factum riduce gravità).
- Patteggiamento & MAP: Art. 11 non ha restrizioni su patteggiamento (non elencato in art.13-bis). Quindi si può patteggiare senza pagare il debito. E la pena non è altissima, 4 anni (o 6 aggravato). Dunque patteggiamento a 2-3 anni (a seconda aggravante) e spesso condizionale.
- Messa alla prova: Pena max 4 anni (6 aggravato). Quindi base reato è MAP-abile (<=6), aggravato esce soglia? No, aggravato 6 anni tondi, soglia è “massima entro 6 anni” – se intendono “entro 6 compreso” la MAP è fattibile pure per 6 anni reato, perché la legge delega parlava di massima entro 6 anni includendo reati con 6 max (infatti dice la MAP estesa a reati puniti con pena max <=6). Dunque aggravante portando a 6 anni esatti rientra. Quindi, MAP è possibile anche per reato aggravato. Allora, se uno simula vendite di beni per 300k di debito, potrebbe proporre MAP in cui liquida magari quell’importo in parte all’Erario o collabora, e se fa lavori utili, il reato va estinto. Non frequente finora, ma dal 2023 potrà vedersi.
Sintesi difesa art. 11: Spesso è difendersi con argomenti di buona fede: l’operazione contestata aveva ragioni legittime o comunque non è andata a buon fine nell’intento di defraudare il fisco. Ad esempio, se vendi asset a un prezzo giusto e impieghi i soldi per pagare i dipendenti, tecnicamente hai sottratto asset al fisco, ma se il fisco può rivalersi diversamente o se quell’uso era doveroso, moralmente è diverso. A volte portare il contesto può portare quantomeno indulgenza (attenuanti). Vale la pena di evidenziare se quell’atto non ha in concreto impedito al fisco di recuperare: es. l’Agenzia aveva ipoteca anche sul bene venduto e l’ha espropriato lo stesso dall’acquirente (visto che ipoteca segue bene). In tal caso potresti dire che non c’è reato per mancanza di idoneità (questo fu discusso: vendere bene ipotecato a fisco non serve a molto, anzi peggiori situazione per acquirente, ma formalmente l’intento c’era).
Abbiamo così esaminato i principali reati tributari uno per uno, con i relativi aspetti di difesa. Nella sezione successiva, sposteremo l’attenzione sulle strategie generali che un imprenditore/debitore può adottare quando si trova sotto procedimento penale per questioni fiscali: opzioni processuali (patteggiamento, messa alla prova, rito abbreviato), interazioni col procedimento tributario, pagamento del dovuto come strumento di difesa, e altri accorgimenti utili a mitigare le conseguenze.
Strategie Difensive e Scelte Processuali in Materia Penale-Tributaria
Difendersi efficacemente in un processo per reati tributari richiede un approccio multidisciplinare. Bisogna considerare contemporaneamente gli sviluppi penali e quelli tributari (amministrativi/fiscali), perché spesso un esito favorevole in ambito fiscale può riflettersi sul penale, e viceversa. Inoltre, occorre sfruttare gli strumenti di “resipiscenza” messi a disposizione dal legislatore per premiare chi sana il maltolto e alleggerire il carico giudiziario.
Di seguito elenchiamo le principali strategie difensive e scelte di rito che un imputato per reati fiscali (in particolare, un imprenditore debitore verso l’Erario) dovrebbe valutare, tenendo conto delle ultime riforme:
1. Pagamento del debito tributario e ravvedimento operoso
La prima linea di difesa, trasversale a quasi tutti i reati tributari, è cercare di pagare quanto dovuto al Fisco il prima possibile. Questo per vari motivi:
- In molti casi, il pagamento integrale (comprensivo di imposte, interessi e sanzioni amministrative) prima di un certo momento processuale estingue il reato per legge. Come visto, l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede la non punibilità se il contribuente paga tutto prima del dibattimento per i reati di omesso versamento e indebite compensazioni, o se si ravvede operosamente prima di essere scoperto per i reati dichiarativi (dich. infedele, omessa, frodi). Questa è una causa di non punibilità speciale e rappresenta una sorta di “perdono” legale in cambio dell’incasso delle somme dovute. Dunque, pagare tempestivamente può far chiudere il procedimento penale senza condanna. Ad esempio, un imprenditore che non ha versato IVA per 120.000 € nel 2022 eviterà il processo se versa tutto (più sanzioni e interessi) entro l’apertura del dibattimento.
- Anche quando non vi sia una non punibilità automatica, il pagamento costituisce comunque una circostanza attenuante ad effetto speciale (art. 13-bis D.Lgs. 74/2000) che può ridurre sensibilmente la pena. Inoltre, dimostra resipiscenza e senso di responsabilità, favorendo la concessione di benefici (sospensione condizionale della pena, attenuanti generiche) e l’accesso ai riti alternativi.
- Sul piano pratico, eliminare il debito tributario toglie all’accusa il “movente” del reato e spesso ne riduce la gravità percepita. Un conto è processare qualcuno che ancora deve 1 milione allo Stato, altro è giudicare chi ha già saldato il conto: nel secondo caso, il giudice sarà più propenso a soluzioni di minima sanzione, come la tenuità del fatto o la messa alla prova conclusa magari con lavori socialmente utili.
Pertanto, la difesa dovrebbe sempre valutare un piano di rientro del debito fiscale. Ciò può avvenire attraverso:
- Ravvedimento operoso in sede fiscale (se ancora possibile): presentare dichiarazioni integrative, correggere errori e versare il dovuto con sanzioni ridotte prima che inizi un controllo. Questo, nei reati dichiarativi, evita proprio la configurazione del reato.
- Accordi con l’Agenzia delle Entrate/Riscossione: ad esempio una rateizzazione del carico fiscale. Importante, dal 2021 è aumentata la soglia per rate automatiche e il numero di rate concedibili, quindi sfruttare una dilazione può permettere di iniziare a pagare e chiedere al giudice penale un rinvio nel frattempo. La riforma 2024 farà addirittura dipendere la punibilità di 10-bis/10-ter dal fatto che sia stata richiesta la rateizzazione: se il contribuente la attiva entro i termini, non scatterà il reato.
- Definizioni agevolate o condoni: bisogna stare attenti alle opportunità normative di pace fiscale. Ad esempio, nel 2023 c’è stata la “rottamazione-quater” delle cartelle (stralcio delle sanzioni). Se il debitore vi aderisce e paga gli importi dovuti, può poi far valere ciò nel penale. Anche transazioni fiscali in ambito concorsuale possono influire. In generale, se il debito viene annullato o ridotto per effetto di sentenze tributarie o condoni, questo incide sul reato (p. es. se il debito scende sotto soglia di punibilità, il fatto non è più reato). Un caso concreto: se a Tizio era contestato art. 11 (sottrazione fraudolenta) per 60.000 € di cartelle, ma poi grazie a un condono gli vengono abbuonate sanzioni portando il debito a 45.000 €, la difesa può eccepire che viene meno la soglia penale.
- Prescrizioni civili nelle soluzioni alternative: spesso programmi di messa alla prova includono l’obbligo di pagare in tutto o in parte il debito durante il periodo di prova. Ciò va negoziato con l’UEPE (Ufficio esecuzione penale esterna) e calibrato sulle capacità economiche. Ma includerlo è saggio: il giudice vuole vedere impegno concreto. Lo stesso dicasi per la probabile futura probation tributaria: il legislatore ipotizza percorsi riparatori (lavori sociali + pagamento).
In sintesi, pagare conviene sempre. Se integralmente prima del processo, può far evitare condanna; se anche solo parzialmente, mostra buona volontà. Anche un pagamento parziale può portare magari a derubricare il reato in tentativo (non punibile in reati come infedele, visto che tentativo è escluso espressamente, ma concettualmente può ridurre il dolo). Dal punto di vista del debitore, saldare il debito alleggerisce l’animo del giudice: quell’imprenditore non è più un evasore attivo, ma uno che ha fatto uno sbaglio e ha rimediato, il che aiuta enormemente la difesa sul piano umano e giuridico.
2. Scelta del rito: patteggiamento, messa alla prova, abbreviato
Quando non sia possibile ottenere l’archiviazione o il proscioglimento anticipato (ad esempio per intervenuto pagamento integrale), bisogna scegliere con attenzione come affrontare il processo. Le opzioni principali sono:
- Patteggiamento (applicazione pena ex art. 444 c.p.p.): Nel contesto tributario, il patteggiamento ha peculiarità. Da un lato offre vantaggi generici: riduzione di 1/3 della pena e definizione rapida (evitando anche sanzioni interdittive accessorie), con sentenza che non è formale condanna (ma quasi). Dall’altro, la legge subordina il patteggiamento di alcuni reati fiscali al pagamento del debito tributario. Come visto, per i reati di frode e dichiarativi (artt. 2,3,4,5) la Cassazione e le Sezioni Unite hanno chiarito che senza integrale pagamento il patteggiamento non è ammesso: il giudice deve respingerlo. Ciò in quanto l’art. 13-bis D.Lgs. 74/2000 così dispone e la Cassazione lo ha ribadito a più riprese (es. Cass. 24340/2024 e Cass. 9216/2024). In pratica: per dichiarazione infedele, omessa dich., frodi art. 2-3, se l’imprenditore non ha già pagato il dovuto, non potrà accedere al patteggiamento e dovrà affrontare il dibattimento. Questo va tenuto a mente nella strategia: se non si riesce a raccogliere i fondi, conviene esplorare alternative.
Viceversa, per i reati di omesso versamento (art. 10-bis/ter/quater) la legge non vieta espressamente il patteggiamento senza pagamento, e anzi la giurisprudenza di merito recente ha ammesso che si possa patteggiare anche se il debito non è estinto. La ratio è che, essendoci già la causa di non punibilità per il pagamento prima del dibattimento, se uno arriva a patteggiare vuol dire che comunque sarà punito (sia pure con pena ridotta) – quindi si può concedere. Ad esempio, Cass. pen. n. 21716/2023 (Sez. Unite) conferma che il pagamento è condizione necessaria solo per i reati ex artt. 2-5, non per quelli ex artt. 10-bis, 10-ter, 10-quater.
In pratica: se hai frodi o dichiarazioni infedeli, patteggia solo se hai già pagato (e ottieni così un forte sconto di pena più la sospensione condizionale probabilmente); se hai omessi versamenti e non riesci a pagare tutto, puoi comunque provare a patteggiare (l’autorità giudiziaria generalmente è favorevole perché chiudere il caso con patteggiamento anche senza pagamento è comunque una condanna, a differenza di dover dichiarare il reato estinto se paghi – c’è un interesse dello Stato a incassare, ma anche a definire i processi).
Vantaggi del patteggiamento: oltre alla pena ridotta, evita il dibattimento pubblico (minor esposizione mediatica) e cristallizza la vicenda penale, consentendo poi eventualmente di concentrarsi sugli aspetti risarcitori. In ambito tributario, se la pena concordata è entro i 2 anni (spesso avviene), si può ottenere la sospensione condizionale. Attenzione però: la legge “Spazzacorrotti” (L. 3/2019) include i reati tributari tra quelli per cui, in caso di condanna, la sospensione condizionale può essere subordinata al pagamento del debito tributario (art. 12 cp, come modificato): quindi il giudice nel concedere la condizionale spesso mette come condizione che il debito residuo sia pagato entro un certo termine. Quindi patteggiare senza aver pagato tutto potrebbe portare a una condizionale sub condicione di pagamento. Bisognerà valutare caso per caso.
In generale, il patteggiamento è consigliabile se: (a) si è colpevoli e le prove lo dimostrano chiaramente; (b) si è in grado di pagare (nei casi richiesti) per accedervi; (c) si punta a una rapida definizione per minimizzare i costi e l’incertezza. Dal punto di vista del debitore, patteggiare dopo aver pagato il dovuto spesso permette di evitare il carcere (pena sospesa) e di voltare pagina pagando solo un “pegno” reputazionale modesto (una condanna patteggiata, che però rimane nei carichi pendenti, va detto). - Sospensione del procedimento con messa alla prova (MAP): Questo istituto (art. 168-bis c.p.) è divenuto, specie dopo la riforma Cartabia 2022, un’arma difensiva formidabile per numerosi reati, compresi quelli tributari. La messa alla prova consente all’imputato di evitare il processo e la condanna, accettando di svolgere per un periodo determinato (massimo 2 anni per reati non oltre 6 anni di pena) un programma di trattamento e di riparazione, al termine del quale – se svolto positivamente – il reato è estinto (come se non fosse mai avvenuto).
Con la riforma, la MAP è stata estesa a molti reati prima esclusi: oggi anche i reati tributari con pena massima fino a 6 anni (es. infedele 4 anni 6 mesi; omessa 5 anni; frodi 8 anni no, ma erano già escluse prima; emissione fatture 8 anni no se aggravato, ma sì se attenuato 6 anni; occultamento scritture 7 anni no se 7 – ma borderline su soglia; omessi versamenti 2 anni sì) possono accedervi. In altre parole, reati come dichiarazione infedele e omessa dichiarazione – prima esclusi perché pena >4 anni – oggi sono ammissibili alla MAP (massima pena entro 6 anni). La legge delega 134/2021 ha infatti elencato espressamente tra i reati MAP estesi l’omessa dichiarazione e altri reati fiscali (non le frodi superiori a 6 anni, però).
Vantaggio enorme: L’imprenditore imputato che ottiene la messa alla prova non subisce condanna, e al termine il reato si considera come non commesso (cancella effetti penali). È dunque preferibile alla pur conveniente via del patteggiamento (che comunque lascia un titolo di condanna).
Controindicazioni: La MAP richiede di svolgere lavori di pubblica utilità gratuiti e di attenersi a prescrizioni (che possono includere risarcimento del danno e pagamento debiti). È un percorso impegnativo e c’è sempre il rischio di “fallirla” se non si seguono le regole, facendo riaprire il processo. Inoltre, la richiesta di MAP implica la rinuncia alla contestazione del fatto (non formalmente come ammessione di colpa, ma di fatto si accetta di sottoporsi a un trattamento riparativo, il che presuppone l’accettazione della responsabilità morale).
Quando sceglierla: Se l’imprenditore è incensurato e i reati contestati lo permettono, la MAP è quasi sempre raccomandabile. Ad esempio, per un’omessa dichiarazione con debito di 80.000 €, l’imprenditore potrebbe proporre di svolgere, poniamo, 8 mesi di volontariato presso un ente benefico e parallelamente di versare ratealmente il dovuto (o una parte significativa) all’Erario. Il giudice valuterà il programma: se appare serio (magari allegando già un piano di rate con l’Agenzia e la disponibilità di un ente a riceverlo per lavori socialmente utili) lo approverà. Se completato, addio reato: nessuna fedina sporca, niente pena.
Attenzione: i tribunali valutano la congruità del programma rispetto al reato. Nel caso di reati tributari, è fondamentale includere attività riparative verso la vittima (lo Stato): ciò significa l’impegno a pagare l’imposta evasa. Non è richiesto che paghi tutto in 2 anni (soprattutto se il debito è enorme), ma quantomeno un’iniziativa in tal senso. Ad esempio, la giurisprudenza ha affermato che l’entità rilevante del debito tributario può ostare alla MAP se l’imputato non offre alcuna garanzia o sforzo di pagamento. In un caso, la Cassazione ha condiviso la revoca della MAP a un imputato per omesso versamento IVA perché aveva proposto una rateizzazione troppo lunga e “incongrua” (20 euro al mese a fronte di decine di migliaia di euro di debito). Quindi, meglio presentare un piano serio: ad esempio, versamenti mensili proporzionati alle proprie capacità, oppure adesione a una definizione agevolata (se c’è) o comunque qualcosa che indichi che, al termine della prova, il debito sarà estinto o quasi.
Durata e lavori: Spesso nei reati tributari la messa alla prova viene calibrata su durate medio-brevi (6 mesi – 1 anno), specie se il debito è modesto e magari già pagato in gran parte. In tal caso l’Ufficio di esecuzione potrebbe suggerire attività di volontariato generico (assistenza in mense dei poveri, protezione civile, ecc.). Queste attività possono essere scelte tenendo conto anche delle competenze dell’imprenditore – ad esempio, un imprenditore edile potrebbe offrire lavori di manutenzione a titolo gratuito per un ente pubblico. Ciò dà anche un senso di restituzione sociale.
Conclusione sulla MAP: Dal punto di vista del debitore, è la soluzione ideale se si mira a evitare qualsiasi macchia penale. Bisogna però essere disposti a collaborare attivamente, sia lavorando, sia soprattutto onorando per quanto possibile il debito con l’Erario durante il periodo di prova. - Giudizio abbreviato: È un rito speciale in cui si chiede che la decisione avvenga allo stato degli atti, ottenendo in cambio una riduzione di 1/3 della pena (come il patteggiamento) ma senza accordo con il PM. Si sceglie l’abbreviato di solito quando si punta su una decisione del giudice sulle carte, magari confidando in una lacuna probatoria o in un’interpretazione favorevole della norma, oppure per ottenere la riduzione di pena in caso di evidenza schiacciante.
Nel tributario, l’abbreviato non è molto frequente perché spesso i fatti sono documentali e difficilmente contestabili – quindi di solito, se si vuole chiudere in fretta, si patteggia. Però un caso tipico in cui si opta per abbreviato è: l’imputato non può patteggiare (perché non ha pagato e la legge glielo vieta, vedi frodi), non vuole o non può fare MAP (magari perché ha precedenti o il reato non è ammesso), ma ritiene che comunque la causa è persa e vuole la riduzione 1/3. In tal scenario, l’abbreviato è la migliore via per contenere la pena.
Esempio: imprenditore accusato di dichiarazione fraudolenta con fatture false per milioni di euro – non ha i soldi per pagare, patteggiare non può senza pagamento (reato ex art. 2), messa alla prova non è possibile perché pena massima 8 anni, dunque tanto vale richiedere l’abbreviato: verrà probabilmente condannato, ma la pena verrà ridotta di un terzo. Con gli eventuali sconti per attenuanti generiche (specie se confessa, collabora) si può scendere molto.
Nota: nel rito abbreviato non vige l’obbligo di pagamento del debito tributario, neppure per i reati dichiarativi: quell’obbligo è solo per patteggiamento. Così, paradossalmente, chi non può patteggiare perché non ha pagato potrebbe comunque ottenere uno sconto simile scegliendo l’abbreviato. Certo, perde la chance di contrattare qualificazione e pena col PM, ma se i fatti sono chiari tanto vale.
Strategia nell’abbreviato: Si può condizionare l’abbreviato a integrazioni probatorie, ad esempio per produrre documenti utili (perito contabile, etc.). Una mossa difensiva potrebbe essere: chiedere abbreviato e contestualmente depositare prove che riducono l’imposta evasa (es. perizie sui costi deducibili non considerati). Il giudice deciderà tenendo conto anche di quelle prove. Quindi, se c’è margine di contestazione sul quantum dell’evasione, l’abbreviato può essere efficiente.
Difetto dell’abbreviato: genera una condanna (seppur ridotta) e una fedina penale come il patteggiamento, ma senza “negoziazione” (quindi il PM può tranquillamente chiedere pena alta, poi ridotta solo di 1/3). Non consente le modulazioni creative come il patteggiamento (dove puoi concordare pena sospesa, niente interdizioni, ecc.), a meno che il giudice d’ufficio applichi attenuanti. Tuttavia, con le nuove norme, sui reati tributari gravi (pena > 6 anni) l’abbreviato è una delle poche vie perché la MAP non c’è e il patteggiamento è sbarrato senza pagamento.
Tabella riepilogativa scelte di rito e condizioni:
Rito/strumento | Applicabilità ai reati tributari | Condizioni | Effetto |
---|---|---|---|
Patteggiamento | Sì per tutti, ma: per art. 2,3,4,5 solo se debito pagato; per art. 10-bis/ter/quater ed 8,10,11 ammesso anche senza pagamento (ma sconsigliato moralmente) | Accordo PM-difesa su pena.Per 2-5: richiesta con prova pagamento | Sentenza di patteggiamento (condanna) con pena ridotta 1/3. Possibile sospensione condizionale. Reato iscritto ma beneficio di non menzione (se <2 anni). |
Messa alla prova | Sì per reati con pena ≤ 6 anni (dopo riforma) – include art. 4,5,8 attenuato, 10,10-bis/ter/quater, 11 (anche aggravato 6 anni) | Nessuna condanna precedente ostativa.Predisporre programma con lavori utili + impegni risarcitori (pagamento debito). | Sospensione del processo; se esito positivo, estinzione del reato (niente condanna). Se esito negativo, si torna a giudizio normale. |
Giudizio abbreviato | Sì per qualsiasi reato (anche frodi, ecc.) su richiesta imputato. | Può essere condizionato a prove specifiche.Non richiede pagamento debito. | Sentenza di merito immediata con riduzione 1/3 pena. Possibile appello solo su motivi limitati. Condanna iscritta come normale. |
Dibattimento ordinario | Da scegliere se si punta all’assoluzione piena e non sono convenuti altri riti, oppure se soglie/prove sono contestabili. | Nessuna condizione in particolare. | Processo pubblico con esame testimoni, ecc. Se condanna, pena piena (salvo attenuanti). Maggiore durata e costi. |
Consiglio generale: Va ribadito che se l’imputato sostiene la propria innocenza e ha elementi validi per confutare l’accusa, nonostante i benefici dei riti alternativi, è suo diritto affrontare il dibattimento per ottenere l’assoluzione. Ad esempio, un imprenditore accusato di frode fiscale ma convinto di avere ragione perché le operazioni contestate erano reali, potrebbe rifiutare patteggiamento/MAP e giocarsela al processo (magari abbreviato condizionato a perizia). Le strategie sopra illustrate sono soprattutto da adottare quando la responsabilità è oggettivamente comprovata e l’obiettivo è mitigare le conseguenze.
3. Coordinamento con il contenzioso tributario
Il procedimento penale fiscale quasi sempre nasce da un accertamento tributario o da una verifica della Guardia di Finanza. Quindi in parallelo al penale c’è di solito un iter amministrativo: avviso di accertamento, eventuale ricorso in Commissione Tributaria, ecc. È cruciale coordinare la difesa su entrambi i fronti:
- Una sentenza favorevole del giudice tributario (es. annulla l’accertamento perché il fatto non sussiste o ridetermina in meglio le imposte) può essere utilizzata nel penale. Ad esempio, se la Commissione Tributaria stabilisce che certi elementi attivi non furono occultati oppure che un costo contestato era in realtà deducibile, ciò può demolire l’accusa di infedele dichiarazione (mancando l’imposta evasa oltre soglia). Formalmente il giudice penale non è vincolato dalle sentenze tributarie, ma nella pratica una decisione definitiva tributaria favorevole è estremamente influente (lo stesso D.Lgs. 74/2000 all’art. 20 prevedeva il principio di autonomia dei procedimenti, ma la giurisprudenza cerca di evitare contrasti evidenti). Ad esempio, Cass. 12468/2020 ha annullato una condanna per infedele dopo che in sede tributaria l’accertamento era stato annullato: non c’era più prova di evasione.
Dunque la difesa penale dovrebbe tenere aggiornato il giudice dell’esito del contenzioso fiscale e, se opportuno, chiedere anche una sospensione del processo penale in attesa della definizione in Cassazione del giudizio tributario (questo a tutela dell’imputato, per evitare un verdetto penale contrastante). A volte i giudici penali lo fanno spontaneamente in casi complessi. - Viceversa, una sentenza tributaria sfavorevole (che conferma l’evasione) rafforza il penale. Tuttavia, la difesa potrebbe ancora far valere diversi standard di prova: in sede tributaria vale il principio del “più probabile che non” e inversione dell’onere in certi casi, in sede penale serve la prova “oltre ogni ragionevole dubbio”. Quindi anche se la Commissione ha ritenuto simulata un’operazione, la difesa penale può sostenere che restano margini di dubbio ragionevole. Un caso tipico: la Commissione può presumere ricavi in nero da indizi, mentre nel penale solo con quelle presunzioni non si condanna se non sono gravi, precise e concordanti ad altissimo livello. Ci sono esempi di assoluzioni penali nonostante conferme tributarie, basate proprio sul differente livello probatorio.
- Scambio di informazioni e documenti: La difesa deve assicurarsi di acquisire nel penale tutti gli atti del procedimento tributario utili. Spesso i verbali GdF, i PVC (processi verbali di constatazione) e gli accertamenti sono già noti, ma magari in sede tributaria emergono perizie di parte, consulenze tecniche o testimonianze (es. un fornitore viene sentito in commissione tributaria e dice che la prestazione fu reale). Questi elementi vanno portati nel penale. Si può chiedere di sentire come testimone nel penale chi ha deposto nel tributario. Attenzione però: se quell’esame è già stato fatto in contraddittorio, si può chiedere di acquisirlo tramite incidente probatorio o come prova documentale (ma meglio riascoltare in penale per poter controesaminare in quell’ambito).
- Utilizzo dell’adesione o conciliazione fiscale: Se in sede tributaria ci sono margini per ridurre l’imposta attraverso una transazione (conciliazione giudiziale, accertamento con adesione), val la pena farlo. Non solo riduce l’importo dovuto (quindi potenzialmente la soglia evasa può scendere), ma il fatto di definire l’aspetto fiscale può essere presentato al giudice penale come segno di ravvedimento (anche se il pagamento ridotto a stralcio non rientra nell’art. 13 letterale, evidenzia comunque la volontà di chiudere i conti). Inoltre, una conciliazione fiscale produce un “accordo” con l’Agenzia: talvolta la Cassazione penale ha valutato ciò come un riconoscimento del debito da parte del contribuente, quindi una sorta di resipscentia. È un’arma a doppio taglio però: l’accusa potrebbe dire “vedete, ha aderito quindi ammette l’evasione”. Bisogna saperlo usare: magari con cautela, sottolineando che l’adesione è stata fatta per evitare costi ulteriori e in applicazione di facoltà di legge, senza confessare nulla sul piano penale (in genere negli atti di adesione non c’è ammissione di dolo, è un accordo economico).
- Attenzione al ne bis in idem europeo: Un tema avanzato è la problematica del doppio binario sanzionatorio (amministrativo e penale) per la stessa evasione, che è stata oggetto di vari interventi della Corte di Giustizia UE e della Corte EDU. In passato c’è stata incertezza se punire due volte (multa amministrativa + penale) violi il ne bis in idem. L’Italia ha modificato alcune cose (introdotto per es. che la sanzione amministrativa pecuniaria viene scomputata in parte sulla pena, ecc.). La difesa potrebbe – in casi limite di eccesso punitivo – sollevare eccezioni di ne bis in idem. Per esempio, se per un’omessa dichiarazione un contribuente ha già pagato una sanzione amministrativa del 180% e poi viene condannato anche penalmente, si può argomentare la sproporzione. La giurisprudenza attuale però tende a considerare le sanzioni tributarie e penali complementari e ammissibili, se ben coordinate. Quindi non sempre paga alzare la questione, ma la difesa deve tenerla presente come eventuale argomento di ricorso costituzionale o europeo, specie se l’imputato subisce sanzioni percepite come duplicative estreme.
In sintesi, mai trascurare il fronte fiscale: la difesa penale e quella fiscale devono andare a braccetto. Idealmente, far seguire il caso da un team misto (penalista + tributarista) è la scelta vincente: il tributarista può vincere o ridurre l’accertamento, il penalista userà quei risultati per ottenere assoluzioni o trattamenti di favore.
4. Contestare l’elemento soggettivo (dolo)
Un’altra strategia generale (applicabile però solo a certe situazioni) è focalizzarsi sulla mancanza di dolo. Come si è visto, tutti i reati tributari richiedono la volontà di evadere o di evitare il pagamento. Non è sufficiente aver “commesso l’atto oggettivo”: se esso è frutto di errore, ignoranza scusabile o forza maggiore, l’imprenditore non dovrebbe essere punito penalmente.
Alcuni esempi di situazioni sfruttabili:
- Errore su norme tributarie complesse: Il diritto tributario è notoriamente complicato e mutevole. Se la violazione dipende da un’interpretazione ragionevole ma errata, si può sostenere che mancava la consapevolezza dell’illecito. Ad esempio, un imprenditore credeva – su consiglio del suo commercialista – di poter fruire di un certo credito d’imposta; se poi viene fuori che non spettava, potrà dire di aver agito in buona fede seguendo un professionista. L’art. 47 c.p. sull’errore di diritto di regola non scusa, ma la Corte di Cassazione ha aperto alla scusabilità in materia fiscale quando la norma violata era “oscura e di dubbia interpretazione” e il contribuente ha fatto il possibile per comprenderla. In parole povere: se anche un esperto poteva sbagliare, non puoi mandare in galera l’imprenditore che ha sbagliato. Questo argomento trova spazio specialmente nei reati di indebita compensazione di crediti (vedi crediti R&S contestati retroattivamente – spesso i giudici assolvono ritenendo difetto di dolo, data la confusione normativa) e in alcune dichiarazioni infedeli dovute a valutazioni differenti di componenti di reddito (es. è un costo deducibile o no? se per il contribuente sì ma per il Fisco no, punirlo penalmente sarebbe eccessivo se la questione era opinabile, tant’è vero che l’art.4 esclude penalità per valutazioni entro 10%).
- Affidamento a consulenti: Molti imprenditori delegano gli adempimenti fiscali al proprio commercialista o consulente. Se il professionista commette un errore (ad es. dimentica di presentare la dichiarazione, o calcola male l’imposta), l’imprenditore può essere imputato come legale rappresentante. Qui la difesa può invocare l’assenza di dolo se l’imprenditore ha fornito tutti i dati al consulente ed era ragionevolmente ignaro dell’errore. Ad esempio, Cass. pen. n. 34483/2019 ha assolto un’imputata per omessa dichiarazione perché provò di aver consegnato la documentazione al commercialista in tempo utile e di essere stata indotta in errore dal suo inadempimento (principio dell’affidamento incolpevole). Attenzione: questo vale se il contribuente ha vigilato con la normale diligenza (non basta dire “pensavo ci pensasse il commercialista” se poi ignorava solleciti e cartelle). Ma se c’è evidenza che l’errore fu tutto del consulente infedele, il dolo può effettivamente mancare per l’imprenditore.
- Crisi di liquidità imprevedibile: Come affrontato, la giurisprudenza su omessi versamenti tende a non scusare la crisi economica ordinaria, però ammette eccezioni per cause di forza maggiore (es. un sequestro giudiziario di conti, una frode subita, un evento calamitoso). Se l’imprenditore dimostra che voleva pagare ma è stato oggettivamente impossibilitato da eventi esterni, può essere assolto per difetto di dolo. È una difesa complessa da far valere, ma non impossibile: occorrono prove documentali robuste (es. corrispondenza con la banca che nega fidi promessi, evidenze che incassi cruciali non sono arrivati causa insolvenza di un grosso cliente – e magari quell’insolvenza era dovuta a fattori esterni). La riforma 2024 sancirà in legge questa causa di non punibilità per cause non imputabili, facilitando la difesa su tale linea.
- Assenza del fine di evasione in reati formali: Per reati come l’occultamento di documenti (art. 10) o la sottrazione fraudolenta (art. 11), a volte la difesa può argomentare che l’atto c’è stato ma non per scopo fiscale. Esempio: un imprenditore distrugge le scritture, ma il motivo era nascondere appropriazioni indebite ai soci, non evadere il Fisco. Se convincente, viene meno il dolo specifico (“al fine di evadere imposte”). Oppure, nell’art. 11: ha costituito un trust familiare prima ancora di ricevere cartelle, per finalità successorie e non con intento fraudolento – se credibile, può escludersi il reato (è una sottile linea, ma la Cassazione richiede proprio la prova che lo scopo fosse eludere il Fisco, non basta l’effetto oggettivo di ridurre garanzie).
In ogni caso, sostenere la mancanza di dolo è una difesa di merito che può portare all’assoluzione completa (“il fatto non costituisce reato”). Va però calibrata: non deve sembrare un mero tentativo di scaricabarile. Serve un racconto coerente supportato da evidenze. Se la giuria percepisce genuinità, può dare beneficio del dubbio sul dolo – e in penale il dubbio sul dolo implica assoluzione (in dubio pro reo).
5. Valorizzare circostanze attenuanti e ottenere la minima pena
Se la prospettiva di evitare la condanna è scarsa (le prove di colpevolezza sono solide e non vi sono cause estintive attivabili), l’obiettivo realistico diventa quello di contenere al massimo la pena e le conseguenze della condanna. Oltre a scegliere riti come patteggiamento o abbreviato, la difesa dovrebbe insistere sulle circostanze attenuanti presenti nel caso. Eccone alcune tipiche nei processi tributari:
- Attenuante del ravvedimento operoso (art. 13-bis c.1): se il contribuente paga il debito dopo l’apertura del dibattimento ma entro la sentenza di primo grado, la pena va diminuita fino alla metà. Questa è una disposizione introdotta nel 2019 per incentivare il pagamento anche tardivo. Quindi, se si è ormai a dibattimento e non c’è causa di non punibilità perché il pagamento è arrivato tardi, almeno c’è questa forte attenuante da applicare. Va richiesta espressamente, dimostrando il pagamento.
- Attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.): Nel caso di un imprenditore incensurato, magari con comportamenti collaborativi (ha consegnato documenti, ammesso le proprie mancanze in fase investigativa) e che versa in difficoltà economiche, la difesa chiederà le generiche per valore dei precedenti, condotta successiva (pagamento parziale), ecc. I giudici spesso le concedono in questi casi se non ci sono elementi di segno contrario. Le generiche permettono un taglio di pena (spesso 1/3) e possono equiparare la gravità a circostanze equivalenti o prevalenti rispetto ad aggravanti (utile se c’è aggravante del debito >200k, per es., si può dichiarare generiche prevalenti e non aumentare la pena).
- Attenuante del risarcimento del danno (art. 62 n.6 c.p.): Se il contribuente ha risarcito integralmente il danno prima della sentenza (qui il “danno” è l’ammanco di imposte), questa attenuante specifica si potrebbe applicare. La Cassazione la riconosce di rado nei reati tributari perché esiste già la disciplina speciale dell’art. 13 e 13-bis, ma alcuni giudici la considerano in aggiunta (risarcimento anticipato può coesistere con la causa di non punibilità se quest’ultima non fosse applicabile per qualche cavillo, oppure se il pagamento è parziale, può comunque valere come attenuante generica o ex n.6 per la parte versata).
- Dichiarazione di efficacia del ravvedimento (art. 13 c.2): pur non essendo formalmente un’attenuante, se la difesa dimostra che l’imputato si è spontaneamente ravveduto prima di sapere di indagini (ad es. ha presentato integrativa e pagato perché si era accorto di un errore, ma per sfortuna la GdF aveva già inviato un P.V.C. non ancora notificato – tecnicamente l’art.13 c.2 non si applica perché c’era un controllo in corso, però di fatto l’imputato non lo sapeva), potrebbe convincere il giudice a tenerne conto in sentenza per ridurre la pena o addirittura valutare il difetto di dolo. Insomma, far emergere l’atteggiamento virtuoso di correggere prima possibile.
- Minore gravità del fatto: Nei reati di emissione di false fatture e occultamento scritture, anche se non c’è una attenuante ad hoc, la difesa può argomentare la minore gravità (es. fatture false per importi modesti e con profitto limitato, oppure scritture in parte recuperate) per spingere il giudice verso il minimo edittale. Ad esempio, in art. 8 se l’importo era 90k (sotto soglia aggravante), nessun precedente, potrebbe esser plausibile una pena prossima al minimo 1 anno e 6 mesi ridotto magari per attenuanti. Lo stesso per infedele: se giusto di poco sopra soglia e con condotta altrimenti regolare, c’è margine per una pena base vicina ai 2 anni minimi, e poi riducibile.
- Invocare la non applicazione di pene accessorie: Il D.Lgs. 74/2000 prevede alcune pene accessorie (art. 12) come l’interdizione dagli uffici direttivi di imprese e professioni fino a 2 anni, interdizione dai pubblici uffici, incapacità di contrattare con la P.A., ecc., in caso di condanna superiore a determinate soglie. Spesso col patteggiamento si cerca di evitarle, ma qualora ci fosse condanna, la difesa può chiedere di non applicarle o di attenuarle ex art. 133 c.p., evidenziando che il contribuente ha tenuto condotta cooperativa e che tali sanzioni aggiuntive sarebbero sproporzionate. Non sempre il giudice può esimerle (alcune sono obbligatorie se si supera 2 anni di pena inflitta), ma tentando una pena sotto 2 anni (anche con condizionale) spesso si evita il problema. Va ricordato che, se il contribuente ha patteggiato la pena, la confisca del profitto (cioè delle somme evase) è comunque obbligatoria salvo integrale pagamento già eseguito. Tuttavia, pagando prima o contestualmente, si evita confisca (o si converte in confisca di quell’importo già versato, che è neutra). La difesa dovrebbe assicurarsi che, se c’è confisca disposta, essa non ecceda il profitto netto non restituito allo Stato. Se ha pagato le imposte evase, chiedere revoca totale della confisca (Cass. 19725/2021 ha annullato confisca quando il debito era già estinto).
6. Aspetti reputazionali e salvaguardia attività
Dal punto di vista pratico dell’imprenditore, un procedimento penale tributario può avere effetti collaterali sulla sua attività e reputazione:
- Misure cautelari personali e reali: In casi di frodi gravi, il PM può chiedere misure come il sequestro preventivo dei beni (finalizzato alla confisca equivalente) e raramente arresti domiciliari o interdittivi (sospensione dall’esercizio d’impresa). La difesa deve contrastarle argomentando che non vi è pericolo attuale (magari l’azienda ha cessato la condotta, ha iniziato a pagare, ecc.) e che si può tutelare il credito erariale con misure meno afflittive (ad es. ipoteca legale). Spesso si riesce a ottenere la revoca o attenuazione di sequestri presentando garanzie: ad esempio, se l’imprenditore ipoteca volontariamente un immobile a favore dell’Erario per l’importo dovuto, il tribunale potrebbe dissequestrargli i conti correnti, così che possa proseguire l’attività (utile anche allo Stato per incassare in futuro).
- Reputazione: Un’incriminazione per evasione può danneggiare i rapporti con clienti, banche e fornitori. La difesa pubblica (comunicazione) va calibrata. Se l’imprenditore ha effettivamente commesso illeciti, conviene tenere un profilo basso e puntare su comunicati in cui manifesta l’intenzione di regolarizzare tutto e cooperare (questo attenua il biasimo). Se invece è convinto di non aver colpa, può valutare un approccio più assertivo – ma attenzione: dichiarazioni pubbliche potrebbero poi vincolare la difesa in giudizio. Meglio lasciar parlare i legali con prudenza. L’obiettivo è evitare processi mediatici e proteggere il brand aziendale. In certi casi, può essere opportuno affidare la gestione dell’impresa temporaneamente ad altra persona di fiducia per distanziarla dall’indagine (ad esempio nominare un nuovo amministratore se l’attuale è imputato, così i partner commerciali percepiscono discontinuità).
- Continuazione dell’attività: Se l’impresa è ancora attiva, il processo non deve paralizzarla. Abbiamo parlato di misure cautelari: riuscire a scongiurare il sequestro di conti è vitale per pagare dipendenti e fornitori. La difesa, con istanze al giudice, può chiedere di “liberare” somme sotto sequestro per adempiere a obblighi urgenti (salari, ecc.), invocando l’interesse sia dei lavoratori sia della continuità aziendale che permetterà poi il pagamento delle imposte dovute. I giudici a volte lo permettono, bilanciando esigenze.
- Responsabilità amministrativa dell’ente (D.Lgs. 231/2001): Dal 2019, alcuni reati tributari (art. 2,3,8,10,11) possono riflettersi in una responsabilità della società se commessi nel suo interesse. Ciò significa che parallelamente al processo penale personale, può esservi un procedimento a carico della società con rischio di sanzioni pecuniarie elevate e interdittive (divieto di contrarre con P.A., ecc.). La difesa dell’imprenditore deve coordinarsi con quella della società: una mossa utile è adottare (o aggiornare) un Modello Organizzativo 231 in azienda, anche tardivamente, e farlo valutare come esimente. Se l’azienda prova di aver adottato efficaci modelli di prevenzione dei reati fiscali, potrebbe evitare la condanna 231. Ad esempio, dopo la contestazione l’azienda può implementare procedure di controllo interno più stringenti e nominare un Organismo di Vigilanza, mostrando così che l’episodio è stato frutto di iniziativa individuale e che ora l’ente si è attrezzato per prevenire simili fatti. Questo può ridurre la sanzione all’ente o evitarla. Inoltre, se la società (ente) paga anch’essa il dovuto, può chiedere l’applicazione del “peculato ravvedimento” previsto per ridurre la propria sanzione amministrativa. In sostanza, l’imprenditore imputato dovrà preoccuparsi anche di salvare la propria azienda dalle conseguenze: la collaborazione e la regolarizzazione valgono come attenuanti anche per l’ente.
- Prescrizione del reato: Non è propriamente “reputazionale”, ma in termini di strategia difensiva a lungo termine, monitorare la prescrizione è doveroso. I reati tributari hanno tempi di prescrizione variabili: per quelli con pena max fino a 6 anni è 6 anni (prorogabile di 1/4 in caso di atti interruttivi, quindi 7 anni e mezzo); per frodi 8 anni di base (che con atti può diventare 10). La riforma del 2019 ha aumentato alcune pene, prolungando i termini, ma la riforma Cartabia 2022 ha introdotto l’improcedibilità in appello dopo un certo tempo (3 anni per appello in reati ≤6 anni, 5 anni per reati >6; prorogabili) e abolito la sospensione della prescrizione dopo primo grado. Ciò significa che i processi penali oggi devono concludersi in tempi ragionevoli o il caso muore. La difesa può, se opportuno, anche fare leva sui tempi: ad esempio, se mancano pochi mesi alla prescrizione e il PM chiede un rinvio inutile, la difesa potrebbe tacitamente gradire lo scorrere del tempo. Non è elegante puntare alla prescrizione, ma è un diritto del difensore sfruttarla se il cliente preferisce evitare condanna (anche senza assoluzione). Bisogna però considerare la legge “Spazzacorrotti” che ha reso imprescrittibili in appello reati di cui all’art. 2 e 3 (equiparati a corruzione, forse) per fatti ante 2020, ma con la Cartabia è tornata la prescrizione per tutti al 2020 (salvo eccezioni mafiose, etc., dove i reati tributari non rientrano). Quindi, in base all’anno di commissione del reato, la difesa calibrerà: per fatti vecchi (prima 2020) la prescrizione fu sospesa con la vexata quaestio, per fatti dal 2020 di nuovo c’è. Valutazioni tecniche da fare.
Insomma, se un processo appare destinato a trascinarsi e l’imprenditore non rischia pene oltre 4 anni, talvolta conviene “tirarla per le lunghe” (purché non incorra in improcedibilità al 2º grado, ma come imputato potrebbe persino giovarsene perché l’improcedibilità fa cessare il caso come una prescrizione processuale). Tuttavia, attenzione: c’è chi vuole una definizione rapida per togliere incertezza (specialmente se innocente, preferisce sentenza di assoluzione presto). Quindi la strategia temporale dipende anche dagli obiettivi del cliente.
Conclusione di strategia generale: La difesa in materia di reati tributari richiede un equilibrio tra soluzioni giuridiche (non punibilità, attenuanti, riti alternativi) e soluzioni pratiche (pagare, sistemare la contabilità, riorganizzare l’azienda). Dal punto di vista dell’imprenditore-deditore, è fondamentale dimostrare pentimento e attivarsi per correggere il tiro: questa attitudine, oltre a generare strumenti normativi di favore, crea anche un clima migliore in aula. I giudici tendono a distinguere tra l’evasore incallito e spregiudicato e il contribuente in difficoltà che ha cercato di rimediare: orientare la narrazione del caso verso il secondo profilo può influire positivamente sull’esito.
Infine, passiamo a domande e risposte di sintesi, per chiarire i dubbi comuni degli utenti su questa materia.
Domande Frequenti (FAQ) su Reati Tributari e Difesa del Contribuente
D1: Quando l’evasione fiscale diventa reato penale?
R: Diventa reato solo se supera determinate soglie di punibilità previste dalla legge e se c’è l’elemento soggettivo del dolo di evadere. Ad esempio, presentare una dichiarazione infedele è penale solo se l’imposta evasa > 100.000 € e i ricavi nascosti >10% del totale o >2 milioni. Non presentare affatto la dichiarazione è reato se le imposte non dichiarate > 50.000 €. Omettere il versamento dell’IVA o delle ritenute è reato se l’importo supera, rispettivamente, 250.000 € (ora 150.000 € con nuove norme) e 150.000 € (ora 100.000 € in riforma). Emissione e utilizzo di fatture false sono sempre reato (anche per importi piccoli), ma la pena è attenuata se sotto 100.000 €. Quindi sotto tali soglie l’evasione rimane illecito amministrativo (multa), oltre diventa illecito penale. Va detto che non c’è una soglia penale cumulativa: contano i singoli anni e i singoli tributi. Perciò evadere 40.000 € l’anno per 3 anni (120.000 € totali) non integra reato (perché per ogni anno è sotto 50k). La soglia va valutata per periodo d’imposta. Inoltre, serve il fine di evasione: errori contabili o interpretativi in buona fede non dovrebbero portare condanna penale (possono però generare sanzioni amministrative).
D2: In caso di verifica fiscale, come posso difendermi per evitare il penale?
R: La cosa migliore è agire prima che scatti la denuncia penale. Se dall’avviso di accertamento emerge che potresti superare soglie penali, hai alcune mosse:
- Ravvedimento operoso tempestivo: Se la violazione non è stata ancora contestata formalmente con un processo verbale di constatazione (PVC) notificato, puoi presentare una dichiarazione integrativa correttiva e pagare il dovuto (più interessi e sanzioni ridotte). Ad esempio, se scopri di aver sottostimato i ricavi e la GdF non ti ha ancora notificato nulla, fai un ravvedimento. La legge dice che, se fai ciò prima di avere formale conoscenza di verifiche o procedimenti, non sei punibile penalmente per i reati dichiarativi. Questo può bloccare sul nascere l’azione penale.
- Pagamento integrale entro il dibattimento: Se la verifica è già conclusa e c’è rischio di denuncia, puoi comunque evitare la punibilità pagando tutto prima che inizi il processo penale di primo grado (art. 13 D.Lgs. 74/2000). Ad esempio, la GdF ti contesta a verbale un’omissione da 70k di IVA: se versi quell’IVA (e sanzioni amministrative) prima che in tribunale si apra il dibattimento, il PM dovrà chiedere l’archiviazione o tu verrai prosciolto per intervenuto pagamento. Quindi, dopo la verifica, spesso c’è una finestra di alcuni mesi prima che la procura muova l’accusa: usala per accordarti col Fisco e pagare.
- Ridurre le pretese tributarie in sede amministrativa: Fai subito ricorso o adesione all’accertamento per abbassare gli importi sotto soglia. Se riesci a dimostrare in Commissione Tributaria che l’imposta evasa è in realtà inferiore al limite penale, puoi evitare la denuncia (o, se già partita, chiederne l’archiviazione per insussistenza del fatto). Esempio: accertato evaso 110k, ma con prove riesci a farlo ridurre a 90k; a quel punto l’art.4 (dich. infedele) non è più configurabile. Le autorità penali di solito attendono l’esito del primo grado tributario prima di formalizzare l’imputazione in questi casi borderline.
In poche parole: gioca d’anticipo. Appena intuisci dal verbale di verifica che c’è materia penale, attivati: trova le risorse per pagare (anche rateizzando subito le somme dovute), correggi errori, fornisci tutte le giustificazioni ai verificatori. Se dimostri collaborazione, a volte la GdF stessa lo evidenzia e il PM potrebbe anche soprassedere (specie per condotte di minore gravità, confidando in una sanzione amministrativa sufficiente). Anche perché l’obiettivo principale dello Stato è incassare il tributo, non incarcerare indiscriminatamente. Quindi mostrarsi collaborativo e solvente è una difesa preventiva efficace.
D3: Ho ricevuto una cartella esattoriale molto alta e ho fatto operazioni per salvare la mia azienda (trasferito beni a terzi, etc.). Possono accusarmi di reato?
R: Sì, bisogna fare molta attenzione. Se quelle operazioni sono considerate fraudolente e fatte allo scopo di impedire la riscossione delle imposte, si ricade nel reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11). La soglia di debito fiscale è bassa (oltre 50.000 €), perciò molte situazioni ci rientrano. Esempi classici: vendere macchinari o immobili dell’azienda a un’altra società collegata per far sparire garanzie, creare un fondo patrimoniale o intestare beni a familiari dopo aver ricevuto avvisi di accertamento. Anche la simulazione di insolvibilità (ad es. rappresentare passività fittizie in bilancio per giustificare il non pagamento) rientra.
Ci sono però soluzioni lecite per proteggere l’azienda e allo stesso tempo non violare la norma:
- Agire per tempo e non in maniera ingannevole. Se ristrutturi l’azienda quando ancora non c’è un debito fiscale certo e scaduto, e lo fai a valori di mercato, è più difficile sostenere il dolo di eludere il Fisco (il confine è sottile, ma temporalità e trasparenza aiutano). Ad esempio, trasferire rami d’azienda a terzi indipendenti prima che scatti un’iscrizione a ruolo potrebbe essere lecito (salvo poi restare comunque responsabile patrimonialmente con il ricavato).
- Coinvolgere il Fisco nelle trattative: oggi esistono strumenti come la transazione fiscale nell’ambito delle procedure di concordato preventivo o ristrutturazione debiti. Piuttosto che svendere beni di nascosto, meglio cercare un accordo col Fisco su come pagare parzialmente il debito. Se c’è un piano approvato (es. pagamento del 30% del debito in 5 anni) e tu alieni dei beni per attuare quel piano, non sarai punibile (anzi, l’art. 11 comma 2 tutela chi rispetta accordi di ristrutturazione).
- Revocare o annullare atti sospetti: se ti rendi conto di aver fatto un passo falso (es. hai intestato la casa al figlio dopo la cartella), consultati con un legale: a volte è meglio fare marcia indietro (riportare il bene a tuo nome) per non aggravare la posizione. Puoi sempre poi negoziare un pagamento rateale col Fisco per evitare il pignoramento, ma almeno eviti il penale.
In sintesi, mai compiere atti occultatori o simulati all’indomani di un atto del Fisco. La cosa più prudente è affrontare il debito apertamente: se proprio l’azienda non può pagare, valutare procedure concorsuali (dove eventuali piani includano il Fisco). Tra l’altro, la stessa azienda potrebbe essere chiamata a rispondere (responsabilità 231) se i suoi organi compiono atti per frodare il fisco. Quindi la difesa migliore è lavorare alla luce del sole: contattare l’Agente della Riscossione, proporre soluzioni, e se si movimentano beni, farlo in modo genuino (valore di mercato, niente prestanome). Se hai dubbi sulla liceità di una mossa (es. trasformare la società in inattiva e aprirne un’altra pulita altrove), chiedi prima una consulenza legale: spesso stratagemmi che sembrano furbi integrano reati (anche bancarotta, se c’è fallimento di mezzo).
D4: Se pago tutte le imposte evase, evito automaticamente il carcere?
R: Nella maggior parte dei casi, sì, si può evitare la condanna. Il sistema premiale italiano è costruito per favorire la regolarizzazione:
- Per i reati di omesso versamento e compensazione indebita, il pagamento integrale prima del dibattimento di primo grado rende il fatto non punibile. Quindi niente processo o archiviazione in corso. E se paghi dopo l’inizio del processo ma prima della sentenza, avrai comunque uno sconto di pena fino alla metà (e con sospensione condizionale è probabile comunque niente carcere).
- Per i reati dichiarativi (frodi, infedele, omessa), il pagamento integrale anticipato (ravvedimento operoso) prima di essere scoperti esclude il reato. Se paghi invece dopo essere stato scoperto, non hai esimente piena (ormai il reato c’è), ma in pratica pagare tutto ti permette di ottenere il patteggiamento (che altrimenti è precluso per frodi e dichiarativi) e uscirne con una pena ridotta e molto probabilmente sospesa. E anche il giudice, nella determinazione della pena, terrà conto che il “danno” è riparato – quindi orientandosi verso minimi edittali o riconoscendo attenuanti.
- Inoltre, con la riforma in arrivo, è prevista una specifica nuova causa di non punibilità se per i reati di omesso versamento (10-bis, 10-ter) e compensazione (10-quater) il contribuente definisce e paga integralmente il dovuto anche durante l’iter amministrativo. Quindi addirittura estesa la chance di evitare il penale.
- Anche l’eventuale confisca obbligatoria del profitto del reato (che è un effetto accessorio di condanna) viene meno se hai già versato allo Stato il dovuto. Dunque pagando scongiuri pure di vederti sequestrare beni.
Riassumendo: se ti autodenunci e paghi prima di una eventuale ispezione, niente processo; se paghi durante il processo, questo potrà comunque concludersi senza carcere (tramite patteggiamento mite o cause di non punibilità). Attenzione però: il pagamento deve essere integrale (imposta + interessi + sanzioni amministrative). A volte il contribuente versa solo l’imposta base pensando basti – la legge richiede anche sanzioni e interessi, salvo accordi di definizione agevolata che riducono le sanzioni: in tal caso paghi ciò che l’accordo prevede e sei ok.
Fai anche attenzione al timing: “pagare tutto” funziona come scudo penale se avviene entro le finestre previste (prima del dibattimento per 10-bis, etc., o prima di sapere degli accertamenti per 2-5). Se paghi fuori tempo massimo, otterrai comunque considerazione positiva ma magari non l’esonero dal reato. Ad esempio, se vieni condannato e solo in appello decidi di saldare, la causa di non punibilità non scatta più (era fino al dibattimento di primo grado). In tal caso, potrai chiedere semmai l’applicazione della nuova attenuante introdotta dalla riforma Cartabia in appello (riduzione fino a 1/6 se paghi dopo sentenza di primo grado). Insomma, prima paghi meglio è.
Infine, nota: pagare salva dal carcere penale, ma le sanzioni amministrative pecuniarie già irrogate restano (non è che ti restituiscono la multa versata). Quindi conviene cercare di far inserire nel patteggiamento o nella sentenza che la sanzione amministrativa già pagata è compensata con il “profitto” confiscando di cui hai pagato – alcune sentenze l’hanno fatto per evitare doppio esborso.
D5: La mia società può essere ritenuta responsabile per i miei reati fiscali?
R: Sì, a partire dal 2019 la legge prevede la responsabilità amministrativa dell’ente (ex D.Lgs. 231/2001) anche per diversi reati tributari commessi da amministratori o dipendenti nell’interesse o vantaggio della società. In particolare, i reati presupposto 231 includono:
- Dichiarazione fraudolenta mediante fatture false (art. 2) e mediante altri artifici (art. 3)
- Emissione di fatture false (art. 8)
- Occultamento/distruzione di scritture contabili (art. 10)
- Omesso versamento di IVA e ritenute (10-bis e 10-ter) non sono nel catalogo 231 al momento.
- Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11) è stata inserita anch’essa.
Ciò significa che, ad esempio, se tu come amministratore hai frodato il fisco a vantaggio dell’azienda (riducendo le imposte dovute nei bilanci), la procura può contestare un illecito 231 alla società stessa. Le sanzioni per la società possono essere molto pesanti: sanzione pecuniaria (anche milioni, a seconda della gravità) e possibili sanzioni interdittive (divieto di contrattare con P.A., esclusione da agevolazioni, fino alla sospensione dell’attività nei casi più gravi).
Come difendersi? L’ente ha delle esimenti se dimostra di avere adottato ed efficacemente attuato un Modello Organizzativo idoneo a prevenire reati fiscali e che la governance aziendale non ha carenze (in pratica, se il reato è avvenuto eludendo fraudolentemente i controlli aziendali). Se la società prima non aveva un modello 231, può adottarlo tardivamente, ma per l’esonero servirebbe fosse già in vigore al momento del fatto. Tuttavia, adottarlo ora aiuta in due modi:
- come argomento di difesa per dire: “abbiamo preso misure per il futuro, l’ente non è un’organizzazione criminale ma ha colmato le lacune”;
- ai fini sanzionatori, può ridurre la pena pecuniaria (il giudice 231 tiene conto degli sforzi post-factum di organizzarsi meglio).
Inoltre, l’ente può cercare patteggiamento 231 con la procura, collegato magari al patteggiamento del legale rappresentante. Per ottenere un patteggiamento mite, l’ente deve essersi attivato per eliminare le conseguenze del reato: nel caso fiscale, significa anche qui pagare il dovuto. Infatti l’art. 12-ter D.Lgs. 74/2000 prevede per l’ente la confisca del profitto in caso di condanna, ergo se l’ente rimborsa l’Erario, diminuisce il profitto confiscabile. L’ente può anche nominare un commissario ad acta per vigilare su pagamenti e compliance fiscale, come segno di ravvedimento.
In conclusione, se tu/imprenditore sei imputato e la tua società è coinvolta, conviene sincronizzare le difese: ad esempio, far sì che nel patteggiamento tu e società vi impegnate a pagare X euro entro tot tempo al fisco; così il patteggiamento dell’ente, ai sensi dell’art. 12-bis D.Lgs. 231, potrà evitare sanzioni interdittive e contenere la multa. Se la società è inattiva o prossima a fallimento, la cosa cambia: in alcuni casi la responsabilità 231 si “estingue” con la società (ma non sempre, a volte prosegue sui liquidatori con il patrimonio residuo). Comunque, per l’ente come per te, collaborazione e pagamento sono la chiave: un’azienda che spontaneamente versa le imposte evase e migliora i controlli interni potrà aspirare magari all’archiviazione 231 o a una pena simbolica, mentre un’azienda che continua a fare la furba rischia sanzioni devastanti (ci sono stati casi di aziende messe in amministrazione giudiziaria per reati fiscali se recidive e senza ravvedimento).
D6: Dopo quanto tempo si “chiude” la faccenda? (Prescrizione)
R: La durata massima del procedimento dipende dal reato contestato e dalle eventuali sospensioni. I reati tributari sono delitti e in generale hanno tempi medio-lunghi di prescrizione rispetto ad altri reati economici:
- Infedele dichiarazione e omessa dichiarazione: prescrizione base 6 anni (perché pena max 4 anni 6 mesi e 5 anni rispettivamente, ma la legge fissa un minimo di 6 anni per i delitti). In caso di atti interruttivi (es. richiesta rinvio a giudizio) si può estendere di 1/4, arrivando a 7 anni e mezzo. Quindi, se in 7,5 anni dal fatto non c’è una sentenza definitiva, il reato è estinto. Con la riforma Cartabia del 2022, la prescrizione continua a decorrere anche dopo la sentenza di primo grado (hanno eliminato il blocco della prescrizione). Inoltre c’è la nuova regola dell’improcedibilità in appello: per reati con pena ≤ 6 anni, l’appello deve chiudersi entro 2 anni (prorogabili di 1) se no scatta improcedibilità. Dunque, per un reato come infedele, il processo d’appello non può trascinarsi più di ~3 anni.
- Frodi fiscali (art. 2 e 3): qui la pena max è 8 anni, quindi la prescrizione è 8 anni, prorogabile a 10 anni (8 + 1/4). L’improcedibilità in appello per reati > 6 anni è 3 anni (prorogabili di 1) per il secondo grado. Quindi in totale un processo potrebbe durare: fino a 5-6 anni in primo grado (anche se raramente succede così tanto per liti tributarie, di solito 2-3 anni), poi altri max 3-4 anni in appello, altrimenti scatta improcedibilità (che chiude il caso come fosse prescrizione).
- Omessi versamenti e indebite compensazioni: pena max 2 anni (non superiore a 6), quindi come infedele, prescrizione 6 anni + 1/4 = 7.5 anni.
- Occultamento scritture e sottrazione fraudolenta: pene max 7 anni (art. 10) e 6 anni (art. 11 aggravato 6 anni), perciò prescrizione 7 anni + 1/4 = 8.75 per art.10, e 6 +1/4 =7.5 per art.11.
Va ricordato che l’inizio del decorso per i reati dichiarativi è il 90° giorno successivo alla scadenza della presentazione (perché entro 90gg la tardiva non è penale); per omessi versamenti, dalla scadenza del termine di pagamento (per IVA, ad es., scadenza dichiarazione annuale o 30/11 anno successivo a seconda delle normative succedutesi). Per fatture false, dal momento dell’uso nella dichiarazione (art.2) o dell’emissione (art.8). Occultamento scritture, dal giorno dell’occultamento/distruzione.
In pratica, i processi penali tributari possono durare diversi anni, ma raramente oltre 10 anni. Spesso anzi finiscono prima perché gli imputati scelgono riti alternativi e definiscono in pochi anni. Se invece c’è battaglia in 3 gradi, è possibile arrivare vicino alla prescrizione in Cassazione. La difesa terrà d’occhio le scadenze: prescrizione come estrema ratio. Se stai a 1 anno dalla prescrizione e il processo è ancora in primo grado, si può cercare di “allungare il brodo” con rinvii (senza esagerare per non incorrere in trattamenti peggiorativi, ma legittimamente). Viceversa, se sei interessato a un esito risolutivo (ad esempio, perché sei innocente e vuoi l’assoluzione piena per reputazione), allora spingi per celerità e magari rinunci a eccezioni che farebbero perdere tempo.
Nota: la prescrizione penale non estingue il debito fiscale: quell’imposta la dovrai comunque pagare (salvo decadenze in sede tributaria diverse). Quindi fuggire nel tempo dal penale non risolve la questione economica. Ma ti evita la fedina penale sporca. Molti imprenditori preferiscono patteggiare e chiudere in 1-2 anni il caso (senza carcere) piuttosto che tirare 8 anni per la prescrizione, con ansia e spese legali per anni, specie se sanno di aver sbagliato. La scelta dipende da priorità personali.
D7: In concreto, quali pene si rischiano per i reati tributari? Finisce davvero qualcuno in prigione?
R: Le pene previste in astratto le abbiamo elencate (ad es. frode fiscale fino a 8 anni, infedele fino a 4 anni e 6 mesi, omessa 5 anni, ecc.). Tuttavia, in concreto i tribunali tendono a comminare pene più basse, specie se è la prima volta e se c’è stata collaborazione. Inoltre, quasi tutti questi reati consentono la sospensione condizionale della pena (che evita la carcerazione) se la pena inflitta non supera i 2 anni (o 2 anni e mezzo se si conciliano i requisiti) – e nella stragrande maggioranza dei casi la si tiene sotto quei limiti.
Per dare un’idea:
- Per una dichiarazione infedele appena sopra soglia (diciamo 150k evasi) con imputato incensurato che ha magari anche pagato parzialmente, si potrebbe patteggiare intorno a 1 anno e 6 mesi di reclusione, con pena sospesa (niente carcere) e magari la non menzione. Se invece c’è processo e condanna, magari 2 anni ma sempre sospesi condizionalmente (spesso subordinati a pagamento residuo debito).
- Per omessa dichiarazione su 300k evasi (x dire), storicamente si vedevano condanne sui 1 anno e 8 mesi – 2 anni, sospese, se c’era appunto stato ravvedimento parziale. Ora con la pena edittale elevata a 5 anni, forse le condanne medie aumenteranno un po’ (2 anni – 2 anni e mezzo), ma comunque con la sospensione se ha pagato. Se un soggetto è recidivo (ha omesso più anni di fila, quindi più reati in continuazione) può arrivare a cumulare 3-4 anni teorici, ma di solito la continuazione porta un aumento contenuto e si cerca di patteggiare il tutto sotto soglia detentiva.
- Per frode fiscale grave (fatture false per importi milioni), lì le pene possono essere più significative: es. 4 anni di reclusione (specialmente se c’è recidiva o organizzazione criminale). In quei casi, la sospensione condizionale non si concede perché superato il limite e perché la condotta è considerata molto grave. Tuttavia, anche in casi di frodi IVA milionarie, spesso si patteggia a 3 anni e qualcosa e si accede magari alla detenzione domiciliare o misure alternative. Va ricordato che reati con pena > 4 anni astrattamente consentono la custodia cautelare, ma per evasione fiscale non è comunissimo vedere arresti preventivi, a meno di associazioni a delinquere finalizzate all’evasione.
- Emissione di fatture false: se di entità minore (sotto 100k), è plausibile una condanna intorno a 1 anno – 1 anno e mezzo, spesso convertibile in domiciliari o sospesa. Se ingenti (tipo un giro di fatture per milioni), analogamente alle frodi, può salire a 4-5 anni per l’emittente principale. Ma se questi collabora (magari facendo nomi dei beneficiari: spesso succede, le “cartiere” collaborano per avere sconti) può ottenere attenuanti premianti e scendere.
- Omessi versamenti: qui di fatto nessuno va in carcere se paga. Se non paga, rischia condanna intorno a 8 mesi – 1 anno per importi vicini alla soglia, fino a 1 anno e mezzo/2 per importi molto grossi e reiterati. Comunque, essendo sotto 2 anni, usualmente la pena è sospesa (salvo situazioni di multi-recidiva). E poi c’è sempre la possibilità di commutarla in pena pecuniaria (la legge permette, su richiesta, di convertire pene detentive brevi in una sanzione pecuniaria nelle contravvenzioni e in qualche delitto minore – su questo il giudice valuta la personalità, ma per reati finanziari spesso preferiscono comunque la sospensione con condizionale legata a pagamento).
- Occultamento scritture: raramente vede gente in carcere isolatamente – di solito è associato ad altri reati (es. bancarotta). Se preso da solo, se uno ha distrutto tutto ma poi ha ricostruito i redditi e pagato, patteggia a 1 anno, sospeso. Se invece è finalizzato a grossi illeciti, può arrivare a 3 anni.
- Sottrazione fraudolenta: anche questo reato di solito porta a pene moderate – ho visto patteggiamenti a 6-8 mesi quando l’imprenditore poi aveva pagato il fisco. Se però uno ha fatto sparire 10 milioni al fisco, può beccarsi 3 anni (unendo aggravante e severità), ma magari patteggia a 2. E c’è la possibilità di chiedere l’affidamento ai servizi sociali in alternativa alla detenzione, per pene entro 4 anni (spesso applicato in reati tributari, specialmente per soggetti non pericolosi).
In sintesi: raramente si vedono condanne effettive a pene detentive lunghe per reati tributari, specie per chi regolarizza. La norma c’è e il carcere è possibile, ma all’atto pratico il sistema – complici i benefici legali e l’affollamento carcerario – trasforma quasi tutte le condanne in pene sospese o misure alternative (domiciliari, affidamento in prova). L’idea è punire con la certezza del recupero del dovuto più che con sanzioni afflittive. Ovviamente, chi continua a evadere e ignora i moniti rischia inasprimenti: ad esempio, un recidivo che per la seconda volta omette 300k di IVA e non paga nulla potrebbe stavolta vedersi negare la condizionale e farsi 1-2 anni in carcere. Casi del genere (evasori seriali) esistono e giustificano un trattamento più duro. Ma per il primo reato tributario, soprattutto se segui i consigli di difesa di cui sopra, è molto probabile evitare sia il carcere sia la fedina penale macchiata in modo significativo (col patteggiamento ottieni la “non menzione” e quindi la condanna non appare nei certificati richiesti dai privati, ad esempio). La miglior difesa è ovviamente non oltrepassare mai le soglie penali – in fase di pianificazione fiscale, se stai per superare 100k di rischi, fermati e pensa alle conseguenze.
D8: Quali errori comuni dovrei evitare per non aggravare la mia posizione durante le indagini?
R: Ci sono diversi passi falsi che un imprenditore può compiere se non opportunamente consigliato. Ecco alcuni errori da non fare:
- Mentire o occultare informazioni agli inquirenti: Se la Guardia di Finanza ti chiede documenti o spiegazioni durante una verifica, cerca di essere collaborativo e veritiero (ovviamente con l’assistenza di un professionista). Fornire dati falsi o documenti artefatti è rischiosissimo: può far scattare ulteriori reati (tipo falso in attestazioni, truffa ai danni dello Stato, ecc.) e inficia ogni credibilità. Anche durante un interrogatorio col PM, se decidi di rendere dichiarazioni, non dire il falso. Puoi avvalerti della facoltà di non rispondere (nessuno te lo impedisce, e a volte è la scelta giusta), ma se rispondi, sii sincero o quantomeno non inventare storie facilmente smontabili. Ad esempio, negare l’evidenza di una fattura fittizia quando ci sono prove chiare ti farà sembrare non affidabile, precludendo magari patteggiamenti favorevoli.
- Distruggere o alterare i libri durante o dopo la verifica: Se hai scritture irregolari, la tentazione di farle sparire è forte. Ma se lo fai dopo che i finanzieri hanno iniziato i controlli o ne hanno sentore, peggiori tutto: scatta l’art. 10, o addirittura ostruzione alla verifica. L’errore è non mettere in regola la contabilità prima. Se sei sotto ispezione, meglio consegnare i registri come sono e semmai spiegare gli ammanchi (o tacere e subire la sanzione) piuttosto che azzardare manomissioni all’ultimo minuto: gli inquirenti se ne accorgono quasi sempre (fogli sostituiti, backup non allineati) e poi addio difesa.
- Continuare a commettere violazioni durante il procedimento: Sembra ovvio, ma è accaduto: imprenditori già indagati che nel frattempo proseguono l’evasione (magari pensando “tanto ormai sono nei guai, che sarà un po’ di nero in più”). Questo è deleterio: se il PM scopre ulteriori evasioni negli anni successivi, lo userà per mostrare che non c’è ravvedimento, e dunque chiederà condanne esemplari (negando attenuanti). Inoltre, un nuovo reato può far saltare eventuali benefici (es. se ottieni la condizionale per la prima condanna e poi ne arriva un’altra, la sospensione viene revocata). Quindi mentre sei sotto procedimento, metti le carte in regola e paga scrupolosamente il corrente: dimostra di aver “cambiato rotta”.
- Intralciare le indagini (minacce, pressioni su testimoni): Se c’è di mezzo un consulente o socio che potrebbe testimoniare, non cercare di pilotarne le dichiarazioni illegalmente. Qualunque pressione indebita su teste o coindagati è un reato (violenza o minaccia a P.U., subornazione testimone) e porta sicuro aggravamento (magari ti mettono in custodia cautelare per evitare inquinamento prove). Mantieni un comportamento lineare: difenditi nelle sedi opportune, non “inquinare il pozzo”.
- Sottovalutare la procedura 231 per la società: Molti amministratori pensano che basta occuparsi della propria posizione e dimenticano la società. Errore: come detto, la società rischia multe e interdizioni se non si attiva. Quindi non ignorare le comunicazioni eventuali circa l’indagine 231: nomina subito un avvocato anche per la società e adotta misure correttive. Così eviterai, ad esempio, che un domani la tua azienda si veda vietare di partecipare a gare pubbliche perché condannata 231 (cose che si scoprono all’ultimo e mandano a monte contratti).
- Non affidarsi a professionisti esperti: La materia è complessa; affrontarla da soli o con chi non la mastica è un passo falso. Bisogna avere al tavolo un avvocato penalista tributario e un commercialista esperto di contenzioso fiscale. Molte opportunità (come patteggiamenti, cause di non punibilità) hanno finestre temporali strette e vanno colte con tecnicismi specifici. Esempio: se non sai che devi pagare entro il dibattimento, potresti farlo troppo tardi e perdere il beneficio. Un bravo difensore ti pianifica il timing. Anche nella scelta del rito: un non esperto potrebbe farti patteggiare quando conviene magari la messa alla prova o viceversa. Dunque, investire in una difesa qualificata è fondamentale per non aggravare la situazione per mera ignoranza procedurale.
In sostanza, la condotta migliore durante l’indagine è mostrarsi corretti, collaborativi e prudenti. Ciò massimizzerà le chance di una risoluzione benevola. Uno deve pensare: ogni mia azione ora sarà valutata dal PM e dal giudice. Se faccio mosse opache, loro le interpreteranno come ulteriore volontà criminosa. Se faccio mosse trasparenti e costruttive, potrebbero dare fiducia alle richieste difensive.
Con questo si chiude la nostra guida. Abbiamo esaminato i principali reati tributari dal punto di vista dell’imprenditore debitore e illustrato come difendersi efficacemente sfruttando le possibilità normative (ravvedimenti, cause di non punibilità, riti alternativi) e argomentando sui fatti (assenza di dolo, circostanze attenuanti). In materia fiscale-penale, la chiave è prevenire (mantenersi sotto le soglie o regolarizzare tempestivamente) e, quando il danno è fatto, dimostrare pentimento concreto (pagando e non reiterando). Così facendo, è possibile nella quasi totalità dei casi evitare conseguenze afflittive irreparabili e continuare la propria attività imprenditoriale, imparando dall’errore commesso. I riferimenti normativi e giurisprudenziali citati lungo la guida possono essere consultati per approfondire i punti specifici trattati.
Fonti e Riferimenti
- Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Disciplina dei reati tributari) – artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10, 10-bis, 10-ter, 10-quater, 11, 13, 13-bis .
- Legge 157/2019 (di conversione del D.L. 124/2019 “Decreto Fiscale 2020”), che ha abbassato le soglie di punibilità e aumentato le pene per diversi reati tributari, e introdotto la causa di non punibilità per pagamento (art. 13) anche per i reati dichiarativi.
- D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 (riforma 2024 dei reati tributari) – novità su soglie 10-bis (100k→50k) e 10-ter (250k→75k), condizione obiettiva di punibilità spostata a fine anno successivo con mancata rateizzazione, esimente cause non imputabili in 10-bis/ter.
- Cass. Penale, Sez. Unite, 27/03/2023 n. 9479 (dep. 2024) – ha stabilito che il patteggiamento per reati ex artt. 2,3,4,5 D.Lgs. 74/2000 è condizionato al pagamento integrale del debito tributario. Confermata da Cass. Sez III 20/06/2024 n. 24340 e da Cass. Sez. III 04/03/2024 n. 9216.
- Cass. Penale, Sez. III, 31/01/2025 n. 4145 – ha affermato che va valutato il pagamento successivo come indice di particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., nel giudicare una dichiarazione infedele non lieve (non esclusa a priori la tenuità).
- Cass. Penale, Sez. III, 20/10/2022 n. 39835 – in tema di omesso versamento IVA ha ritenuto configurabile la forza maggiore per comprovata crisi di liquidità non imputabile, assolvendo l’imputato. Contrapposta a Cass. Pen., 15/09/2023 n. 37826, che ha ribadito che la crisi d’impresa rientra nel rischio ordinario e non esclude il dolo in 10-ter.
- Cass. Penale, Sez. III, 04/12/2024 n. 44311 – ha chiarito che la dichiarazione infedele non è un post-fatto non punibile rispetto a reati presupposto da cui provenivano i redditi non dichiarati, escludendo un assorbimento automatico: dunque i proventi illeciti vanno comunque dichiarati, altrimenti c’è reato (principio di autonomia del reato fiscale).
- Cass. Penale, Sez. III, 30/09/2024 n. 36334 – ha ritenuto che è configurabile il concorso di persone nel reato di dichiarazione infedele (coinvolgendo ad esempio il consulente) anche in forma di concorso eventuale se il terzo apporta un contributo causale consapevole.
- Cass. Penale, Sez. III, 02/07/2019 n. 28060 – in tema di operazioni inesistenti parziali, ha esteso il concetto di falsa fatturazione anche ai casi in cui la prestazione fu solo minima rispetto all’importo fatturato, valorizzando la sproporzione come indice di dolo evasivo.
- Cass. Penale, Sez. III, 20/03/2018 n. 12042 – sul reato di sottrazione fraudolenta (art. 11), ha ritenuto configurabile il dolo specifico anche in caso di costituzione di fondo patrimoniale post accertamento, essendo atto intrinsecamente destinato a sottrarre garanzia se il debito era noto.
- Cass. Penale, Sez. III, 13/07/2021 n. 27112 – in relazione all’ente ex D.Lgs. 231, ha confermato la responsabilità 231 per reati tributari introdotti dal D.L. 124/2019, precisando che l’ente può evitare sanzioni interdittive se adotta modelli organizzativi e risarcisce il danno (pagando il debito).
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I reati tributari comprendono una serie di condotte penalmente rilevanti, come dichiarazione infedele, omessa dichiarazione, omesso versamento di IVA e ritenute, frodi fiscali e occultamento di scritture contabili. Per un imprenditore le conseguenze possono essere molto gravi: sanzioni penali, interdizioni, sequestri preventivi e danni alla reputazione aziendale. Tuttavia, non tutte le contestazioni portano a condanna: in molti casi è possibile dimostrare l’assenza di dolo, errori formali o difficoltà economiche che hanno impedito i versamenti.
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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in diritto penale-tributario e difesa di imprenditori accusati di reati fiscali
✔️ Specializzato in contenzioso penale su IVA, ritenute e dichiarazioni infedeli
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia
Conclusione
Un’accusa di reato tributario non significa automaticamente condanna.
Con una difesa legale mirata puoi ridurre i rischi, dimostrare la tua buona fede e proteggere la tua impresa e il tuo patrimonio.
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