Cosa Succede Se Non Pago Un Avviso Di Liquidazione?

Hai ricevuto un avviso di liquidazione e non sai cosa può accadere se non lo paghi?
L’avviso di liquidazione è l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate richiede il pagamento di imposte (come imposta di registro, ipotecaria o catastale) a seguito di un atto, di una sentenza o di una verifica. Se non viene pagato nei termini, le conseguenze possono essere molto gravi.

Cosa comporta il mancato pagamento di un avviso di liquidazione
– Dopo la scadenza indicata, l’importo viene iscritto a ruolo e affidato all’Agenzia delle Entrate-Riscossione
– Partono automaticamente interessi di mora e sanzioni aggiuntive che aumentano il debito
– L’agente della riscossione può emettere cartella esattoriale o direttamente avviso di intimazione
– Possono seguire misure cautelari come ipoteche sugli immobili o fermi amministrativi sui veicoli
– In caso di mancato pagamento protratto, scattano pignoramenti su conti correnti, stipendi o altri beni

Quali sono i termini per il pagamento
– Generalmente, l’avviso di liquidazione deve essere pagato entro 60 giorni dalla notifica
– Trascorso questo termine, l’importo diventa immediatamente esecutivo e possono iniziare le procedure di riscossione coattiva

Come difendersi da un avviso di liquidazione
– Verificare se l’atto è motivato correttamente e se contiene gli estremi dell’imposta richiesta
– Controllare se il debito è prescritto o se ci sono errori di calcolo
– Contestare eventuali vizi di forma o di notifica
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni dalla notifica
– Richiedere la sospensione dell’atto se vi sono gravi irregolarità
– In caso di difficoltà economiche, valutare la rateizzazione del debito

Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale dell’avviso se viziato
– La riduzione delle somme dovute in presenza di errori di calcolo
– La sospensione delle procedure esecutive avviate
– La possibilità di rateizzare il pagamento e diluire il debito nel tempo
– La tutela del patrimonio personale e familiare

Attenzione: ignorare un avviso di liquidazione non lo annulla, ma lo trasforma in un debito esecutivo che può portare rapidamente a pignoramenti e ipoteche. Agire subito è l’unico modo per difendersi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e difesa da avvisi di liquidazione – ti spiega cosa succede se non paghi un avviso di liquidazione e quali strumenti hai per proteggerti.

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Introduzione

Ricevere un avviso di liquidazione dall’Agenzia delle Entrate (o da un ente locale) può generare preoccupazione e confusione. Si tratta di un atto formale con cui il Fisco richiede al contribuente il pagamento di un’imposta dovuta, a seguito di un ricalcolo o controllo. In altre parole, l’avviso di liquidazione porta a conoscenza del contribuente l’ammontare di tributi, sanzioni e interessi che risultano dovuti e ne ingiunge il pagamento. Questo documento ha natura di atto impositivo nell’ambito della riscossione tributaria, ed è impugnabile entro termini precisi (60 giorni dalla notifica) se se ne vuole contestare la legittimità. In caso contrario, il contribuente è tenuto a versare gli importi indicati entro il termine fissato; in mancanza di pagamento si attivano le procedure di riscossione coattiva (iscrizione a ruolo, cartella esattoriale, ecc.).

Scopo di questa guida: fornire una trattazione approfondita e aggiornata (luglio 2025) su cosa accade se non si paga un avviso di liquidazione, esaminando normative italiane, sentenze recenti e prassi applicative. La guida adotta il punto di vista del debitore, spiegando i suoi diritti, obblighi e strumenti di difesa in termini chiari ma rigorosi. Verranno inclusi riferimenti normativi puntuali, sentenze aggiornate delle Corti (Corte di Cassazione, Corti di Giustizia Tributaria, ecc.), oltre a tabelle riepilogative dei termini e sanzioni, domande e risposte (FAQ) per chiarire i dubbi più comuni, e casi pratici simulati riguardanti diverse situazioni (privati, imprenditori, successioni, tributi locali). Tutte le fonti utilizzate (normativa, prassi, giurisprudenza) sono elencate in fondo alla guida per un eventuale approfondimento.

Che cos’è un avviso di liquidazione

Definizione generale: L’avviso di liquidazione è un atto formale emesso dall’autorità finanziaria (Agenzia delle Entrate o altro ente impositore) per comunicare al contribuente l’ammontare di un’imposta ricalcolata e richiederne il pagamento. Si parla di “liquidazione” perché l’ufficio liquida, ossia determina, l’importo dovuto sulla base di elementi noti (dichiarazioni già presentate, atti registrati, dati catastali, etc.) riscontrando un versamento insufficiente. È diverso dall’avviso di accertamento, che di solito riguarda imponibili non dichiarati o violazioni più gravi (materia imponibile occultata, redditi non dichiarati, ecc.). L’avviso di liquidazione invece interviene su basi già note o dichiarate, quando il contribuente ha versato meno del dovuto o ha perso un’agevolazione, oppure per recuperare tributi omessi su atti già registrati.

In termini semplici, l’avviso di liquidazione mette in mora il contribuente rispetto a somme ulteriori da pagare su un tributo specifico. Ad esempio, se da un controllo risulta che per una certa operazione si doveva pagare un’imposta maggiore di quanto versato, l’Ufficio calcola la differenza e la notifica tramite avviso, includendo anche eventuali sanzioni amministrative e interessi. È un atto tipicamente utilizzato nel campo delle imposte indirette (registro, successioni, bollo, ipotecarie, catastali), ma può derivare anche da controlli automatizzati su imposte dirette (come vedremo negli esempi pratici aziendali).

Imposte e situazioni tipiche in cui si emette un avviso di liquidazione:

  • Imposta di registro – atti immobiliari e contratti: ad esempio, omesso o insufficiente versamento dell’imposta di registro dovuta per la registrazione di un contratto (compravendita, locazione, etc.). Se dall’esame dell’atto registrato risulta che l’imposta versata era inferiore al dovuto, l’ufficio notifica un avviso di liquidazione per recuperare la differenza, con sanzione e interessi. Un caso frequente è il contratto di locazione: se il contribuente non versa un’annualità successiva o versa in ritardo, può ricevere un avviso di liquidazione con l’imposta dovuta e la sanzione del 30% per omesso versamento.
  • Decadenza da agevolazioni fiscali: un esempio emblematico è l’agevolazione “prima casa”. Se il contribuente beneficia di un’aliquota ridotta sull’acquisto di un immobile ma non rispetta le condizioni di legge (ad es. trasferimento della residenza nel comune dell’immobile entro 18 mesi, o divieto di rivendere entro 5 anni senza riacquisto di altra prima casa entro 1 anno), decade dal beneficio. L’Agenzia ricalcola allora l’imposta di registro in misura ordinaria (piena) e richiede la differenza tramite avviso di liquidazione, applicando una sanzione pari al 30% dell’imposta in più dovuta e gli interessi legali. Affronteremo più avanti un caso pratico su questo scenario.
  • Atti giudiziari soggetti a registrazione: per alcune sentenze, decreti ingiuntivi o altri provvedimenti civili vige l’obbligo di registrazione con pagamento dell’imposta di registro. Se la parte obbligata non paga entro i termini, l’Ufficio può emettere un avviso di liquidazione chiedendo l’imposta dovuta sulla sentenza/decreto (oltre sanzioni e interessi).
  • Imposta sulle successioni: quando viene presentata una dichiarazione di successione, l’Agenzia calcola (liquida) l’imposta di successione dovuta sugli asset ereditati. Se, in base alla dichiarazione, l’imposta da pagare risulta zero (ad es. per effetto di franchigie) o se l’ufficio ritiene che alcuni beni siano stati sottostimati, può emettere un avviso di liquidazione per riscuotere le imposte dovute. Fino al 2024, la prassi era che gli eredi presentassero la dichiarazione e aspettassero l’avviso di liquidazione con l’eventuale importo da pagare. Novità 2024: con la riforma fiscale, per le successioni aperte dal 2024 è stato introdotto il principio di autoliquidazione: ora sono gli eredi stessi a calcolare e versare l’imposta dovuta entro un certo termine, e l’ufficio successivamente controlla la regolarità. Resta comunque previsto che, se dal controllo emerge un’imposta maggiore (es. perché l’ufficio rettifica i valori dichiarati), venga notificato un avviso di liquidazione per la differenza.
  • Tributi locali (IMU, TARI, ecc.): anche i Comuni e altri enti locali possono emettere avvisi di liquidazione o accertamento per tributi di loro competenza (come l’IMU sull’immobile di proprietà, la TARI sui rifiuti, la COSAP/CANONE suolo pubblico, ecc.). Ad esempio, se un contribuente non paga o paga in misura insufficiente l’IMU dovuta per un anno, il Comune potrà notificare un avviso di accertamento IMU (atto equivalente all’avviso di liquidazione, ma in ambito locale) per recuperare l’imposta non versata, con sanzione del 30% e interessi. Dal 2020 questi atti locali hanno per legge efficacia esecutiva (si parla di “accertamento esecutivo”): una volta decorsi 60 giorni senza pagamento, il Comune può procedere direttamente alla riscossione coattiva, senza dover emettere una cartella separata. Approfondiremo più avanti le peculiarità di tali avvisi locali.

Differenza tra avviso di liquidazione e altri atti: è utile distinguere l’avviso di liquidazione da altri documenti fiscali:

  • Avviso bonario (comunicazione di irregolarità): non è un atto impositivo formale, ma una comunicazione (es. ex art. 36-bis DPR 600/73) che segnala irregolarità nella dichiarazione (come versamenti insufficienti) e invita a pagare quanto dovuto con sanzioni ridotte (in genere 1/3 della sanzione piena). Se il contribuente paga entro 30 giorni, la questione si chiude con sanzioni ridotte. L’avviso bonario non è impugnabile autonomamente; diventa un avviso di liquidazione o una cartella solo se ignorato. Esempio: una società che ha versato €5.000 in meno di IRES riceverà prima un avviso bonario a cui potrà aderire pagando (sanzione 10% invece di 30%); se non paga, seguirà l’iscrizione a ruolo e la cartella con sanzione piena.
  • Avviso di accertamento: è un atto impositivo con cui l’Agenzia delle Entrate contesta al contribuente maggiori imponibili o imposte non dichiarate (es. redditi nascosti, operazioni fittizie, ecc.). Di solito comporta sanzioni più elevate (dal 90% in su per infedele dichiarazione) e, per importi relativi a periodi d’imposta, può riguardare IRPEF, IVA, IRES ecc. L’avviso di accertamento, specie per i periodi più recenti, ha spesso natura impo-esattiva (contiene già l’intimazione a pagare, divenendo esecutivo dopo 60 giorni). L’avviso di liquidazione, invece, riguarda somme dovute su basi già dichiarate o atti registrati (non nuovi imponibili).
  • Cartella di pagamento (ruolo): è il tipico atto della riscossione coattiva, emesso dall’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione, ex Equitalia) per riscuotere somme risultate dovute. La cartella viene emessa dopo un avviso di liquidazione o accertamento non pagato nei termini. Differenze chiave: l’avviso di liquidazione è emesso dall’Agenzia delle Entrate (fase di accertamento) e chiede pagamento diretto entro 60 giorni; la cartella, invece, è emessa dall’esattore e intima il pagamento entro 60 giorni, con aggiunta di interessi di mora e spese di riscossione (aggio). In pratica, se non si paga l’avviso di liquidazione, entro pochi mesi (comunque non oltre il termine di prescrizione) l’importo viene iscritto a ruolo e si riceverà una cartella esattoriale. Va notato che per gli atti emessi in epoca recente la cartella potrebbe anche non essere materialmente notificata: gli avvisi dell’Agenzia spesso contengono già l’intimazione di pagamento ex art. 29 DL 78/2010, divenendo titoli esecutivi trascorsi 60 giorni (in tal caso l’affidamento al concessionario avviene senza cartella). Tuttavia, per semplicità, parleremo di cartella come atto successivo tipico.

Termini di notifica e prescrizione del debito

Il contribuente ha interesse a conoscere i termini entro cui l’Amministrazione finanziaria può notificare validamente un avviso di liquidazione (termini di decadenza), nonché i termini entro cui il debito può essere riscosso (termini di prescrizione). Tali scadenze sono cruciali: un atto notificato fuori termine è impugnabile per ottenerne l’annullamento, e un credito prescritto non è più esigibile.

Termini di decadenza per l’emissione dell’avviso

La decadenza è il termine massimo entro cui l’ente impositore deve notificare l’avviso, decorso il quale perde il potere di accertare e richiedere quel tributo. I termini di decadenza variano a seconda della tipologia di imposta e della situazione. Di seguito una tabella riepilogativa dei principali termini (salvo cause interruttive o sospensive particolari):

Imposta o ambitoTermine di notifica dell’avviso (decadenza)
Imposta di registro – Atto non registrato nei termini5 anni dalla data in cui l’atto avrebbe dovuto essere registrato. (Es.: se un atto doveva registrarsi nel 2020 ma è stato occultato, l’ufficio può richiedere l’imposta evasa fino al 31/12/2025).
Imposta di registro – Atto già registrato3 anni dalla data di registrazione (o presentazione telematica) dell’atto. (Es.: per un atto registrato il 1º marzo 2021, avvisi di liquidazione possono essere notificati fino al 1º marzo 2024).
Registro – Rettifica di valore (art. 76, c.1-bis DPR 131/86)2 anni dalla data di registrazione o dal pagamento dell’imposta principale. (Usato quando, dopo aver registrato un atto o incassato un’imposta principale, l’ufficio liquida una maggiore imposta, ad es. per revoca di agevolazione).
SuccessioniDichiarazione presentata2 anni dalla presentazione della dichiarazione di successione (ridotto da 3 a 2 anni per le successioni dal 2015 in poi; per successioni aperte dal 2024 si applica l’autoliquidazione, ma l’ufficio può controllare e notificare differenze entro 2 anni).
SuccessioniDichiarazione omessa5 anni dalla scadenza del termine ordinario per presentare la dichiarazione. (Se nessuna dichiarazione di successione è stata presentata entro 12 mesi dall’apertura, l’ufficio ha 5 anni da tale scadenza per accertare d’ufficio l’imposta dovuta).
Donazioni – Dich. presentata (imposta donazioni)2 anni dalla presentazione (regola analoga alle successioni, art. 27 D.Lgs. 346/1990 e art. 33 come modif. dal 2025).
Imposte ipotecarie e catastaliStesso termine dell’imposta principale correlata. (Es.: per una successione 2022 con dichiarazione presentata, 2 anni per eventuale avviso su imposta ipotecaria/catastale non versata).
Tributi locali (IMU, TARI, ecc.)Omesso o infedele versamento5 anni dall’anno in cui è dovuto il tributo (termine di prescrizione ordinario dei tributi locali ricorrenti). Nota: Spesso si parla di prescrizione in senso tecnico per IMU/TARI quinquennale; di fatto il Comune notifica avvisi di accertamento entro il 31 dicembre del 5° anno successivo a quello di imposta (es.: IMU 2020, accertabile fino al 31/12/2025), dopodiché il potere di accertamento decade.

Atti emessi oltre questi termini sono illegittimi per decadenza e il contribuente può far valere tale vizio in ricorso, ottenendo l’annullamento dell’atto. È importante verificare con precisione le date: la normativa prevede ad esempio che, se l’avviso è spedito per raccomandata, fa fede la data di spedizione (posta) ai fini del rispetto del termine. Inoltre, eventi normativi eccezionali possono prorogare tali termini (si pensi alle sospensioni dei termini disposte durante l’emergenza Covid-19 nel 2020, che hanno esteso di fatti le scadenze per gli atti in scadenza in quell’anno). Nel caso pratico della decadenza “prima casa” che vedremo, ad esempio, la questione del termine è stata influenzata dalle sospensioni Covid.

Esempio: se un avviso di liquidazione per un atto registrato doveva essere notificato entro il 3 marzo 2024, ma la raccomandata è stata spedita il 2 marzo 2024 (e ricevuta dal contribuente magari il 10 marzo), il termine è rispettato. Viceversa, una spedizione il 5 marzo 2024 sarebbe oltre termine e l’atto – se impugnato – verrebbe annullato per tardività.

Termini per il contribuente: pagamento o impugnazione

Dal giorno in cui l’avviso di liquidazione viene validamente notificato al contribuente (via raccomandata AR, PEC o messo notificatore secondo le regole di legge), decorrono dei termini perentori per il contribuente:

  • 60 giorni: è il termine entro cui il destinatario può presentare ricorso alla Commissione/ Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria) competente, impugnando l’avviso se lo ritiene illegittimo o infondato. È anche il termine entro cui si può aderire ad eventuali procedure deflattive (es. istanza di accertamento con adesione interrompendo il termine, vedi oltre).
  • 60 giorni: coincide anche col termine per effettuare il pagamento integrale di quanto richiesto nell’avviso, qualora si decida di non contestarlo. Il pagamento va eseguito di solito tramite modello F24 precompilato allegato all’atto. Pagando entro 60 giorni senza impugnare, si ottengono alcuni benefici sulle sanzioni (ridotte ad 1/3, cosiddetta acquiescenza – si veda la sezione sulle sanzioni).

Trascorsi i 60 giorni senza ricorso né pagamento, l’avviso diventa definitivo ed esecutivo. Ciò significa che la somma dovuta entra a ruolo (viene affidata all’Agente della Riscossione per il recupero forzoso) e iniziano a maturare gli interessi di mora sul debito non pagato. Inoltre, il contribuente perde la possibilità di contestare nel merito la pretesa tributaria (salvo casi eccezionali di rimedi tardivi) e l’Amministrazione potrà procedere alla riscossione coattiva come dettagliato oltre.

Va ricordato che, se il contribuente presenta ricorso entro 60 giorni, l’avviso non è più definitivo: diviene oggetto di giudizio. In tal caso, di regola la riscossione è sospesa fino alla decisione di primo grado, fatte salve alcune eccezioni (un tempo l’art. 68 d.lgs. 546/92 prevedeva il pagamento parziale in caso di ricorso, ma la disciplina è stata modificata nel 2022). Dal 2023, con la riforma della giustizia tributaria, non è più obbligatorio presentare istanza di reclamo/mediazione per le controversie di modico valore prima di ricorrere: si può ricorrere direttamente (vedi oltre). È comunque possibile chiedere una sospensione giudiziale dell’atto impugnato, qualora il contribuente rischi un danno grave dalla riscossione nelle more del processo (approfondimento nella sezione “Impugnazione e contenzioso”).

Prescrizione del debito tributario

Oltre ai termini di decadenza (che riguardano l’emissione dell’atto impositivo), c’è la prescrizione, che attiene al diritto dell’Erario di riscuotere coattivamente le somme dovute. In generale, se un tributo dovuto non viene riscosso né spontaneamente pagato entro un certo tempo dall’esigibilità, il diritto alla riscossione si estingue per prescrizione.

Per molti tributi erariali indiretti (registro, successione, bollo, ecc.), in assenza di termini specifici si applica la prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 c.c. e art. 78 DPR 131/1986. Ad esempio, un’imposta di registro liquidata e non pagata diviene inesigibile dopo 10 anni dalla scadenza del termine di pagamento, salvo atti interruttivi.

Altri tributi (soprattutto locali o periodici) hanno prescrizioni più brevi per legge: ad esempio le sanzioni amministrative da Codice della Strada si prescrivono in 5 anni, molti tributi locali come IMU e TARI sono ritenuti anch’essi soggetti a prescrizione quinquennale (trattandosi di obblighi di versamento annuali, assimilati a prestazioni periodiche). In pratica, i Comuni tendono a considerare 5 anni come termine di prescrizione anche per la riscossione di IMU/TARI non pagate. È comunque prudente per il debitore tenere presente la distinzione: la decadenza limita il potere di accertamento (emissione dell’atto), mentre la prescrizione limita il potere di riscuotere importi ormai fissati.

Una volta notificato un avviso di liquidazione e divenuto definitivo (non impugnato entro 60 gg), quel credito diviene certo ed esigibile: da quel momento decorre la prescrizione della riscossione. Di norma, per i tributi erariali vale la prescrizione decennale, salvo eccezioni di legge. Anche interessi e sanzioni seguono la sorte del tributo principale in termini prescrizionali: la Corte di Cassazione ha chiarito che interessi di mora e sanzioni “accessorie” hanno la stessa prescrizione decennale del credito principale. Ciò evita spezzettamenti: ad esempio, se l’imposta si prescrive in 10 anni, anche le relative sanzioni e interessi si prescrivono in 10 anni.

Atti interruttivi: La prescrizione può essere interrotta da atti del concessionario o del creditore che manifestino la volontà di riscuotere (es: la notifica di una cartella, di un sollecito di pagamento, di un atto di pignoramento, ecc. interrompono la prescrizione, che ricomincia da capo da quella data). È quindi possibile che un debito rimanga “in vita” oltre 10 anni grazie a tali atti interruttivi, pur senza essere ancora incassato.

Esempio: Tizio riceve un avviso di liquidazione nel 2014 e non paga; l’Agenzia Entrate Riscossione gli notifica una cartella nel 2015 (atto interruttivo), poi un intimazione nel 2019, poi un preavviso di ipoteca nel 2023. Ogni atto ha interrotto la prescrizione, che quindi nel 2023 è ancora pienamente valida e non ancora decorsa, nonostante siano passati 9 anni dall’origine del debito.

Rilevanza pratica: se il contribuente ritiene che un atto di riscossione (es. una cartella) riguardi un debito ormai prescritto, può far valere l’eccezione di prescrizione nel relativo giudizio di opposizione. È una difesa tecnica spesso vincente se i tempi sono effettivamente scaduti e l’ente non dimostra atti interruttivi validi.

Effetti del mancato pagamento: cosa accade dal 61° giorno

Veniamo ora al cuore della questione: cosa succede se non pago un avviso di liquidazione entro il termine di legge (60 giorni) e non lo impugno. Dal 61° giorno in poi l’atto diventa esecutivo e inizia il percorso della riscossione forzata. Questa sezione descrive passo passo gli effetti e le fasi della procedura, dal ruolo fino alle misure cautelari ed esecutive, con un focus sui diritti del debitore.

Iscrizione a ruolo e cartella di pagamento

Se il contribuente non versa quanto richiesto entro 60 giorni, l’avviso di liquidazione “non pagato” resta valido ed esecutivo e le somme diventano iscritte a ruolo, cioè affidate all’Agente della Riscossione per il recupero. In pratica l’ufficio invia il debito al sistema di riscossione coattiva previsto dal D.P.R. 602/1973. A questo punto:

  • Emissione della cartella esattoriale: L’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione) emette una cartella di pagamento contenente le somme dovute (imposta, sanzioni, interessi) e le notifica al debitore. La cartella intima il pagamento entro 60 giorni dalla notifica. Sulla cartella sono aggiunti gli oneri di riscossione (c.d. aggio) e le spese di notifica. L’aggio è una percentuale a favore dell’Agente: attualmente è pari al 3% dell’importo se si paga entro 60 gg, oppure al 6% se si paga oltre tale termine. Esempio: un debito di €10.000 diventa €10.300 se la cartella è pagata entro 60 gg (3% aggio), o €10.600 + ulteriori spese se pagata dopo (6% aggio).
  • Interessi di mora: Dal giorno di scadenza dell’avviso non pagato iniziano a maturare interessi moratori sul debito. Tuttavia, formalmente questi interessi di mora vengono calcolati e pretesi solo dopo l’iscrizione a ruolo, ovvero sulla cartella (dal 61° giorno dopo la notifica della cartella stessa, se anch’essa non viene pagata entro 60 gg). In sostanza:
    • Sul periodo tra la scadenza dell’avviso e l’emissione della cartella, l’ufficio può calcolare interessi da ritardata iscrizione (interessi legali o specifici previsti per quel tributo).
    • Dopo la notifica della cartella, se questa non è pagata entro 60 gg, decorrono gli interessi di mora sulle somme iscritte a ruolo.
    Il tasso degli interessi di mora sulle cartelle è fissato annualmente dal MEF tenendo conto del tasso BCE maggiorato. Aggiornamento 2023-2025: a seguito dell’aumento dei tassi di interesse nell’economia, il tasso di mora è aumentato: era ca. 6,8% annuo nel 2022, salito attorno all’8% nel 2023 (BCE 4% + 4 punti). Per il 2024 risulta leggermente ridotto intorno al 7% annuo. Indicativamente, nel 2025 è attorno al 7-8% annuo variabile. Questi interessi si applicano dal 61° giorno successivo alla notifica della cartella fino al pagamento integrale. Va sottolineato che se il contribuente ottiene una sospensione giudiziale della riscossione durante un ricorso, gli interessi di mora non decorrono per quel periodo (come riconosciuto dalla giurisprudenza tributaria).
  • Sanzioni aggiuntive: di norma, una volta emesso l’avviso, le sanzioni amministrative sono già state quantificate in esso (ad es. 30% dell’imposta non versata). Non vi sono ulteriori sanzioni per il mancato pagamento dell’avviso, oltre alla già irrogata. Tuttavia, se l’avviso bonario era stato ignorato, la differenza è che la cartella conterrà la sanzione piena (es. 30%) invece di quella ridotta (10%) che sarebbe spettata pagando in tempo. In un certo senso, l’“ulteriore sanzione” per non aver pagato subito è la perdita degli sconti: il contribuente dovrà pagare la sanzione intera e inoltre l’aggio di riscossione. Non esistono sanzioni penali a meno che il tributo evaso configuri reato (ipotesi di solito non correlate agli avvisi di liquidazione, che riguardano importi limitati o situazioni documentali).
  • Nessun ulteriore preavviso: Se l’avviso di liquidazione stesso conteneva già l’intimazione di pagamento entro 60 gg (come di prassi), la cartella è il passo successivo. Non occorre che l’Agenzia invii un altro “preavviso” prima della cartella. Farà fede la notifica dell’avviso e lo spirare del termine. Eccezione: negli avvisi locali esecutivi (IMU/TARI), non si emette cartella; il Comune, decorsi 60 gg, può procedere direttamente con ingiunzione o affidamento all’agente. In tali casi, spesso viene inviato un sollecito o preavviso prima delle misure esecutive (fermo, pignoramento), ma non è un atto prescritto dalla legge come obbligatorio (salvo il preavviso per ipoteca, vedi oltre).

In sintesi, non pagare l’avviso di liquidazione entro i 60 giorni conduce all’emissione di una cartella esattoriale (salvo il caso di atti già esecutivi di per sé). Da quel momento il debito viene trattato come qualsiasi altro debito iscritto a ruolo: il contribuente ha un’ultima finestra di 60 gg per pagare la cartella, dopodiché l’Agente della Riscossione potrà avviare le procedure coattive vere e proprie (pignoramenti, fermi, ipoteche).

N.B.: Dal 2022 alcuni avvisi di accertamento (soprattutto in materia di imposte sui redditi e IVA) includono già l’intimazione ad adempiere e diventano esecutivi dopo 60 gg senza bisogno di cartella (c.d. “avvisi accertamento esecutivi” ex art. 29 DL 78/2010). Per gli avvisi di liquidazione dell’Agenzia delle Entrate, tuttavia, è prassi ancora frequente l’iscrizione a ruolo con cartella se non pagati. Negli avvisi di accertamento esecutivi locali (IMU/TARI), come detto, non c’è cartella: l’avviso stesso, scaduto il termine, vale come titolo esecutivo. Il Comune può dunque procedere direttamente (anche tramite Agenzia Riscossione) a pignoramenti, previo invio di un sollecito o di un atto di intimazione (ex art. 50 DPR 602/73) se sono passati più di 180 giorni dal ruolo.

Misure cautelari ed esecutive in caso di inadempimento

Con il mancato pagamento dell’avviso (e della successiva cartella), il debitore entra nella fase della riscossione forzata. L’Agente della Riscossione ha a disposizione varie misure cautelari (per tutelare il credito in attesa di riscuoterlo) e misure esecutive (per espropriare i beni del debitore al fine di saldare il debito). Elenchiamo le principali, mettendoci nei panni del debitore che voglia capire cosa rischia concretamente:

  • Interessi di mora e divieto di nuovi ritardi: innanzitutto, dal termine di pagamento mancato il debito cresce nel tempo per gli interessi di mora (circa 7-8% annuo come visto). Questo significa che più tempo passa senza pagare, maggiore sarà l’importo finale da corrispondere. Inoltre, l’iscrizione a ruolo e la notifica della cartella mettono il debitore in mora formalmente: non è più possibile evitare le conseguenze se non pagando o ottenendo una sospensione legale.
  • Fermo amministrativo su veicoli (ganasce fiscali): per importi non pagati, l’Agente può iscrivere un fermo amministrativo sui beni mobili registrati del debitore, tipicamente autoveicoli o motoveicoli. Il fermo è una misura cautelare: il veicolo risulta “bloccato” (non può circolare legalmente né essere venduto) finché il debito non è saldato. In genere la procedura è: trascorsi i termini di pagamento, l’Agente invia un preavviso di fermo indicando i veicoli che intende vincolare; se entro 30 giorni il debitore non paga né propone un piano, scatta l’iscrizione del fermo al PRA. Non esiste una soglia di importo stabilita per legge per il fermo amministrativo: anche debiti relativamente modesti (poche centinaia di euro) possono dare luogo al fermo, sebbene in pratica l’Agente tenda a non iscriverlo per somme insignificanti (spesso si vede per debiti oltre €1.000). Il fermo non viene iscritto se il debitore ha attivato una rateizzazione in corso e la sta rispettando. Per il debitore, subire un fermo significa non poter utilizzare il veicolo (pena sanzioni e sequestro in caso di controllo) e dover comunque sostenere i costi fissi (bollo, assicurazione) senza poterlo vendere. Rimozione del fermo: avviene su istanza quando il debito è estinto o sufficientemente garantito (ad es. con fideiussione o su disposizione del giudice in caso di ricorso con fondato pericolo per il debitore).
  • Ipoteca su immobili: per debiti più consistenti, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione può iscrivere un’ipoteca sui beni immobili di proprietà del debitore. L’ipoteca esattoriale è una misura cautelare che garantisce il credito sul bene immobile: il debitore non può liberamente disporne e, se vendesse l’immobile, il credito viene privilegiato nel rimborso col ricavato. Condizioni e limiti:
    • Soglia minima: l’ipoteca non può essere iscritta se il debito totale del contribuente verso l’Agente è inferiore a €20.000. Questa soglia è prevista dall’art. 77 DPR 602/1973 (modificato dal DL 16/2012) per evitare azioni ipotecarie per importi esigui. Se il debito supera €20.000, l’Agente può procedere all’ipoteca dopo aver notificato un preavviso di iscrizione ipotecaria (obbligatorio per legge) concedendo 30 giorni al debitore per pagare o presentare osservazioni.
    • Iter temporale: deve essere decorso almeno 60 giorni dalla notifica della cartella non pagata, senza che il debitore abbia ottenuto sospensioni o rateizzazioni, prima di procedere. Poi va inviato il preavviso di ipoteca; trascorsi ulteriori 30 giorni, se il debitore non si attiva, si iscrive l’ipoteca.
    • Importo ipotecato: l’ipoteca può essere iscritta fino a concorrenza di un importo pari al doppio del debito complessivo (per cautelare anche interessi maturandi e spese).
    • Prima casa: l’ipoteca può essere iscritta anche su un immobile che sia “prima casa” (abitazione principale del debitore), purché il debito superi €20.000. Però, come vedremo tra poco, l’eventuale espropriazione forzata di quella casa ha restrizioni se è l’unica del debitore.
    • Effetti per il debitore: un’ipoteca, di per sé, non toglie immediatamente il possesso o l’uso dell’immobile al debitore, ma ne vincola la disponibilità (difficilmente vendibile perché il compratore lo vorrebbe libero da vincoli, il che richiederebbe pagare il debito). In più, costituisce un passo preliminare al possibile pignoramento immobiliare.
    • Tutela giurisdizionale: il debitore può impugnare sia il preavviso (in alcuni casi) sia l’ipoteca iscritta, per vizi formali o sostanziali (ad es. debito sotto soglia, mancato invio del preavviso – che rende nulla l’ipoteca – o altri vizi). Cassazione ha stabilito che l’omessa notifica del preavviso di ipoteca viola il diritto di difesa e invalida l’ipoteca stessa. Anche la mancanza di notifica valida dell’atto presupposto (es. dell’avviso di liquidazione originario) può essere eccepita per invalidare l’ipoteca.
  • Pignoramento immobiliare (espropriazione della casa): è la misura esecutiva più invasiva, in cui l’Agente procede a espropriare e vendere all’asta un immobile del debitore per soddisfare il credito. Limiti importanti: la legge tutela in parte l’abitazione principale:
    • Immobile “prima casa” impignorabile: Non è mai possibile pignorare la casa in cui il contribuente risiede se essa è l’unico immobile di proprietà e non di lusso (cat. catastale non A/8 o A/9). Questo divieto è previsto dal DL 69/2013 (cosiddetto “Decreto del Fare”). Quindi, se il debitore possiede una sola casa, in cui ha la residenza anagrafica, l’Agente non può procedere al pignoramento (anche se può aver iscritto ipoteca come tutela).
    • Soglia di debito per espropriare: anche al di fuori del caso prima casa, l’Agenzia Entrate-Riscossione può procedere a pignoramento immobiliare solo se il debito complessivo supera €120.000. Se il debito è inferiore, potrà al più iscrivere ipoteca, ma non farla sfociare in vendita forzata. Se il debito supera €120.000 e vi sono immobili (non prima casa esclusiva), può avviare l’esproprio, ma solo dopo aver iscritto ipoteca da almeno 6 mesi. In pratica: debito >120k + ipoteca già iscritta + trascorsi 6 mesi senza che sia risolto = via libera al pignoramento.
    • Procedura: il pignoramento avviene con un atto notificato (atto di pignoramento immobiliare) e successiva iscrizione a registro, cui segue la procedura d’asta gestita dal tribunale. Il debitore, fino a un certo momento, può ancora evitare la vendita pagando il debito (diritto di purga dell’ipoteca o di conversione del pignoramento versando somme a garanzia).
    • Conseguenze: se si arriva alla vendita all’asta, il ricavato viene usato per pagare il credito fiscale (e altri eventuali creditori). Il debitore perde la proprietà dell’immobile e, se l’incasso non copre tutto il debito, rimane comunque obbligato per la parte residua (anche se spesso l’ipoteca scoraggia ulteriori crediti, quindi l’incasso potrebbe estinguere l’obbligazione fiscale o quantomeno ridurla).
  • Pignoramento mobiliare e presso terzi: l’Agente della riscossione può aggredire anche altri beni del debitore:
    • Conti correnti e depositi: attraverso il pignoramento presso terzi, può ordinare a una banca di congelare le somme sul conto del debitore fino a concorrenza del debito, e poi assegnarle all’Erario. Questo è spesso uno dei primi strumenti esecutivi usati (perché rapido e con esito immediato). Il contribuente normalmente scopre il blocco quando ormai è effettuato (può eventualmente opporsi per vizi di forma o se il debito era inesistente/prescritto).
    • Stipendi/pensioni: l’Agente può pignorare una parte (quota) dello stipendio o pensione del debitore, direttamente presso il datore di lavoro o l’ente previdenziale. La legge fissa delle quote massime pignorabili (di solito un quinto del netto mensile, con limiti se pensione minima).
    • Altri crediti: può pignorare crediti che il debitore vanta verso terzi (es. fitti attivi, pagamenti da clienti se è un professionista, ecc.).
    • Beni mobili fisici: in teoria l’esattore potrebbe pignorare beni mobili materiali (macchinari, auto – più spesso si preferisce il fermo invece che il pignoramento dell’auto). Nella pratica moderna, è raro che si proceda al pignoramento di mobili nell’abitazione (come succedeva con l’ufficiale giudiziario per crediti privati), se non in casi di grosse aziende dove pignorare merci o macchinari.

Riassumendo dal punto di vista del debitore: se non paga l’avviso e lascia trascorrere i termini, inizialmente riceverà la cartella esattoriale con maggiorazioni di interessi e oneri. Se persiste nell’inadempimento, rischia prima provvedimenti come fermi auto e ipoteche, e successivamente pignoramenti di conti, stipendi e (per debiti rilevanti) immobili. Il tutto può avvenire in tempi variabili: quanto velocemente? Dipende dalle politiche dell’Agente e dalla natura del debito. Talora, per importi modesti, possono passare mesi o anni prima che si attivino misure pesanti, mentre per debiti ingenti l’Agente tende ad agire con più solerzia. Va detto che il sistema di riscossione spesso procede per gradi: prima invia solleciti o preavvisi (es. preavviso di fermo o ipoteca) e solo dopo procede. Questo dà al debitore un’ultima opportunità di pagamento o di trovare un accordo (rateizzazione) prima di subire gli atti più gravi.

Diritti del debitore nella riscossione: Il debitore conserva comunque dei diritti e strumenti di tutela in questa fase:

  • Può chiedere una rateizzazione del debito anche dopo la cartella (approfondiamo nella sezione seguente): presentando istanza all’Agenzia Entrate-Riscossione, evitando così ulteriori atti esecutivi.
  • Può presentare opposizioni/esposti se ritiene che gli atti siano viziati (es. opposizione all’esecuzione per intervenuta prescrizione, opposizione agli atti esecutivi per vizi di notifica, ecc.).
  • Ha diritto a ricevere i preavvisi dove previsti (preavviso di fermo, preavviso di ipoteca) e, in generale, a essere trattato secondo le garanzie dello Statuto del Contribuente (L.212/2000), ad esempio con motivazioni chiare degli atti e rispetto delle procedure.

Impugnare l’avviso: contenzioso tributario e strumenti di difesa

Dal punto di vista di un contribuente (privato cittadino, professionista o imprenditore) che riceve un avviso di liquidazione che ritiene errato o ingiusto, è fondamentale sapere come contestarlo e quali sono le procedure di tutela. In questa sezione vediamo il funzionamento del processo tributario applicato agli avvisi di liquidazione, nonché gli strumenti deflativi che permettono di evitare o limitare il contenzioso (come autotutela, accertamento con adesione, ecc.).

Autotutela: richiedere il riesame all’Agenzia

Definizione: L’autotutela amministrativa è il potere/dovere della Pubblica Amministrazione di correggere spontaneamente i propri errori quando emergono, anche in assenza di un ricorso formale. Nel contesto tributario, il contribuente può presentare un’istanza di autotutela all’ufficio che ha emesso l’avviso, segnalando eventuali errori (di calcolo, di persona, di fatto, ecc.) e chiedendo l’annullamento o la rettifica dell’atto.

Caratteristiche:

  • L’autotutela non sospende di per sé i termini di ricorso né quelli di pagamento. È una richiesta “amichevole” rivolta all’ente, che può accoglierla o respingerla discrezionalmente. Dunque, se mancano pochi giorni alla scadenza dei 60 gg, il contribuente dovrebbe comunque presentare ricorso o pagare, a scanso di decadenze, anche se ha chiesto autotutela.
  • Viene utilizzata efficacemente in caso di errori evidenti dell’ufficio: ad esempio doppia imposizione per lo stesso fatto, errore di persona (avviso intestato al soggetto sbagliato), calcolo matematico sbagliato dell’imposta, applicazione di una norma chiaramente non pertinente, pagamento già effettuato ma non risultante. In tali casi, spesso l’ufficio riconosce l’errore e annulla in tutto o in parte l’atto.
  • L’istanza va redatta in carta libera, indicando gli estremi dell’avviso e motivando gli errori riscontrati, allegando eventuale documentazione probante. Può essere inviata via PEC o presentata all’ufficio territoriale.
  • Non c’è un termine per presentarla (si può anche oltre i 60 gg, tentando la sorte), ma ovviamente più è tempestiva meglio è. Se presentata entro i 60 gg, si può chiedere contestualmente all’ufficio di sospendere in autotutela la riscossione in attesa della risposta (sospensione che l’ufficio può concedere in casi meritevoli).
  • Se l’ufficio accoglie l’autotutela, emetterà un provvedimento di annullamento/sgravio dell’avviso (totale o parziale). Se la respinge (esplicitamente o col silenzio), il contribuente dovrà attivarsi tramite ricorso se vuole ancora difendersi, sempre che i termini lo consentano.

Esempio: Nel Caso 1 (prima casa) più avanti, Mario Rossi presenta istanza di autotutela sostenendo che il termine dei 18 mesi era stato prorogato per Covid e quindi non è decaduto dall’agevolazione. Se l’ufficio concorda, potrebbe annullare l’avviso. Se invece respinge, Mario dovrà fare ricorso.

L’autotutela è dunque uno strumento semplice e a costo zero che vale sempre la pena tentare quando c’è buona fede e l’errore è palese. Spesso, i professionisti lo usano per evitare cause inutili: ad esempio, se un avviso di liquidazione applica una sanzione palesemente errata (magari 90% anziché 30% per un omesso versamento), segnalare la cosa all’ufficio può portare a un annullamento senza dover andare in Commissione Tributaria.

Accertamento con adesione e acquiescenza

Sono strumenti deflativi del contenzioso previsti dal D.Lgs. 218/1997 che consentono di definire bonariamente la pretesa tributaria con l’ufficio, evitando o interrompendo il ricorso, in cambio di benefici (soprattutto riduzioni di sanzioni).

  • Accertamento con adesione: si tratta di un procedimento di conciliazione tra contribuente e Amministrazione, che si può attivare dopo la notifica di un avviso (di accertamento o liquidazione) ma prima di fare ricorso. Il contribuente presenta un’istanza di adesione all’ente impositore entro 60 giorni dalla notifica dell’atto; ciò sospende il termine per ricorrere per 90 giorni. Si tiene quindi un contraddittorio con l’ufficio, per discutere la pretesa e cercare un accordo sulle somme dovute. Se si raggiunge un accordo (atto di adesione), il contribuente paga quanto concordato (imposte e interessi normalmente per intero, sanzioni ridotte a 1/3 del minimo). In alcuni casi di rettifiche su valori (registro, successione), la normativa prevedeva sanzioni ridotte perfino a 1/6 con l’adesione. L’adesione evita il processo: l’atto originario si “converte” nell’accordo e non è più impugnabile autonomamente. Applicabilità agli avvisi di liquidazione: sì, in molti casi è ammesso. Ad esempio, per avvisi di liquidazione in materia di valore catastale (successioni, registro) l’adesione è tipica per concordare un valore intermedio ed evitare lite sulla stima. Se un avviso di liquidazione è già frutto di controllo automatizzato (omesso versamento), di solito non c’è molto da concordare se non eventualmente rateizzare, quindi l’adesione è più usata quando c’è margine di discussione (es: valutazioni di immobili, qualificazioni giuridiche). Vantaggi: sospende i termini di ricorso; sanzioni ridotte; rapporto più collaborativo con l’ufficio. Svantaggi: bisogna comunque trovare un accordo che spesso implica pagare una buona parte del dovuto; se l’accordo non si trova, si può comunque ricorrere ma si è perso un po’ di tempo (anche se il termine ricorso era sospeso, quindi non si è prescritto).
  • Acquiescenza all’accertamento (definizione agevolata): è la scelta di non impugnare e pagare entro 60 giorni un avviso, usufruendo della riduzione delle sanzioni. L’art. 15 del D.Lgs. 218/1997 prevede infatti che, se il contribuente non presenta ricorso e paga integralmente entro il termine, le sanzioni irrogategli siano ridotte ad 1/3 (un terzo) di quanto contestato. In pratica, paga solo il 30% di sanzione? No: se l’avviso portava, ad esempio, una sanzione del 30%, pagandolo in acquiescenza la sanzione scende al 10% (che è 1/3 di 30). Se la sanzione fosse stata 90%, scenderebbe al 30%, ecc. L’ufficio in genere indica già nell’avviso l’importo ridotto se si paga entro 60 giorni (o allega un F24 con sanzioni ridotte). Attenzione: l’acquiescenza richiede il pagamento integrale di imposta + interessi + 1/3 sanzioni entro 60 gg; non è valida se si paga in ritardo o solo parzialmente. Nota: L’acquiescenza è alternativa al ricorso. Se si sceglie di pagare con sanzioni ridotte, non si può più ricorrere contro l’atto. È quindi indicata quando il contribuente riconosce la fondatezza della pretesa o comunque valuta che non convenga intraprendere un giudizio. Dal punto di vista psicologico, significa “prendere atto” dell’accertamento e chiuderla lì, limitando i danni. Esempio: Nel Caso 1 (Mario Rossi, decadenza prima casa), se Mario avesse deciso di non ricorrere e di pagare entro 60 gg i €19.100 richiesti, avrebbe beneficiato della riduzione della sanzione al 10%. Infatti i €4.200 di sanzione (30%) sarebbero diventati €1.400 (10% di 14.000), con un risparmio di €2.800. Nel suo F24 allegato probabilmente l’AdE indicava già l’importo scontato. Mario però stava valutando il ricorso perché riteneva l’atto sbagliato, quindi nel suo caso la scelta non era scontata.
  • Conciliazione giudiziale: se si arriva a presentare ricorso, esiste comunque la possibilità di conciliare la controversia durante il processo, con ulteriori benefici. La conciliazione può avvenire in primo grado (davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado): le parti – contribuente e ufficio – possono accordarsi per definire la causa con un abbattimento delle sanzioni al 40% del minimo (se conciliazione entro il primo grado) o al 50% se in secondo grado (art. 48 D.Lgs. 546/92, come modificato dal 2022). La conciliazione va omologata dal giudice e poi il contribuente paga la somma concordata. Se paga nei termini, la causa si estingue. Questo strumento è utile se durante il processo emergono margini per un accordo (es: controversie su quantificazione): spesso l’ente accetta di ridurre sanzioni o imposte per chiudere rapidamente la lite, e il contribuente ottiene uno sconto e la certezza dell’esito.

In generale, imprenditori e professionisti spesso valutano con attenzione gli strumenti deflativi: ad esempio, definire subito un avviso con adesione o acquiescenza permette loro di evitare la pubblicità di un contenzioso e di conseguire certezze (importante per bilanci d’azienda, ecc.), beneficiando di sanzioni ridotte. D’altro canto, se l’importo è elevato, potrebbero optare per la dilazione o il contenzioso se ritengono di avere buone ragioni.

Il ricorso tributario (primo grado)

Se il contribuente decide di contestare l’avviso di liquidazione, deve proporre ricorso alla competente Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado (nuova denominazione dal 2023 delle ex Commissioni Tributarie Provinciali). Vediamo i punti salienti del processo tributario di primo grado:

  • Termine: il ricorso va notificato entro 60 giorni dalla data di notifica dell’avviso (attenzione: se l’ultimo giorno cade di sabato/festivo, slitta al primo giorno lavorativo successivo; sospensioni feriali di agosto: dal 1 al 31 agosto i termini sono sospesi). Se si è presentata istanza di adesione, i 60 gg sono sospesi per un massimo di 90 gg dall’istanza.
  • Modalità: il ricorso oggi si presenta in modalità telematica attraverso il Portale della Giustizia Tributaria (processo tributario telematico). Va notificato all’ente impositore (es. via PEC all’Agenzia delle Entrate, utilizzando l’indirizzo PEC istituzionale) e poi depositato telematicamente presso la Corte Tributaria, con la ricevuta di consegna.
  • Contenuto: il ricorso deve indicare il provvedimento impugnato, i motivi di fatto e di diritto per cui si chiede l’annullamento/riforma, l’eventuale valore della controversia e la richiesta finale (conclusioni). Va inoltre allegata copia dell’atto impugnato e della documentazione rilevante. Nei motivi, il contribuente potrà eccepire ad esempio vizi formali (notifica inesistente, difetto di motivazione, errata intestazione, decadenza dei termini…) e/o vizi sostanziali (il tributo non è dovuto per ragioni di merito, interpretazione della norma, ecc.).
  • Pagamento provvisorio: fino al 2022, era previsto che la presentazione del ricorso non sospendesse automaticamente la riscossione, ma l’ente poteva riscuotere un terzo delle imposte in contestazione dopo la sentenza di primo grado (se favorevole all’ente). Con la riforma (L. 130/2022) queste regole sono cambiate: attualmente, la presentazione del ricorso sospende l’esecutività dell’avviso per la parte impugnata fino alla decisione di primo grado (viene meno l’art. 68 c.1 D.Lgs. 546/92). In altre parole, di norma non vengono avviate azioni esecutive sulle somme impugnate finché non c’è una sentenza definitiva o almeno di primo grado. Ciò è allineato al principio che l’atto è sub iudice. Tuttavia, rimangono comunque dovuti gli interessi eventualmente maturandi.
  • Sospensione cautelare: se il debito è molto elevato e il contribuente subirebbe un danno grave e irreparabile dall’esecuzione forzata nel frattempo, può chiedere al giudice tributario una sospensione provvisoria dell’atto (art. 47 D.Lgs. 546/92). Ad esempio, se senza sospensione l’Agente potrebbe ipotecare o pignorare i beni prima che il giudizio sia deciso, il contribuente può presentare istanza motivata di sospensione, che viene decisa in tempi brevi (entro 180 giorni) con ordinanza. Requisiti: fumus boni iuris (motivi del ricorso non pretestuosi, viabilità della tesi difensiva) e periculum in mora (danno grave dall’esecuzione). Se concessa, la sospensione blocca la riscossione fino alla sentenza di primo grado. Ad esempio, Mario Rossi nel Caso 1, se non ottiene l’annullamento in autotutela e ricorre, potrebbe chiedere sospensione per evitare l’iscrizione ipoteca o l’affidamento a ruolo dei €19k; se il giudice gliela concede, l’Agenzia non potrà attivare la riscossione fino alla decisione del ricorso.
  • Udienza e decisione: la controversia viene decisa da un collegio di 3 giudici tributari (o giudice monocratico per le liti minori fino a €3.000, esclusi sanzioni). Le parti possono discutere in pubblica udienza o chiedere decisione in camera di consiglio (su atti). La Corte emette una sentenza che può accogliere (annullare totalmente o parzialmente l’avviso) oppure respingere il ricorso (confermando l’atto), o ancora dichiarare il ricorso inammissibile (vizi procedurali).
  • Effetti della sentenza di primo grado: se il contribuente vince totalmente (avviso annullato), di regola nulla è dovuto e se aveva pagato qualcosa in acconto, ha diritto al rimborso. Se perde, la sentenza costituisce titolo esecutivo: tuttavia, oggi il contribuente può impugnare in appello e solitamente la riscossione rimane sospesa fino alla decisione di secondo grado (anche qui la riforma ha modificato art. 68, eliminando l’obbligo di pagare 1/3 dopo sentenza primo grado sfavorevole all’80% delle pretese, come prima era). Comunque l’ente può chiedere la riscossione dopo una sentenza non sospesa, ma il contribuente può a sua volta chiedere la sospensione in appello.
  • Costi: per adire la giustizia tributaria occorre pagare un contributo unificato tributario (CU) proporzionato al valore della lite: ad esempio €30 per liti fino a €3.000, €60 fino a 6.000, €120 fino a 20.000, €250 fino a 50.000, e oltre, secondo scaglioni. Inoltre, se si perdono le spese legali possono essere poste a carico (anche se nelle liti minori spesso si compensano). Non è obbligatorio il difensore per liti fino a €3.000, ma oltre tale soglia serve assistenza tecnica (avvocato, commercialista o altro professionista abilitato).

L’appello (secondo grado) e ricorso per Cassazione

Il sistema tributario prevede il doppio grado di merito: contro la sentenza di primo grado, la parte soccombente (Agenzia o contribuente) può proporre appello alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado (ex Commissione Regionale). L’appello va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado (o entro 6 mesi dalla pubblicazione se non notificata). In appello si riesaminano i fatti e il diritto, ma in genere non si possono presentare nuove domande, solo motivi di impugnazione su ciò che è già stato oggetto del primo giudizio.

La sentenza di appello può confermare o riformare la decisione. Dopo l’appello, l’ultima istanza è il ricorso in Cassazione (dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione, sezione tributaria). La Cassazione valuta solo motivi di legittimità (violazioni di legge o vizi di motivazione), non rivede i fatti. Il ricorso per Cassazione va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di appello. È un giudizio complesso e costoso, con necessità di avvocato cassazionista.

Riscossione durante il processo: per tutelare l’Erario, la legge (vecchio art. 68 d.lgs. 546/92) prevedeva che, dopo la sentenza di primo grado favorevole all’ente, quest’ultimo potesse riscuotere immediatamente una parte (provvisoriamente esecutiva per 1/3 se primo grado, 2/3 dopo l’appello). La L. 130/2022 ha abrogato questa disposizione, lasciando alcuni dubbi interpretativi. Al momento, sembra che la riscossione resti sospesa fino a sentenza definitiva, salvo che il giudice possa eventualmente disporre diversamente. In pratica, oggi se il contribuente perde in primo grado ma fa appello tempestivo, può chiedere al giudice d’appello di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado (istanza di sospensione ex art. 52 D.Lgs. 546/92 modificato). Se concessa, nulla è dovuto fino alla fine. Se non concessa, l’Agenzia potrebbe pretendere il pagamento (di solito il 50% del dovuto, ma la norma specifica non c’è più, quindi si naviga a vista). Data l’evoluzione normativa, è opportuno in ogni caso cercare di definire la controversia prima che arrivi a tali stadi avanzati, mediante conciliazione o accordi, se possibile.

Vizi formali comuni e giurisprudenza rilevante

Prima di passare ai casi pratici, è utile riepilogare alcuni vizi formali frequenti che possono colpire gli avvisi di liquidazione e le relative pronunce giurisprudenziali:

  • Difetto di motivazione: Ogni atto impositivo deve essere motivato (art. 7 L.212/2000), ossia deve esporre le ragioni giuridiche e i presupposti di fatto della pretesa tributaria. Un avviso di liquidazione che riporti solo formule generiche, senza far capire al contribuente da dove derivino le somme richieste, è nullo. La Cassazione ha più volte ribadito che la motivazione deve mettere il contribuente in condizione di conoscere il petitum (quanto si chiede) e la causa petendi (perché lo si chiede). Ad esempio, in materia di registro su atti giudiziari, notificare un avviso indicando solo “dovuta imposta di registro ai sensi degli artt. X e Y” senza allegare o specificare l’atto tassato, è stato ritenuto insufficiente: la Suprema Corte (sent. n. 2039/2022) ha annullato un avviso che si limitava a richiamare astrattamente degli articoli di legge e gli importi, senza spiegare il calcolo e senza allegare la copia della sentenza tassata. Non è ammessa la “motivazione postuma” (cioè spiegare le ragioni solo in giudizio): l’atto deve reggersi da sé. Principio: Motivazione chiara e completa o l’atto è nullo.
  • Notifica nulla o omessa dell’atto presupposto: Come visto, se l’Amministrazione non notifica un atto dovuto (es. un avviso di liquidazione) e passa direttamente alla cartella, la cartella è impugnabile per vizio proprio derivante dall’omessa notifica. Le Sezioni Unite della Cassazione (sent. 10012/2021) hanno sancito che la mancata notifica di un atto presupposto inficia tutti gli atti successivi della riscossione. Il contribuente può impugnare l’atto consequenziale (come la cartella) deducendo la nullità derivata dalla mancata notifica dell’avviso precedente. In tal caso, il giudice verifica se effettivamente l’atto presupposto non fu notificato e, se del caso, dichiara nulla la cartella. Ciò comporta normalmente l’estinzione della pretesa, salvo che nel frattempo non siano decaduti i termini per rinotificare correttamente l’atto presupposto. (Esempio reale: contribuente non riceve un avviso di liquidazione perché inviato a indirizzo sbagliato; riceve anni dopo una cartella. Impugna la cartella eccependo la notifica mai avvenuta dell’avviso: Cassazione conferma che la cartella è nulla). Questo principio si collega al diritto di difesa: non si può saltare un grado di atti senza le dovute notifiche.
  • Mancata indicazione del responsabile del procedimento: L’art. 7 L.212/2000 richiede che in ogni atto sia indicato l’ufficio e il funzionario responsabile. La giurisprudenza inizialmente considerava la mancata indicazione come vizio invalidante; più recentemente, la Cassazione (es. sent. 1042/2023) ha però ritenuto non nulla la cartella o l’avviso per la sola mancanza del nominativo del responsabile, considerandola una irregolarità che non incide sui diritti sostanziali del contribuente. C’è dibattito, ma oggi prevale l’idea che non sia motivo sufficiente di annullamento (quindi non fare troppo affidamento su questo vizio).
  • Errori di notifica: la notifica degli avvisi segue le regole del Codice di procedura civile (art. 137 e segg.) e del DPR 600/73 o 602/73. Errori come consegna a soggetto non legittimato, indirizzo errato, ecc., possono rendere nulla o inesistente la notifica. La Cassazione (ordinanza n. 26508/2021) ha ad esempio cassato una decisione che presumeva notificato un avviso senza prova della ricezione: onere della prova della corretta notifica spetta all’ente impositore. Se l’ente non produce l’avviso di ricevimento, la notifica via posta non è provata e l’atto può essere annullato. In caso di notifica PEC, occorre che l’ente produca la ricevuta di consegna con il file dell’atto. Vizi di notifica vanno eccepiti subito dal contribuente.

In sintesi, il contribuente (magari assistito dal suo difensore) verificherà questi aspetti formali, perché a volte permettono di vincere il ricorso a prescindere dal merito. Naturalmente, se il contribuente ha torto nel merito, l’ente può emettere un nuovo atto se il vizio era formale e se i termini glielo consentono; ma se i termini sono scaduti, un vizio formale (tipo decadenza o notifica mancante) può chiudere definitivamente la partita a favore del contribuente.

Considerazioni particolari per imprenditori e professionisti

Dal punto di vista di imprese, ditte individuali e liberi professionisti, le conseguenze di un avviso di liquidazione non pagato possono assumere connotazioni specifiche:

  • Impatto sulla continuità aziendale: un imprenditore deve considerare che un debito tributario non pagato può comportare aggressione dei conti bancari aziendali, nonché dei beni strumentali (ad esempio macchinari, automezzi aziendali soggetti a fermo). Ciò può interferire con l’operatività dell’azienda. Inoltre, la presenza di debiti iscritti a ruolo può precludere la possibilità di ottenere il DURC fiscale o certificazioni di regolarità fiscale indispensabili per partecipare a gare di appalto pubbliche o per ottenere finanziamenti agevolati.
  • Società di capitali (Srl, Spa) vs ditte individuali: se l’avviso di liquidazione è intestato a una società di capitali, il debito fiscale resta in capo alla società come soggetto giuridico autonomo. I soci non ne rispondono con il loro patrimonio personale (salvo casi di garanzie prestate personalmente o di comportamenti fraudolenti). Tuttavia, attenzione: se la società viene messa in liquidazione e poi cancellata dal Registro Imprese senza aver pagato quei debiti tributari, il liquidatore o gli amministratori potrebbero incorrere in responsabilità. In particolare, l’art. 36 del DPR 602/1973 prevede che i liquidatori di società sono responsabili in proprio per le imposte dovute e non pagate dalla società in liquidazione, nei limiti delle quote attive ripartite ai soci. Ciò significa che se un liquidatore distribuisce attivo ai soci invece di pagare il Fisco, ne risponde con il suo patrimonio. Ad esempio, se Alfa S.r.l. del Caso 2 (debito IRES/IVA) non avesse pagato e si fosse sciolta distribuendo utili ai soci, l’Agenzia avrebbe potuto chiedere tali somme al liquidatore o ai soci (fino a concorrenza di quanto ricevuto). Per le ditte individuali o professionisti, questa separazione non esiste: l’imprenditore individuale risponde illimitatamente con tutti i suoi beni personali presenti e futuri dei debiti d’impresa (inclusi quelli tributari). Quindi, ad esempio, un avviso IVA non pagato da un professionista può portare al pignoramento tanto del suo conto personale quanto di quello legato allo studio, perché giuridicamente il soggetto è unico.
  • Professionisti e regime forfettario: a volte piccole partite IVA in regime forfettario possono ricevere avvisi di liquidazione per omissioni (per esempio contributi previdenziali o imposte sostitutive non versate). Devono sapere che il credito erariale ha comunque privilegio generale sui beni, quindi ad esempio per un avvocato forfettario che non paga €5.000 di imposta sostitutiva, il Fisco potrà pignorare somme sul suo conto dedicato di studio. Inoltre, un debitore fiscale inadempiente rischia segnalazioni che potrebbero emergere in visure (come i ruoli a proprio carico visibili nel cassetto fiscale) e deve dichiarare di non avere debiti iscritti a ruolo oltre certi importi se partecipa a bandi. Forti pendenze con il Fisco possono anche incidere in caso di richieste di rateizzazioni di cartelle relative a ritenute o IVA, dove la concessione è subordinata a determinate soglie.
  • Scelte imprenditoriali: se un imprenditore valuta di non poter pagare un grosso debito tributario, potrebbe considerare strumenti concorsuali come il concordato preventivo o accordi di ristrutturazione, nei quali esiste la transazione fiscale per ridurre il carico tributario. Questo però esula dalla presente trattazione (che è focalizzata su avvisi e contenzioso ordinario). Tuttavia, è utile sapere che con la riforma della crisi d’impresa 2019-2021, la composizione negoziata può includere la trattativa sui debiti tributari. In ogni caso, sono situazioni estreme: la stragrande maggioranza degli avvisi viene gestita con gli strumenti tributari ordinari detti sopra (ricorsi, rateazioni, ecc.) e non sfocia in procedure concorsuali.
  • Categorie particolari: imprenditori edili con lottizzazione di terreni potrebbero ricevere avvisi di liquidazione per l’imposta di registro su atti giudiziari (es. sentenze di usucapione su terreni), i professionisti potrebbero avere avvisi per registrazione di contratti d’opera, ecc. In generale, nessun trattamento di favore è previsto per loro solo in quanto imprenditori o professionisti: anzi, spesso i controlli sono più mirati. Ad esempio, un commercialista che non paga la tassa di registro sull’affitto dello studio riceverà l’avviso come qualunque cittadino; un’impresa che sottofattura un bene in successione aziendale può vedersi liquidare imposte di registro con sanzione per evasione.

Riassumendo: dal punto di vista del debitore-imprenditore, oltre alle regole generali occorre tenere conto della struttura giuridica dell’attività (società vs impresa individuale) e delle implicazioni su credibilità e continuità aziendale. Pagare in ritardo un avviso può comportare oneri finanziari aggiuntivi (interessi, sanzioni) che pesano sul bilancio; non pagarlo affatto porta a azioni legali che possono intralciare il business (conto corrente bloccato, auto aziendali con fermo, ipoteche su capannoni, ecc.). Pertanto, spesso per un imprenditore la scelta migliore è negoziare col Fisco (adesione, rateazione) per diluire l’impatto, a meno che non vi siano validi motivi per un ricorso.

Casi pratici: simulazioni di scenari reali

Di seguito presentiamo tre casi pratici, ispirati a situazioni reali, per illustrare in modo concreto cosa accade se non si paga un avviso di liquidazione e quali scelte ha di fronte il debitore. I tre scenari riguardano: (1) un privato che perde l’agevolazione prima casa, (2) un’azienda che riceve avvisi a seguito di controlli automatizzati su dichiarazioni, (3) un caso di successione ereditaria con maggior valore accertato. Vedremo l’evoluzione di ciascun caso e come il contribuente può reagire.

Caso 1: Avviso di liquidazione – Revoca dell’agevolazione “prima casa”

Scenario: Il Sig. Mario Rossi acquista nel marzo 2020 un appartamento usufruendo dell’agevolazione “prima casa” (imposta di registro al 2% invece che 9%). Al momento dell’atto, Mario risiede in un altro comune e si impegna a trasferire la residenza nel comune dell’immobile entro 18 mesi, come richiesto per non perdere l’agevolazione. Tuttavia, per varie vicissitudini, Mario ritarda: invece di trasferirsi entro settembre 2021 (18 mesi dal rogito), riesce a cambiare residenza solo a dicembre 2021, con 3 mesi di ritardo. Mario, fidando forse in una tolleranza, non comunica nulla al Fisco di questo ritardo.

Avviso di liquidazione ricevuto: a marzo 2025 (quasi 4 anni dopo l’acquisto), Mario si vede notificare un avviso di liquidazione dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio territoriale competente. L’avviso spiega che, non avendo il contribuente rispettato l’obbligo di residenza entro 18 mesi, egli decade dall’agevolazione prima casa. Di conseguenza, richiede:

  • la differenza d’imposta di registro: Mario aveva pagato il 2% su un valore dichiarato di €200.000 (€4.000). Ora deve il 9% (€18.000). Differenza = €14.000;
  • la sanzione del 30% sulla maggior imposta non versata (sanzione prevista per la decadenza dall’agevolazione) = €4.200 (30% di 14.000);
  • gli interessi legali dalla data dell’atto (2020) al 2025 sulla differenza, calcolati – poniamo – in circa €900.

Totale richiesto: circa €19.100 da pagare entro 60 giorni.

Mario si trova dunque di fronte ad un debito significativo. Analizziamo i suoi possibili percorsi:

Verifiche iniziali: Mario verifica i fatti e purtroppo constata che ha realmente trasferito la residenza in ritardo (3 mesi oltre i 18 previsti). Quindi, sul piano normativo la decadenza dall’agevolazione sarebbe giustificata. Tuttavia, emergono due possibili spunti di difesa:

  1. Normative emergenziali Covid: Mario ricorda che nel 2020-2021 l’Italia era in pandemia; ci furono norme che prorogavano alcuni termini per la prima casa. Infatti, il DL 34/2020 art.24 aveva sospeso i termini per trasferire la residenza dal 23/2/2020 al 31/12/2020. Inoltre, un’ulteriore proroga arrivò fino al 31/03/2022. Nel suo caso, rogito marzo 2020 -> 18 mesi sarebbero scaduti settembre 2021, ma grazie alla sospensione Covid il termine poteva slittare di alcuni mesi (coprendo forse il suo ritardo). Se così fosse, Mario non sarebbe decaduto (perché il suo trasferimento a dicembre 2021 rientrerebbe nel termine prorogato). Deve quindi verificare con precisione: sembra che la legge emergenziale gli desse tempo fino al 31 dicembre 2021 (o addirittura 31 marzo 2022) per il trasferimento. Se confermato, l’avviso sarebbe infondato nel merito.
  2. Termine di decadenza dell’atto: l’avviso è arrivato a marzo 2025. Mario calcola i termini: solitamente per revoca prima casa l’AdE considerava 3 anni dal decorso dei 18 mesi. Se i 18 mesi scadevano a settembre 2021, +3 anni = settembre 2024. Un avviso a marzo 2025 sembrerebbe oltre il termine (anche ipotizzando 3 anni dal rogito marzo 2020 = marzo 2023, è comunque oltre). Probabilmente l’Agenzia si è avvalsa di proroghe Covid anche sui termini di notifica, oppure interpreta diversamente la decorrenza. In ogni caso, Mario identifica un potenziale vizio di decadenza: potrebbe eccepire che l’avviso è tardivo, quindi nullo, a prescindere dal merito.

Opzioni di azione per Mario:

  • Tentare un’istanza in autotutela: Mario rapidamente predispone un’istanza di autotutela all’Ufficio, allegando le norme Covid (il DL 34/2020) e dimostrando che il suo ritardo è coperto da quelle proroghe. Se l’Ufficio concorda, annullerà l’atto d’ufficio. Esito: verosimilmente, però, l’ufficio potrebbe replicare che la proroga si applicava solo a chi aveva scadenza entro il 2020, oppure sostenere che Mario doveva comunicare qualcosa (non necessariamente vero, ma l’ufficio potrebbe trovare un appiglio per non annullare). Dunque, è probabile che non accolgano l’autotutela, oppure rispondano tardivamente oltre i 60 gg.
  • Decidere se pagare o impugnare: l’importo di €19k non è banale. Mario valuta: se paga entro 60 gg, la sanzione scende a 10% (risparmierebbe ~€2.800). Ma pagare significherebbe rinunciare a far valere le sue ragioni. D’altro canto, fare ricorso gli costa tempo, denaro (onorario legale, contributo unificato di circa €170 per valore 19k) e l’esito è incerto.

Mario opta per la via del ricorso, convinto di avere buone ragioni nel merito (copertura Covid). Prepara quindi, insieme al suo avvocato, il ricorso eccependo:

  1. Decadenza agevolazione insussistente: grazie alle norme emergenziali, il termine dei 18 mesi era sospeso; avendo trasferito entro dicembre 2021, non ha violato i requisiti, quindi l’imposta aggiuntiva non è dovuta.
  2. In subordine, vizio di motivazione: (verifica l’avviso) se l’atto non menzionasse la norma del DL 34/2020, potrebbe sostenere che l’Ufficio non ha considerato la sospensione e non ha motivato su quella (magari tirato per i capelli, ma lo cita).
  3. Decadenza notifica: l’avviso sarebbe oltre i 3 anni, va annullato per tardività, a meno che l’ufficio non provi che aveva termini sospesi per X giorni nel 2020/21.
  4. Richiesta conclusiva: annullamento integrale dell’avviso; in ulteriore subordine, annullamento di sanzioni per obiettiva incertezza.

Parallelamente al ricorso, chiede sospensione in via cautelare, evidenziando che se l’atto non è sospeso l’Agente potrebbe mettergli ipoteca sulla casa acquistata (valore alto) per €19k, creandogli un danno.

Esiti possibili: Supponiamo che il giudice accolga la sospensione (visto che la questione Covid sembra solida). L’Agenzia dunque aspetta l’esito del merito. Nel 2026 la Corte Tributaria emette sentenza: se riconosce la proroga Covid, annulla l’avviso; Mario avrà vinto e nulla sarà dovuto. Se invece (ipotesi) interpretasse la norma diversamente e ritenesse che Mario è decaduto, potrebbe comunque accogliere almeno parzialmente su un punto: ad es. potrebbe annullare le sanzioni per obiettiva incertezza normativa (molti contribuenti erano confusi sulle proroghe, e Mario di fatto non ha tratto vantaggio fiscale, perché l’imposta prima casa sarebbe stata zero in entrambi i casi, cambia solo l’aliquota registro). La Cassazione in alcuni casi ha ritenuto che quando non c’è vantaggio (perché la franchigia successione non superata, ecc.) la sanzione può essere ridotta. Dunque Mario potrebbe ottenere perlomeno l’annullamento della sanzione di €4.200, pagando solo imposta e interessi.

In qualsiasi caso, Mario, essendo un privato non imprenditore, se perde dovrà pagare col suo patrimonio personale, ma almeno la sua prima casa (quella acquistata) non è pignorabile (lo protegge la legge). L’Agenzia però potrebbe ipotecarla se il debito rimane (oltre 20k, qui 19k forse sotto soglia ipoteca, lui non ha altri debiti, quindi non possono ipotecare per <20k; al massimo fermo auto se ha auto, o pignorare conto).

Considerazioni finali sul Caso 1: Questo esempio illustra che:

  • Gli avvisi per decadenza agevolazioni arrivano talvolta a distanza di anni (qui 4 anni dopo atto). Ciò può sorprendere il contribuente che magari pensava fosse tutto a posto.
  • È fondamentale tenersi informati sulle norme (es. proroghe Covid) perché possono salvare da pretese indebite.
  • In situazioni di lieve scostamento (3 mesi di ritardo), l’Erario è stato ugualmente rigido; quindi mai presumere “tolleranze” se non previste.
  • Mario ha opportunamente usato l’autotutela e poi il ricorso, investendo risorse ma a ragion veduta.
  • Se Mario fosse stato incapiente di pagare e avesse perso il ricorso, comunque la sua prima casa non sarebbe finita all’asta (debito sotto 120k e unico immobile). Ma avrebbe comunque un peso (ipoteca no sotto 20k, quindi in questo caso nemmeno ipoteca! Solo rischi su conto o stipendio).
  • Per importi simili, spesso i contribuenti preferiscono definire e pagare con sanzione ridotta, specialmente se non hanno chiarissime chance. Mario invece aveva elementi robusti e ha fatto valere i suoi diritti.

(Questo caso evidenzia l’importanza di incrociare normativa e prassi: Cassazione nel 2023 – ord. n. 24488/2023 – ha confermato ad esempio che la decadenza prima casa in successione va valutata sul termine dei 18 mesi dall’apertura successione, ma qui era compravendita. È un ambito con varie sentenze, e la difesa va costruita accuratamente.)

Caso 2: Avviso di liquidazione in ambito aziendale (controllo automatico dichiarazioni)

Scenario: La società Alfa S.r.l. presenta nel 2024 la dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2023, con un’IRES dovuta di €50.000. A causa di un errore del contabile, versa con modello F24 solo €45.000, pagando €5.000 in meno rispetto al dichiarato. Similmente, dalla dichiarazione IVA 2023 risulta un debito IVA di €20.000, ma per un errore in compensazione la società versa €17.000, rimanendo €3.000 di IVA non versata. Alfa S.r.l. non si accorge di questi errori.

Intervento del Fisco: Nel luglio 2025 (dunque dopo i controlli automatizzati delle dichiarazioni), l’Agenzia delle Entrate invia alla società due “comunicazioni di irregolarità” (avvisi bonari) ai sensi degli artt. 36-bis DPR 600/73 e 54-bis DPR 633/72:

  • Una comunicazione segnala l’omesso versamento di €5.000 di IRES per il 2023. Chiede €5.000 + interessi da ritardato versamento (circa €150) + sanzione ridotta al 10% (€500) invece del 30%. Totale ~€5.650.
  • L’altra per l’IVA mancante €3.000. Chiede €3.000 + pochi interessi (€50) + sanzione 10% (€300). Totale ~€3.350.

Entrambe le comunicazioni offrono 30 giorni per pagare con sanzioni ridotte (10%), oppure segnalare eventuali incongruenze.

Reazione della società: Il commercialista di Alfa S.r.l. analizza gli avvisi bonari e riconosce gli errori nei versamenti: la società deve effettivamente quei soldi (nessun errore dell’Agenzia). Consiglia quindi di pagare subito per sfruttare lo sconto sulle sanzioni. La società ha liquidità sufficiente, perciò entro i 30 giorni (agosto 2025) paga:

  • €5.650 dovuti per l’IRES (capitale, interessi, sanzione 10%);
  • €3.350 per l’IVA.

Effettua i versamenti con F24 come indicato e comunica via cassetto fiscale/CIVIS l’avvenuto pagamento.

Effetti del pagamento tempestivo:

  • La società definisce la sua posizione senza alcuna iscrizione a ruolo: le comunicazioni di irregolarità, non essendo atti impugnabili di per sé, vengono “definite” col pagamento. Non seguirà nessun avviso di accertamento né cartella per questi importi.
  • La sanzione applicata rimane ridotta al 10% (invece del 30%): Alfa ha risparmiato circa €1.600 di sanzioni (€1.000 sull’IRES e €600 sull’IVA) rispetto a quel che avrebbe pagato in caso di inadempimento.
  • Non verranno caricati interessi di mora né aggio di riscossione, perché la questione si è chiusa prima del ruolo.

Possibilità alternativa (mancato pagamento degli avvisi bonari): Ipotizziamo che Alfa S.r.l. non avesse visto quelle PEC di avviso bonario (magari casella PEC non letta). Trascorsi i 30 giorni:

  • L’Agenzia avrebbe iscritto a ruolo le somme con sanzione piena e interessi ulteriori. Entro fine 2025, la società avrebbe ricevuto due cartelle esattoriali: una per IRES con €5.000 imposta + €1.500 sanzione 30% + interessi legali + aggio; l’altra per IVA con €3.000 + €900 sanzione + interessi + aggio. In totale circa €10.000 (contro i €9.000 totali pagando subito).
  • A quel punto, la società non avrebbe motivo di ricorrere (il debito è dovuto, l’errore è suo). Avrebbe dovuto comunque pagare tutto, magari chiedendo rateizzazione all’Agente se aveva problemi di cassa. Avrebbe però perso €1.000 di sconti sanzioni e avrebbe dovuto pagare anche l’aggio del riscossore (3-6%). E avrebbe avuto due cartelle a suo carico, con potenziali implicazioni (bisogno di Durc fiscale, ecc.).

Insegnamenti dal Caso 2:

  • In ambito aziendale, molti avvisi di liquidazione derivano da controlli automatizzati di liquidazioni periodiche (dichiarazioni) e non da vere azioni investigative. Non c’è una “colpa” morale dell’azienda ma errori materiali. In questi casi, la strategia migliore è quasi sempre regolarizzare subito per sfruttare le sanzioni ridotte.
  • Ignorare gli avvisi bonari porta solo svantaggi: si paga di più dopo e magari con aggravio di procedure.
  • Fortunatamente Alfa aveva liquidità: se non l’avesse avuta, c’era comunque l’opzione di chiedere la rateizzazione degli avvisi bonari (massimo 8 rate trimestrali per importi fino a €50k, o fino a 20 rate se importo elevato, secondo le regole AdE). Nel suo caso €8.000 totale, >€5k quindi 8 rate possibili. Avrebbe pagato interessi di rateazione (ora al 2% annuo per avvisi bonari, grazie alle nuove norme, prima era ~3.5%). Alfa ha preferito evitare interessi e chiudere subito.
  • Dal punto di vista del professionista contabile, il caso evidenzia l’importanza di monitorare la PEC aziendale: spesso le aziende non seguono queste comunicazioni se il consulente non le informa. Un’azienda strutturata dovrebbe implementare procedure per non perdere PEC importanti del Fisco.
  • Un aspetto positivo: definendo i controlli automatizzati, la società evita contenzioso e mantiene buona compliance. Questo può essere utile anche in ottica reputazionale: ad esempio, per partecipare a bandi pubblici bisogna non avere pendenze fiscali; Alfa chiudendo subito evita di risultare con ruoli a carico.

In conclusione, il Caso 2 dimostra una gestione virtuosa del post-dichiarativo: l’errore è stato corretto con un piccolo onere (sanz. 10%) e senza intasare i tribunali. Se invece non avesse pagato, avrebbe avuto avvisi di liquidazione formali o cartelle impugnabili, ma senza reali motivi di ricorso, esponendosi solo a costi maggiori e a rischio di azioni coattive.

(Nota: tecnicamente le comunicazioni 36-bis non sono “avvisi di liquidazione” in senso stretto ma avvisi bonari; tuttavia, se non pagati, portano a cartelle che fungono da avvisi di liquidazione esecutivi. Dal punto di vista dell’effetto per il debitore, il messaggio è analogo: pagando entro i termini iniziali si risparmiano guai e soldi.)

Caso 3: Avviso di liquidazione in materia di successione ereditaria

Scenario: La Sig.ra Anna Bianchi eredita nel 2022, assieme al fratello, il patrimonio del padre defunto. Presentano regolarmente a settembre 2022 la dichiarazione di successione, indicando i beni ereditari:

  • un appartamento, con valore catastale dichiarato di €150.000 (calcolato sulla rendita catastale),
  • un conto corrente di €50.000.

Al momento della presentazione, versano le imposte ipotecaria e catastale (2% + 1% sul valore catastale dell’immobile, quindi su €150k pagano €3.000 + €1.500 = €4.500), oltre all’imposta di bollo e tasse ipotecarie. Non versano alcuna imposta di successione, in quanto, essendo figli, ognuno ha una franchigia di €1.000.000 e il valore dichiarato per ciascuno (€100k a testa, metà di 200k) è ben sotto la franchigia. Dunque, secondo loro, nulla è dovuto per imposta successione.

Controllo dell’Agenzia: L’ufficio successioni dell’Agenzia esamina la pratica e nota che l’immobile è ubicato in centro storico ed è di pregio; il valore catastale (€150k) appare irrisorio rispetto al reale. Decide allora di effettuare un accertamento di valore sull’immobile, ritenendo che il valore di mercato fosse in realtà di €500.000.

  • Con un valore di €500k per la casa + €50k conto = €550k totale eredità, comunque diviso 2 eredi fa €275k a testa, che è ancora sotto la franchigia di 1.000.000. Quindi conferma che l’imposta di successione rimane €0 (nessuna imposta principale dovuta).
  • Tuttavia, le imposte ipotecaria e catastale (che sono calcolate sul valore degli immobili dichiarato oppure accertato in successione) devono essere ricalcolate sul nuovo valore dell’immobile: 3% (2+1) di €500k = €15.000 in totale, a fronte dei €4.500 già pagati. C’è dunque una differenza di €10.500 di imposte ipocatastali da recuperare.

Avviso di liquidazione ricevuto: a giugno 2024, l’Agenzia notifica ad Anna e al fratello (ciascuno per la propria quota, ma spesso in solido) un avviso di liquidazione che richiede:

  • Maggiore imposta ipotecaria: €10.000 (2% di 500k, meno i €3.000 pagati);
  • Maggiore imposta catastale: €5.000 (1% di 500k, meno i €1.500 pagati);
  • Sanzione per infedele dichiarazione di valore: l’ufficio la calcola al 90% delle imposte non versate (dopo la riforma del 2015, la sanzione per dichiarazione infedele su tributi indiretti tende al 90% invece del vecchio range 100-200%). Dunque ~€9.450 (90% di 10.500);
  • Interessi legali: circa €210 per due anni (dal 2022 al 2024 sul dovuto €10.500).

Totale richiesto: circa €20.160, da pagare entro 60 giorni, con obbligazione solidale tra i coeredi.

Motivazione dell’avviso: spiega che l’OMI (Osservatorio del Mercato Immobiliare) stima €500k per quell’immobile, quindi la dichiarazione era infedele nel valore; ricalcola ipotecaria/catastale su €500k e applica sanzione per mendace indicazione di valore (citando gli articoli di legge).

Difesa di Anna:

  • Anna inizialmente è sorpresa: “Non dovevo pagare imposta successione comunque, perché mi sanzionano?”. Comprende però che la legge impone di dichiarare il valore venale degli immobili in successione e che, pur non generando imposta di successione, l’errore di valore incide sulle imposte fisse (ipo-catastali). Quindi, tecnicamente, hanno dichiarato un valore inferiore causando un’imposta minore pagata.
  • Anna valuta se il valore di €500k stimato dall’ufficio sia realistico. Ritiene magari che il giusto sarebbe €400k (l’immobile è bello ma forse 500 è esagerato). Quindi c’è margine per contestare la stima.
  • Inoltre, trova iniqua la sanzione del 90%: lei non aveva alcun vantaggio sull’imposta successione (tanto era zero), e molti compilano le successioni con valore catastale. C’era magari “incertezza normativa” sull’obbligo di dichiarare il valore di mercato? (In realtà la norma è chiara: si dovrebbe indicare valore venale, ma l’uso del catastale è prassi diffusa – non corretta, ma diffusa).
  • Strumenti a disposizione:
    • Accertamento con adesione sui valori: per gli avvisi di liquidazione di registro e successione esiste la possibilità di chiedere adesione entro 60 gg. Anna può presentare istanza di adesione: ciò sospende i termini per 90 gg e consente di negoziare col Fisco il valore dell’immobile. Magari possono accordarsi su €420k, e la sanzione verrebbe ridotta a 1/3 (30%). Questo potrebbe far scendere il dovuto.
    • Ricorso tributario: se non concilia, Anna farà ricorso puntando su: (1) valore eccessivo: produce magari una perizia giurata che stima €400k; (2) sanzione sproporzionata: chiede clemenza per obiettiva incertezza, citando magari giurisprudenza che in casi simili ha annullato sanzioni; (3) motivazione avviso: verifica se l’Agenzia ha esplicitato criteri e fonti del valore (a volte omettono dettagli; Cassazione però ha detto che in successione basta indicare il nuovo valore per ritenere motivato l’avviso, visto che l’atto stesso di liquidazione fa capire al contribuente la pretesa). Potrebbe comunque eccepire che l’avviso non spiega come hanno calcolato 500k (ma se citano OMI in motivazione, è sufficiente). In più, controlla che l’avviso rechi le norme giuste: a volte errori formali di indicazione articoli possono essere contestati, ma raramente decisivi.
  • Azioni intraprese: Anna presenta istanza di adesione poco dopo la notifica. Ciò le dà tempo. All’invito al contraddittorio, porta la sua perizia €400k. L’ufficio propone 450k per chiudere a metà strada. Si accordano su €450.000 come valore definito. Le imposte ipocatastali dovute diventano: 3% di 450k = €13.500, meno 4.500 già pagati = €9.000 da pagare. La sanzione, per legge, scende a 1/3 del 90% = 30% delle imposte non versate. Quindi sanzione sul tavolo = 30% di 9.000 = €2.700. Interessi vanno ricalcolati su 9k per 2 anni ~ €180. Dunque col patto d’adesione Anna e fratello dovrebbero pagare in solido: €9.000 + €2.700 + €180 = €11.880. Ognuno il 50% essendo coeredi = €5.940 a testa. Anna valuta: era 20k prima, ora 11.88k, un bel risparmio, soprattutto di sanzioni. Accettano e sottoscrivono l’accertamento con adesione. Pagano entro 20 giorni la prima rata (possono chiedere rate anche qui, ma forse pagano intero) e l’atto si perfeziona. Caso chiuso senza cause.

Se invece non avesse trovato accordo, Anna avrebbe fatto ricorso e molto dipenderebbe dal giudice: alcuni giudici di merito in passato hanno annullato sanzioni su casi simili per “mancanza di dolo” o incertezza (alcuni ritengono che indicare il catastale non sia malafede, e c’è una norma dell’art. 10 Statuto Contribuente per errori senza colpa). Ma non è garantito. Sulla stima, il giudice potrebbe nominare CTU o valutare le perizie; un eventuale compromesso in sentenza potrebbe fissare 450k come il nostro accordo ipotetico. Dunque l’adesione in questo caso era sensata.

Elementi evidenziati dal Caso 3:

  • Anche quando non c’è imposta principale, l’ufficio può liquidare differenze su imposte “accessorie” (ipotecaria, catastale) e applicare sanzioni salate per dichiarazioni infedeli. Molti eredi trascurano questo aspetto.
  • Valutazioni immobiliari: gli uffici usano le banche dati OMI, che spesso sovrastimano (o a volte sottostimano) rispetto al caso concreto. Il contribuente ha facoltà di contestare quei valori, ma servono prove tecniche (perizie).
  • Le sanzioni per infedele (art. 71 DPR 131/86 per registro, art. 5 D.Lgs. 471/97 per successione) arrivano fino al 90-100%. Sono molto pesanti. La riforma del 2015 ha unificato molte di queste al 90%. C’è comunque lo Statuto del Contribuente che all’art. 6 prevede l’esimente per errore in buona fede o causato da incertezza normativa. In giudizio, si può provare a far leva su questo per annullare o diminuire la sanzione.
  • Strumenti come l’adesione sono validi in questi casi per ridurre il contenzioso e ottenere sconti sanzioni (1/3). Anche la conciliazione giudiziale potrebbe dare 50% sanzioni se in appello, etc., ma meglio risolvere prima.
  • Dal punto di vista del “punto di vista del debitore”: qui Anna è un privato cittadino, ma la lezione vale anche per professionisti che assistono eredi, ecc. Se non avesse pagato o reagito, dopo 60 gg il debito di 20k andava a ruolo e magari ipoteca su un loro immobile ereditato (anche se qui la casa era del padre defunto – supponiamo sia passata a loro, quindi sì la casa ereditata poteva essere ipotecata se debito >20k, e 20,160 è >20k, fortunatamente hanno risolto prima).
  • Infine, questo caso mostra l’interazione tra norme (qui DPR 346/90, D.Lgs. 346/90, DLgs 472/97) e la loro complessità: un contribuente medio difficilmente sa tutte queste finezze, ed è per questo che fiorisce il contenzioso su successioni. Cassazione ha emesso molte sentenze su motivazione degli avvisi di successione, su atti da allegare, ecc. In particolare, Cass. ha detto che l’ufficio non è tenuto ad allegare la copia della sentenza di stima all’avviso, è sufficiente il riferimento al nuovo valore (questo per analogia con l’imposta registro su sentenze). Quindi contestare la motivazione è diventato più difficile in questi casi.

Epílogo: Anna ha risolto via adesione, e soprattutto ha imparato che per il futuro conviene dichiarare il più onestamente possibile i valori reali, anche se ciò implica calcoli più complessi in successione, per evitare sanzioni. Avrà anche capito l’importanza di consulenti esperti in materia tributaria, perché un semplice invio di successione senza strategia può costare caro.

Domande frequenti (FAQ)

Infine, presentiamo alcune domande e risposte rapide sui temi trattati, utili per chiarire i dubbi più comuni dal punto di vista di un contribuente debitore che abbia a che fare con un avviso di liquidazione.

• Cosa succede se non pago entro 60 giorni l’avviso di liquidazione?
Trascorsi i 60 giorni senza pagamento né ricorso, l’avviso diventa definitivo ed esecutivo. Le somme richieste vengono affidate all’Agente della Riscossione per il recupero forzoso (iscritte a ruolo). In pratica, dopo qualche tempo riceverai una cartella esattoriale contenente il tributo, le sanzioni e gli interessi, con aggiunta degli oneri di riscossione (3-6%). Dal momento della cartella, se ancora non paghi entro 60 giorni, l’Agente potrà attivare le procedure coattive: blocco dei tuoi beni (fermo su automezzi, ipoteca su immobili se il debito supera €20.000) e pignoramenti di conto corrente, stipendio, immobili (quest’ultimo solo per debiti > €120.000 e mai sulla prima casa se unica). Inoltre maturano interessi di mora elevati (circa 7-8% annuo in questi anni) sul debito finché non viene saldato. In breve: l’omesso pagamento innesca la macchina esattoriale, con aggravio di costi e rischi patrimoniali. È quindi sconsigliabile ignorare un avviso di liquidazione; meglio reagire tempestivamente tramite pagamento, accordo o ricorso, anziché subire la riscossione coattiva.

• Posso evitare la riscossione coattiva facendo ricorso?
Sì. La presentazione di un ricorso tributario entro 60 giorni sospende l’esecutività dell’avviso impugnato (non diventa definitivo). Inoltre puoi contestualmente chiedere al giudice una sospensione cautelare dell’atto. In genere, finché la causa è pendente, l’Agente della Riscossione non procede ad azioni esecutive sul tributo contestato. Fa eccezione il caso in cui ci sia una sentenza sfavorevole e non sospesa, ma con la riforma 2022–2023 ora la riscossione è sostanzialmente bloccata fino a decisione di primo grado (e oltre, se si appella tempestivamente). Quindi, presentando ricorso, proteggi il tuo patrimonio temporaneamente: l’avviso non verrà eseguito, a meno che tu perda e la sentenza diventi esecutiva. Attenzione però: gli interessi legali sul tributo continuano a maturare anche in pendenza di giudizio (se non hai ottenuto la sospensione degli interessi), quindi se poi perdi dovrai pagare anche quelli. E se il ricorso era pretestuoso, alla fine pagherai anche le spese di lite. Quindi il ricorso serve a guadagnare tempo e provare ad annullare/ridurre l’atto, ma non cancella il debito per magia. Va usato quando hai motivi validi. In ogni caso, se ricorri non subisci nel frattempo ipoteche o pignoramenti sulle somme impugnate (salvo casi eccezionali), soprattutto se ottieni una sospensiva dal giudice.

• Qual è la differenza tra un avviso di liquidazione e una cartella esattoriale?
L’avviso di liquidazione è un atto emesso dall’ente impositore (Agenzia Entrate o Comune) che accerta e richiede un tributo: fa parte della fase di accertamento. Viene notificato al contribuente indicando l’importo da pagare entro 60 giorni e le ragioni (ad es. maggior imposta per perdita agevolazione). La cartella di pagamento, invece, è emessa dall’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione) e ingiunge il pagamento di somme iscritte a ruolo entro 60 giorni. In sostanza, la cartella è lo strumento della fase di riscossione coattiva: viene dopo un avviso non pagato (o dopo altre procedure, come controlli automatizzati). La cartella aggiunge interessi di mora (dal giorno di iscrizione a ruolo) e spese di notifica/aggio. Esempio: l’avviso di liquidazione ti chiede €100 con sanzioni 30%; se non paghi, la cartella magari ti chiederà €100 + 6% aggio + interessi di mora. Tecnicamente, alcuni avvisi (specie accertamenti recenti) valgono già come titolo esecutivo e vengono riscossi senza cartella. Ma concettualmente:

  • Avviso = “Ti ho ricalcolato l’imposta, paga entro 60gg o contesta”.
  • Cartella = “Non hai pagato, ora paga entro 60gg o procedo a farti eseguire il pagamento forzatamente”.
    In breve, l’avviso nasce da Agenzia Entrate o ente creditore, la cartella da Agenzia Riscossione; l’avviso è impugnabile nel merito, la cartella di norma no (si può impugnare solo per vizi formali o vizi dell’atto presupposto) a meno che non contenga per la prima volta la pretesa tributaria.

• Posso rateizzare l’importo di un avviso di liquidazione?
Sì, esistono possibilità di rateazione, anche se le modalità variano a seconda della fase:

  • Prima della cartella: per avvisi emessi dall’Agenzia delle Entrate, se il contribuente non riesce a pagare tutto subito, può chiedere all’ufficio una rateizzazione ai sensi dell’art. 8 D.Lgs. 218/1997 e norme collegate. Generalmente, l’Agenzia concede fino a 8 rate trimestrali per importi fino a €50.000, e fino a 16 rate trimestrali per importi superiori. È necessario presentare istanza motivando le difficoltà finanziarie. Durante l’attesa dell’esito, l’avviso non viene inviato a ruolo. Se la rateizzazione è accordata, il contribuente paga la prima rata entro 30 giorni e l’avviso non diventa esecutivo finché si rispettano le rate. Si pagano interessi di dilazione sulle rate (recentemente ridotti al 2% annuo per le rate concessa dall’AdE dal 2023). NB: la richiesta di rateazione interrompe la decadenza dell’avviso: se presenti l’istanza, non devi anche ricorrere entro 60 gg, ma se salta la rateazione potresti trovarti fuori tempo per ricorrere – quindi valutare bene con l’ufficio.
  • Dopo la cartella/esecuzione: se il debito è già passato all’Agenzia Entrate-Riscossione (cartella, ingiunzione locale), puoi chiedere una rateizzazione al concessionario ex art. 19 DPR 602/73. Attualmente si possono ottenere piani fino a 72 rate mensili (6 anni) per importi fino a €120.000 senza dover dimostrare lo stato di difficoltà, e piani fino a 120 rate (10 anni) per importi maggiori o comprovate gravi difficoltà. La soglia di accesso senza documentazione è stata ampliata nel 2023. Il tasso di interesse sulle rate di AER è fissato per legge (recentemente abbassato al 2% annuo dal 2023). Se la rateizzazione è concessa, l’Agente sospende le azioni esecutive a patto che tu paghi puntualmente le rate.
    In entrambi i casi, la rateazione è un diritto se rispetti i requisiti (AER ad es. concede automatica fino €120k). Quindi, se non puoi pagare in un’unica soluzione, chiedi subito la dilazione: eviterai misure drastiche e potrai spalmare il debito. Importante: decadere dal piano (saltare troppe rate) fa perdere i benefici e tutto il debito residuo torna esigibile in un colpo.

• L’avviso di liquidazione è sempre impugnabile?
Di norma, , un avviso di liquidazione costituisce un atto impugnabile davanti al giudice tributario. Rientra tra gli atti elencati dall’art. 19 D.Lgs. 546/92 (“avvisi di accertamento in materia di imposte… e ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità”). Essendo un atto che liquida un tributo e ne ingiunge il pagamento, puoi proporre ricorso entro 60 giorni dalla notifica. Fanno eccezione le comunicazioni di irregolarità (“avvisi bonari”) che non sono atti impugnabili: in quel caso, come visto, si deve attendere eventualmente la cartella per fare ricorso. Ma l’“avviso di liquidazione” in senso proprio (ad esempio quello su imposta registro, successione, ecc.) è direttamente impugnabile. Ci sono stati dubbi in passato su atti liquidatori “meramente liquidatori” (ad esempio avvisi di liquidazione derivanti da controlli formali, dove uno potrebbe pensare serva prima l’iscrizione a ruolo): la giurisprudenza ha chiarito che vanno impugnati subito. Quindi, se ricevi un avviso di liquidazione con cui l’ente ti chiede soldi, non aspettare la cartella: quel che contesti (sia esso il merito del tributo o un vizio formale) devi contestarlo impugnando l’avviso nelle sedi dovute. Se lasci passare 60 giorni senza fare nulla, l’avviso diviene definitivo e non potrai più discutere nel merito quella pretesa. Potrai solo, eventualmente, impugnare la successiva cartella per vizi di notifica dell’avviso stesso, ma non potrai più sostenere ad esempio “non dovevo quell’imposta” se non l’hai fatto nel termine.

• Cosa posso fare se ho perso il termine per impugnare?
Se i 60 giorni sono trascorsi e non hai presentato ricorso, l’avviso è divenuto definitivo. A quel punto, le possibilità di difesa sul merito del tributo sono praticamente precluse. Tuttavia, non tutto è perduto in assoluto:

  • Puoi ancora presentare un’istanza di autotutela all’Amministrazione sperando in un annullamento volontario, ma è discrezionale.
  • Quando arriverà la cartella o l’atto esecutivo, potrai impugnarlo limitatamente a eventuali vizi ulteriori: ad esempio, se non ti era stato notificato regolarmente l’avviso, potrai impugnare la cartella eccependo la mancata notifica dell’atto presupposto. Oppure, se la cartella è viziata essa stessa (somme sbagliate, notifica nulla, ecc.), potrai fare opposizione su quei profili. Ma non potrai discutere del “perché” dovevi o meno pagare il tributo originario: quello, tacendo nei 60 gg, è ormai incontrovertibile.
  • In casi eccezionali, se emergono fatti nuovi importantissimi o se l’atto è gravemente viziato da inesistenza (ad es. notifica completamente inesistente), si può provare un ricorso tardivo sostenendo di aver avuto conoscenza dell’atto solo con la cartella. La Cassazione però su questo è rigorosa e ammette solo vizi di notifica come giustificazione per impugnare dopo, impugnando l’atto consequenziale.
  • C’è anche il rimedio del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica entro 120 gg, in alternativa al ricorso giurisdizionale, ma è poco utilizzato in materia tributaria.
    In sintesi: se hai lasciato scadere i termini, concentrati su soluzioni pragmatiche (rateizza, transa se possibile con definizioni agevolate, ecc.) più che su battaglie legali ormai precluse. E ricorda per il futuro di non far decorrere inutilmente i termini di impugnazione: è meglio presentare un ricorso (anche solo per guadagnare tempo) che rimanere senza difese.

• Cosa succede se perdo il ricorso tributario?
Se il tuo ricorso viene respinto con sentenza definitiva (o se rinunci all’appello e la sentenza di primo grado sfavorevole passa in giudicato), in linea di principio dovrai pagare tutto il dovuto più eventuali interessi maturati durante il processo. Una volta conclusa la lite:

  • L’avviso (o la cartella) diventa definitivo esecutivo. Se avevi ottenuto sospensioni, queste cessano. L’Agente della Riscossione può procedere subito al recupero forzoso se non paghi.
  • Spesso le sentenze di appello condannano anche al pagamento delle spese di lite a favore dell’ufficio, che dovrai versare (di solito con F24 all’Erario per quelle di Agenzia Entrate). Importo variabile, deciso dal giudice.
  • Gli interessi continuano a decorrere fino al saldo. Ad esempio, Cassazione ha chiarito che se c’era una sospensione giudiziale, gli interessi di mora non maturano in quel periodo, ma quelli legali sul tributo sì. Quindi più dura la lite, più interessi pagherai se perdi.
  • Se la sentenza è parzialmente sfavorevole (tipo riduce l’importo), pagherai solo quanto stabilito dal giudice.
  • Importante: a volte dopo aver perso si può accedere a qualche definizione agevolata (lo Stato negli ultimi anni ha varato condoni su liti pendenti, ma ora hai perso quindi non pendente – salvo riaperture straordinarie).
  • Esempio: Tizio ricorre per €10.000, perde in appello nel 2025. Deve pagare i €10.000 + interessi maturati (poniamo €1.000) + spese €2.000. Totale €13.000. Se non paga entro breve, AER riprende/esegue pignoramenti.
    In altre parole, perdere la causa significa che la posizione debitoria peggiora, perché si sono aggiunti anni di interessi e costi legali. Dunque, conviene sempre fare un’analisi costi-benefici all’inizio del contenzioso: se è per prendere tempo, ok, ma se le probabilità di vittoria sono basse, forse era meglio aderire prima e pagare meno.

• Un avviso da un Comune (IMU/TARI) ha lo stesso iter?
Sì, grosso modo. Dal 2020 in poi, gli avvisi di accertamento dei Comuni per IMU, TARI e altri tributi locali sono “esecutivi” proprio come quelli statali. Ciò significa che, se non paghi entro 60 giorni, il Comune può procedere al recupero forzoso senza bisogno di cartella esattoriale. In pratica l’avviso comunale vale anche come titolo per la riscossione. Per il resto:

  • Puoi impugnarlo davanti alla stessa giurisdizione tributaria (Corti di Giustizia Tributarie) entro 60 gg.
  • Se non paghi né ricorri, dopo 60 gg il Comune può affidare il debito all’Agente Riscossione o attivare direttamente un’ingiunzione. Spesso inviano un sollecito o un preavviso (es. preavviso di fermo) ma non sono obbligati.
  • Sanzioni e interessi: per IMU/TARI l’omesso pagamento comporta sanzione del 30% (omesso versamento) e interessi (spesso al tasso legale o quello stabilito dal regolamento comunale). Anche qui, pagando entro 60 gg con ravvedimento operoso puoi avere sanzioni ridotte, ma quando arriva l’avviso sei già a sanzione piena 30%.
  • Misure cautelari/esecutive: identiche: fermo auto, ipoteca (sopra 20k), pignoramenti. L’Agente Riscossione svolge spesso la parte esecutiva anche per i Comuni.
  • Se perdi il ricorso, devi pagare come per tributi erariali.
    In sintesi, non pagare un avviso IMU o TARI porta alle ganasce fiscali allo stesso modo. La differenza è che l’interlocutore iniziale è il Comune (o concessionario locale) e non c’è la mediazione/reclamo (abolita) ma c’era poco anche prima. I termini di prescrizione per IMU/TARI sono 5 anni in genere (più brevi delle imposte erariali). Dunque, attenzione a non sottovalutare gli avvisi “locali”: il meccanismo di riscossione coattiva ormai è allineato a quello statale, e ignorarli comporta effetti analoghi.

• Ho ricevuto un avviso di liquidazione mentre la mia società è in liquidazione: ne rispondo personalmente?
Dipende. Finché la società esiste (anche se in liquidazione), è sempre la società il soggetto debitore. Tuttavia, i liquidatori della società devono pagare i debiti fiscali con le risorse sociali prima di distribuire attivo ai soci. Se la società viene cancellata con debiti tributari non pagati, l’Agenzia può rivalersi:

  • Sul patrimonio sociale residuo (se c’è stato un errore nella liquidazione).
  • Sul liquidatore stesso nei limiti delle somme distratte ai soci invece di pagare il Fisco. In pratica, se il liquidatore ha pagato i soci (o altri creditori di grado inferiore) lasciando impagate le imposte, lui risponde fino alla concorrenza di quanto impropriamente distribuito.
  • Sui soci, ma solo se hanno ricevuto riparti di attivo: rispondono ciascuno fino a quanto ricevuto (beneficio d’inventario).
  • Gli amministratori (prima della liquidazione) potrebbero rispondere se c’è stato illecito, ma è più complesso (richiede dimostrare mala gestio).
    Perciò, se sei liquidatore e non puoi pagare quell’avviso per mancanza di fondi sociali, non distribuire nulla ai soci e chiudi la società a zero: così eviti responsabilità personali. Se invece hai già distribuito e poi spunta l’avviso, potresti dover rispondere. In ambito di procedure concorsuali (fallimento, concordato), gli avvisi diventano crediti insinuati al passivo; il liquidatore giudiziale li tratterà secondo le regole (di solito crediti privilegiati). I professionisti individuali e imprenditori individuali invece rispondono sempre in proprio (non c’è schermo societario). In sostanza, la personalizzazione del debito varia col tipo di soggetto giuridico. Ma il Fisco ha strumenti per perseguire liquidatori negligenti, come da giurisprudenza consolidata (Cass. civ. sez. trib. n. 24230/2011, etc.).

Conclusione: dal punto di vista del debitore, non pagare un avviso di liquidazione può portare a una spirale di aggravio economico (sanzioni piene, interessi, aggio) e rischi sul patrimonio (ganasce fiscali, pignoramenti). È fondamentale agire subito: valutare la correttezza dell’atto, consultare un esperto, ed esercitare i propri diritti (pagamento agevolato, richiesta di rate, ricorso, adesione o autotutela). Ogni situazione ha le sue peculiarità normative, ma il denominatore comune è che ignorare il problema lo peggiora. Meglio affrontarlo con gli strumenti offerti dall’ordinamento, che – come abbiamo visto – includono anche molte tutele per il contribuente (dalla sospensione giudiziale alle soglie di impignorabilità). Con un comportamento proattivo e informato, il debitore può spesso risolvere il debito in modo sostenibile oppure far valere le proprie ragioni se il Fisco ha sbagliato, evitando conseguenze irreversibili sul proprio patrimonio.

Fonti e riferimenti

Normativa:

  • D.P.R. 29/09/1973 n.600, art.36-bis (liquidazioni automatiche dichiarazioni) e D.P.R. 26/10/1972 n.633, art.54-bis – Controlli formali e comunicazioni di irregolarità.
  • D.P.R. 26/04/1986 n.131 (Testo Unico Imposta di Registro), artt. 71, 76, 78 – Accertamento di valore, termini di decadenza (5 anni, 3 anni, 2 anni), prescrizione decennale.
  • D.Lgs. 31/10/1990 n.346 (Testo Unico Successioni e Donazioni), artt. 27, 33 – Termini di decadenza per accertamento in materia di successioni: 2 anni dalla dichiarazione (dal 2015), 5 anni se omessa.
  • D.Lgs. 18/12/1997 n.472, artt. 5, 6, 13 – Sanzioni tributarie: dichiarazione infedele (minimo 90% imposta evasa); cause di non punibilità per buona fede/assenza di colpa; ravvedimento operoso (riduzione sanzioni).
  • D.Lgs. 18/12/1997 n.471, art.13 – Sanzione per omesso versamento (30% dell’importo non versato).
  • D.Lgs. 31/12/1992 n.546, artt. 19, 47, 48 – Atti impugnabili (inclusi avvisi di liquidazione), Sospensione dell’atto impugnato, Conciliazione giudiziale. (Nota: modifiche L.130/2022 sulla mediazione e riscossione in pendenza di giudizio.)
  • D.P.R. 29/09/1973 n.602, artt. 14, 50, 77, 86 – Iscrizione a ruolo; intimazione di pagamento dopo 6 mesi dalla notifica cartella; iscrizione ipotecaria (soglia €20.000); fermo amministrativo (facoltà su beni mobili registrati).
  • Legge 27/07/2000 n.212 (Statuto del Contribuente), artt. 7, 8, 10, 10-bis – Obbligo di motivazione degli atti tributari; indicazione del responsabile; tutela dell’affidamento e buona fede; non sanzionabilità per obiettiva incertezza normativa.
  • Legge 160/2019, art. 1 commi 792-804 – Introduzione dell’accertamento esecutivo per i tributi locali dal 01/01/2020: gli avvisi IMU/TARI diventano esecutivi dopo 60 gg senza cartella.
  • DL 34/2020 (Decreto Rilancio) art.24 – Sospensione termini agevolazione prima casa durante emergenza Covid (23/02–31/12/2020) e proroghe successive (DL 23/2020 conv. L. 40/2020).
  • DLgs. 218/1997, artt. 6, 8, 15 – Accertamento con adesione (istanza entro 60 gg, sospensione termini ricorso 90 gg, riduzione sanzioni 1/3); definizione agevolata (acquiescenza, sanzioni 1/3); rateizzazione somme dovute dopo adesione (max 8 rate trimestrali, 12 se >€51.645).
  • DLgs. 546/1992, art.68 – (Nella versione antecedente riforma) Pagamento provvisorio frazioni di imposta in pendenza di giudizio (1/3 dopo sentenza 1° grado, 2/3 dopo 2°). Abrogato dalla L.130/2022.

Prassi amministrativa:

  • Agenzia delle Entrate – Circolare n.30/E del 29/12/2015, §8 – Chiarimenti su sanzioni in dichiarazione (riduzione sanzione infedele dal 100%-200% al 90% con D.Lgs.158/2015).
  • Agenzia Entrate-Riscossione – Linee guida: procedure cautelari/esecutive – Fermo amministrativo: preavviso e soglia di importo (generalmente >€1.000); Ipoteca: soglia €20.000, obbligo preavviso 30 gg; Pignoramento prima casa: divieto su unico immobile non di lusso se residenza (DL 69/2013).
  • Ministero Economia – Risoluzione MEF n.8/DF del 2021 – Chiarimenti su accertamenti esecutivi enti locali e termine prescrizione/decadenza per IMU. (Conferma prescrizione quinquennale IMU, ma accertamento esecutivo da notificare entro 5 anni).

Giurisprudenza (sentenze):

  • Cass. civ. Sez. Un. n.10012/2021 – Omessa notifica atto presupposto = nullità atto consequenziale. Il contribuente può impugnare direttamente l’atto consequenziale (cartella) per far valere il vizio originario.
  • Cass. civ. Sez. Trib. n.2039/2022 – Necessità di motivazione chiara nell’avviso di liquidazione: l’atto deve indicare sia il titolo che l’importo e le ragioni, non basta enunciare criteri astratti. Vietata la “motivazione ad opponendum” (rinviare tutto al ricorso).
  • Cass. civ. Sez. Trib. n.21564/2013 – Avviso di liquidazione: obbligo di motivazione integrale, richiamo a elementi essenziali. (Conferma principi Statuto contribuente art.7).
  • Cass. civ. Sez. VI-5, ord. n.380/2017 – Ipoteca esattoriale nulla se priva di preavviso al contribuente (violazione contraddittorio).
  • Cass. civ. Sez. Trib. n.13665/2018 – Motivazione avviso insufficiente se non permette di collegare l’imposta richiesta all’atto tassato (in caso di registro su atti giudiziari, necessario indicare estremi atto soggetto a tassazione).
  • Cass. civ. Sez. Trib. n.11113/2020 – Prescrizione decennale si applica anche a sanzioni e interessi accessori: non esiste termine breve autonomo per interessi di mora, seguono il tributo.
  • Cass. civ. Sez. Trib. n.1042/2023 – Avviso/accertamento privo dell’indicazione del responsabile del procedimento: non comporta nullità se il contribuente non dimostra un pregiudizio concreto (orientamento recente verso la tassatività delle nullità).
  • Cass. civ. Sez. Trib. n.26508/2021 – Onere della prova della notifica: l’ente deve esibire l’avviso di ricevimento della raccomandata CAD (comunicazione di deposito) per provare perfezionamento notifica postale. In mancanza, notifica inesistente dell’atto presupposto e nullità conseguente dell’atto successivo.
  • Cass. civ. Sez. Trib. n.24488/2023 – (In materia di agevolazione prima casa in successione) Termine 18 mesi per trasferire residenza: decorre dalla data di apertura successione e la decadenza va accertata entro termini di decadenza specifici. Conferma che l’ufficio non può attendere indefinitamente: decadenza dall’agevolazione soggetta a termine (principio applicabile per analogia alle compravendite prima casa, con termine dal rogito).
  • Cass. civ. Sez. Trib. n.30039/2018 – Motivazione avviso di liquidazione su sentenza civile: insufficiente se si limita a indicare gli estremi della sentenza senza allegarla. (Orientamento poi superato da Cass. SU 34447/2019: per registro su sentenza basta richiamo alla sentenza tassata, non serve allegare copia, purché il contribuente sia parte di quel giudizio e quindi a conoscenza – scenario diverso dagli avvisi qui trattati, ma importante per comprendere obblighi motivazionali).
  • CTR Lazio, sent. n.186/2023 – Ha statuito che gli interessi di mora non decorrono durante la sospensione giudiziale della riscossione (conforme a principio generale: il provvedimento sospende anche i carichi accessori collegati all’esigibilità).

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L’avviso di liquidazione è l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate richiede il pagamento di imposte, tasse o tributi già determinati (ad esempio imposta di registro, successione o ipotecaria). Se non viene pagato entro la scadenza, il debito viene iscritto a ruolo e trasferito all’Agenzia delle Entrate-Riscossione, che potrà attivare azioni esecutive: cartelle esattoriali, pignoramenti, fermi amministrativi e ipoteche. Inoltre, si aggiungono sanzioni e interessi, facendo crescere l’importo iniziale.


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Conclusione
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