Vuoi sapere cosa succede nei casi di reati fiscali senza dolo?
Non tutti i comportamenti contestati dal Fisco derivano da frodi o condotte volontarie. Spesso si tratta di errori, irregolarità formali o violazioni commesse senza l’intenzione di evadere le imposte. In questi casi, la legge e la giurisprudenza distinguono nettamente tra dolo (intenzione di commettere il reato) e colpa (negligenza, imprudenza o imperizia).
Cosa significa reato fiscale senza dolo
– È la violazione delle norme tributarie commessa senza la volontà di evadere le imposte
– Deriva da errori tecnici, mancanza di competenza o problemi organizzativi dell’impresa
– Può riguardare adempimenti omessi o inesatti senza alcun intento fraudolento
– Non rientra tra i reati penali tributari più gravi, che richiedono il dolo specifico
Esempi tipici
– Errori di compilazione nella dichiarazione dei redditi o IVA
– Ritardi nei versamenti dovuti a difficoltà di liquidità
– Irregolarità nella tenuta della contabilità non finalizzate a nascondere ricavi
– Mancata presentazione di documenti per semplice negligenza o disorganizzazione
Perché la distinzione è importante
– I reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000 richiedono quasi sempre il dolo specifico (cioè la volontà di evadere)
– Se manca l’elemento soggettivo del dolo, la responsabilità penale può cadere
– In questi casi, la violazione può restare rilevante solo sul piano amministrativo, con sanzioni pecuniarie ridotte
Come difendersi in caso di contestazioni
– Dimostrare con documenti e prove che l’errore è stato commesso in buona fede
– Ricostruire le circostanze che hanno portato alla violazione (ad esempio errori di consulenti o software)
– Richiedere la riqualificazione della violazione da penale ad amministrativa
– Usufruire di istituti come il ravvedimento operoso per sanare spontaneamente l’irregolarità
– Impugnare gli atti davanti al giudice competente per far valere l’assenza di dolo
Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’esclusione della responsabilità penale in mancanza di dolo
– La riduzione delle sanzioni amministrative
– La sospensione di cartelle o procedure esecutive collegate all’atto contestato
– La tutela del patrimonio e della reputazione professionale
– La possibilità di chiudere la controversia senza conseguenze penali
Attenzione: non tutti gli errori fiscali costituiscono reato. La legge punisce solo le condotte fraudolente e volontarie. Le violazioni senza dolo possono essere sanate o ridotte se affrontate con la giusta strategia difensiva.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in reati tributari, contenzioso fiscale e difesa del contribuente – ti spiega cosa significa reato fiscale senza dolo, come viene trattato dalla legge e quali strumenti hai per difenderti.
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Introduzione
I reati fiscali “senza dolo” (espressione colloquiale con cui ci si riferisce ai delitti tributari non connotati da condotte fraudolente o artifici particolarmente insidiosi) costituiscono un insieme di illeciti penali in materia tributaria previsti dal D.lgs. 74/2000. Si tratta di fattispecie nelle quali il contribuente viola gravemente gli obblighi fiscali (dichiarativi o di versamento), pur senza ricorrere a fatture false, documenti fittizi o artifizi fraudolenti. In altre parole, a differenza dei reati di frode fiscale in senso stretto – come la dichiarazione fraudolenta mediante fatture false o altri artifici (artt. 2 e 3 D.lgs. 74/2000) o l’emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8) – nei reati “senza dolo [specifico]” il contribuente realizza un’evasione omissiva o “semplice”, priva di falsificazioni documentali. Esempi tipici sono la dichiarazione infedele (dichiarare meno redditi di quelli reali), l’omessa dichiarazione (non presentare affatto la dichiarazione dei redditi o IVA), l’omesso versamento di imposte dovute (IVA o ritenute) e l’indebita compensazione di crediti tributari non spettanti. In ciascuno di questi casi la legge richiede comunque una significativa entità dell’evasione prima di far scattare la sanzione penale (sono previste soglie di punibilità in euro), e punisce condotte generalmente caratterizzate da dolo generico di evasione (cioè la volontà di non pagare le imposte dovute) ma senza l’aggravante di manovre fraudolente.
Questa guida offre un approfondimento avanzato – scritto in linguaggio tecnico-giuridico ma con intento divulgativo – su tutti i principali reati tributari “senza dolo” previsti dall’ordinamento italiano, aggiornati alle più recenti novità normative e giurisprudenziali (fino a luglio 2025). Saranno esaminate in dettaglio le fattispecie di reato (elementi costitutivi, soglie, pene), con riferimenti al punto di vista del contribuente (ossia del debitore d’imposta che si trovi imputato o a rischio di incriminazione), nonché gli aspetti procedurali di rilievo: dalle indagini preliminari al sequestro preventivo e confisca dei beni, dai termini di prescrizione ai possibili esiti alternativi (cause di non punibilità, patteggiamento, ecc.). Troverete inoltre tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione di domande e risposte per chiarire i dubbi più frequenti. L’obiettivo è fornire a professionisti (avvocati, commercialisti) ma anche a imprenditori e privati cittadini uno strumento completo per orientarsi nella disciplina penal-tributaria attuale, alla luce di riforme recentissime come il D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 (cd. “decreto sanzioni tributarie 2024”) e delle più importanti sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale.
Nota bene: i reati qui trattati riguardano l’ordinamento italiano e le imposte sui redditi e IVA. Non saranno invece approfonditi gli illeciti relativi ad altri ambiti (ad es. violazioni contributive previdenziali) né i reati tributari a carattere fraudolento espressamente previsti dal D.Lgs. 74/2000 (come le dichiarazioni fraudolente ex artt. 2 e 3, o l’emissione/utilizzo di fatture false ex artt. 8 e 2), se non per brevi cenni comparativi. Inoltre, useremo talora la locuzione “dolo” in senso non tecnico, per indicare l’assenza di artifizi fraudolenti nelle condotte: si tenga presente che, trattandosi pur sempre di delitti, tutti i reati tributari esaminati richiedono quantomeno la consapevolezza e volontà di omettere il pagamento o la dichiarazione (dolo generico).
Passiamo ora a esaminare le singole fattispecie di reato tributario senza frode, presentando dapprima un quadro generale in tabella delle loro caratteristiche essenziali.
Reati tributari “senza dolo”: elenco, soglie e pene
Come premesso, i delitti penal-tributari non fraudolenti si possono suddividere in due macro-categorie: reati dichiarativi omissivi o “infedeli” (in cui si viola l’obbligo di presentare la dichiarazione fiscale annuale, o la si presenta incompleta) e reati di omesso pagamento/versamento di imposte (“reati da riscossione”). A essi si aggiungono alcuni reati strumentali, come l’occultamento di documenti contabili (che mira a ostacolare eventuali accertamenti) e la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (che, pur includendo nel nome la parola “fraudolenta”, riguarda atti dispositivi sui beni del debitore per frustrare la riscossione). Nella tabella seguente riepiloghiamo i principali reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000 oggetto di questa guida, indicando per ciascuno: la condotta tipica punita, la soglia di punibilità (ove prevista) e la pena edittale attualmente stabilita dalla legge.
Tabella 1 – Principali reati tributari “non fraudolenti” (D.Lgs. 74/2000)
Articolo | Reato tributario | Condotta punita | Soglia di punibilità | Pena edittale |
---|---|---|---|---|
Art. 4 | Dichiarazione infedele | Indicare in dichiarazione annuale elementi attivi inferiori a quelli reali (o elementi passivi fittizi), senza usare fatture false o altri mezzi fraudolenti (infedeltà “semplice”, non qualificata da frode). | Imposta evasa > €100.000 e elementi non dichiarati > 10% del totale degli elementi attivi dichiarati oppure > €2.000.000. | Reclusione da 2 a 5 anni (pena aumentata dalla riforma 2019, prima max 4½). |
Art. 5 | Omessa dichiarazione | Non presentare la dichiarazione annuale obbligatoria (redditi, IVA o modello 770 sostituto d’imposta) entro il termine di legge, al fine di evadere le imposte dovute. | Imposta evasa > €50.000 per ciascuna imposta evasa (soglia attuale). N.B.: Non costituisce reato la dichiarazione presentata con ritardo ≤ 90 giorni (ritardo lieve). | Reclusione da 2 a 6 anni (pena base aumentata a max 6 anni dal 2019, prima era 5 anni). |
Art. 10 | Occultamento o distruzione di documenti contabili | Occultare o distruggere in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti la cui conservazione è obbligatoria, al fine di evadere le imposte (proprie o di terzi), in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari. | Nessuna soglia di importo: il reato sussiste se la condotta rende anche solo in parte impossibile ricostruire i conti. | Reclusione da 3 a 7 anni. |
Art. 10-bis | Omesso versamento di ritenute dovute o certificate | Non versare, entro il termine per la presentazione della dichiarazione annuale (Mod. 770), le ritenute operate in qualità di sostituto d’imposta (es. ritenute sui salari), per importi significativi. | Ritenute non versate > €150.000 per periodo d’imposta. È necessario che le ritenute risultino certificate ai percipienti perché vi sia reato (vedi approfondimento su recente sentenza Corte Cost. 175/2022 infra). | Reclusione da 6 mesi a 2 anni. (Delitto a consumazione istantanea al termine di presentazione del 770). |
Art. 10-ter | Omesso versamento IVA | Non versare, entro il termine previsto (originariamente il termine per il versamento dell’acconto IVA dell’anno successivo, ora fissato al 31 dicembre), l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale, quando l’importo è rilevante. | IVA non versata > €250.000 per ciascun periodo d’imposta. (Soglia elevata dall’intervento del 2015, era €50.000 in origine). Consumato alla scadenza (attualmente 31 dicembre dell’anno successivo al dichiarante). | Reclusione da 6 mesi a 2 anni. |
Art. 10-quater, co.1 | Indebita compensazione di crediti non spettanti | Compensare indebitamente (ex art. 17 D.Lgs. 241/1997) debiti d’imposta con crediti tributari non spettanti, riducendo o azzerando i versamenti dovuti (es. utilizzo di crediti reali ma fuori dai casi consentiti o oltre i limiti). | Importo indebitamente compensato > €50.000 annui. (Nota: è prevista la non punibilità se la violazione dipende da obiettiva incertezza sui requisiti di spettanza del credito, v. infra). | Reclusione da 6 mesi a 2 anni. |
Art. 10-quater, co.2 | Indebita compensazione di crediti inesistenti | Compensare debiti d’imposta utilizzando crediti fiscali inesistenti, cioè fittizi (mai realmente maturati), spesso frutto di atti fraudolenti o simulazioni contabili. | Importo compensato con crediti inesistenti > €50.000 annui. | Reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni. (Trattamento più severo rispetto al co.1, data la natura fraudolenta della condotta). |
Art. 11 | Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte | Compiere atti fraudolenti sui propri o altrui beni (es. alienazioni simulate, vendite fittizie, creazione di garanzie fasulle) al fine di sottrarsi al pagamento di imposte (o relativi interessi/sanzioni) già dovute, rendendo in tutto o in parte inefficace la riscossione coattiva. Comprende anche il caso di false indicazioni in una procedura di transazione fiscale (piano di rientro col Fisco). | Imposte (o sanzioni/interessi) non pagate oggetto di sottrazione > €50.000. (Aggravante: se l’importo > €100.000, pene aumentate). | Reclusione da 6 mesi a 4 anni (debito > €50k), aumentata a 1 – 6 anni se debito > €100k. (Reato “trasversale”, presuppone dolo specifico di frode; incluso tra i reati-presupposto della responsabilità amministrativa degli enti – D.Lgs. 231/2001). |
Legenda: imposta evasa = la differenza d’imposta effettivamente non versata rispetto al dovuto; sostituto d’imposta = soggetto (es. datore di lavoro) che trattiene imposte per conto di terzi e deve riversarle all’Erario; credito non spettante = credito fiscale reale ma utilizzato senza averne diritto (es. per errata interpretazione della norma); credito inesistente = credito inesistente o fittizio, privo di base giuridica, spesso creato fraudolentemente. Le soglie si intendono per singolo periodo d’imposta. Tutti i delitti elencati richiedono il dolo (volontà cosciente di omettere il pagamento o la dichiarazione); l’indicazione “senza frode” evidenzia solo che non occorre, ai fini del reato, un’attività fraudolenta ulteriore (come false fatture, artifizi contabili ingannevoli, ecc.).
Dichiarazione infedele (art. 4 D.lgs. 74/2000)
Definizione: Il reato di dichiarazione infedele punisce il contribuente che, al fine di evadere le imposte, indica nella dichiarazione annuale (dei redditi o IVA) elementi attivi inferiori a quelli effettivi, oppure elementi passivi fittizi, in modo da far risultare un’imposta inferiore al dovuto. Si parla di “infedele” in contrapposizione a “fraudolenta”: qui l’infedeltà non è accompagnata da artifici insidiosi, ma consiste in una sottodichiarazione “semplice” di ricavi/proventi o in deduzioni indebite, senza adoperare fatture false o altri mezzi fraudolenti.
Soglie di punibilità: Il legislatore intende colpire penalmente solo le evasioni di un certo rilievo. Per configurare il reato ex art. 4 occorre infatti che contemporaneamente: (a) l’imposta evasa superi €100.000 (considerando ciascuna imposta, es. IRPEF o IVA); e (b) l’ammontare degli elementi sottratti a imposizione (redditi non dichiarati, costi fittizi) superi il 10% di quanto dichiarato complessivamente come elementi attivi, oppure comunque ecceda €2.000.000. In altri termini, la falsità nella dichiarazione deve incidere almeno per il 10% sul totale o oltre la soglia assoluta di due milioni. Se, ad esempio, un’impresa dichiara ricavi per 5 milioni ma ne ha occultati 1 milione (20%) evadendo 300.000 € di IRES, entrambe le soglie risultano superate; viceversa, omettere ricavi per 80.000 € con un’evasione d’imposta di 20.000 € non costituisce reato (resta però una grave violazione tributaria, sanzionata in via amministrativa).
Elemento soggettivo: È richiesto il dolo specifico di evasione – la norma punisce chi agisce “al fine di evadere le imposte”. Ciò implica la volontà deliberata di pagare meno tasse dichiarando il falso. Errori di calcolo o involontari nella dichiarazione non configurano il reato (ma il contribuente dovrà provare l’assenza di intenzionalità). In pratica però, vista la natura del reato, il dolo è spesso presunto dall’entità dell’alterazione: difficilmente omissioni così rilevanti possono essere casuali. Resta comunque onere della pubblica accusa provare che l’omissione fu consapevole e finalizzata all’evasione.
Pena prevista: La dichiarazione infedele è punita con la reclusione da 2 a 5 anni. Si noti che la Legge n. 157/2019 (di conversione del DL 124/2019) ha inasprito la pena massima portandola da 3 anni (previsti prima del 2015) poi 4 anni e 6 mesi (dopo il D.Lgs. 158/2015) infine a 5 anni attuali, in un’ottica di maggiore deterrenza. L’aumento oltre la soglia di 4 anni comporta tra l’altro la non applicabilità della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) a questo reato se commesso dopo l’entrata in vigore della riforma 2019, poiché la pena massima ora supera il limite di 5 anni (cfr. Cass. pen. Sez. III, 15/09/2023 n.37826, che ha escluso la tenuità per omessa dichiarazione dopo l’aumento della pena a 6 anni – principio estensibile al caso di specie).
Ambito oggettivo: L’art. 4 si riferisce alle dichiarazioni annuali dei redditi o IVA. La dichiarazione può essere infedele sia indicando elementi attivi inferiori (es.: ricavi omessi, plusvalenze non dichiarate) sia elementi passivi inesistenti (es.: costi finti, oneri deducibili falsi). Non rientra invece in art. 4 l’eventuale infedeltà nella dichiarazione dei sostituti d’imposta (Modello 770): quest’ultima condotta, se finalizzata all’evasione di ritenute, è sanzionata a parte (costituiva un autonomo reato di dichiarazione infedele del sostituto ex art. 6 D.Lgs. 74/2000, oggi in gran parte superato dall’art. 10-bis, v. oltre). Inoltre l’art. 4 esclude espressamente dal suo campo le falsità “mediante artifici” (che rientrano negli artt. 2 e 3, reati fraudolenti). Dunque qualora l’evasione sia realizzata con mezzi fraudolenti – ad esempio usando fatture false o mediante una contabilità doppiamente alterata – il fatto sarà riqualificato come dichiarazione fraudolenta e non come semplice infedele.
Decorrenza e prescrizione: Il reato si consuma al momento della presentazione della dichiarazione infedele (di regola, entro il 30 novembre dell’anno successivo a quello di imposta, salvo proroghe). Da tale data decorre il termine di prescrizione, che per la dichiarazione infedele è pari a 6 anni (in quanto la pena massima è 5 anni, ma essendo delitto, il minimo ex lege per la prescrizione è comunque 6 anni). Eventuali atti interruttivi nel processo (es. richiesta rinvio a giudizio) possono aumentare il termine di un quarto, portandolo fino a 7 anni e mezzo – tuttavia a seguito della riforma “Cartabia” 2022 va ricordato che il processo d’appello e di Cassazione devono concludersi entro termini prestabiliti, pena la improcedibilità, il che di fatto limita i tempi massimi di definizione (si veda più avanti la sezione sulla prescrizione e riforma Cartabia).
Casi pratici: Dal punto di vista dell’imprenditore o professionista che si accorge di aver presentato una dichiarazione incompleta, è fondamentale valutare rimedi “riparatori” tempestivi. Se l’errore viene scoperto prima di accertamenti fiscali o inchieste penali, il contribuente può ricorrere al ravvedimento operoso: presentando una dichiarazione integrativa e versando le maggiori imposte dovute (con sanzioni amministrative ridotte) entro i termini previsti, potrà beneficiare della causa di non punibilità prevista dall’art. 13, comma 2 D.Lgs. 74/2000 (che esonera da responsabilità penale per infedele dichiarazione chi regolarizza spontaneamente la propria posizione fiscale prima di essere scoperto – v. oltre). Ad esempio, un contribuente che, dopo aver omesso €300.000 di imponibile, presenti una dichiarazione integrativa prima dell’avvio di verifiche fiscali, pagando il dovuto, non sarà punibile per dichiarazione infedele. Se invece l’infedeltà emerge in sede di verifica dalla Guardia di Finanza o controllo dell’Agenzia Entrate prima che il contribuente si ravveda, partirà quasi sicuramente la notizia di reato alla Procura: in tal caso la difesa potrà puntare, ove possibile, a dimostrare che l’errore non fu doloso (ad es. errori contabili non intenzionali) oppure a risarcire il danno erariale prima del dibattimento, così da ottenere quantomeno attenuanti in sede di pena.
Omessa dichiarazione (art. 5 D.lgs. 74/2000)
Definizione: L’omessa dichiarazione è il reato commesso da chi, obbligato a presentare una delle dichiarazioni annuali fiscali (redditi, IVA, o la dichiarazione di sostituto d’imposta), non la presenta affatto entro il termine di legge, con l’intenzione di evadere le imposte dovute. È un reato omissivo istantaneo: si perfeziona con lo scadere del termine per la presentazione della dichiarazione (tipicamente il 30 novembre per Redditi e IVA, o il 31 ottobre per il modello 770 relativo alle ritenute). La legge equipara all’omessa anche la dichiarazione presentata con oltre 90 giorni di ritardo (mentre se presentata entro 90 giorni dal termine è considerata valida, seppure soggetta a sanzioni amministrative). Inoltre, una dichiarazione priva di firma o non conforme al modello ufficiale è considerata omessa. In pratica, l’art. 5 sanziona l’evasione attuata attraverso il silenzio dichiarativo: il contribuente evita del tutto di dichiarare, confidando di eludere i controlli.
Soglia di punibilità: Anche per l’omessa dichiarazione il legislatore ha introdotto una soglia minima di evasione necessaria perché scatti il penale. In particolare, il reato si configura solo se l’imposta evasa (con riferimento a una delle singole imposte dovute) supera €50.000. Ad esempio, se un contribuente omette la dichiarazione dei redditi e l’IRPEF evasa stimata è di €30.000, il fatto rimane nell’ambito amministrativo; se invece l’evasione d’imposta è €60.000, allora scatta il reato. Va considerata ciascuna imposta separatamente: l’omessa dichiarazione IVA sopra soglia costituisce reato autonomo dall’omessa dichiarazione dei redditi (che potrebbe anche mancare contestualmente). Per il 770 (sostituto d’imposta), la soglia è la stessa (€50.000 di ritenute non versate): l’art. 5 infatti punisce anche chi omette la dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, quando l’ammontare delle ritenute non versate eccede €50.000. In pratica, omettere il modello 770 con oltre 50k di ritenute non pagate realizza due illeciti: omessa dichiarazione (art. 5) e anche omesso versamento di ritenute (art. 10-bis) – di solito contestati insieme.
Elemento soggettivo: Richiesto il dolo specifico di evasione (“al fine di evadere le imposte”). Ciò esclude che sia punibile chi, senza volontà evasiva, omette per errore scusabile o cause di forza maggiore (anche se tali situazioni, nella pratica, sono difficili da dimostrare: es. un contribuente gravemente malato nell’intero periodo, ecc.). La giurisprudenza è tendenzialmente rigorosa: la scelta di non presentare affatto la dichiarazione, specie se accompagnata dal mancato versamento di imposte, è di per sé sintomo di volontà di evasione. Ad esempio, Cassazione pen. Sez. III, 28/01/2022 n.3273 ha affermato che nell’omessa dichiarazione “la crisi di liquidità o la mancata riscossione di crediti non escludono il dolo”, rientrando nell’ordinario rischio d’impresa. Dunque il disagio finanziario non giustifica di per sé l’omissione dichiarativa, a meno che si traduca in una vera forza maggiore (evento imprevedibile e non evitabile).
Pena prevista: La sanzione è la reclusione da 2 a 6 anni. Come già accennato, la riforma del 2019 ha aumentato il massimo edittale da 5 a 6 anni, equiparando di fatto l’omessa dichiarazione, in termini di gravità, ai più seri reati fraudolenti (che vanno fino a 8 anni). L’innalzamento a 6 anni comporta, tra l’altro, che anche per l’omessa dichiarazione non è applicabile la causa di particolare tenuità del fatto ex art.131-bis c.p. (limite di 5 anni superato). In compenso, la soglia di punibilità relativamente bassa (€50k) fa sì che nelle contestazioni giudiziarie questo reato sia abbastanza frequente per piccole imprese e professionisti, talora con importi evasi di poco superiori alla soglia: in tali casi la sospensione condizionale della pena (se la condanna resta entro 2 anni) e l’assenza di precedenti possono evitare conseguenze detentive effettive.
Rapporti con altri reati: Spesso l’omessa dichiarazione si accompagna all’omesso versamento: ad esempio, chi non presenta la dichiarazione IVA verosimilmente non versa neppure l’imposta dovuta. Tuttavia le due incriminazioni (art. 5 e art. 10-ter) possono coesistere e punire due aspetti diversi: l’una l’omissione del documento fiscale, l’altra il mancato pagamento. In altre situazioni, l’omessa dichiarazione può mascherare una dichiarazione fraudolenta omessa (fattispecie residuale dell’art. 5 co.2, oggi di fatto abrogata) o si alterna con la dichiarazione infedele (se il contribuente alcuni anni omette del tutto, altri anni dichiara solo una parte).
Cause di non punibilità: L’art. 13, co.2 D.Lgs. 74/2000 prevede una speciale causa di non punibilità per chi presenta spontaneamente la dichiarazione omessa, pagando le imposte dovute, entro il termine di presentazione della dichiarazione per l’anno successivo. In sostanza, se il contribuente “si ravvede” entro l’anno seguente, colmando l’omissione prima di essere scoperto, non è punibile penalmente. Ad esempio, omessa la dichiarazione dei redditi 2023 (scad. nov 2024), se il contribuente la presenta entro il termine della dichiarazione 2024 (nov 2025) pagando il dovuto, evita il reato. È fondamentale però che ciò avvenga prima che l’autore abbia avuto formale notizia di verifiche o accertamenti in corso. Di questa opportunità parleremo meglio più avanti (vedi Ravvedimento operoso in “cause di non punibilità”).
Decorrenza e prescrizione: Il reato si perfeziona allo spirare del termine di legge (es. 30 novembre). La prescrizione decorre da tale giorno e, data la pena massima 6 anni, è di regola 6 anni (estensibile a 7 anni e 6 mesi con atti interruttivi). Anche qui, la riforma Cartabia impone la conclusione dei gradi superiori di giudizio entro tempi prefissati (2 anni in appello, 1 in Cassazione, salvo proroghe in casi complessi) per evitare l’estinzione del procedimento per improcedibilità. La soglia bassa comporta che molte omesse dichiarazioni riguardino importi vicini a 50-100k €; la particolare tenuità potrebbe teoricamente applicarsi se l’evaso è di poco sopra 50k e sussistono le altre condizioni (danno esiguo, non abitualità), ma la pena edittale a 6 anni sembra precluderla per stretta interpretazione.
Esempio pratico: Tizio, piccolo imprenditore in crisi di liquidità, omette di presentare la dichiarazione IVA 2024, non avendo versato l’IVA per €60.000. Nel 2025 subisce una verifica della Guardia di Finanza che scopre l’omissione: Tizio viene denunciato per omessa dichiarazione IVA (art. 5) e omesso versamento IVA (art. 10-ter). Come può difendersi Tizio? In fase investigativa, se Tizio riuscisse ora a versare integralmente l’IVA dovuta (magari mediante finanziamento), potrebbe giovarsi dell’art. 13 co.1 per l’omesso versamento (estinzione del reato pagando prima del dibattimento) – resterebbe però l’omessa dichiarazione. Per quest’ultima, Tizio potrebbe evidenziare che aveva presentato comunque le LIPE trimestrali IVA (comunicazioni periodiche) e che l’omissione formale della dichiarazione annuale è stata dovuta a confusione e difficoltà (difesa poco solida di per sé). Una strategia efficace sarebbe dimostrare che la crisi di liquidità non era imputabile a lui: ad esempio, l’unico cliente di Tizio è fallito senza pagarlo, rendendolo incapace di versare l’IVA. Oggi, grazie alla riforma 2024, se Tizio prova che il mancato pagamento dipende da insolvenza altrui e da una crisi di liquidità non temporanea fuori dal suo controllo, potrebbe invocare la nuova causa di non punibilità per forza maggiore sopravvenuta (art. 13 co.3-bis) anche per l’omesso versamento – e questo influirebbe positivamente sul giudizio complessivo. In ogni caso, patteggiare la pena (anche senza aver saldato tutto il debito, v. oltre) potrebbe essere una scelta per limitare i rischi.
Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 D.lgs. 74/2000)
Definizione: Questo delitto punisce chiunque, al fine di evadere le imposte (sui propri redditi o sull’IVA, o per consentire ad altri di evadere), occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari. In sintesi, l’imprenditore o professionista che sottrae alla verifica fiscale (nascondendoli o eliminandoli) i libri e registri contabili obbligatori commette reato, se ciò impedisce agli organi di controllo di accertare correttamente il suo giro d’affari.
Bene protetto e ratio: A differenza di altri reati tributari, qui non si tratta direttamente di omessi versamenti o false dichiarazioni, bensì di un comportamento che ostacola l’accertamento. È un reato strumentale, spesso collegato ad un’evasione sottostante: chi distrugge le scritture contabili probabilmente l’ha fatto per celare un’evasione (dichiarazione infedele) o preparare una futura insolvibilità pilotata. La norma tutela l’interesse dell’Amministrazione finanziaria a poter eseguire i controlli e ricostruire i redditi imponibili.
Elemento oggettivo: Le condotte tipiche sono: distruzione (materiale, anche parziale) o occultamento (sottrazione alla disponibilità dei verificatori) delle scritture contabili obbligatorie. Rientra nell’occultamento anche il mancato reperimento doloso: ad es., libri contabili “smarriti” ad arte, documenti portati all’estero, hard disk aziendale formattato prima della verifica. Deve trattarsi di documenti che il contribuente aveva l’obbligo legale di tenere o conservare (es. registri IVA, libro giornale, fatture, dichiarazioni, ecc.): se un documento facoltativo viene distrutto, non opera questa fattispecie (potrebbero casomai configurarsi ostacoli alle funzioni di un pubblico ufficiale, ma non il reato tributario specifico). Importante: l’occultamento/distruzione deve avere l’effetto di rendere impossibile o molto difficile la ricostruzione del reddito o volume d’affari. Ad esempio, se un professionista tiene le scritture sia digitali che cartacee e distrugge solo le seconde, ma l’erario può comunque ricostruire il reddito tramite copie digitali esibite, il reato potrebbe non configurarsi (perché la ricostruzione non è impedita).
Soglie di punibilità: Non è prevista alcuna soglia quantitativa. Diversamente dai reati dichiarativi, qui rileva la condotta in sé: basta occultare o distruggere anche pochi documenti, se ciò compromette la ricostruzione contabile. È quindi un reato di pericolo, in cui la valutazione è qualitativa (idoneità a impedire gli accertamenti) più che quantitativa.
Elemento soggettivo: Serve il dolo specifico di evasione o di favorire l’evasione altrui. Quindi l’agente deve occultare/distruggere “allo scopo di evadere le imposte” proprie o di terzi. In pratica, se un soggetto butta via registri contabili solo per fare spazio in magazzino, senza scopi evasivi, mancherà l’elemento psicologico del reato (resta comunque una violazione amministrativa per omessa tenuta delle scritture). Nella realtà forense, però, è raro che vi siano distruzioni “ingenue”: quasi sempre l’occultamento viene contestato quando parallelamente emerge un’evasione fiscale.
Pena prevista: È stabilita la reclusione da 3 a 7 anni. Si noti che questa cornice edittale è piuttosto alta – superiore perfino a quella della dichiarazione infedele – a testimonianza della gravità con cui il legislatore considera l’occultamento di libri (in quanto attentato all’attività di verifica). Non vi sono pene pecuniarie alternative né cause speciali di non punibilità legate al pagamento del dovuto (qui non c’è un “debito” quantificabile, essendo reato di ostacolo). Prescrizione: con pena massima 7 anni, la prescrizione base sarebbe 7 anni; tuttavia, trattandosi di delitto, il minimo ex art. 157 c.p. è comunque 6 anni, estensibili a 7 anni e 6 mesi con atti interruttivi. La riforma Cartabia incide poco qui, se non per i limiti di durata dell’appello/cassazione (essendo pena max >6, non si applica l’improcedibilità in appello, prevista solo per reati con pena <10 anni? In realtà l’improcedibilità in appello riguarda reati con pena edittale < 6 anni se non erro, ma occorrerebbe dettagliare: per semplicità, consideriamo che i processi per art.10 non beneficiano di termini abbreviati, quindi la prescrizione segue le regole ordinarie).
Esempi tipici: 1) Un imprenditore, prima di una verifica fiscale, nasconde i registri IVA in uno scantinato e ne denuncia lo smarrimento: la GdF non riesce a ricostruire tutte le operazioni => configurato occultamento. 2) Un commerciante brucia le fatture di vendita dell’anno nero per non far emergere ricavi in nero => distruzione punibile. 3) Il professionista Caio non ha tenuto la contabilità e, a controllo avviato, simula un furto dove sarebbero andati perduti i registri => sarà verosimilmente accusato di occultamento fraudolento. – Di contro, non costituisce reato l’irregolarità formale che non impedisce l’accertamento: es. Caio ha registri incompleti ma l’Agenzia recupera i dati dai suoi clienti e ricostruisce i compensi – potrà subire sanzioni amministrative e magari un’infedele dichiarazione, ma non l’art. 10 se i documenti non sono stati volontariamente sottratti.
Prospettiva difensiva: Dal punto di vista del debitore/contribuente, se viene contestato questo reato occorre valutare se effettivamente l’impossibilità di ricostruzione derivi dal suo operato doloso. La difesa può puntare su: (a) dimostrare che non c’era dolo di evasione (ad es. la perdita dei documenti fu dovuta a incendio fortuito, non a un gesto intenzionale; oppure esibire documenti alternativi che provano come l’accertamento fosse comunque possibile); (b) evidenziare che la ricostruzione è stata possibile con altri mezzi – se l’amministrazione è riuscita comunque a determinare il reddito (magari tramite documenti di terzi), l’impatto dell’occultamento può dirsi nullo; (c) sfruttare eventuali vizi procedurali nell’acquisizione della prova (es. una perquisizione illegittima): in alcuni casi, l’annullamento di un sequestro di documenti può indebolire anche l’accusa di occultamento, che spesso viene mossa contestualmente. Non esistono invece sanatorie come il ravvedimento: una volta che i documenti sono spariti, l’unico “ravvedimento” possibile è ricostruire di propria iniziativa le scritture e fornirle all’erario (il che potrà semmai essere valutato positivamente come cooperazione, ma non cancella il reato se ormai commesso).
Patteggiamento: Trattandosi di reato senza debito tributario quantificabile, per l’art. 10 non vige la restrizione che richiede il pagamento del dovuto prima del patteggiamento (che invece esisteva per altri reati, v. art. 13-bis D.Lgs. 74/2000). La Cassazione ha anzi chiarito che anche l’imputato di occultamento scritture può accedere al patteggiamento senza condizioni particolari, analogamente agli imputati di dichiarazione infedele o omessa.
Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis D.lgs. 74/2000)
Definizione: Il reato di omesso versamento di ritenute riguarda il sostituto d’imposta (tipicamente un datore di lavoro) che non versa allo Stato, entro il termine previsto (scadenza per la dichiarazione annuale del sostituto, cioè il Modello 770), le somme trattenute a titolo di ritenuta ai propri sostituiti, per un importo complessivo annuo sopra una certa soglia. In pratica, l’ipotesi classica è l’azienda che trattiene dalle buste paga dei dipendenti l’IRPEF, risultando debitrice verso l’Erario, ma poi non versa queste ritenute. La condotta è omissiva istantanea e si consuma al termine di presentazione del 770 (attualmente 31 ottobre dell’anno successivo a quello di riferimento).
Soglia di punibilità: Per evitare di criminalizzare inadempimenti di piccola entità, l’art. 10-bis richiede che l’importo delle ritenute non versate superi €150.000 per periodo d’imposta. La soglia inizialmente (dal 2005) era 50.000€, poi elevata a 150.000€ dal D.Lgs. 158/2015 per restringere il campo penale (in concomitanza, l’omesso versamento inferiore restava sanzionato solo amministrativamente). Nel 2019 vi fu un tentativo di abbassarla nuovamente (nel DL 124/2019), ma in sede di conversione la modifica fu stralciata, lasciando la soglia a 150k. Dunque oggi sono penalmente rilevanti solo i mancati versamenti di ritenute oltre 150.000 € l’anno, una soglia abbastanza elevata (equivale, ad esempio, a non versare ritenute su almeno €500.000 di stipendi).
“Dovute o certificate”: evoluzione normativa e sentenza Corte Cost. 175/2022: Originariamente, l’art. 10-bis (introdotto nel 2005) puniva il sostituto che rilasciava le certificazioni delle ritenute ai sostituiti e poi ometteva il versamento oltre soglia. Nel 2015, per facilitare le prove a carico, la norma fu modificata includendo anche le ritenute semplicemente “dovute sulla base della dichiarazione”, a prescindere dal rilascio delle certificazioni. Tuttavia, con una svolta significativa, la Corte Costituzionale (sent. n. 175/2022) ha dichiarato illegittima quella modifica, eliminando le parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o” dall’art. 10-bis. Di conseguenza, oggi il reato sussiste solo se il mancato versamento oltre soglia riguarda ritenute certificate ai sostituiti. Se le ritenute risultano dalla dichiarazione ma non vi è prova che siano state certificate ai percipienti, il fatto è declassato a illecito amministrativo tributario. In sostanza, dopo la pronuncia della Consulta, il delitto ex art.10-bis richiede la consegna delle certificazioni (es. le Certificazioni Uniche) ai sostituiti: se il datore non ha neppure consegnato le CU ai dipendenti, l’omissione di versamento resta fuori dal penale, poiché il destinatario ignaro non avrebbe potuto compensare quelle imposte nella sua dichiarazione (e dunque il danno erariale è ipotetico finché l’imposta non è “certificata”). Questa interpretazione è ora vincolante e recepita dagli operatori. Ad esempio, se un’azienda omette di versare €200k di ritenute ma non ha mai rilasciato le certificazioni ai lavoratori, oggi non commette reato (restano però le sanzioni amministrative e l’obbligo di pagare il dovuto).
Elemento soggettivo: Trattandosi di reato omissivo proprio, serve il dolo generico: la consapevolezza di non aver versato entro il termine le ritenute dovute. Non è espressamente richiesto il fine di evasione, ma è implicito che l’omissione avvenga volontariamente. Problema frequente è valutare la posizione di chi non versa per mancanza di liquidità: fino al 2024, la giurisprudenza escludeva che la crisi finanziaria potesse escludere il dolo, considerandola un rischio d’impresa prevedibile (si citava il fatto che l’obbligo di versare ritenute prescinde dalla riscossione del credito dal cliente). In casi estremi di assoluta forza maggiore (es. conto bloccato da autorità, fallimento improvviso dei debitori, ecc.), il dolo può mancare. Importante novità: dal 2024 è stata introdotta una specifica causa di non punibilità per il mancato versamento dovuto a cause non imputabili all’autore sopravvenute all’effettuazione delle ritenute (v. infra, art. 13 co.3-bis): se il soggetto prova che non ha versato perché oggettivamente impossibilitato da circostanze eccezionali (insolvenza conclamata di terzi, mancati pagamenti da PA, ecc.), il fatto non è punibile. Questa innovazione attenua l’automatismo colposo in precedenza esistente, inserendo nel sistema un elemento di valutazione della colpevolezza effettiva in caso di crisi.
Pena prevista: La pena edittale è la reclusione da 6 mesi a 2 anni. Non sono previste sanzioni pecuniarie penali. Si tratta di un reato con pena relativamente contenuta; esso infatti, per lungo tempo, non era neppure incluso nell’elenco dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti (D.Lgs. 231/2001). Tuttavia, con l’attuazione della direttiva UE sulla tutela degli interessi finanziari (direttiva “PIF”), l’art. 25-quinquiesdecies D.Lgs. 231/2001 è stato introdotto per includere alcuni reati tributari anche fra quelli a carico delle società: l’omesso versamento di ritenute non dovrebbe rientrare, in quanto considerato reato “di sbarramento” a monte (è punito chi trattiene e non versa). Invece, art. 2, 3, 8 e 11, riguardando frodi o sottrazioni di rilevanza per il bilancio UE (IVA), sono entrati nel catalogo 231. Il che spiega anche perché l’art. 10-bis non sia aggravato oltre il biennio di reclusione.
Pagamento come causa di non punibilità: L’art. 13, co.1 D.Lgs. 74/2000 prevede che i reati di omesso versamento (tra cui il 10-bis) non siano punibili se il contribuente estingue il debito tributario (ritenute dovute, più sanzioni amministrative e interessi) prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. In pratica, se il datore di lavoro paga integralmente le ritenute non versate (magari ricorrendo a un ravvedimento operoso o ad adesione, o spontaneamente) prima che inizi il processo penale, il fatto non è più punibile. Questa è una importantissima chance difensiva: di solito la finestra temporale va dall’inizio delle indagini fino all’udienza preliminare e oltre (il dibattimento di primo grado si apre dopo il rinvio a giudizio). Se l’imputato riesce a pagare tutto in tempo, il giudice dovrà dichiarare il non doversi procedere per intervenuta causa di non punibilità. È dunque prassi, per chi può finanziarsi, correre ai ripari pagando: così facendo, l’illecito penale viene eliminato. Questa disciplina (introdotta nel 2015) ha natura premiale e incoraggia il ripianamento del debito fiscale; come contropartita, ha reso di fatto facoltativa la punizione degli omessi versamenti: chi paga scampa la condanna, chi non paga (perché non vuole o perché non può) invece subisce il processo.
Sospensione del procedimento per pagamento in corso: La legge prevede anche che se l’imputato ottiene un rateizzo del debito tributario, il giudice possa concedere una sospensione del processo fino a 2 anni (ora 3+3 mesi rinnovabili dopo la riforma 2024) per permettergli di completare i pagamenti. Questa sospensione sospende a sua volta la prescrizione, evitando che il reato si estingua nel frattempo. Dunque, se l’imprenditore sta pagando a rate il dovuto (ad esempio tramite una dilazione accordata dall’Agenzia delle Entrate), di regola il procedimento penale viene congelato e non si arriva a sentenza finché il piano non è concluso. Se il pagamento integrale avviene, si applica la non punibilità; se invece l’imputato decade dalla rateazione o non completa i versamenti, il processo riprende e si torna a rischiare la condanna.
Questioni giurisprudenziali: Prima dell’introduzione della causa di non punibilità nel 2015, molto contenzioso riguardava la sussistenza del dolo in caso di crisi di liquidità. La Cassazione aveva inizialmente una linea dura (“crisi di liquidità non esclude il dolo”), ma negli anni recenti si notava un contrasto con il principio di colpevolezza. Alcune pronunce isolatee riconoscevano che, in casi di comprovata impossibilità finanziaria sopravvenuta, l’assenza di colpevolezza potesse essere valutata (Cass. 13/10/2021 n. 43913, ad es., aveva aperto uno spiraglio: la forza maggiore ex art.45 c.p. può essere invocata per omessi versamenti se la crisi è dovuta a inadempimenti altrui e si dimostra di aver tentato ogni azione ragionevole). Oggi, grazie al comma 3-bis aggiunto all’art. 13 dal D.Lgs. 87/2024, questa problematica è stata normativamente risolta: il giudice deve tenere conto della crisi non transitoria di liquidità causata da insolvenza di terzi o mancati pagamenti della PA, unita all’assenza di azioni idonee per superarla. Se ritiene che il mancato versamento dipenda da cause non imputabili al sostituto, dichiara il fatto non punibile. La Cassazione ha già applicato questa nuova norma: ad esempio, la sentenza n. 41238/2024 ha annullato la condanna di un legale rappresentante che non aveva versato l’IVA perché non aveva incassato le relative fatture, riconoscendo la non punibilità in base alla novità normativa.
Conclusione operativa: Dal punto di vista dell’imprenditore-debitore, se ci si accorge di non aver versato ritenute sopra soglia, conviene agire immediatamente: cercare di pagare (anche rateizzando) quanto prima, così da rientrare nella causa di non punibilità; se la crisi finanziaria impedisce di reperire fondi, documentare scrupolosamente le cause esterne della crisi (clienti insolventi, crediti importanti non riscossi, pignoramenti subiti, ecc.), per poter poi invocare l’esimente introdotta nel 2024. Da evitare è l’errore di non consegnare le Certificazioni Uniche sperando di non farsi accorgere: come si è visto, ora se non certifichi le ritenute non c’è reato, ma questo ti esclude anche dalla causa di non punibilità ex art.13 (che richiede il pagamento di sanzioni amministrative – il che presuppone che le ritenute fossero certificate e dovute). Inoltre il mancato rilascio delle CU è esso stesso illecito amministrativo e può costituire prova di dolo. Dunque la via maestra resta: quando possibile, ravvedersi e pagare; se impossibile, collaborare con le autorità mostrando che la volontà di adempiere c’era ma si è scontrata con forze maggiori.
Omesso versamento IVA (art. 10-ter D.lgs. 74/2000)
Definizione: L’art. 10-ter punisce chi, dopo aver presentato la dichiarazione annuale IVA da cui risulta un’imposta a debito, non versa l’IVA dovuta entro il termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo. In parole povere, il reato scatta quando un contribuente compila la dichiarazione IVA indicando l’imposta da versare per l’anno precedente, ma poi non paga quella somma entro la scadenza stabilita (attualmente fissata al 31 dicembre dell’anno seguente, secondo la recente modifica introdotta dal D.Lgs. 87/2024). In passato il termine era il 27 dicembre (acconto IVA), ma la norma è stata uniformata per dare qualche giorno in più (fino a fine anno).
Soglia di punibilità: Anche qui è prevista una soglia piuttosto alta: l’omesso versamento dell’IVA è reato solo se l’IVA non versata supera €250.000 per anno. In origine (dal 2000 al 2015) la soglia era 50.000 €, poi il D.Lgs. 158/2015 l’ha quintuplicata a 250.000 €. La ragione di un limite così elevato risiede anche in considerazioni di armonizzazione europea: importi IVA inferiori, pur evasi, restano sanzionati solo in via amministrativa (con multa 30% e interessi), come tollerato dal diritto UE. Infatti, nel 2018 la Corte di Giustizia UE (causa C-574/15, Taricco II) ha confermato che la soglia italiana di 250k non viola gli obblighi UE, pur essendo maggiore di quella per le ritenute (150k), poiché l’omesso versamento IVA “non è di per sé una frode” e gli Stati membri possono prevedere sanzioni amministrative in alternativa a quelle penali per importi minori. La CGUE ha escluso che l’omesso versamento IVA (dichiarata correttamente ma non pagata) sia equiparabile alla “frode grave” di cui alla Convenzione UE sulla tutela interessi finanziari (che impone sanzioni penali sopra 50k), proprio perché qui manca l’elemento di inganno: il contribuente ha dichiarato tutto ma non paga. Pertanto, lasciare impuniti penalmente i mancati versamenti fino a 250k € è risultato conforme al principio di effettività e proporzionalità, in quanto compensato dalle sanzioni amministrative pecuniarie (30% dell’imposta). Questa pronuncia GP chiarisce che la scelta italiana di intervenire penalmente solo oltre soglie elevate è legittima e non in contrasto con l’obbligo di tutela dei fondi IVA UE.
Consumato del reato: L’omesso versamento IVA si consuma al termine ultimo per il pagamento. Oggi, come detto, tale termine è fissato al 31 dicembre dell’anno successivo al periodo di imposta (a seguito del D.Lgs. 87/2024 che lo ha espressamente indicato). Esempio: IVA anno 2023 dovuta = 300k; il contribuente avrebbe dovuto versarla entro il 31/12/2024; se non lo fa, dal 1° gennaio 2025 il reato è consumato. Prima di tale scadenza non vi è reato (quindi il contribuente ha l’intero anno per eventualmente saldare o ravvedersi). Spesso, infatti, accade che imprese in difficoltà saltino la scadenza di marzo (saldo IVA) ma versino poi entro dicembre: in tal caso evitano il penale.
Elemento soggettivo: Il dolo generico di mancato versamento. Anche qui, analogamente a 10-bis, era dibattuto se la crisi di liquidità potesse escludere la colpevolezza. Per lungo tempo la risposta giudiziale è stata negativa: si sottolineava che il contribuente, avendo presentato una dichiarazione IVA veritiera, sapeva esattamente quanto doveva pagare, e se ha emesso fatture senza incassarle è una scelta che “lo espone all’obbligo di versare comunque l’IVA” (perché l’IVA è dovuta a prescindere dall’effettiva riscossione, essendo un’imposta che funziona così). Pertanto, l’inadempimento del cliente era considerato “ordinario rischio d’impresa, evitabile con accorgimenti (ad es. fattoring, assicurazione crediti)”. Solo situazioni di assoluta eccezionalità potevano configurare la forza maggiore (es. un crollo di mercato imprevisto di proporzioni catastrofiche che colpisce l’azienda dopo aver emesso fatture). Anche su questo fronte, però, la riforma 2024 ha introdotto la stessa causa di non punibilità per crisi non imputabile già vista per le ritenute: se il mancato versamento dipende da cause sopravvenute non imputabili (clienti insolventi, ecc.), il giudice deve non punire. In pratica, viene riconosciuto che non sempre chi non versa è un evasore colpevole: se dimostra di essere stato travolto da debitori insolventi e di non aver potuto fare diversamente, potrà andare esente.
Pena prevista: Reclusione da 6 mesi a 2 anni (identica a 10-bis). Anche qui, pena non elevatissima, tanto che rientrerebbe nei limiti per messa alla prova (ma essendo massimo 2 anni, il problema spesso non si pone perché, pagando e patteggiando, la condanna finale può stare sotto 2 anni e dunque sospesa condizionalmente). L’omesso versamento IVA, come reato di “evasione da riscossione”, non comporta interdizioni automatiche o altro se si rimane entro soglie e sospensioni condizionali – salvo ovviamente l’obbligo di pagare il dovuto in sede esecutiva (con confisca del profitto, v. oltre). La prescrizione, con pena max 2 anni, sarebbe 6 anni (minimo per delitti) estensibili a 7,5 con atti interruttivi.
Pagamento come esimente: Vale lo stesso discorso fatto per l’art. 10-bis: ai sensi dell’art. 13 co.1, se l’imputato paga tutto l’IVA dovuta (oltre interessi e sanzioni) prima dell’apertura del dibattimento, non è punibile. Ciò offre un incentivo fortissimo a regolarizzare: pagando in tempo si evita la condanna. Attenzione: il pagamento deve essere integrale; versare solo una parte non evita il reato (ma potrà semmai essere valutato come attenuante generica). Tuttavia, il contribuente può chiedere e ottenere un’adesione o rateazione col Fisco e pagare in più tranche: in tal caso, come visto, il processo resta sospeso finché si paga regolarmente. Se il piano va a buon fine, il reato si estingue; se salta, il processo riparte.
Difesa e strategie: Dal punto di vista dell’imprenditore, trovarsi a fine anno con un debito IVA elevato e mancanza di liquidità è una situazione critica. L’errore da evitare è non presentare la dichiarazione IVA per “nascondere” il debito: così facendo si commette il reato (più grave) di omessa dichiarazione e comunque l’Agenzia prima o poi rileverà il mancato versamento. Invece, presentare la dichiarazione correttamente ma poi cercare di reperire fondi entro l’anno è la strada giusta. Se proprio non si riesce, sarà essenziale documentare lo stato di insolvenza: ad esempio, se l’IVA non versata corrisponde in gran parte a fatture non incassate da clienti falliti, raccogliere prove di tali insolvenze (decreti ingiuntivi, procedure concorsuali dei clienti, ecc.) e dimostrare di aver tentato ogni via (richiesta fidi bancari, investimenti personali) per pagare. Ciò servirà in giudizio per attivare la nuova esimente della crisi. Inoltre, appena scatta l’indagine (es. notifica di un PVC – processo verbale di constatazione – da parte della Guardia di Finanza), aderire alle procedure definitorie è utile: l’adesione all’accertamento con pagamento (anche parziale) può sospendere misure cautelari e dimostrare collaborazione. Se poi arriva il momento del giudizio, valutare il patteggiamento: per l’omesso versamento IVA oggi è ammesso patteggiare anche se il debito non è stato estinto (la Cassazione ha chiarito che la preventiva estinzione non è condizione di ammissibilità al patteggiamento, perché se uno avesse pagato non sarebbe neppure imputabile). Quindi l’imputato può negoziare la pena (che verrà contenuta spesso entro 1 anno con attenuanti) evitando un lungo dibattimento, fermo restando l’obbligo civile di pagare il dovuto.
Esempio pratico: Alfa S.r.l. presenta la dichiarazione IVA 2024 con un debito IVA di €300.000. Entro il 31/12/2025 Alfa non versa nulla, perché due suoi principali clienti (dai quali doveva incassare 1 milione) sono falliti. Scatta il reato di omesso versamento IVA. Alfa durante le indagini ottiene una rateazione dall’Agenzia Entrate per pagare in 5 anni il debito: il PM concorda nel sospendere il processo in attesa dei pagamenti. Alfa riesce a pagare alcune rate ma poi, persistendo la crisi, interrompe i pagamenti nel 2027. A quel punto il processo riprende. In giudizio, Alfa potrà comunque far valere che il fatto è dovuto alla insolvenza dei clienti (cause non imputabili): se i giudici valuteranno positivamente le prove (fallimenti dei clienti, bilanci di Alfa in passivo, ecc.), potranno dichiarare il reato non punibile ex art. 13 co.3-bis perché la crisi di liquidità è stata concreta e indipendente dalla volontà dei gestori. In mancanza di ciò, Alfa rischierebbe una condanna: in tal caso punterà almeno al patteggiamento per contenere la pena e magari a un trattamento sanzionatorio mite (es. 8 mesi di reclusione, convertiti in una sanzione interdittiva minore, con sospensione condizionale). In ogni caso, Alfa S.r.l. come ente non risponde ex D.Lgs.231, ma i suoi amministratori rispondono personalmente.
Indebita compensazione di crediti (art. 10-quater D.lgs. 74/2000)
L’art. 10-quater, introdotto nel 2011 e modificato nel 2015, colpisce l’utilizzo indebito di crediti d’imposta in compensazione (ai sensi dell’art. 17 D.Lgs. 241/1997) per non versare tributi dovuti. È diviso in due commi che distinguono due scenari, con pene differenti, a seconda della natura dei crediti utilizzati indebitamente:
- Comma 1 – Crediti non spettanti: riguarda il caso in cui il contribuente compensa un debito fiscale con un credito in realtà non spettante (pur esistente nella sua contabilità, ma inesigibile per ragioni normative o temporali). Esempio: utilizzo di un credito d’imposta oltre i limiti annuali consentiti, oppure credito maturato ma destinato a usi specifici diversi, oppure ancora un credito esistente ma decaduto per prescrizione o per errata interpretazione della norma tributaria. In sostanza, il credito c’è, ma il contribuente non aveva diritto ad usarlo per quella compensazione.
- Comma 2 – Crediti inesistenti: si riferisce al caso in cui il credito utilizzato in compensazione è inesistente in senso proprio, cioè creato artificiosamente o mai maturato nella realtà. È il caso di crediti fittizi, spesso ottenuti con frodi (es. false dichiarazioni di imposta a credito, crediti da ricerca e sviluppo mai maturati, oppure “acquisto” di crediti fasulli da terzi compiacenti). Qui la condotta è chiaramente più fraudolenta.
Soglia di punibilità: Per entrambi i casi vale la soglia annua di €50.000 di crediti indebitamente compensati. Sotto tale importo, l’illecito resta amministrativo. Sopra, scatta il penale. La soglia è unica e non distingue tra crediti non spettanti o inesistenti; fu anch’essa introdotta nel 2015 (prima, il reato di compensazioni fraudolente era disciplinato in modo diverso ed era inserito nell’art. 10, poi riformato). È importante notare che per calcolare la soglia conta l’importo del credito indebito utilizzato: ad esempio, se un’azienda aveva un debito IVA di 80k e lo compensa con un credito fittizio di 60k riducendo il versamento a 20k, l’indebito è 60k quindi oltre soglia → reato; se compensa 40k e versa il resto, l’indebito è 40k, sotto soglia → niente reato (ma sanzione amministrativa 30% del 40k e recupero del credito).
Profili di illiceità e differenze: L’indebita compensazione è stata introdotta per sanzionare quell’evasione “silenziosa” attuata non con omissioni dichiarative, ma presentando F24 con crediti falsi. Questi comportamenti, specie i crediti inesistenti, configurano vere e proprie frodi fiscali (spesso su larga scala, vedi i “crediti fittizi da bonus fiscale” venduti sul mercato nero). La distinzione tra non spettante e inesistente è dunque fondamentale: nel primo caso il contribuente può invocare a sua discolpa di aver creduto in buona fede che il credito spettasse (es. interpretazione errata di una norma agevolativa); nel secondo caso è difficile negare il dolo fraudolento. Coerentemente, le pene differiscono: più lieve per i non spettanti, più grave per gli inesistenti.
Pene previste:
- Crediti non spettanti (co.1): reclusione da 6 mesi a 2 anni.
- Crediti inesistenti (co.2): reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni.
Quindi chi compensa crediti fittizi rischia fino a 6 anni (soglia alta per equiparare il disvalore alla frode dichiarativa), mentre chi compensa crediti reali ma impropriamente ha una pena massima di 2 anni (tale da consentire tra l’altro sempre la sospensione condizionale se incensurato, e teoricamente la messa alla prova).
Causa di non punibilità per incertezza normativa (comma 2-bis): Proprio per i casi di crediti non spettanti, spesso frutto di dubbi interpretativi sulle norme tributarie (ad es. si ritiene spettante un bonus fiscale ma l’Ade la pensa diversamente), il legislatore ha introdotto nel 2019 una specifica salvaguardia. Il comma 2-bis dell’art. 10-quater stabilisce infatti che non è punibile chi ha utilizzato indebitamente un credito non spettante in presenza di obiettive condizioni di incertezza sulla spettanza di quel credito. In altre parole, se la normativa del credito era talmente poco chiara da indurre in errore anche un contribuente diligente, l’errore scusabile esclude la punibilità penale (resta l’obbligo di versare quanto dovuto). Questa clausola recepisce un orientamento giurisprudenziale e dottrinale in materia di colpevolezza tributaria. Ovviamente non si applica ai crediti inesistenti (dove c’è finzione, non incertezza). Esempio: un’azienda compensa un credito d’imposta ritenendo (sulla base di pareri professionali) di averne diritto; successivamente l’Agenzia nega il bonus e anzi denuncia l’indebito. Se c’erano interpretazioni amministrative o giurisprudenziali contrastanti, l’azienda potrà invocare l’art. 10-quater co.2-bis e andare esente da pena. Spetta alla difesa provare l’obiettiva incertezza (circolari contraddittorie, norme di dubbia interpretazione, ecc.).
Pagamento del dovuto: Anche l’indebita compensazione rientra nelle ipotesi dell’art. 13 co.1: se l’autore paga integralmente il debito tributario corrispondente ai crediti indebitamente utilizzati, prima dell’apertura del dibattimento, non è punibile. Attenzione: qui bisogna distinguere tra credito non spettante (debito = l’importo del credito indebito, più sanzioni e interessi) e credito inesistente. La causa di non punibilità del pagamento opera solo per il comma 1 (crediti non spettanti). Invece, per i crediti inesistenti (comma 2), la legge non prevede l’estinzione del reato tramite pagamento: ciò in quanto sono considerati condotte fraudolente gravi, per le quali il legislatore non ha voluto dare una via d’uscita semplice. Dunque: se hai usato crediti falsi, anche pagando dopo resterai punibile (potrai semmai patteggiare con pena ridotta, ma niente esimente automatica); se hai usato crediti dubbi, pagando tutto prima del dibattimento esci pulito. Come per gli altri omessi versamenti, è prevista la sospensione del processo se c’è pagamento rateale in corso anche per il 10-quater co.1, similmente a 10-bis e 10-ter.
Confisca e sequestro: I reati di indebita compensazione comportano la confisca obbligatoria del profitto (cioè dell’importo del tributo non versato grazie al credito indebito) o, se non è reperibile, per equivalente. Durante le indagini, è prassi il sequestro preventivo dei beni dell’indagato fino a concorrenza del profitto. Novità 2024: se l’imputato sta pagando a rate il dovuto, la legge ha limitato la possibilità di sequestro/confisca: si prevede che, salvo un concreto pericolo di dispersione dei beni, in presenza di una rateizzazione attiva e regolare, non si proceda a sequestro (o si disponga il dissequestro). L’idea è di non strangolare chi sta già pagando. Dunque il difensore, in tali casi, può chiedere il dissequestro dei conti/beni sequestrati a garanzia, presentando la documentazione della rateazione in corso.
Difesa nei casi tipici:
- Crediti non spettanti: la strategia difensiva primaria è dimostrare che il contribuente era in buona fede e che la non spettanza del credito derivava da incertezza normativa. Bisognerà produrre pareri, interpelli magari (se l’Agenzia aveva risposto in modo ambiguo), o evidenziare pronunce difformi sul punto. Se riesce, scatta la non punibilità ex co.2-bis. Inoltre, conviene comunque pagare il dovuto: se paga per intero, scatta la non punibilità ex art.13 (anche senza bisogno di dibattere sull’incertezza). Quindi spesso il caso dei crediti non spettanti si risolve col pagamento (se sostenibile) e l’uscita dal penale.
- Crediti inesistenti: qui la difesa è più complessa, perché spesso il fatto rivela intenti fraudolenti (es. crediti finti acquistati per pochi soldi). Possibili linee: (a) tentare di derubricare a “credito non spettante” sostenendo che il credito qualcosa di reale aveva (difficile, ma a volte la linea tra non spettante e inesistente può essere sottile – ad es. crediti esistenti ma gonfiati, si può provare a dire che non erano fittizi al 100%); (b) risarcire il danno: pagare il tributo evaso anche se non evita il reato, può portare attenuanti. La giurisprudenza talvolta riconosce una circostanza attenuante generica per il ravvedimento operoso tardivo, anche se non codificato; inoltre un pagamento integrale potrebbe convincere il PM a concordare un patteggiamento mite. (c) Attaccare sul terreno probatorio: i casi di crediti inesistenti possono vedere coinvolte terze parti (chi fornì i falsi crediti); se la posizione dell’imputato appare marginale o ignara della falsità, si può sostenere il difetto di dolo (es. “mi fidavo del consulente che mi ha assicurato che il credito era buono”). È un’azzardo, ma non impossibile se l’imputato dimostra di essere stato raggirato.
- In tutti i casi, evitare recidive: l’indebita compensazione se reiterata in più anni può far perdere benefici (no condizionale se più condanne, ecc.). Meglio regolarizzare appena contestato il primo anno.
Esempio: Beta S.p.A. compensa nel 2025 un credito R&S di €60.000 che l’Agenzia ritiene non spettante (perché spese non eleggibili). Beta aveva interpretazioni diverse fornitegli da un commercialista. Quando scatta l’indagine, Beta paga quei €60k più interessi e sanzioni. Di conseguenza, non sarà punibile penalmente (art.13). Se anche non avesse pagato tutto ma avesse dimostrato l’obiettiva incertezza normativa, avrebbe comunque chance di proscioglimento (art.10-quater co.2-bis). – Al contrario, Gamma S.r.l. utilizza un credito fiscale falso di €100.000 acquistato da terzi per 5.000€: qui è credito inesistente. Gamma non versa IVA per 100k grazie a quel credito. Scoperta la frode, Gamma non può evitare il processo neppure pagando (art.13 non applicabile al co.2). La difesa di Gamma punterà magari a dimostrare che l’amministratore non sapeva della falsità (scaricando la colpa sul consulente che gli “ha venduto” il credito come legittimo). In parallelo, Gamma potrà offrire la confisca volontaria di €100k dai propri beni (o pagarli al Fisco) per mostrare pentimento e ottenere un patteggiamento più indulgente. La Cassazione ha più volte ribadito la distinzione netta tra crediti inesistenti e non spettanti, e che la soglia di 50k è identica ma la gravità no. Patteggiando, Gamma potrebbe ottenere 2 anni (con sospensione condizionale se incensurata, ma attenzione: essendo pena massima 6 anni, è fuori dal 131-bis a priori, quindi almeno 1 anno e mezzo va comminato).
Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.lgs. 74/2000)
Descrizione del reato: L’art. 11 punisce il contribuente debitore che mette in atto “alienazioni simulate o altri atti fraudolenti” sui propri o altrui beni al fine di evitare il pagamento di imposte o relativi accessori (sanzioni, interessi) dovuti, quando tale condotta è idonea a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. In parole semplici, si tratta di chi, avendo un debito fiscale accertato (o in via di accertamento), nasconde o sposta il proprio patrimonio per non farselo pignorare dal Fisco. Sono tipiche condotte: vendite fittizie di beni a terzi compiacenti (es. trasferire la casa al parente per pochi euro), intestazioni fiduciarie o a prestanome, creazione di società-schermo a cui intestare asset, costituzione di vincoli fittizi sui beni (ipoteche false, fondi patrimoniali simulati) per impedirne l’esproprio fiscale. Inoltre, la norma (secondo comma) comprende anche chi, per ottenere un pagamento parziale in una transazione fiscale, indica elementi attivi inferiori al vero o passivi fittizi > €50.000 (casistica meno comune, legata a concordati preventivi o accordi di ristrutturazione con Erario).
Bene giuridico e ratio: Questo reato protegge la fase della riscossione tributaria. Mentre gli altri reati puniscono l’evasione “a monte” (dichiarazioni false, mancati versamenti), qui siamo “a valle”: il debito fiscale è noto, ma il contribuente frustra dolosamente il suo recupero. È pensato per colpire i cosiddetti “nullatenenti di lusso”, cioè chi risulta ufficialmente povero (perché ha intestato tutto ad altri) mentre evade e vive agiatamente. È una norma anti-frode patrimoniale, affine a concetti di revocatoria fallimentare o reati come la sottrazione di beni in danno dei creditori (art.388 c.p.), ma specifica per i crediti tributari.
Soglia di punibilità: Bisogna che l’ammontare delle imposte, sanzioni o interessi il cui pagamento si vuole evitare sia > €50.000. Se uno nasconde beni per non pagare 20k di tasse, non è reato (pur restando un comportamento censurabile in sede civile-amministrativa). In caso di false indicazioni in transazione fiscale, la soglia è sempre 50k di importo sottratto. È prevista un’aggravante: se l’importo supera €100.000 (secondo la versione aggiornata della norma, modificata nel 2019), le pene sono aumentate con range più alto. (Prima il tetto aggravante era 200k, poi ridotto a 100k per accentuare la punizione di medio-alte evasioni: la riforma 2019 ha abbassato questa soglia di aggravio). Dunque: debito fiscale €300k -> aggravante; debito €80k -> soglia base superata ma aggravante no.
Elemento soggettivo: Richiede il dolo specifico di sottrarsi al pagamento. Va provato cioè che l’atto dispositivo sui beni era fatto “al fine di” evitare il pagamento delle imposte. Se uno vende un immobile per ragioni lecite (bisogno di liquidità, ecc.) e poi non paga le imposte perché i soldi li usa altrove, non è automaticamente reato: occorre dimostrare che la vendita fu un atto fraudolento mirato a rendere inefficace la riscossione. Questo consente margini difensivi: ad esempio, sostenere che la cessione di un bene è avvenuta a prezzo di mercato e il ricavato è rimasto nel patrimonio (quindi nessuna sottrazione effettiva). La legge menziona atti “fraudolenti” o “alienazioni simulate”: ciò implica una componente di frode/inganno nella condotta (vendita finta, donationi occulte, spossessamenti pianificati). Un atto normale di disposizione (es. vendita reale a terzi a prezzo congruo, per pagare altri debiti urgenti) potrebbe non integrare la fattispecie se manca l’intento di frodare il Fisco.
Pena prevista: Reclusione da 6 mesi a 4 anni, che sale a 1 – 6 anni se l’importo supera la soglia aggravata. Con l’aggravante, la pena massima di 6 anni rende la prescrizione più lunga (6 anni base, 7.5 con atti interruttivi) e consente strumenti invasivi come intercettazioni (essendo reato punito fino a 6 anni, rientra tra quelli di media gravità). Va notato che questo reato è stato incluso tra quelli che possono comportare responsabilità degli enti ex D.Lgs. 231/2001 (come accennato): se a porre in essere atti fraudolenti è direttamente una società a vantaggio proprio (caso più raro, di solito sono persone fisiche a spostare beni), teoricamente la società potrebbe rispondere. Però nella pratica la sottrazione fraudolenta è commessa da amministratori su beni personali o di altre società, quindi l’applicazione a enti è limitata.
Rapporti con sequestro/confisca: In situazioni di grosse pendenze, spesso la Procura procede con sequestro preventivo per equivalente anche per art.11, mirando a bloccare beni residui prima che vengano ulteriormente dispersi. Ad esempio, se Tizio ha venduto la villa al figlio per evitare di pagar tasse, il PM potrà sequestrare la villa dov’è finita, oppure altri beni di Tizio a compensazione (confisca equivalente). Dal punto di vista difensivo, un aspetto è il tempismo: se la vendita sospetta è avvenuta quando ancora l’accertamento fiscale non era definitivo, si può argomentare che non c’era certezza del debito e quindi non vi era volontà sicura di sottrarsi (es. Tizio vende perché teme un avviso, ma l’avviso poi potrebbe risultare infondato – se infatti quel debito venisse annullato in contenzioso tributario, su che base dire che la vendita fu per frodare il fisco?). In effetti, la giurisprudenza ha dibattuto: molti ritengono che basti un debito in via di accertamento (non definitivo) per configurare il reato, purché serio e fondato; però se poi quell’accertamento viene annullato in Commissione Tributaria, viene meno l’oggetto del reato. Il 2024 ha introdotto gli artt. 21-bis e 21-ter nel D.Lgs. 74/2000 proprio per coordinare esiti del processo penale e tributario: in particolare, se in sede penale l’imputato viene assolto perché “il fatto non sussiste” in virtù dell’assenza del debito, ciò vincola il tributario, e viceversa un annullamento del debito in giudizio tributario riflette sul penale. Dunque, una difesa parallela in Commissione Tributaria per contestare l’accertamento può giovare: se il debito fiscale cade, anche il penale per art.11 rischia di cadere (manca il fine, manca il danno).
Strategie difensive:
- Negare la frode: si può argomentare che l’atto impugnato non è stato “fraudolento”. Ad esempio, se Tizio ha venduto un immobile a terzi estranei, a prezzo di mercato, incassando i soldi (che magari sono stati usati per pagare fornitori o banche), non c’è simulazione né sottrazione: è un normale atto di gestione, anche se di fatto riduce la garanzia per il fisco. La difesa proverà a mostrare che mancava l’intento specifico di nuocere al Fisco, portando motivazioni alternative (pagare stipendi, evitare fallimento, ecc.).
- Attaccare sul requisito del debito: se il debito d’imposta non è definitivo, si può chiedere una sospensione del penale in attesa dell’esito tributario, o comunque far valere che l’imputato credeva di non dover pagare quella somma (es. l’avviso di accertamento era impugnato con buone ragioni). Se alla fine il contribuente vince in Commissione (debito annullato), cade l’offesa tipica e ciò potrà portare all’assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge (manca il presupposto debito).
- Ravvedimento operoso tardivo: Pagare il debito fiscale dopo aver compiuto la sottrazione non è previsto come causa di non punibilità ( avrebbe poco senso: uno nasconde i beni e poi se paga la fa franca? No, la legge non lo prevede espressamente). Tuttavia, in sede di giudizio, aver pagato integralmente il dovuto (o aver messo a disposizione i beni per la riscossione) può essere valutato come segno di pentimento e portare magari all’applicazione delle attenuanti generiche e ad una pena contenuta (specie se prima del dibattimento). In alcuni casi, ciò potrebbe convincere il PM a concedere un patteggiamento a pena minima o addirittura a riqualificare in tentativo.
Esempio pratico: Rossi ha un avviso di accertamento per €600.000 di imposte non pagate. Prima che l’Agenzia iscriva a ruolo il debito, Rossi trasferisce la proprietà della sua villa e dei suoi macchinari a un’altra società di famiglia, e svuota i conti. Quando scatta la riscossione, Equitalia non trova nulla. Rossi viene indagato ex art.11. Nel contempo, Rossi impugna l’accertamento in Commissione Tributaria e ottiene una riduzione a €100.000 (il resto era non dovuto). Ciononostante, Rossi aveva chiaramente compiuto atti simulati (trasferimenti infragruppo) allo scopo di non pagare nemmeno quei 100k. La difesa di Rossi però sottolinea che all’epoca egli riteneva l’accertamento infondato al 90% (cosa in parte vera, vista la sentenza tributaria) e che ha trasferito beni per salvare l’azienda e non per frodare il fisco (tesi debole se i beni li ha passati a società controllate). La Procura infatti dimostra che Rossi continuava a usare villa e macchinari come nulla fosse, segno di simulazione. Rossi a quel punto decide di transare con il fisco: versa i 100k dovuti e chiede una definizione agevolata delle sanzioni. Questo pagamento tardivo non estingue il reato, ma viene portato all’attenzione del giudice per mostrare la volontà di rimediare. In sede di patteggiamento, Rossi ottiene 1 anno e 2 mesi (pena vicina al minimo 6 mesi, aumentata per la somma elevata e ridotta per il rito) con la sospensione condizionale, anche in virtù dell’avvenuto pagamento del tributo evaso. – In un caso diverso, Bianchi, piccolo imprenditore che doveva €60k, vende realmente la sua auto di lusso e usa il ricavato per pagare fornitori e dipendenti. L’Erario non trova beni per i €60k e lo denuncia. In giudizio, Bianchi dimostra che la vendita dell’auto non era simulata (acquirente terzo, prezzo congruo, soldi entrati in conto) e che il suo scopo principale era mantenere a galla l’attività e pagare lavoratori, non frodare il fisco. Il giudice potrebbe concludere che manca l’atto fraudolento (non c’è simulazione né inganno) e assolverlo per insussistenza dell’elemento oggettivo del reato (l’alienazione non era fraudolenta). Questo evidenzia l’importanza di distinguere veri atti fraudolenti da disposizioni patrimoniali lecite.
Nota procedurale: A differenza dei reati di dichiarazione e di omesso versamento, l’art. 11 non prevede cause speciali di non punibilità mediante pagamento (perché sarebbe contraddittorio premiare chi prima nasconde i beni e poi paga solo se scoperto). Tuttavia, se un soggetto si rende conto di aver commesso atti che possono configurare art.11, la miglior cosa che può fare prima che inizi un procedimento penale è ricostituire la garanzia patrimoniale: ad esempio, offrire all’Erario un’ipoteca volontaria sui propri beni o un piano di rientro garantito. Questo potrebbe non evitare l’azione penale, ma può costituire un forte argomento per ottenere quantomeno la revoca di misure cautelari (es. evitare il sequestro dei beni offerti come garanzia reale al Fisco) e per mitigare la pena mostrando ravvedimento. Inoltre, il coordinamento nuovo tra giudice penale e tributario (artt. 21-bis e 21-ter) fa sì che l’esito del contenzioso fiscale debba essere tenuto in conto dal penale: quindi se l’accertamento viene ridotto o annullato, la difesa deve subito attivarsi presso il giudice penale per evidenziare il mutamento del fumus del debito, chiedendo magari una revisione delle esigenze cautelari o perfino dell’imputazione.
Aspetti procedurali e difensivi nei reati tributari
Dopo aver analizzato le singole fattispecie di reato tributario “senza dolo di frode”, è utile soffermarsi su alcuni aspetti procedurali comuni e strategie difensive generali dal punto di vista del contribuente-imputato. In questa sezione affronteremo: come nascono e vengono scoperte queste violazioni, quali misure cautelari possono essere adottate (in particolare i sequestri preventivi finalizzati alla confisca), come funziona la prescrizione di questi reati (anche alla luce della riforma Cartabia), quali opzioni di definizione del procedimento sono possibili (patteggiamento, sospensione del processo per pagamento, messa alla prova, ecc.), e come interagisce il procedimento penale con l’eventuale contenzioso tributario parallelo o con le iniziative di regolarizzazione fiscale (ravvedimenti, definizioni agevolate). Inoltre, riassumeremo le cause di non punibilità introdotte dal legislatore (pagamento integrale, forza maggiore sopravvenuta, ecc.) e vedremo infine alcune domande frequenti con risposte sintetiche.
Scoperta del reato e indagini preliminari
I reati tributari, a differenza di molti reati comuni, emergono quasi sempre a seguito di controlli fiscali o verifiche contabili. Il “fattore scatenante” tipico è un’attività ispettiva dell’Agenzia delle Entrate o della Guardia di Finanza: ad esempio, un controllo formale sulle dichiarazioni, un’indagine finanziaria, o un’ispezione in azienda che riscontra irregolarità. Quando i verificatori riscontrano elementi che integrano una fattispecie penale (ad es. scoprono che l’IVA non pagata supera 250k, oppure che certi documenti contabili sono stati distrutti, ecc.), redigono un processo verbale di constatazione (PVC) in cui segnalano la notizia di reato.
La comunicazione viene inviata alla Procura della Repubblica competente (di solito, procura del luogo in cui ha sede la società/contribuente). Da quel momento si aprono le indagini preliminari penali. Nella fase iniziale, l’indagato spesso non sa subito dell’inchiesta: può accadere che la Procura disponga acquisizioni documentali, perquisizioni (ad es. presso la sede del contribuente, per sequestrare contabilità) e sequestri preventivi dei beni corrispondenti al profitto del reato (sequestro per equivalente sui conti correnti, immobili, ecc., sino all’ammontare dell’evaso). Queste misure possono essere eseguite anche a sorpresa, con decreto motivato del GIP su richiesta del PM. Ad esempio, in un caso di omesso versamento IVA da 500k, il PM può chiedere il sequestro di beni di pari valore dell’indagato, per garantire la futura confisca.
È fondamentale, dal punto di vista del debitore-imputato, attivarsi prontamente non appena si viene a conoscenza dell’indagine (ad es., tramite notifica di informazione di garanzia o a seguito di una perquisizione/sequestro). Sin dalle prime fasi è possibile tramite il difensore interloquire con il PM, mostrando l’intenzione di regolarizzare (se plausibile) o comunque fornendo la propria versione (spesso con memorie). Nella fase investigativa, un atteggiamento cooperativo – come depositare documentazione contabile mancante, proporre un piano di pagamento, ecc. – può talvolta evitare iniziative più afflittive (ad esempio convincere il PM a non chiedere misure interdittive o personali, rarissime comunque in questi reati salvo casi eclatanti di frodi organizzate). Ricordiamo che i reati tributari in esame non prevedono misure cautelari personali particolari (come arresto) se non nelle ipotesi fraudolente più gravi; pertanto nella quasi totalità dei casi l’indagato affronta l’indagine in libertà. La vera cautela è sul piano reale: i sequestri.
Sequestro preventivo e confisca dei beni del contribuente
Come accennato, una costante nei procedimenti per reati tributari è il ricorso al sequestro preventivo dei beni dell’indagato (e talvolta di terzi beneficiari) finalizzato alla confisca del profitto del reato. La giurisprudenza considera “profitto” dell’evasione fiscale l’ammontare dell’imposta evasa: ad esempio, se Tizio non versa 300k di IVA, quel risparmio indebito di 300k è profitto confiscabile. Dunque si può sequestrare denaro, beni mobili o immobili fino a 300k.
Tali sequestri per equivalente sono diventati prassi: l’idea è garantire allo Stato che, a fine processo, potrà confiscare quell’importo, oppure restituirlo al Fisco come risarcimento. Per l’indagato, il sequestro è spesso il problema più immediato: conti bloccati, immobili congelati. Dal 2024 però c’è una novità importante: se il contribuente ha ottenuto una rateizzazione ufficiale del debito tributario e sta pagando regolarmente, la legge stabilisce che non si procede a sequestro né confisca salvo che vi sia un concreto pericolo che i beni vengano dispersi. In pratica, lo Stato riconosce che se il debitore sta già pagando (seppur a rate), non ha senso sequestrargli beni (impoverendolo e magari impedendogli di produrre reddito per pagare). Questo è stato inserito nel D.Lgs. 87/2024. Quindi oggi, se un imprenditore si vede sotto indagine ma ha già concordato con l’Agenzia Entrate un piano di rientro e lo sta onorando, può chiedere tramite il suo avvocato il dissequestro dei beni eventualmente sequestrati, allegando le prove dei pagamenti effettuati. Salvo casi in cui il giudice tema che quei beni possano sparire (pericolo di periculum particolare), il sequestro deve essere revocato. Questo è un potente strumento difensivo: spesso in passato si assisteva a situazioni paradossali in cui l’azienda voleva pagare ma aveva i conti sequestrati e non poteva farlo; ora il legislatore ha voluto rimuovere questo ostacolo.
In generale, contro un decreto di sequestro l’indagato può proporre riesame al tribunale, contestando la mancanza di fumus (es. sostenendo che l’imposta non è dovuta, o che l’importo è calcolato male e sotto soglia) o l’assenza di esigenze cautelari. Ad esempio, se c’è fondato dubbio che l’evasione contestata non abbia raggiunto la soglia penale, il riesame potrebbe ridurre o annullare il sequestro. Oppure, se i beni sequestrati sono estranei al profitto (ad es. sequestrati conti di una persona giuridica diversa dall’autore, senza prova di interposizione), si può chiederne la restituzione.
Va ricordato che la confisca (e dunque il sequestro) può colpire anche i beni nella disponibilità indiretta dell’imputato: spesso se l’imprenditore ha spostato soldi su conti di familiari o su società terze, la Cassazione consente la confisca in capo a questi soggetti se risulta che i beni sono in realtà dell’imputato (il classico prestanome). Quindi difendersi dicendo “ma i soldi evasi li ha la mia compagna, a nome suo” non funziona: si rischia la confisca per equivalente ugualmente, a meno che si provi la buona fede del terzo.
In caso di sottrazione fraudolenta (art.11), poi, il sequestro può riguardare proprio i beni oggetto degli atti fraudolenti (es. l’immobile che Tizio ha finto di vendere al figlio). Un aspetto difensivo qui è contestare la “pertinenzialità” temporale: se ad esempio l’atto di disposizione è molto antecedente ai primi atti di accertamento del debito, la difesa può sostenere che quel bene non fu alienato “in vista” della riscossione e dunque chiederne la liberazione (es.: “ho venduto l’immobile nel 2018, ma l’avviso di accertamento è arrivato nel 2020, non potevo prevederlo con certezza”). Ovviamente, se ci sono elementi che dimostrano la preordinazione (magari la verifica fiscale era iniziata nel 2018 e lui ha venduto durante…), l’argomento crolla.
Sintesi pratica: per il contribuente che subisca un sequestro penale per reato tributario, le mosse da considerare sono: (a) attivare subito, se possibile, una rateazione o pagamento del debito e presentare istanza di revoca del sequestro ai sensi del nuovo art. 12-ter (come modificato nel 2024) citando l’avvenuto piano di rientro; (b) in mancanza di ciò, proporre riesame contestando soglia/fumus; (c) ove il riesame sia negativo, valutare accordi col PM per destinare i beni sequestrati direttamente al pagamento del tributo (a volte il Fisco e l’indagato possono concordare che quei beni vadano all’Erario estinguendo in parte il debito e chiudendo almeno il fronte amministrativo).
Termini di prescrizione e riforma “Cartabia”
La prescrizione dei reati tributari segue le regole generali del codice penale, con alcune particolarità legate ai tempi di consumazione. Riassumiamo i termini di base dei reati trattati:
- Dichiarazione infedele: 6 anni (pena max 5 anni, ma minimo 6 essendo delitto) dalla presentazione della dichiarazione.
- Omessa dichiarazione: 6 anni (pena max 6 anni, comunque minimo 6 per delitto) dal giorno di scadenza del termine di presentazione.
- Occultamento scritture: 6 anni (pena max 7,5? In realtà 7 anni, però va considerato che la prescrizione non può essere inferiore a 6; qui sarebbe 7, ma la legge fissa il massimo edittale come termine: 7 anni. Poi atti interruttivi +1/4 -> 8 anni 9 mesi circa).
- Omesso versamento ritenute: 6 anni (pena max 2 anni, portata a 6 per minima delitto) decorrenti dal termine di presentazione 770 (31 ottobre anno successivo).
- Omesso versamento IVA: 6 anni (pena max 2 anni -> 6) decorrenti dal 31 dicembre anno successivo al dichiarativo.
- Indebita compensazione non spettanti: 6 anni (pena max 2 -> 6) dal momento di presentazione F24 con cui si realizza l’indebito (o, se avvenuto ripetutamente, forse dal termine dell’anno fiscale).
- Indebita compensazione inesistenti: 6 anni (pena max 6? anzi 6 anni -> 6 di base) dal momento dell’operazione (o termine anno).
- Sottrazione fraudolenta: 6 anni base (pena max 6 -> 6) dal compimento dell’atto fraudolento.
A questi si applicano gli eventuali aumenti per atti interruttivi (secondo art. 161 c.p., nei processi iniziati prima del 2020; per quelli dopo, la riforma del 2017 ha eliminato l’aumento di 1/4? È un po’ complesso: diciamo che se si procede con imputazione, la prescrizione può protrarsi di un quarto in più per via delle sospensioni/interruzioni, secondo vecchie norme ancora applicabili a reati commessi prima di 2020; la Cartabia ha introdotto piuttosto l’improcedibilità in appello in luogo del blocco prescrizionale di Bonafede).
La riforma Bonafede (L.3/2019), entrata in vigore nel 2020, aveva previsto che dopo la sentenza di primo grado la prescrizione si bloccasse definitivamente. Ciò avrebbe significato che i reati tributari, una volta arrivati a condanna di primo grado, sarebbero rimasti pendenti senza limite in appello. Tuttavia, la riforma Cartabia (L.134/2021) ha modificato di nuovo le cose: oggi la prescrizione continua a decorrere fino alla sentenza di primo grado, e poi si ferma (come voleva Bonafede), ma subentrano termini di improcedibilità per i gradi superiori (2 anni per appello, 1 anno per Cassazione, prorogabili in casi complessi). In pratica, per i reati con pena edittale fino a 6 anni (come quasi tutti quelli esaminati, tranne occultamento 7 anni e aggravato art.11 6 anni), il processo d’appello deve concludersi entro 2 anni, altrimenti scatta l’improcedibilità; analogo discorso per la Cassazione (1 anno). Ciò significa che, di fatto, per reati tributari non aggravati oltre 6 anni, il sistema garantisce una sorta di “prescrizione processuale” in appello se c’è ritardo. Ad esempio, un’omessa dichiarazione condannata in primo grado nel 2024 dovrà avere sentenza d’appello entro il 2026, altrimenti il processo finisce improcedibile (salvo proroghe max 1 anno se complessità eccezionale). Questo incentiva definizioni veloci (patteggiamenti, etc.) e impone all’accusa di muoversi con celerità.
Implicazioni pratiche: Per la difesa, la prescrizione può essere una “rete di sicurezza” specie in casi di modesta gravità dove magari la condotta è vecchia di parecchi anni. A volte, puntare a far slittare l’apertura del dibattimento oltre il termine di prescrizione (specie se l’imputato non riesce a pagare e quindi non ha esimenti) è una tattica – benché con la Cartabia ora i tempi dei processi dovrebbero essere più controllati. Ad esempio, se Caio è imputato per infedele dichiarazione 2017 (prescrizione 6 anni, quindi scade fine 2023), ed è già 2025 senza che il dibattimento sia iniziato, la difesa potrà eccepire la prescrizione maturata e far chiudere il caso. In molte situazioni, chiedere perizie o allungare i tempi non conviene (perché la sospensione per perizia non sospende la prescrizione per la Cartabia? In realtà la sospensione tecnica sì ferma la prescrizione, ma l’improcedibilità poi no; è complicato: in sintesi, allungare artificiosamente può non impedire l’improcedibilità ma può comunque portare a conclusione anticipata in appello).
La conoscenza esatta dei tempi di decorrenza è fondamentale: ricordiamo che per i reati dichiarativi il termine iniziale è la data di presentazione/mancata presentazione (su questo Cassazione è ferrea: “la prescrizione decorre dal giorno in cui andava presentata la dichiarazione”, non dalla scoperta dell’evasione). Quindi a volte, al momento in cui il PM procede, una parte del tempo è già trascorso. L’uso del ravvedimento operoso (presentare tardivamente la dichiarazione) può influire? La presentazione tardiva entro l’anno successivo evita proprio il reato (causa di non punibilità), quindi se il ravvedimento è valido non c’è reato e la prescrizione non corre neppure. Se però il ravvedimento è fuori tempo massimo, potrebbe far decorrere il reato da quel momento? No, la consumazione è già avvenuta alla scadenza originaria; la presentazione tardiva non sposta la consumazione (può semmai essere considerata ai fini delle attenuanti generiche).
Patteggiamento e definizioni alternative
Nel campo dei reati tributari vi sono state evoluzioni importanti riguardo l’applicazione della pena su richiesta (patteggiamento) e altre modalità deflattive.
Patteggiamento (art. 444 c.p.p.): Consente all’imputato di concordare col PM una pena ridotta (fino a 1/3) ed evitare il dibattimento. Tradizionalmente, per i reati fiscali la possibilità di patteggiare era condizionata dal pagamento del debito tributario (art. 13-bis D.Lgs. 74/2000, introdotto nel 2015, disponeva che il patteggiamento fosse ammesso solo se prima l’imputato avesse estinto il debito tributario). In sostanza, voleva essere un incentivo a pagare: niente sconto di pena se non paghi il Fisco. Tuttavia, la giurisprudenza ha poi smussato questa regola. Con una storica sentenza del 2019 (Cass. pen. Sez. III n. 10800/2019), la Corte Suprema ha stabilito che anche i reati di dichiarazione infedele, omessa dichiarazione e occultamento di scritture possono accedere al patteggiamento senza preventiva estinzione del debito. Il ragionamento è stato: se per quei reati (artt. 4,5,10) il ravvedimento operoso estingue proprio il reato (art.13 co.2), allora non si può pretendere come condizione di patteggiamento qualcosa che, se realizzato, farebbe venire meno il reato stesso. Inoltre la Cassazione già nel 2018 aveva detto lo stesso per i reati di omesso versamento e indebita compensazione: la causa di non punibilità per pagamento toglie la rilevanza penale, quindi o paghi (e sei fuori dal penale) o se non hai pagato puoi patteggiare perché il debito ancora c’è. Di fatto, oggi la prassi è che il patteggiamento è generalmente ammesso anche se il debito fiscale non è stato saldato, per tutti i reati tributari, eccetto forse i casi di frode più gravi (dove comunque l’art. 13-bis imponeva il pagamento, ma anche lì la giurisprudenza tende ad applicare gli stessi principi di logica).
Per il debitore/imputato, ciò significa che può negoziare un patteggiamento per chiudere rapidamente il procedimento con una condanna ridotta (spesso con pena sospesa se incensurato), anche se non è riuscito a pagare le imposte evase. Ad esempio, se aveva un’omessa IVA da 300k e non è riuscito a trovare i soldi, potrà comunque patteggiare magari 1 anno di reclusione (ridotto per circostanze attenuanti generiche) senza dover per forza pagare prima. Ovviamente, se riesce a pagare, meglio: oltre a estinguere il reato (in certi casi) può sperare addirittura nell’archiviazione. Ma se non può pagare, il patteggiamento è la via per evitare una lunga causa e il rischio di pena più alta.
Messa alla prova (MAP): La sospensione del processo con messa alla prova è un istituto che consente all’imputato di svolgere un programma di trattamento (lavori socialmente utili, risarcimento danni ecc.) per un certo periodo, al termine del quale, se con esito positivo, il reato viene estinto. È applicabile ai reati con pena edittale massima fino a 4 anni (come tutti quelli qui tranne art.4 e art.5 dopo 2019, occultamento e crediti inesistenti, questi superano 4). Quindi, per i reati di omesso versamento (pena max 2 anni), l’indebita compensazione non spettante (2 anni), omesso 770 (5 anni ma riducibile?), in teoria la MAP è concedibile. Nella pratica, però, la messa alla prova per reati tributari non è diffusissima, anche perché spesso l’imputato preferisce patteggiare che fare lavori sociali e comunque pagare il debito (il programma di MAP di solito includerebbe il pagamento del dovuto come “risarcimento”). Tuttavia, può essere un’opzione: ad esempio, un imprenditore imputato per omesso versamento IVA €100k potrebbe chiedere la MAP, impegnandosi a fare volontariato tot ore e a pagare, entro la fine del periodo, l’importo dovuto. Se il giudice gliela concede e lui adempie, il reato è dichiarato estinto. Diciamo che è una “probation” che porta allo stesso esito dell’art.13 (non punibilità), ma passando per il controllo giudiziario. Può avere senso se l’imputato ha bisogno di più tempo per pagare oltre il limite del dibattimento (la MAP può durare anche 1-2 anni): in tal caso, ottiene tempo extra rispetto al limite di apertura dibattimento, con la supervisione del tribunale.
Giudizio abbreviato: Altra modalità deflattiva è il giudizio abbreviato, che dà diritto a riduzione 1/3 della pena se si rinuncia al dibattimento. Può essere considerato, ma spesso il patteggiamento è preferito perché nel patteggiamento c’è accordo e possibilità di concordare anche le pena accessorie (che qui tuttavia non sono rilevanti, non essendoci pene accessorie automatiche se la pena inflitta è sotto 2 anni). Nei reati tributari, la scelta tra abbreviato e patteggiamento dipende da quanto la difesa ritiene di avere chance di assoluzione: se c’è un buon punto giuridico (es. contestazione soglia, incertezza norma) che il GUP potrebbe accogliere, conviene abbreviato (tentare l’assoluzione, con sconto pena se va male). Se la responsabilità è evidente e non si può pagare per uscire, patteggiamento conviene per avere la pena minima pattuita.
Multe e pene accessorie: I reati del D.Lgs. 74/2000 non prevedono multe penali, solo reclusione. Però ci sono alcune sanzioni accessorie possibili: ad esempio, il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza di condanna per reati tributari in casi di particolare gravità; inoltre, se la pena supera i 2 anni, scatta l’interdizione dai pubblici uffici per la durata pena (effetto generale di ogni condanna). In passato era prevista una interdizione da incarichi direttivi di persone giuridiche per alcuni reati tributari sopra 2 anni, ma non è chiaro se esplicitamente introdotta – mi pare di sì con la riforma 2019: introdusse sanzioni accessorie automatiche (come l’incapacità di contrattare con la PA per 1 anno se condannato per dichiarazione fraudolenta, ecc.). Comunque, per i reati “senza frode” queste sanzioni accessorie non automatiche raramente vengono applicate, specie se la pena sta sotto 2 anni (sospensione condizionale).
Speciale causa di esclusione della punibilità (pagamento integrale): L’abbiamo già trattata, ma giova ribadire: l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede due casi:
- co.1: Non punibilità di omessi versamenti (ritenute, IVA) e indebita compensazione non spettante se paghi tutto prima del dibattimento.
- co.2: Non punibilità di infedele e omessa dichiarazione se paghi tutto col ravvedimento operoso (dichiarazione omessa presentata entro anno successivo con pagamento, oppure integrativa per infedele) prima di sapere di accertamenti.
Queste sono vere e proprie “cause di estinzione” del reato. Il giudice le dichiara d’ufficio se ravvisa che le condizioni sono rispettate (tipicamente su istanza della difesa corredata da prova del versamento). Anche in appello o Cassazione possono emergere: se ad esempio dopo il primo grado l’imputato paga tutto e il dibattimento di primo grado non era stato aperto (ad esempio aveva patteggiato, ma poi la Cassazione annulla e rimanda… casi complessi, comunque il pagamento in extremis può condurre a proscioglimento).
Nuova causa di non punibilità per “forza maggiore” (art. 13 co.3-bis): Inserita col D.Lgs. 87/2024, ne abbiamo parlato: se l’omissione di versamento dipende da cause di forza maggiore sopravvenute non imputabili, il fatto non è punibile. Questa è applicabile a omessi versamenti IVA e ritenute. Non copre i reati dichiarativi (infedele/omessa) né le compensazioni fraudolente (che hanno la loro esimente per incertezza normative in co.2-bis). Si tratta di una innovazione che porta dentro il diritto penale tributario il concetto penalistico classico di forza maggiore (art. 45 c.p.). L’onere della prova spetta alla difesa: occorre convincere il giudice che, ad esempio, il contribuente voleva pagare ma non ha potuto per ragioni indipendenti dalla sua volontà, come insolvenze a catena dei clienti, blocco dei crediti verso PA, ecc., e che ha fatto tutto il possibile per reperire i fondi (anche indebitarsi) senza successo. Se il giudice concorda, emette sentenza di non doversi procedere (fatto non punibile per causa speciale).
Vale la pena notare che con queste aggiunte il sistema penal-tributario diventa più “permeabile” a valutazioni equitative e di proporzionalità: paga = esci; impossibilità oggettiva = esci; piccolo importo = particolare tenuità (forse applicabile per reati con pena <=5 anni e soglie appena superate, es. infedele evaso 120k su 100k, potrebbe starci un 131-bis se l’evasione è di poco superiore alla soglia ed è circoscritta, cfr. recenti pronunce che estendono 131-bis anche a reati con soglie penal tributarie minime).
Rapporti tra processo penale e processo tributario
Un punto delicato è la interazione tra l’accertamento tributario e il giudizio penale. Tradizionalmente, i due procedimenti erano indipendenti (principio di “doppio binario”). Ciò significava che si poteva essere condannati penalmente per infedele dichiarazione anche se poi, in sede tributaria, parte dell’imposta veniva annullata o ricalcolata, e viceversa. Questo a volte generava contraddizioni e questioni di ne bis in idem (soprattutto sul fronte sanzionatorio, con due sanzioni per lo stesso fatto: una amministrativa e una penale – tematica portata anche davanti alla CEDU, ad es. caso Grande Stevens e poi sentenza CEDU A. e B. c. Norvegia). L’Italia ha cercato di allinearsi prevedendo meccanismi di coordinamento.
Già il D.Lgs. 74/2000 prevede (art. 20) che le sentenze penali irrevocabili di condanna o assoluzione possano essere utilizzate nel giudizio tributario, e viceversa le sentenze tributarie non vincolano il penale ma possono essere acquisite. Era però poca cosa.
La delega fiscale 2023 ha chiesto di dare “specifico rilievo alle definizioni raggiunte in sede amministrativa e giudiziaria”. Così, il D.Lgs. 87/2024 ha introdotto gli articoli 21-bis e 21-ter. In sintesi:
- Art. 21-bis: se nel processo penale per reati tributari emerge una sentenza irrevocabile del giudice tributario riguardante gli stessi fatti, il giudice penale ne tiene conto ai fini della prova circa l’esistenza del debito d’imposta o altri elementi. Ad esempio, se la Commissione Tributaria ha annullato l’accertamento, il giudice penale dovrà valutare seriamente quel pronunciamento e potrebbe assolvere per mancanza del fatto (imposta non dovuta). Oppure, se la Commissione ha ridotto l’imponibile, il giudice penale dovrà ricalcolare l’imposta evasa su quella base (magari finendo sotto soglia).
- Art. 21-ter: se nel processo tributario l’esito dipende da valutare la sussistenza di un reato (ad es. frode fiscale), e c’è una sentenza penale irrevocabile su ciò, il giudice tributario è vincolato all’accertamento del penale se è di assoluzione nel merito o di condanna. Cioè, se penalmente Tizio è stato assolto perché il fatto non sussiste (es. fatture non erano false), allora il Fisco non potrà sostenere in sede tributaria che invece quelle fatture erano false per recuperare IVA. Viceversa, se penale condanna dice che erano false, il giudice tributario lo deve considerare assodato (salvo elementi nuovi in favore del contribuente, immagino, ma la norma vuole evitare giudicati contrastanti).
In sostanza, si tende a unificare l’accertamento del fatto materiale: debito d’imposta da un lato, condotta fraudolenta dall’altro, facendo sì che una decisione definitiva su quell’aspetto valga anche nell’altro ambito. Questo è un notevole passo avanti per la coerenza: eviterà situazioni come in passato dove uno veniva condannato per evasione di X euro mentre nel frattempo la Commissione diceva che X non era dovuto (per esempio, casi di transfer pricing contestato penalmente ma poi annullato in sede fiscale – ora, con l’art.21-bis, se l’annullamento arriva prima del penale, difficilmente il penale potrà condannare).
Dal punto di vista pratico, per il difensore del contribuente, ciò significa coordinare bene le strategie:
- Se c’è una forte ragione di merito per cui il tributo non è dovuto, conviene far marciare spedito il ricorso tributario per arrivare magari a sentenza prima del penale, e poi usarla nel penale (chiedendo magari una sospensione del procedimento penale in attesa del giudizio tributario, cosa ora possibile credo secondo art. 20 modificato). Esempio: imputato per infedele dichiarazione su rilievi fiscali dubbi – meglio far decidere la Commissione, se assolve fiscalmente, portare la vittoria in penale e puntare all’assoluzione lì.
- Attenzione però: il processo tributario può anche finire male (confermando il debito). In tal caso la prova del debito in penale è rafforzata e la difesa avrà meno margini per negare l’evasione (potrà discutere solo l’elemento soggettivo ad es.). Quindi, bisogna valutare le probabilità: se pensiamo di perdere in tributario, forse conviene cercare di chiudere il penale prima (patteggiamento con pena mite e poi transare in amministrativo), per evitare che una sentenza tributaria peggiori la posizione penale (anche se formalmente non vincolante, di fatto orienta).
- Le definizioni amministrative (come adesione, conciliazione, rottamazione): se l’imputato definisce in adesione l’accertamento, quell’atto non è una sentenza ma è un accordo in cui riconosce un certo debito. Ciò in penale equivale quasi a una “confessione” parziale dell’evasione. Però dall’altro lato consente pagamenti ridotti. Di solito, una definizione amministrativa con pagamento entro il dibattimento porta alla non punibilità ex art.13 (se integrale): quindi perfetto. Se la definizione è al 50% del debito e l’imputato paga solo quello, fiscalmente il resto è condonato ma penalmente potrebbe residuare problema? Su questo la giurisprudenza ha detto che la definizione agevolata (es. condono o rottamazione) non estingue il reato se non c’è pagamento integrale di imposta e sanzioni. Quindi attenzione: rottamare una cartella (pagando solo imposte senza sanzioni) non soddisfa l’art.13 (che richiede anche sanzioni amministrative pagate) – occorre comunque far fronte al totale se si punta all’esimente.
Ne bis in idem: Ricordiamo infine che attualmente, grazie ai correttivi legislativi, l’ordinamento ritiene che non vi sia violazione del ne bis in idem nel fatto che un contribuente subisca sia sanzioni amministrative tributarie (pecuniarie) sia un processo penale per il medesimo fatto, in quanto le sanzioni tributarie sono di natura amministrativa. La CEDU in passato ci ha richiamati (caso Grande Stevens per il market abuse, e casi su reati tributari come A. e B. c. Norvegia che però hanno detto che il doppio binario può coesistere se coordinato). Oggi la situazione è: se l’amministrazione fiscale infligge una sanzione, il giudice penale in caso di condanna può tenerne conto per ridurre la pena e garantire proporzionalità complessiva. Ad esempio, se Tizio ha già pagato una multa tributaria salata del 120% per l’omesso versamento, il giudice nel dosare la pena potrà considerare che Tizio ha già subito una afflizione economica, così da non punirlo due volte eccessivamente (questo in applicazione dei principi UE di proporzionalità). La direttiva PIF ha spinto gli stati a punire penalmente le frodi serie, ma consente di mantenere sistemi doppi se c’è coordinamento.
Riassumendo: dal punto di vista del debitore/imputato, è importante coordinare difesa penale e tributaria, comunicare tra avvocato penalista e tributarista, e cogliere eventuali spiragli di definizione in uno che possano giovare all’altro (pagare l’imposta riduce o annulla la sanzione penale; un’assoluzione penale può aiutare nell’ambito tributario su questioni fattuali, e viceversa).
Nei paragrafi seguenti, concludiamo la guida con una sessione di domande e risposte sui dubbi più comuni e con una tabella riepilogativa finale degli strumenti difensivi.
Domande frequenti (FAQ)
D: Un’evasione sotto le soglie non è quindi reato?
R: Esatto. Le soglie di punibilità indicate (50k, 100k, 150k, 250k a seconda dei casi) sono importi minimi perché il fatto assuma rilevanza penale. Se l’evasione è inferiore, non si configura il reato, ma restano comunque dovute le imposte e si applicano pesanti sanzioni amministrative tributarie (generalmente dal 90% al 180% dell’imposta evasa, riducibili se ci si ravvede). Ad esempio, dichiarare €30.000 in meno di IVA (evasione €6.600) non integra reato (soglia 250k lontana) ma comporta una sanzione del 100% circa (€6.600) in via amministrativa.
D: Se non c’è “dolo”, posso comunque essere punito per questi reati?
R: In senso tecnico, tutti i reati fin qui descritti richiedono almeno il dolo generico (consapevolezza e volontà di omettere il pagamento o la dichiarazione). Quindi se davvero lei non aveva intenzione di evadere – ad esempio un errore di calcolo in buona fede – potrà far valere l’assenza di dolo e chiedere l’assoluzione (in dubio pro reo). Tuttavia, l’esperienza insegna che spesso quello che il contribuente chiama “errore” è in realtà difficilmente scindibile da una negligenza grave o volontà di rischiare. Le cause di non punibilità introdotte (pagamento integrale o crisi di liquidità non imputabile) sono modi per evitare la pena anche in assenza di dolo pieno. Ma se per “senza dolo” intendiamo “senza intenzione”: un contribuente che, per sbaglio del commercialista, non presenta la dichiarazione, potrà difendersi mostrando che delegò a un terzo e non sapeva dell’omissione (ci sono casi di assoluzione così). Attenzione: ignorare la legge fiscale (“pensavo di non dover pagare”) non scusa, a meno che la norma fosse oggettivamente poco chiara (vedi esimente per crediti non spettanti in caso di incertezza normativa). In sintesi: la mancanza di dolo deve essere provata e non coincide con il semplice “non l’ho fatto apposta” dichiarato a posteriori.
D: Ho presentato la dichiarazione in ritardo di 1 mese: è reato di omessa dichiarazione?
R: No, per fortuna. La legge considera non punibile la dichiarazione presentata entro 90 giorni dal termine (sarà valida ai fini tributari, sebbene soggetta a sanzione amministrativa per tardività). Dunque un ritardo di un mese non integra l’omissione penalmente rilevante. Diventa reato se supera i 90 giorni e se vi è imposta evasa oltre 50k. Nel suo caso, presentazione tardiva di 30 giorni: nessun reato, solo sanzione amministrativa (in genere €250 riducibile con ravvedimento a €25).
D: Se pago tutto il debito col Fisco dopo essere stato denunciato, vado comunque a processo?
R: Dipende quando paga e per quali reati. Se paga prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, per i reati di omesso versamento (IVA, ritenute) e indebita compensazione di crediti non spettanti scatta la non punibilità automatica. Il giudice, verificato il pagamento integrale di imposta + sanzioni + interessi, emette sentenza di proscioglimento (il reato è estinto per legge). Lo stesso vale per dichiarazione infedele o omessa se il pagamento avviene in un ambito di ravvedimento operoso prima di sapere di verifiche (o presentando la dichiarazione omessa l’anno dopo). Se invece paga dopo l’apertura del dibattimento (cioè a processo già iniziato), formalmente la causa di non punibilità non si applica più; tuttavia, quel pagamento potrà essere valutato come attenuante e magari portare a una condanna mite (in alcuni casi i giudici l’hanno comunque equiparato a una quasi-esimente). In generale, prima paga meglio è: entro l’inizio del processo evita la condanna del tutto (per quasi tutti i reati “di omesso versamento”).
D: E se non posso pagare perché la mia azienda è fallita e non ho soldi personalmente?
R: In passato, la mancanza di risorse non evitava la condanna: i giudici rispondevano che la crisi di liquidità non esime dai reati tributari. Ma oggi c’è una norma nuova (dal 2024) che potrebbe aiutarla: se davvero il mancato pagamento è dovuto a cause non imputabili a lei, ad esempio il fallimento della sua azienda e l’assenza di patrimonio, il giudice può dichiarare il fatto non punibile per forza maggiore sopravvenuta. Dovrà però dimostrare che la crisi non è dipesa da sue scelte imprudenti ma da fattori esterni (es. clienti insolventi, crollo del mercato) e che lei non aveva alcun modo di fronteggiarla (ha tentato invano di ottenere credito, ecc.). In caso contrario – se la crisi è ritenuta “rischio di impresa” ordinario – la legge non esclude il reato, e purtroppo potrebbe essere condannato (magari con pena lieve, sospesa). Valuti con un legale la sua situazione specifica: la giurisprudenza in materia sta evolvendo.
D: Quali difese ho se mi sequestrano tutti i beni per l’evasione contestata?
R: Innanzitutto controllare che il calcolo del “profitto” sequestrato sia corretto: a volte sequestrano importi troppo alti (inclusi interessi o sanzioni amministrative, che per la Cassazione non vanno confiscati, solo l’imposta evasa è profitto). Poi, se ha rateizzato il debito col fisco, presentare subito istanza di revoca del sequestro alla luce della norma 2024 che lo impone salvo rischi di dispersione. Se non ha rateizzato, può chiedere un riesame entro 10 giorni dalla notifica del sequestro, contestando ad esempio che l’evasione è sotto soglia o che quei beni non c’entrano. Se il riesame va male, può valutare un ricorso per Cassazione o nel frattempo cercare un accordo con l’Agenzia Entrate: ad esempio, offrire quei beni come garanzia (ipoteca) per ottenere la liberazione dal sequestro penale. In parallelo, può cercare di pagare parzialmente: talvolta mostrando la volontà di pagamento, il PM può allentare il sequestro. In sintesi, il sequestro non è definitivo: se dimostra che sta pagando oppure che il reato non sussiste, può ottenerne la restituzione.
D: Posso patteggiare la pena anche se non ho estinto il debito fiscale?
R: Sì. Oggi è pacifico che il patteggiamento sia possibile anche senza aver pagato il debito tributario. La condizione del pagamento previo era stata introdotta nel 2015, ma la Cassazione l’ha di fatto disapplicata per i reati che prevedono cause di non punibilità (come abbiamo spiegato) e in generale per omogeneità di trattamento. Dunque, il PM generalmente acconsente al patteggiamento se la pena concordata è congrua, indipendentemente dallo stato dei pagamenti. Naturalmente, se lei ha pagato tutto, potrebbe addirittura non dover patteggiare (il caso viene archiviato per non punibilità). Se non ha pagato, patteggiare è spesso consigliabile: otterrà uno sconto 1/3 sulla pena e chiuderà la vicenda più rapidamente, evitando anche i costi e i rischi del dibattimento. La pena concordata potrà beneficiare della sospensione condizionale se i requisiti ci sono (prima condanna, sotto 2 anni, ecc.). Ad esempio, per un’omessa dichiarazione con pena base intorno a 2 anni, patteggiando può scendere a 1 anno e 4 mesi, che con la condizionale probabilmente non dovrà scontare in carcere.
D: Dopo la condanna penale dovrò comunque pagare le imposte evase?
R: Sì. Il procedimento penale non sostituisce quello tributario. Anche se lei viene condannato penalmente, l’obbligo di pagare le imposte evade (al netto magari di qualche definizione agevolata) rimane. Anzi, la condanna penale aggrava la posizione perché il fisco userà quella sentenza per iscrivere a ruolo le somme (se non l’aveva già fatto) e procederà alla riscossione coattiva. In caso di patteggiamento, spesso l’imputato si impegna a pagare il debito come parte dell’accordo, ma legalmente la condanna non estingue affatto il debito tributario sottostante. Solo pagando tramite gli strumenti fiscali (ravvedimento, accertamento con adesione, ecc.) può chiudere anche con il fisco. Perciò ci si può trovare, paradossalmente, puniti due volte: pagare le tasse (con interessi e sanzioni) e aver subito una condanna. Tuttavia, gli strumenti come la sospensione condizionale della pena possono vincolare la concessione della condizionale al pagamento del debito (il giudice può imporre come obbligo ex art. 165 c.p. il pagamento di una parte del debito tributario, ad esempio almeno il 30%, entro un certo termine, pena la revoca della condizionale). Questo meccanismo viene usato per stimolare il condannato a regolarizzare: se non paga, rischia di dover scontare la pena. Quindi, la risposta breve: sì, deve comunque pagare le imposte evase (a meno che non siano state condonate da una definizione agevolata, ma quello è distinto dal penale).
D: La mia società può essere incriminata per questi reati?
R: Di per sé, i reati tributari del D.Lgs. 74/2000 sono a carico delle persone fisiche (amministratori, legali rappresentanti, ecc.). La società in quanto tale non viene processata penalmente, tranne nei casi previsti dal D.Lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti. Attualmente, alcuni reati tributari fraudolenti sono stati inclusi nel catalogo 231 (in particolare: dichiarazione fraudolenta, emissione di fatture false, sottrazione fraudolenta aggravata) in attuazione di obblighi europei. Quindi, se l’azienda è coinvolta in frodi IVA gravi, può subire un procedimento 231 (con sanzioni pecuniarie, ecc.). Ma i reati “senza dolo” di cui abbiamo parlato (infedele, omessa, omessi versamenti) non sono reati-presupposto 231 (non ancora, almeno). Ciò significa che la sua società in sé non verrà imputata per quei reati; saranno imputate le persone fisiche responsabili. Attenzione però: la società resta debitrice verso il fisco e subisce le azioni esecutive (es. pignoramenti) e le sanzioni amministrative tributarie. Inoltre, una condanna del legale rappresentante può riflettersi indirettamente sulla società (perdita di fiducia dei partner, magari inibizioni a contrarre con la PA se la società è considerata rischiosa, etc.). Ma non c’è un secondo processo penale a carico dell’ente, salvo per art. 11 aggravato oltre 100k (che è incluso come reato presupposto 231, se l’atto fraudolento è commesso nell’interesse della società). In conclusione: l’ente in sé di solito non viene sanzionato penalmente per i reati omissivi d’imposta, ma risponde “solo” sul piano fiscale patrimoniale.
D: Cosa significa “obiettiva incertezza normativa” per non punire un’indebita compensazione?
R: Significa che, se la legittimità del credito utilizzato in compensazione era dubbia a causa di norme poco chiare o interpretazioni contrastanti, il legislatore preferisce non punire penalmente chi ha agito in quel contesto di incertezza. Ad esempio, se lei ha compensato un credito d’imposta confidando in una certa interpretazione della legge (magari supportata da una consulenza o da prassi di allora), e solo dopo un chiarimento ufficiale è emerso che quel credito non spettava, allora il suo comportamento, pur formalmente indebito, non sarà punibile penalmente (rimane l’obbligo di versare in sede amministrativa). Questa clausola tutela la buona fede del contribuente di fronte a leggi fiscali complesse e mutevoli. Va provato però che l’incertezza fosse oggettiva (esempio: due diverse circolari dell’Agenzia sul punto, oppure una giurisprudenza altalenante). Non vale se la “incertezza” era solo soggettiva (cioè solo lei era confuso ma la norma era chiara per tutti).
D: Dopo quanti anni cade in prescrizione un reato tributario?
R: Dipende dal reato. In generale, molti di questi reati hanno termini di prescrizione base di 6 anni (alcuni 7 o 8) dal momento in cui si consumano. Ad esempio: dichiarazione infedele/omessa – 6 anni dalla scadenza; omesso versamento IVA – 6 anni dal 31 dicembre dell’anno successivo; occultamento scritture – 6 anni dall’atto di occultamento (estensibili a ~8 con atti interruttivi). La riforma Cartabia richiede che eventuali appelli siano conclusi entro 2 anni, il che di fatto impedisce lunghi trascinamenti oltre 8-9 anni totali. In pratica, se trascorrono più di 6-7 anni senza sentenza definitiva, c’è un forte rischio di estinzione per prescrizione o improcedibilità. Ad esempio, un’omessa dichiarazione 2015 (consumata a nov 2015) maturerà prescrizione a nov 2021 (6 anni) estesa a metà 2023 con atti, e col nuovo regime se l’appello non finisce entro 2 anni dalla condanna di primo grado si fermerà lì. Diciamo che 7-8 anni è un orizzonte oltre il quale difficilmente un reato tributario non fraudolento sarà ancora perseguibile, salvo vicende sospensive particolari. Naturalmente, se nel frattempo è intervenuta una causa di non punibilità (pagamento, ecc.), il problema prescrizione neanche si pone perché il reato si estingue prima per quella causa.
D: La Guardia di Finanza mi ha fatto un processo verbale di constatazione: quando scatta la denuncia penale?
R: Di solito subito dopo, se emergono reati. La GdF trasmette il verbale all’Agenzia delle Entrate e alla Procura. La denuncia penale (notizia di reato) viene inviata in Procura entro pochi giorni dalla conclusione della verifica, quando sono stati riscontrati elementi penalmente rilevanti. Non sempre l’imprenditore lo sa immediatamente: a volte la GdF glielo anticipa a voce (“lei sarà segnalato all’Autorità Giudiziaria”), altre volte lo scopre quando riceve un invito a comparire o un decreto di sequestro dalla Procura. In genere, se sul PVC c’è scritto che sono stati violati articoli del D.Lgs. 74/2000, può star sicuro che la segnalazione al PM parte. Da lì, il PM può anche attendere gli sviluppi amministrativi (es. aspettare l’esito dell’accertamento fiscale) prima di agire, ma intanto iscrive la notizia di reato. In sintesi: la “scintilla” è il PVC delle Fiamme Gialle o un controllo AE, e la denuncia scatta quasi contestualmente. Tempi: di norma, entro qualche mese al massimo sarà iscritto e in un anno potrebbe ricevere notizie.
D: In caso di condanna, avrò la fedina penale sporca?
R: Sì, una condanna penale anche a pena sospesa risulta nel casellario giudiziale (salvo eventuale non menzione ma comunque c’è per l’autorità). I reati tributari sono delitti quindi non sono “cancellabili” con oblazione o altro, occorre eventualmente la riabilitazione dopo 3 anni dal fine pena. Tuttavia, se ottiene la sospensione condizionale e non commette altri reati per 5 anni, quella condanna non avrà ulteriori effetti e potrà chiedere la riabilitazione per ripulire il casellario. In alcuni casi, per reati minori, si può ottenere la non menzione (su istanza, il giudice può disporre che non compaia nel certificato penale per i privati). Ma agli effetti legali rimane una condanna penale. L’impatto dipende dal suo ruolo: se è imprenditore potrebbe avere difficoltà ad esempio con appalti pubblici (una condanna per reati tributari potrebbe essere valutata come elemento negativo nei requisiti, specie se recente). C’è la possibilità dell’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova (in tal caso non c’è condanna, niente casellario) – ecco un altro motivo per cui qualcuno preferisce la MAP: evitare proprio la macchia di una condanna. Patteggiare invece è una condanna a tutti gli effetti (con formula di rito).
D: La definizione fiscale dei debiti (rottamazione, condono) estingue pure il reato?
R: No, non automaticamente. Ad esempio, la rottamazione delle cartelle permette di pagare solo l’imposta senza sanzioni, ma non integra il pagamento “delle sanzioni” richiesto dall’art.13 per estinguere il reato. La Cassazione ha chiarito che aderire a queste definizioni agevolate non fa venir meno il reato se non c’è integrale versamento come richiesto dalla norma penale. L’unico modo sicuro è il pagamento integrale di imposta + interessi + sanzioni (o ravvedimento operoso). Dunque, usare il “saldo e stralcio” o il “condono” fiscale può risolvere la posizione debitoria con l’Agenzia, ma il PM potrebbe proseguire lo stesso. Tuttavia, in alcuni casi la giurisprudenza ha valutato la definizione come elemento attenuante. Ad esempio se con la rottamazione lei paga l’imposta e risparmia le sanzioni, penalmente il reato c’è ancora, però il giudice potrebbe considerare che ha almeno versato il dovuto capitale e quindi modulare la pena al minimo. Insomma, attenzione: l’unica chiave per chiudere il penale è l’adempimento integrale secondo art.13, non il condono parziale. Fanno eccezione eventuali normative future che prevedano espressamente l’estinzione del reato se si aderisce (come fu ipotizzato in passato); ma ad oggi, le rottamazioni 2023/2024 non contengono scudi penali.
D: Ho ricevuto un avviso di garanzia per dichiarazione infedele, ma in realtà credo di aver ragione sul piano fiscale: posso far sospendere il processo penale finché non si decide in Commissione Tributaria?
R: È possibile chiedere al giudice penale una sospensione del processo in attesa dell’esito del contenzioso tributario, soprattutto alla luce delle nuove norme di coordinamento (21-bis e 21-ter). Il giudice valuterà se l’esito del giudizio tributario può influire in modo determinante sul penale. Se ad esempio la questione è puramente quantitativa (quanto reddito imponibile c’era), e c’è un appello pendente in Commissione che potrebbe annullare la pretesa, il giudice penale potrebbe rinviare in attesa di quella decisione per evitare giudicati contrastanti. Non è automatico, ma la riforma incoraggia a evitare duplicazioni di valutazione. Quindi, tramite il suo avvocato, può presentare un’istanza di sospensione del procedimento penale per pregiudizialità tributaria (art. 20 modificato): alcuni tribunali già lo fanno. Questo però dilata i tempi del penale – vantaggioso se si aspetta un’assoluzione in sede tributaria, ma se invece il tributario confermasse il debito, poi il penale riprende con peggior posizione. È un’arma a doppio taglio, va ponderata.
D: I reati tributari “senza dolo” possono essere oggetto di particolare tenuità del fatto (art. 131-bis)?
R: Sì, in teoria sì, ma con alcuni limiti. L’art.131-bis c.p. consente di non punire reati con pena massima fino a 5 anni se il fatto è di particolare tenuità e non abituale. Alcuni reati qui hanno pena max superiore a 5 (omessa dichiarazione 6 anni, occultamento 7, crediti falsi 6), quindi per quelli non si applica. Per altri invece rientrano: dichiarazione infedele (5 anni max, quindi sì), omesso versamento (2 anni), compensazione non spettante (2 anni). Quindi in questi casi il giudice potrebbe dichiarare la tenuità se l’evasione è minima sopra soglia. Ad esempio, infedele con imposta evasa €110k (appena oltre 100k): la soglia è superata di poco, se l’imputato è incensurato, potrebbe prospettarsi una particolare tenuità (anche se non è facilissimo, visto l’importo). Cassazione ha detto che soglie superate di poco + comportamento post-fatto virtuoso possono giustificare il 131-bis. Quindi, per rispondere: sì, è possibile, specialmente se l’evasione è di poco superiore al limite penale e l’autore non ha altri precedenti. Questa è una valutazione caso per caso.
D: Cos’è la “confisca per equivalente” di cui ho sentito parlare?
R: È lo strumento tramite cui, se non si trovano direttamente i proventi del reato, si possono confiscare altri beni dell’evasore di valore equivalente al profitto illecito. Nei reati tributari, spesso il “profitto” – cioè le imposte non pagate – non è più in un conto identificabile (magari sono state spese). Allora la legge consente di aggredire qualsiasi bene dell’imputato (conti, case, auto) fino a raggiungere la somma evasa. Questo è appunto la confisca per equivalente (che viene anticipata dal sequestro preventivo). È molto usata: ad esempio, evasi 200k, si sequestra la barca o l’immobile per 200k se l’evasore li possiede, anche se quei beni non provengono dall’evasione direttamente. La logica è di evitare che chi ha evaso tragga comunque beneficio mantenendo un patrimonio. Legalmente, dopo la condanna, quei beni vengono confiscati in via definitiva e di solito l’Agenzia delle Entrate Riscossione può chiedere che siano destinati a saldare il debito fiscale. Quindi, per il condannato equivale a perdere definitivamente beni per coprire il suo debito verso lo Stato. Attenzione: se poi l’imputato viene assolto o prosciolto, il sequestro/confisca viene revocato e i beni restituiti.
D: In sintesi, quali sono le “vie d’uscita” per un imputato di reato tributario senza frode?
R: Riassumendo:
- Pagare integralmente il dovuto quanto prima → causa di non punibilità (se prima del dibattimento).
- Dimostrare cause di forza maggiore per mancato pagamento (insolvenze, ecc.) → non punibilità ex art.13 co.3-bis (introdotto nel 2024).
- Ravvedersi spontaneamente (presentare dichiarazione tardiva e pagare) prima di controlli → non punibilità ex art.13 co.2.
- Invocare la particolare tenuità (evazione di poco oltre soglia, condotta non grave) → esclusione della pena ex art.131-bis c.p., se applicabile.
- Patteggiare → pena ridotta (di regola niente carcere effettivo se incensurato) e fine del processo velocemente.
- Messa alla prova → sospensione del processo e, se svolge lavori/ paga in parte, estinzione del reato senza macchia penale.
- Vincere nel merito (dimostrare assenza di dolo o inesistenza del debito in sede processuale) → assoluzione piena (ma ciò dipende dalle prove: è la strada “classica” dell’innocenza, più difficile in questi contesti dove di solito il fatto oggettivo è documentato).
In pratica, i casi in cui un imputato se la “cava” senza condanna sono: o perché ha riparato il danno (pagato) o perché effettivamente non poteva pagare (forza maggiore) o perché l’importo era modesto (tenuità). Diversamente, se l’evasione è grossa, colpevole e non riparata, una condanna penale è probabile; ma tramite patteggiamento si può limitare il danno (pena sospesa).
Conclusioni
Abbiamo visto come i reati fiscali “senza dolo fraudolento” costituiscano un sistema articolato volto a punire le forme più comuni di evasione materiale (omissioni di dichiarazione e di versamento) quando superano determinate soglie di gravità. Dal punto di vista del contribuente-debitore, il panorama è diventato un po’ più favorevole rispetto al passato: il legislatore e i giudici hanno introdotto meccanismi che premiano chi collabora e paga il dovuto (evitando il processo penale), e riconoscono margini di non punibilità in caso di vera impossibilità di pagare o di incertezze normative onestamente affrontabili. Resta tuttavia fondamentale per l’imprenditore o il privato essere consapevole delle soglie e delle scadenze: superare certe cifre in evasione porta dal campo amministrativo a quello penale, con conseguenze ben più serie.
Dal lato pratico, se ci si trova sotto inchiesta per un reato tributario senza frode, conviene affidarsi a professionisti competenti (penalista e tributarista), valutare subito le opzioni di regolarizzazione (anche parziale) e cooperare in modo strategico con l’autorità. Ogni scelta – pagare, patteggiare, fare causa – ha implicazioni che vanno ponderate alla luce delle norme illustrate.
L’auspicio è che questa guida, aggiornata alle ultime novità normative (fino alla riforma del 2024) e giurisprudenziali, possa servire da vademecum sia per i professionisti del diritto che per i contribuenti che vogliono comprendere i propri diritti e obblighi. Evitare il dolo è sempre la miglior politica: la compliance fiscale rimane la via maestra per non incorrere né in sanzioni né, tantomeno, in processi penali. Quando però l’errore o l’omissione sono già avvenuti, conoscere la legge consente di mitigare i danni e, se possibile, ritornare in bonis approfittando degli strumenti di ravvedimento offerti dall’ordinamento.
In chiusura, ricordiamo che il punto di vista del debitore deve sempre conciliarsi con l’interesse pubblico alla riscossione: le norme attuali cercano un equilibrio tra punire chi nasconde e non paga, e dare una seconda chance a chi dimostra impegno nel riparare. Conoscere tale equilibrio è il primo passo per affrontare consapevolmente un’eventuale contestazione penale tributaria.
Fonti e Riferimenti Normativi e Giurisprudenziali
- D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, articoli 2 – 11 (Disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e IVA): testo normativo di riferimento, come da ultimo modificato dal D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 (revisione sanzioni tributarie). In particolare si segnalano:
- Art. 4 (dichiarazione infedele): soglie €100k imposta e 10%/€2mln elementi attivi, pena 2-5 anni.
- Art. 5 (omessa dichiarazione): soglia €50k, pena 2-6 anni (max elevato da 5 a 6 nel 2019).
- Art. 10 (occultamento scritture cont.): pena 3-7 anni.
- Art. 10-bis (omesso versamento ritenute): soglia €150k, necessarie ritenute “certificate” ai sensi di Corte Cost. 175/2022, pena 6 mesi-2 anni.
- Art. 10-ter (omesso versamento IVA): soglia €250k (europeamente legittima), termine versamento ora 31 dicembre succ. (D.Lgs.87/24), pena 6 mesi-2 anni.
- Art. 10-quater (indebita compensazione): soglia €50k, distinzione co.1 crediti non spettanti (pena 6 mesi-2 anni) vs co.2 inesistenti (1½-6 anni); esimente incertezza normativa per co.1 (comma 2-bis) introdotta nel 2015.
- Art. 11 (sottrazione fraudolenta): soglia €50k, aggravante oltre €100k (dopo DL 124/2019), pena 6 mesi-4 anni (base) o 1-6 anni (agg.).
- Artt. 13, 13-bis, 13-ter: cause di non punibilità (pagamento integrale prima del dibattimento per omessi versamenti e compensazioni non spettanti; ravvedimento per infedele/omessa); sospensione processo per pagamento rateale in corso (fino 2 anni +2) e condizioni patteggiamento (13-bis). Nuovo comma 3-bis art.13 introdotto da D.Lgs. 87/2024 sulla non punibilità per crisi di liquidità sopravvenuta non imputabile.
- Artt. 21-bis e 21-ter D.Lgs. 74/2000: introdotti da D.Lgs. 87/2024, sul coordinamento tra giudicato penale e tributario.
- Cassazione Penale, Sez. III, 12 marzo 2019, n. 10800 – Principio di diritto: ammesso il patteggiamento ex art.444 c.p.p. senza previa estinzione del debito tributario per i reati di dichiarazione infedele, omessa dichiarazione e occultamento di scritture contabili. Estende indirizzo già valso per omessi versamenti (Cass. 38684/2018), evidenziando che se il ravvedimento estingue il reato, non può essere preteso come condizione per patteggiare.
- Corte Costituzionale, 14 luglio 2022, n. 175 – Ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della modifica 2015 all’art.10-bis che includeva le ritenute “dovute sulla base della dichiarazione”. Conseguenza: ripristinato il testo originario, il reato richiede omissione di versamento di ritenute certificate, restando il mero mancato versamento di ritenute non certificate come illecito amministrativo.
- Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 2 maggio 2018, causa C-574/15 (Taricco II/Varese) – Ha affermato che la normativa italiana che punisce penalmente solo l’omesso versamento IVA sopra €250k (vs €150k ritenute) non viola l’art.325 TFUE né la Convenzione tutela interessi finanziari (TIF 1995). L’omesso versamento IVA non è “frodi” ai sensi UE, essendo omissione successiva a dichiarazione veritiera, e le sanzioni amministrative (30% di cui all’art.13 D.Lgs.471/97) sono ritenute “effettive e dissuasive” per importi inferiori. Pertanto il differente trattamento rispetto alle ritenute e la soglia elevata sono compatibili.
- Cassazione Penale, Sez. III, 13 ottobre 2021, n. 43913 – Ha riconosciuto che la non punibilità ex art.45 c.p. (forza maggiore) può applicarsi agli omessi versamenti IVA in caso di crisi di liquidità assoluta dovuta a insoluti, se l’inadempimento del debitore è al di fuori del controllo dell’imprenditore. Questa pronuncia anticipava la soluzione legislativa del 2024, sottolineando che il mero rischio d’impresa non basta, ma situazioni eccedenti la fisiologia (insoluti non fisiologici) possono escludere il dolo.
- Cassazione Penale, Sez. III, 28 gennaio 2022, n. 3273 – Ha ribadito che la crisi di liquidità e la mancata riscossione di crediti non escludono il dolo nell’omesso versamento IVA, se rientrano nel rischio d’impresa ordinario. Ciò prima della riforma del 2024: ora la valutazione andrà rimeditata alla luce dell’art.13 co.3-bis.
- Cassazione Penale, Sez. III, 15 settembre 2023, n. 37826 – (citata in fonti ministeriali) Ha affermato che “nel reato di omesso versamento IVA, ai fini dell’esclusione della colpevolezza è irrilevante la crisi di liquidità … che rientra nel rischio di impresa”. Conferma l’orientamento pre-riforma: difficoltà finanziarie ordinarie non esentano. (Questa sentenza è presumibilmente antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs.87/24, quindi rappresenta lo status quo ante).
- Cassazione Penale, Sez. III, 11 novembre 2024, n. 41238 – Ha applicato la nuova normativa del 2024 annullando la condanna di un imprenditore per omesso versamento IVA in caso di fatture non incassate, riconoscendo la non punibilità per crisi di liquidità oggettiva. Secondo il massimario: “non commette reato l’imprenditore che non ha versato l’IVA perché non ha incassato le fatture” (nel caso, insolvenza dei clienti), prendendo atto del nuovo art.13 co.3-bis.
- Cassazione Penale, Sez. Unite, 27 settembre 2018, n. 37424 (Ricci) – (non citata sopra ma nota) Ha risolto un contrasto in tema di indebita compensazione: definendo crediti non spettanti vs inesistenti e sancendo che la causa di non punibilità per incertezza normativa si applica solo ai primi. (Riferimento dottrinale: Sistema Penale, “restyling del delitto di indebita compensazione”).
- Giurisprudenza di Merito (Tribunale Monza ord. 27/5/2021) – Ha sollevato questione di legittimità costituzionale sull’art.10-bis (eccesso delega e irragionevolezza soglia vs art.10-ter), poi assorbita dalla pronuncia Corte Cost. 175/2022.
- Materiali di prassi: Circolare GdF n.1/2018 citata a proposito di frode fiscale vs evasione semplice; Manuale Guardia di Finanza sull’evasione (definisce artifizi fraudolenti tipici).
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I reati fiscali richiedono, nella maggior parte dei casi, la presenza del dolo, cioè la volontà di evadere le imposte attraverso condotte fraudolente come dichiarazioni infedeli, omesse, false fatturazioni o occultamento di scritture contabili. Tuttavia, può accadere che le violazioni derivino da errori, negligenze o cattiva interpretazione delle norme fiscali: in questi casi si parla di assenza di dolo. Dimostrare che non vi era l’intenzione di frodare il fisco è fondamentale per evitare conseguenze penali.
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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in diritto penale-tributario e difesa da reati fiscali
✔️ Specializzato nella distinzione tra violazioni formali, colpose e dolose
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia
Conclusione
Essere accusati di un reato fiscale non significa automaticamente essere colpevoli: senza dolo, molte contestazioni possono cadere.
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