Hai ricevuto un accertamento fiscale perché l’Agenzia delle Entrate contesta fatture provenienti da una cosiddetta “cartiera”?
Le cartiere sono società create con il solo scopo di emettere fatture false, senza svolgere reale attività economica. Quando il Fisco ritiene che tu abbia utilizzato fatture di questo tipo, può negarti la deducibilità dei costi e la detraibilità dell’IVA, contestando anche sanzioni elevate. Tuttavia, se sei stato in buona fede, hai il diritto di difenderti.
Cosa significa fornitore cartiera
– È un soggetto che emette fatture senza fornire effettivamente beni o servizi
– Spesso si tratta di società prive di sede reale, dipendenti o strutture operative
– Il loro unico scopo è generare documentazione fittizia per consentire indebite detrazioni fiscali
Cosa può contestare l’Agenzia delle Entrate
– Indetraibilità dell’IVA e indeducibilità dei costi riportati nelle fatture
– Applicazione di imposte aggiuntive, sanzioni e interessi
– Presunta complicità del contribuente nell’utilizzo di fatture false
– Nei casi più gravi, ipotesi di reato tributario legato a dichiarazione fraudolenta
Come dimostrare la buona fede in un contenzioso tributario
– Provare di aver effettuato verifiche ragionevoli sul fornitore (visure camerali, DURC, iscrizioni, controlli pubblici disponibili)
– Dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate tramite contratti, ordini, bolle di consegna, trasporti, relazioni di servizio
– Fornire prove di pagamenti reali e tracciabili eseguiti verso il fornitore
– Mostrare la regolarità della documentazione contabile e fiscale conservata
– Contestare l’onere della prova: spetta all’Agenzia dimostrare che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che il fornitore era una cartiera
Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– Il riconoscimento della buona fede e della regolarità fiscale del contribuente
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento
– La riduzione di imposte, interessi e sanzioni richieste
– La sospensione di cartelle e procedure esecutive
– La tutela del patrimonio personale e aziendale
Attenzione: il Fisco tende a presumere che chi utilizza fatture da cartiere sia consapevole della frode. È fondamentale quindi fornire prove concrete dell’effettiva operazione e della diligenza adottata nel rapporto con il fornitore.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e difesa da contestazioni IVA – ti spiega cosa fare se ti contestano fatture da cartiere e come dimostrare la tua buona fede in giudizio.
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Introduzione
Ricevere una fattura da un “fornitore cartiera” – cioè da una società fittizia creata al solo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti – è uno scenario che può mettere seriamente a rischio un’azienda o un contribuente. In ambito tributario italiano, l’utilizzo di fatture false espone il contribuente a contestazioni sul diritto alla detrazione dell’IVA e alla deduzione dei costi, con possibili sanzioni amministrative molto elevate e persino conseguenze penali. La domanda cruciale è: come può il contribuente dimostrare la propria buona fede quando si difende in un contenzioso tributario riguardante fatture emesse da una cartiera?
Questa guida, aggiornata a luglio 2025, fornisce un’analisi approfondita – con riferimenti normativi e giurisprudenziali recentissimi – su come provare di aver agito in buona fede e con diligenza nel caso di utilizzo di fatture poi risultate false. Esamineremo le differenze tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, l’inversione dell’onere della prova a carico del Fisco e del contribuente, le strategie difensive possibili, le sanzioni fiscali e penali applicabili e le più importanti sentenze su questo tema. Troverete anche tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione Domande & Risposte per chiarire i dubbi più frequenti. Il tutto è presentato con un linguaggio giuridico accurato ma anche divulgativo, adatto sia a professionisti (avvocati tributaristi, dottori commercialisti) sia a imprenditori e privati cittadini coinvolti in accertamenti fiscali. L’ottica adottata è quella del contribuente debitore d’imposta che deve difendersi da una contestazione del Fisco: capiremo dunque quali diritti può far valere e quali prove deve raccogliere per uscire vittorioso dal contenzioso, dimostrando la propria estraneità alla frode.
In breve: dimostrare la buona fede significa provare di non aver saputo né potuto sapere che il fornitore fosse una cartiera e di aver adottato tutte le cautele diligenti esigibili da un operatore onesto. Vedremo come i giudici tributari valutano queste circostanze e quale livello di diligenza è richiesto al contribuente per andare esente da responsabilità, sia in materia di IVA sia di imposte dirette, senza dimenticare la rilevanza penale di eventuali comportamenti fraudolenti.
Cos’è un “fornitore cartiera” e perché è un problema
In ambito fiscale italiano, il termine colloquiale “cartiera” indica una società fittizia o schermo, spesso priva di una reale attività economica, creata allo scopo di emettere fatture false (cioè non corrispondenti ad operazioni reali) a beneficio di altre imprese. In pratica, la cartiera è un produttore di “carta”, ovvero di documenti contabili fasulli, senza movimentazione effettiva di beni o servizi. Queste fatture vengono utilizzate dall’impresa acquirente per portare in detrazione l’IVA e dedurre costi che in realtà non avrebbero sostenuto, così riducendo indebitamente l’imposta da versare. Il fenomeno è strettamente legato a frodi IVA come le frodi “carosello”, in cui società interposte fittizie creano giri artificiosi di fatture per evadere l’IVA.
Dal punto di vista tributario, l’utilizzo di fatture emesse da una cartiera comporta potenzialmente due tipi di violazioni: (1) indebita detrazione dell’IVA sugli acquisti (perché la fattura non documenta una reale cessione di beni/servizi da parte di un soggetto economico effettivo) e (2) indebita deduzione di costi ai fini delle imposte sui redditi (se l’operazione è del tutto inesistente, il costo non è realmente sostenuto nell’attività d’impresa). In entrambi i casi, l’Agenzia delle Entrate può contestare al contribuente il recupero dell’imposta oltre a pesanti sanzioni. Inoltre, l’emissione e l’utilizzo di fatture false integrano anche reati tributari: chi le utilizza in dichiarazione fiscale può essere accusato di dichiarazione fraudolenta (art. 2 D.Lgs. 74/2000), mentre chi le emette commette il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000).
Il problema fondamentale per il contribuente in buona fede è che spesso scopre solo a posteriori la natura fittizia del fornitore: ad esempio, un’azienda può aver acquistato beni reali da un interlocutore che però, a propria volta, li fattura tramite una società di comodo (la cartiera). Oppure può accadere che l’azienda abbia regolarmente ricevuto i beni/servizi, ma il fornitore emittente fosse un mero prestanome che poi non versa l’IVA incassata. In tali casi, il Fisco tende comunque a negare il beneficio fiscale (detrazione/deduzione) sostenendo che si tratta di operazioni inesistenti sul piano giuridico. Sta quindi al contribuente dimostrare che, pur essendo il fornitore risultato fittizio, l’operazione sottostante era reale e soprattutto di aver agito senza consapevolezza della frode, adottando ogni precauzione ragionevole. Questa dimostrazione della buona fede è cruciale per evitare le sanzioni e vedersi riconosciuti i propri diritti tributari.
In sintesi, un fornitore cartiera mina l’affidabilità formale delle fatture. Il contribuente che le ha utilizzate dovrà affrontare un inversione probatoria e uno scrutinio rigoroso da parte dell’Amministrazione finanziaria e dei giudici: dovrà provare di essere stato ingannato e non complice, mostrando di aver fatto tutto il possibile per verificare l’affidabilità del fornitore prima di effettuare le operazioni. Nei paragrafi che seguono vedremo come la legge e la giurisprudenza trattano le diverse situazioni (IVA e imposte dirette), quali prove servono e quali comportamenti dovrebbero tenere gli operatori diligenti.
Fatture false: operazioni soggettivamente vs oggettivamente inesistenti
Non tutte le fatture “false” sono uguali. La giurisprudenza tributaria distingue due categorie principali di operazioni inesistenti documentate da fatture: le operazioni soggettivamente inesistenti e quelle oggettivamente inesistenti. Questa distinzione è fondamentale perché comporta differenze nel riparto dell’onere della prova e nelle conseguenze fiscali.
- Operazioni oggettivamente inesistenti: Sono i casi in cui l’operazione commerciale in realtà non è mai avvenuta. In altre parole, la cessione di beni o la prestazione di servizi indicata in fattura è del tutto fittizia: i beni non sono stati consegnati, il servizio non è stato reso, e l’intera transazione è simulata. Qui la falsità è oggettiva perché riguarda proprio l’esistenza del fatto economico. Esempio tipico: una società ottiene fatture per acquisti mai effettuati, magari con lo scopo di gonfiare i costi deducibili o creare crediti IVA fittizi. In questi casi spesso entrambe le parti (emittente e utilizzatore) sono consapevoli della frode, dato che nulla viene realmente scambiato.
- Operazioni soggettivamente inesistenti: Si ha invece falsità soggettiva quando l’operazione economica c’è stata, ma il soggetto che figura in fattura come fornitore non è quello reale. In pratica, i beni o servizi sono stati effettivamente ceduti, ma da parte di un altro soggetto rispetto all’emittente della fattura, oppure la fattura proviene da un’entità che funge da interposta (cartiera) tra il reale cedente e l’acquirente finale. Un esempio classico è lo schema di frode “carosello” in cui una società buffer emette fattura all’acquirente finale per beni che in realtà provengono da un altro fornitore o dall’estero, e poi la società buffer (cartiera) scompare senza versare l’IVA. In tal caso i beni arrivano all’acquirente, che paga, ma la controparte contrattuale dichiarata era fittizia. Si parla di operazione inesistente dal punto di vista soggettivo: la cessione è avvenuta, ma non fra i soggetti indicati nei documenti.
Questa differenza tra falsità oggettiva e soggettiva è riconosciuta a livello normativo e giurisprudenziale. Per le operazioni soggettivamente inesistenti si usa a volte anche il termine “frodi carosello” o “false interposizioni soggettive“, mentre le oggettivamente inesistenti sono vere e proprie “fatture di comodo” senza alcun substrato reale.
Di seguito riportiamo una tabella riassuntiva delle differenze:
Tabella 1 – Operazioni oggettivamente vs. soggettivamente inesistenti
Aspetto | Oggettivamente inesistenti | Soggettivamente inesistenti |
---|---|---|
Natura dell’operazione | Completamente fittizia, il fatto economico non è mai avvenuto | L’operazione c’è stata, ma non con il soggetto indicato in fattura (fornitore diverso o interposto) |
Esempio tipico | Fattura per acquisto mai effettuato (nessun bene consegnato) | Fattura emessa da società X per beni effettivamente consegnati da Y (società X è una cartiera) |
Intento fraudolento | Di norma entrambe le parti sono complici (nessuna reale fornitura) | Spesso lo schema prevede una frode a monte (fornitore fittizio che non versa IVA) e l’acquirente finale può essere consapevole oppure ignaro |
Conseguenze IVA | IVA indetraibile perché l’operazione non esiste; l’onere su contribuente di provare il contrario (operazione reale) | IVA indetraibile solo se Fisco prova consapevolezza del cessionario nella frode; se contribuente prova buona fede, la detrazione può spettare |
Conseguenze imposte dirette | Costo inesistente, quindi indeducibile (nessun bene/servizio reale fornito) | Costo eventualmente deducibile se il bene/servizio è stato effettivamente acquisito e utilizzato dall’impresa (vedi norma sui costi da reato, L. 537/93) – v. sez. dedicata |
Onere della prova (in giudizio) | Il Fisco prova che l’operazione è fittizia; poi il contribuente deve provare che in realtà c’è stata (prova dell’effettiva esistenza). La semplice esibizione della fattura o la contabilità regolare non bastano a provare l’operazione. | Il Fisco deve provare che il fornitore è fittizio e che il contribuente era consapevole (o avrebbe dovuto esserlo) della frode. Se ciò è provato, il contribuente deve a sua volta dimostrare di aver agito con massima diligenza e senza consapevolezza (onere della prova contraria per la buona fede). |
Come si nota, solo nelle contestazioni di fatture soggettivamente inesistenti ha senso evocare il tema della “buona fede” del contribuente. Infatti, se l’operazione è oggettivamente falsa, è difficile sostenere di essere in buona fede: se nessun bene è stato consegnato, il cessionario non poteva non sapere che la transazione era fittizia (salvo ipotesi eccezionali di truffa ai suoi danni, per cui paga senza ricevere nulla, evenienza poco comune). Non a caso, la Cassazione ha affermato che “non è configurabile la buona fede del contribuente in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti”. In tali casi il contribuente viene considerato quantomeno corresponsabile della falsità, e il suo unico modo di difesa è cercare di provare che invece l’operazione si è svolta davvero (ossia confutare che fosse oggettivamente inesistente).
Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, invece, il contribuente può essere realmente vittima inconsapevole di uno schema fraudolento architettato a monte. Qui entra in gioco la distinzione tra contribuente consapevole e ignaro. Se il Fisco dimostra che l’acquirente sapeva (o avrebbe dovuto sapere) di partecipare a una frode, la fattura viene equiparata a una falsa e quindi vengono negati i benefici fiscali (detrazione IVA negata e costi indeducibili). Se però il contribuente prova di aver ignorato incolpevolmente la natura fittizia del fornitore e di aver agito con scrupolo, può far valere la sua buona fede e conservare i benefici (almeno in parte, come vedremo in dettaglio per IVA e imposte dirette). Tutto ruota attorno alla prova della diligenza e all’onere della prova nel giudizio, temi che affrontiamo nelle prossime sezioni.
Normativa di riferimento: IVA, imposte sui redditi e onere della prova
Prima di addentrarci nelle strategie difensive, è utile richiamare sinteticamente la normativa italiana rilevante in materia di fatture per operazioni inesistenti e buona fede del contribuente, distinguendo il profilo IVA da quello delle imposte dirette, nonché il quadro normativo sull’onere della prova.
- IVA (Imposta sul Valore Aggiunto): Il principio cardine è sancito dall’art. 19 del DPR 633/1972, secondo cui il cessionario/committente ha diritto a detrarre l’IVA pagata “a monte” sugli acquisti se ed in quanto l’operazione è inerente all’attività e la fattura risponde ai requisiti di legge. Tuttavia, questo diritto alla detrazione non sorge affatto se la fattura è emessa per un’operazione inesistente, poiché in tal caso l’IVA indicata è, sostanzialmente, un credito inesistente verso l’Erario. La Direttiva IVA europea (direttiva 2006/112/CE) e la Corte di Giustizia UE hanno elaborato il principio per cui il diritto alla detrazione non può essere esercitato in caso di frode: un soggetto che sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare a un’evasione IVA, tramite l’acquisto effettuato, perde il beneficio della detrazione, in quanto considerato egli stesso partecipe della frode. Questo principio di matrice comunitaria (noto dal caso Kittel, Corte Giust. UE, sent. 6 luglio 2006) è stato recepito anche dalla giurisprudenza nazionale: la Cassazione richiama costantemente l’orientamento secondo cui la detrazione è indebita se il cessionario era consapevole o avrebbe dovuto esserlo che, col suo acquisto, partecipava a un’operazione inserita in un’evasione IVA. Corollario: l’Amministrazione può negare la detrazione se prova tale consapevolezza, mentre il contribuente può difendersi provando la propria buona fede. Inoltre, la legge consente all’Erario di fondare la prova della frode anche su presunzioni semplici, ai sensi dell’art. 54, comma 2, DPR 633/1972, valorizzando indizi come la mancanza di struttura operativa del fornitore, la sua inidoneità a svolgere l’attività, ecc. (ci torneremo a breve). Infine, va ricordato che l’art. 21 del DPR 633/1972 obbliga a emettere fatture con indicazione dei soggetti reali dell’operazione: se la fattura riporta un soggetto diverso dall’effettivo fornitore, è considerata emessa in violazione di legge.
- Imposte dirette (IRES/IRPEF): In generale, secondo il TUIR (DPR 917/1986), un costo è deducibile se e solo se realmente sostenuto e inerente all’attività (art. 109 TUIR sulla competenza e inerenza delle spese). Le fatture false presentano dunque problemi di certezza e oggettiva esistenza del costo. Fino al 2012, era in vigore una norma rigida sui cosiddetti costi da reato: l’art. 14, comma 4-bis, della L. 537/1993 prevedeva originariamente che “non sono deducibili i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizi che siano stati utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come reato”. Poiché l’emissione di fatture false è un reato, l’Amministrazione finanziaria tendeva a considerare indeducibili tutti i costi documentati da fatture relative a operazioni inesistenti, anche se l’operazione fosse soggettivamente falsa ma con beni effettivamente acquistati. Questa impostazione è stata ritenuta eccessivamente punitiva e ha sollevato questioni di costituzionalità (per violazione dei principi di capacità contributiva e proporzionalità). Il legislatore è intervenuto con il D.L. 16/2012 (conv. in L. 44/2012) modificando l’art. 14 comma 4-bis L. 537/93 in senso più favorevole al contribuente. Oggi, la norma – applicabile con efficacia retroattiva in bonam partem anche per il passato – stabilisce che sono indeducibili solo i costi direttamente utilizzati per commettere un reato. Viceversa, “nella determinazione dei redditi (…) non si tiene conto dei costi e delle spese relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati*; tuttavia, è ammessa in deduzione la parte di costi effettivamente riferibile ad operazioni realmente effettuate” (art. 14, co.4-bis L. 537/1993, come mod. 2012). In pratica, se l’operazione è soggettivamente inesistente ma i beni/servizi sono stati realmente acquisiti e utilizzati dall’azienda per fini economici leciti, il relativo costo può essere dedotto nonostante la frode (purché non sia stato sostenuto per compiere reati). La razionalità è che in tal caso il costo riflette una realtà economica (es: merce acquistata e rivenduta) e disconoscerlo porterebbe a tassare un reddito inesistente in capo al contribuente onesto. La Cassazione ha confermato che, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, la norma consente la deducibilità dei costi anche quando l’acquirente era consapevole del carattere fraudolento, a condizione che quei beni/servizi non siano stati utilizzati direttamente per commettere il reato, ma per l’attività economica (ad es. per essere rivenduti). Al contrario, se le operazioni sono oggettivamente inesistenti (beni mai esistiti) o se il contribuente ha utilizzato la fattura fittizia al solo scopo di evadere (cioè il costo è strumentale al reato fiscale stesso), la deduzione è da negare.
- Onere della prova e contenzioso: Nell’ordinamento italiano vige la regola generale dell’art. 2697 c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, mentre chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti deve provare i fatti impeditivi o estintivi. Tradotto in ambito tributario: spetterebbe al contribuente provare la sussistenza dei presupposti per la detrazione/deduzione (quindi l’esistenza e l’inerenza dell’operazione), mentre spetta al Fisco provare eventuali elementi di frode o inesistenza. Tuttavia, la casistica delle fatture inesistenti ha portato ad affinare questo riparto. La Corte di Cassazione (Sez. Trib.) negli ultimi anni ha fissato una serie di principi sul riparto dell’onere probatorio: in caso di contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria deve provare non solo che il fornitore è un soggetto fittizio (una cartiera), ma anche che il contribuente acquirente era consapevole (o, con diligenza, avrebbe dovuto esserlo) dell’altrui frode. Tale prova può essere data anche tramite presunzioni e indizi oggettivi e specifici. Solo dopo che il Fisco abbia assolto questo onere, “grava sul contribuente la prova contraria di aver agito, per non essere coinvolto nell’evasione, con la diligenza massima esigibile da un operatore accorto”. Al contrario, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti, la giurisprudenza afferma che è sufficiente che il Fisco provi (anche qui anche per presunzioni) la fittizietà oggettiva dell’operazione – ad esempio dimostrando che l’emittente è una “cartiera” priva di reale attività – e allora spetterà al contribuente provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate ai fini sia IVA sia imposte sui redditi. In breve, l’onere della prova si “inverte” a seconda della contestazione: per le soggettive il peso iniziale è sul Fisco (che deve dimostrare la frode e il science fraudis del contribuente), per le oggettive dopo la prova del Fisco ricade tutto sul contribuente (che deve provare la reale esistenza delle operazioni). Questi principi giurisprudenziali verranno discussi più diffusamente nelle sezioni seguenti, con i riferimenti alle sentenze chiave.
Riassumendo la normativa: il diritto alla detrazione IVA è un pilastro fondamentale ma cede in caso di frode conosciuta; la deducibilità dei costi è preclusa solo per costi fraudolenti “puri” non collegati ad attività effettive; l’onere probatorio è calibrato per evitare che il Fisco si limiti ad allegare frodi senza prova, ma anche per impedire al contribuente di schermarsi dietro formalità cartacee. Nel prossimo capitolo approfondiremo proprio come si esplica questo onere probatorio in concreto e quali sono le prove tipicamente richieste all’uno e all’altro.
Onere della prova in caso di fatture da “cartiere”
Come appena accennato, uno degli snodi principali nel contenzioso su fatture da fornitori cartiera è il riparto dell’onere della prova tra Amministrazione finanziaria e contribuente. Comprendere chi deve provare cosa è fondamentale per impostare una corretta strategia difensiva. Esaminiamo separatamente le due situazioni, già delineate, di contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti e oggettivamente inesistenti.
1. Operazioni soggettivamente inesistenti (fornitore cartiera, beni effettivamente acquisiti). In questi casi la Cassazione ha consolidato un principio garantista per il contribuente:
- Spetta inizialmente all’Amministrazione finanziaria fornire la prova che le fatture contestate si riferiscono a operazioni soggettivamente inesistenti e che il contribuente destinatario fosse consapevole dell’evasione collegata a tale frode. Più precisamente, il Fisco deve dimostrare due elementi: (a) la fittizietà del fornitore, ossia che il soggetto emittente le fatture era un mero schermo (ad es. privo di struttura aziendale, “fantasma” dal punto di vista operativo); (b) la consapevolezza o conoscibilità in capo al cessionario del fatto che l’operazione si inseriva in un meccanismo di evasione. Questa prova può avvenire anche in via presuntiva, purché basata su indizi gravi, precisi e concordanti.
- Solo dopo che la prova presuntiva del Fisco abbia raggiunto questo livello (fornitore fittizio + indizi di consapevolezza del cliente), si attiva l’onere contrario a carico del contribuente: egli dovrà provare di aver agito in assenza di consapevolezza della frode e di aver utilizzato la massima diligenza esigibile per evitare di essere coinvolto in operazioni di evasione. In pratica, deve provare la propria buona fede, ossia che non sapeva né poteva sapere, usando l’ordinaria diligenza professionale, che il contraente era fittizio e la transazione mirava all’evasione.
- Importante: la Cassazione ha chiarito che alcuni elementi comuni addotti dai contribuenti non sono sufficienti di per sé a provare la buona fede, se isolati. In particolare, né la formale regolarità delle scritture contabili e dei pagamenti, né il fatto di non aver tratto guadagni dalla rivendita delle merci, sono decisivi per escludere la consapevolezza. In altre parole, anche se l’azienda ha pagato con metodi tracciabili e registrato tutto in contabilità, ciò non prova automaticamente la sua estraneità alla frode, poiché anche gli operatori fraudolenti tendono a mantenere un’apparenza di regolarità formale. Allo stesso modo, non è un esimente dire “non ho avuto vantaggi dalla frode”, perché la partecipazione a una frode carosello può avvenire anche solo per consentire ad altri di evadere, senza profitto immediato per l’acquirente (ad esempio, il beneficio può consistere nell’acquistare a un prezzo leggermente inferiore al mercato grazie all’IVA evasa dal fornitore).
In sintesi, nelle frodi soggettive il Fisco deve fare un primo passo probatorio significativo. Se non riesce a dimostrare almeno in maniera presuntiva che il fornitore era una cartiera e che il contribuente aveva indizi tali da metterlo in allarme, la pretesa impositiva non può reggere in giudizio. Non basta per l’Ufficio provare la mera fittizietà del fornitore: in passato qualche decisione più risalente riteneva che già questo bastasse a invertire l’onere, ma l’orientamento attuale (in linea con la Corte UE) richiede anche la prova della scientia fraudis del cessionario. Una volta però che l’Amministrazione abbia portato elementi atti a dimostrare la conoscenza (o conoscibilità) della frode, il contribuente dovrà attivarsi energicamente per produrre tutta la documentazione e le circostanze a proprio favore, dimostrando che ha fatto tutto quanto poteva per assicurarsi della bontà dell’operazione.
2. Operazioni oggettivamente inesistenti (fatture di comodo, beni non forniti). Qui lo scenario è diverso. Se il Fisco contesta che le fatture riguardano operazioni mai avvenute, l’onere a suo carico consiste nel provare l’inesistenza oggettiva delle operazioni. In pratica l’Ufficio deve dimostrare che dietro la fattura non c’è alcuna reale fornitura di beni o servizi. Questo spesso viene fatto, anche in questo caso, tramite indizi: ad esempio accertando che l’emittente è una cartiera assoluta (nessuna sede reale, nessun dipendente, nessuna attività se non quella di emettere fatture). O ancora, mostrando incongruenze nei documenti di trasporto, assenza di movimentazioni di magazzino, pagamenti finanziari anomali (come bonifici che tornano indietro al cliente). La Cassazione considera ad esempio prova adeguata il dimostrare che la società emittente è “una mera cartiera o fantasma”.
Una volta che l’Amministrazione abbia provato la natura fittizia delle operazioni (anche qui con presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza), tocca al contribuente provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate. Si noti: in tal caso non rileva la buona fede in senso soggettivo (come detto, è arduo sostenere “non sapevo” se i beni nemmeno esistono), quanto piuttosto una prova oggettiva contraria. Il contribuente dovrà fornire evidenze concrete che i beni/servizi in questione sono stati effettivamente ricevuti nonostante le apparenze dicano il contrario. Ciò può avvenire, ad esempio, esibendo DDT (documenti di trasporto), contratti, prove di pagamento effettivo e definitivo (senza retromarce di denaro), fotografie o testimonianze sull’esistenza della merce, ecc. Purtroppo, come affermato dalla Suprema Corte, “la semplice esibizione della fattura ovvero la regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento utilizzati” non bastano a dimostrare la reale esistenza di un’operazione che il Fisco reputa fittizia. Questo perché – sottolineano i giudici – la fattura e i pagamenti tracciabili “vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia”. In altre parole, chi organizza una frode ben fatta cura anche di far risultare i bonifici, le scritture, ecc., quindi tali elementi non hanno valore probante dirimente se isolati.
Pertanto, in cause su frodi oggettive, il contribuente che vuole ribaltare la tesi del Fisco deve fornire un quid pluris, ad esempio mostrando che i beni oggetto delle fatture erano presenti in magazzino o sono stati rivenduti a terzi (provando così che qualcosa di reale c’era), o portando in giudizio il reale fornitore che confermi la consegna (anche se fatturata da altro soggetto). Se non riesce a dare questa prova forte, la contestazione reggerà.
Riepilogo onere della prova: Dunque, in situazioni di cartiere è centrale capire se siamo di fronte a operazioni soggettive o oggettive. Nel primo caso (soggettive) il contribuente ha la chance di vincere la causa dimostrando la sua buona fede, ma ciò solo dopo che il Fisco abbia portato elementi seri di coinvolgimento. Nel secondo caso (oggettive), il contribuente deve concentrarsi nel dimostrare che le operazioni sono genuine, perché se non ci riesce, non potrà invocare l’ignoranza come scusa. Questa logica è espressa efficacemente dalla Cassazione, ad esempio nell’ordinanza n. 12895/2024, dove si afferma che l’onere probatorio non è il medesimo nei due casi: “Nel primo caso […], l’Amministrazione ha l’onere di provare non solo la fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario […]; ove assolto tale onere, grava sul contribuente la prova contraria di aver adoperato la diligenza massima esigibile […]. Diversamente, quando le riprese sono per operazioni oggettivamente inesistenti […] una volta assolta da parte dell’Amministrazione la prova (ad esempio, che l’emittente è una ‘cartiera’) dell’oggettiva inesistenza, spetta al contribuente provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate”.
Da ultimo, vale la pena notare che in alcune pronunce la Cassazione ha richiamato il principio di collaborazione e buona fede (Statuto del Contribuente, L. 212/2000 art. 10) in senso favorevole ai contribuenti: non è lecito attendersi che il cessionario faccia impossibili indagini sui propri fornitori. Vediamo meglio questo punto parlando di quale diligenza è esigibile dal contribuente.
Diligenza del contribuente: il principio di buona fede e la “massima diligenza esigibile”
Il concetto di buona fede nel contenzioso da fatture false si concretizza, come visto, nella prova che il contribuente ha agito con diligenza e che, nonostante ciò, non poteva rendersi conto della frode. Si parla spesso, a tal proposito, di “diligenza massima esigibile” da un operatore onesto e accorto. È importante capire cosa significhi in concreto questa espressione e quale sia il limite ragionevole delle verifiche richieste al contribuente.
Innanzitutto, il principio di buona fede oggettiva nei rapporti tributari – sancito dall’art. 10 dello Statuto del Contribuente – implica che il cittadino non deve essere sanzionato se è incorso in violazioni per errore scusabile o per aver fatto affidamento sull’amministrazione. Nel nostro contesto, però, “buona fede” assume un significato più specifico: significa assenza di consapevolezza della frode altrui e comportamento diligente. La Cassazione ha evidenziato che il contribuente deve dimostrare di “aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto”. Ciò sta a indicare che il giudizio sulla condotta del contribuente è relativo al caso concreto: più l’operazione è di natura anomala o rischiosa, maggior rigore ci si attende in termini di controlli; se invece l’operazione è di routine e nulla lasciava presagire irregolarità, non si può pretendere dall’acquirente un eccesso di zelo investigativo.
Un aspetto fondamentale chiarito di recente (Cass. ord. n. 14102/2024) è che le cautele richieste al cessionario non possono spingersi fino a pretendergli verifiche proprie dell’Amministrazione finanziaria. In quella pronuncia si legge infatti che, per escludere il coinvolgimento inconsapevole del contribuente in una frode a monte, “non possono [le cautele] attingere a verifiche complesse e approfondite, analoghe a quelle che l’amministrazione finanziaria ha i mezzi per effettuare”. Questo principio è molto importante: significa che al contribuente non si può chiedere di fare l’investigatore tributario. Egli non deve, ad esempio, essere tenuto a controllare l’intera filiera di fornitura del suo fornitore, né ad accedere a banche dati fiscali riservate, né a svolgere controlli che richiederebbero poteri ispettivi.
Quali sono, allora, le verifiche ragionevoli che compongono la “diligenza massima esigibile”? Non esiste un elenco codificato, ma dall’analisi delle pronunce e della prassi possiamo individuare alcune azioni che un contribuente avveduto dovrebbe compiere quando si relaziona con nuovi fornitori o con fornitori “a rischio”:
- Verifica formale dell’esistenza e regolarità del fornitore: Ad esempio, controllare che la società sia regolarmente iscritta al Registro delle Imprese, ottenere una visura camerale aggiornata (per verificare data di costituzione, sede, capitale sociale, nominativi di amministratori e soci). Un fornitore nato da pochi mesi, con sede in un appartamento o una sede legale “di comodo”, capitale esiguo e un amministratore prestanome, dovrebbe far scattare un campanello d’allarme. Viceversa, poter documentare di aver acquisito la visura e che nulla di anomalo risultava è un punto a favore del contribuente.
- Controllo della partita IVA: Si può facilmente verificare che la partita IVA del fornitore fosse attiva al momento delle operazioni (tramite il servizio online dell’Agenzia Entrate o VIES per soggetti comunitari). Un fornitore con partita IVA cessata o inesistente ovviamente è un segnale di frode. La giurisprudenza ritiene che questo controllo di base rientri nella diligenza dovuta.
- Verifica di elementi sostanziali dell’operatore: Se si tratta di forniture di beni di un certo valore o servizi complessi, è buona norma verificare che il fornitore disponga di struttura operativa adeguata. Ad esempio, se una ditta individuale senza dipendenti e con un piccolo ufficio offre di fornire lavori edili di grande portata, un imprenditore diligente dovrebbe insospettirsi. La Cassazione ha proprio menzionato tra gli “elementi sintomatici” di una frode la “assenza della minima dotazione personale e strumentale adeguata” in capo al fatturante. Quindi, il contribuente può dimostrare la propria diligenza anche provando di aver visitato la sede del fornitore, di aver constato l’esistenza di un magazzino, di macchinari, personale, ecc., oppure di aver richiesto referenze. Naturalmente non sempre questo è possibile, ma in settori critici (es. commercio di materiali ad alto valore e incidenza di frodi) è consigliabile.
- Controlli sulla regolarità fiscale e contributiva del fornitore: Alcuni documenti possono essere richiesti al fornitore stesso. Ad esempio, per gli appalti e subappalti, è prassi farsi consegnare il DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva). Un DURC regolare dimostra che l’azienda versa i contributi per i dipendenti e quindi verosimilmente ha un’attività reale. Nel caso specifico di subappalti, la mancanza di DURC è un indice di irregolarità che l’appaltatore non può ignorare (anche perché la normativa lo obbliga a controllarlo). Infatti, in un contenzioso recente è emerso che l’imprenditore appaltante che non si procura il DURC dei subappaltatori incorre in violazione di obblighi di vigilanza, e ciò è stato valutato negativamente ai fini della sua buona fede. Oltre al DURC, si possono chiedere certificati di vigenza, copia delle licenze o autorizzazioni (se rilevanti nel settore), ecc. Pur non essendo obblighi di legge in tutte le transazioni, documentano un atteggiamento prudente.
- Analisi dei prezzi e delle condizioni contrattuali: Un indice tipico che la giurisprudenza e la prassi segnalano è il prezzo anormalmente basso. Se il fornitore offre un bene a un prezzo molto inferiore a quello di mercato, potrebbe finanziare lo sconto con l’IVA evasa. Un operatore avveduto, di fronte a un prezzo troppo basso, dovrebbe indagare sulle ragioni: se non ci sono spiegazioni commerciali plausibili (liquidazione di magazzino, merce usata, ecc.), potrebbe trovarsi in una situazione sospetta. Anche termini di pagamento insoliti (es. richieste di pagamenti esteri per fatture italiane, oppure compensazioni non documentate) sono segnali da approfondire. Documentare che il prezzo praticato era in linea col mercato aiuta a sostenere che nulla faceva presagire l’evasione (al contrario, un forte sconto senza giustificazione poteva essere un “benefit” derivante dalla frode, quindi conosciuto dal cliente).
- Tracciabilità e congruenza dei pagamenti: Pagare tramite bonifico bancario sul conto intestato al fornitore è buona prassi ed è la norma per transazioni tra imprese (oltre ad essere spesso obbligatorio per importi sopra soglie di legge). Ma come detto non basta a provare la buona fede, è condizione necessaria ma non sufficiente. Tuttavia, possono emergere elementi importanti: se, ad esempio, il bonifico è stato disposto su un conto estero o su un conto non intestato al fornitore ufficiale, questo è un indizio di partecipazione a frode. Il contribuente diligente deve evitare di accettare istruzioni di pagamento anomale (es. “paga su questo conto di terzi”). Se il fornitore chiede frazionamenti strani dei pagamenti, o l’utilizzo di contanti/assegni in circolazione extra contabilità, si entra nel terreno della corresponsabilità. In giudizio, poter mostrare che tutti i pagamenti sono stati eseguiti regolarmente sul conto ufficiale del fornitore e che questi ne ha avuto definitiva disponibilità (senza restituirli al cliente in giri di denaro) è un elemento che depone a favore della realtà dell’operazione e rende meno probabile un accordo collusivo.
- Documentazione di trasporto e logistica: Questo è fondamentale soprattutto per beni fisici. Conservare e produrre in giudizio i DDT (documenti di trasporto), le bolle di consegna, le ricevute di spedizione, i CMR (se trasporto internazionale) è una prova chiave che i beni hanno viaggiato e sono stati consegnati. Se i documenti di trasporto recano riferimenti al mezzo usato (targa camion, nominativo autista) e magari firme per ricevuta, è difficile sostenere che nulla sia avvenuto. Se il Fisco contesta una frode carosello, questi documenti possono smontare la tesi che il fornitore non avesse mezzi per consegnare: ad esempio, se appare che il trasporto fu curato da un vettore terzo, e c’è prova di ingresso della merce in magazzino, ciò evidenzia che l’acquirente ha effettivamente ricevuto beni. Attenzione: spesso nelle frodi carosello i DDT vengono compilati ma possono essere falsificati; tuttavia, se l’azienda acquirente è davvero in buona fede, di solito i beni sono effettivamente arrivati e ne ha traccia (magari perché poi li ha rivenduti). La congruenza tra le quantità acquistate, le scorte e le vendite effettuate ai clienti successivi è un altro elemento che il contribuente può far valere.
- Corrispondenza e comunicazioni commerciali: E-mail, preventivi, ordini, conferme d’ordine, rapporti di collaudo o resoconti di riunioni sono tutti documenti che un contribuente può produrre per dimostrare la ordinaria realtà commerciale sottostante alla transazione. Se tutto il rapporto con il fornitore è trasparente (c’è stata una negoziazione sui prezzi, uno scambio di bozze contrattuali, etc.), appare meno plausibile che fosse una relazione fittizia orchestrata unicamente per evadere.
- Reputazione e introduzione del fornitore: In alcune circostanze, il fornitore “cartiera” viene presentato al contribuente tramite intermediari o canali poco ufficiali. Se invece l’aggancio è avvenuto in maniera normale (ad es. fiera di settore, o il fornitore era un’azienda nota nel campo), il contribuente potrà sostenere di non avere ignorato segnali perché semplicemente non ve ne erano. Al contrario, se il fornitore è stato proposto “sottobanco” magari da un mediatore informale, quel contribuente avrebbe dovuto insospettirsi di più.
La giurisprudenza recente elenca alcune circostanze indiziarie che, se note al contribuente, avrebbero dovuto farlo dubitare del fornitore. Oltre a quelle già citate (assenza di struttura, prezzi anomali), troviamo: rapporto di stretta familiarità o sociétà tra fornitore e cliente, pregressi fiscali negativi del fornitore (es. fallimenti, carichi pendenti noti), operatività di breve durata del fornitore, comportamenti incoerenti con il settore (ad esempio, una società che dichiara di commerciare milioni di euro di merce ma non risulta aver consumato energia elettrica nel capannone – segno di mancata attività reale).
È evidente che non sempre l’acquirente può conoscere tutte queste cose in anticipo. Ed è qui che subentra la valutazione caso per caso: se il Fisco riesce a provare che il contribuente “aveva elementi sufficienti per un imprenditore onesto e mediamente diligente a comprendere” la frode, allora la sua difesa sarà difficoltosa. Ma se il contribuente dimostra di aver fatto il possibile e che comunque tali elementi non c’erano o non erano conoscibili, egli manterrà il beneficio del dubbio.
Per concludere questa sezione, possiamo affermare che il punto di equilibrio tracciato dai giudici è il seguente: il contribuente diligente deve adottare tutte le normali cautele commerciali e qualche verifica in più se le circostanze lo suggeriscono, ma non deve sostituirsi alla Guardia di Finanza nel fare indagini approfondite. Un passaggio della Cassazione riassume bene: “l’amministrazione non può esigere dal contribuente, al fine di assicurarsi che, con il suo acquisto, non stia inconsapevolmente partecipando a un’evasione a monte, che egli proceda a verifiche complesse e approfondite come quelle che l’Amministrazione ha i mezzi per effettuare”. Questo offre anche un argomento difensivo: se il Fisco pretendeva, per esempio, che l’azienda andasse a controllare i fornitori del suo fornitore o i suoi versamenti IVA, ciò sarebbe eccessivo e in contrasto col principio di proporzionalità.
Nei prossimi capitoli vedremo come questi principi vengono applicati concretamente sul piano delle imposte: prima l’IVA, poi le imposte dirette, e quali conseguenze pratiche comportano.
Prova della buona fede: quali evidenze presentare in giudizio
Dopo aver compreso quale livello di diligenza è richiesto, è fondamentale tradurre la buona fede in prove concrete da sottoporre al giudice tributario. In un contenzioso, infatti, non basta affermare “ero in buona fede”: occorre documentare e dimostrare le proprie affermazioni. Questa sezione funge da guida pratica su quali evidenze è opportuno raccogliere e produrre per convincere la Commissione Tributaria (oggi ridenominata Corte di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado) della propria estraneità alla frode.
Ecco un elenco ragionato delle principali prove e argomentazioni che un contribuente può (e dovrebbe) utilizzare per sostenere la propria buona fede quando viene accusato di aver utilizzato fatture da fornitori cartiera:
- Documentazione ufficiale del fornitore: come già accennato, presentare in giudizio la visura camerale del fornitore, estratta magari all’epoca dell’inizio del rapporto commerciale, per mostrare che nulla di anomalo appariva (es: la società esisteva da anni, aveva un capitale sociale congruo, ecc.). Se la visura evidenzia elementi di normalità, sottolinearlo; se invece evidenzia elementi sospetti, occorre allora spiegare perché non erano facilmente interpretabili come tali o perché vi si è comunque confidato (magari perché presentato da partner affidabili).
- Contratti, ordini e conferme d’ordine: esibire il contratto stipulato con il fornitore (se c’è un contratto scritto) o gli ordini d’acquisto inviati e le conferme ricevute. Questo mostra che la transazione fu gestita secondo pratiche commerciali ordinarie. Se nel contratto erano previste penali per ritardi, garanzie, clausole standard, ciò indica che l’acquirente trattava con quel fornitore come con qualsiasi altro, aspettandosi reale esecuzione.
- Documenti di trasporto (DDT) e prove di consegna: come rimarcato prima, i DDT sono prove essenziali. È opportuno produrre i DDT firmati per accettazione al ricevimento della merce, o la documentazione di spedizione se la merce arrivava via corriere. Se disponibili, anche registri di entrata merce a magazzino, o note di carico/scarico. Eventualmente, se la contestazione verte su servizi (non beni), può essere utile presentare rapportini di lavoro, relazioni tecniche, timesheet del personale impiegato: qualunque cosa che attesti che il servizio è stato effettivamente erogato.
- Fatture di vendita o utilizzo dei beni acquistati: se i beni acquistati dal fornitore contestato sono stati rivenduti a terzi o impiegati in produzione, portare evidenza di ciò. Ad esempio, se l’azienda ha comprato 100 pezzi di un prodotto da una cartiera e poi li ha venduti ai propri clienti, presentare le fatture di vendita di quei pezzi ai clienti finali. Questo evidenzia che i beni esistevano e sono entrati nel ciclo produttivo/commerciale dell’impresa. La Cassazione stessa ha affermato che, quando c’è una frode IVA, il soggetto può non aver tratto beneficio dalla rivendita, ma se si dimostra che c’è stata una rivendita reale senza margine anomalo, ciò è un tassello a favore dell’effettività (pur non assolvendo di per sé il contribuente dal dover dimostrare la diligenza).
- Prove di pagamento e flussi finanziari: presentare estratti conto bancari che mostrino i pagamenti effettuati al fornitore, con date e importi corrispondenti alle fatture. Occorre però andare oltre: se possibile, documentare che quei pagamenti non sono tornati indietro in alcun modo. A volte, nelle frodi, il fornitore fittizio restituisce all’acquirente parte dei soldi (in nero) – questo ovviamente se riscontrato sarebbe devastante per la difesa. Il contribuente onesto, invece, avrà pagato e il denaro sarà uscito definitivamente. Si possono produrre, ad esempio, attestazioni che il conto del fornitore è stato poi prosciugato da prelievi in contanti (indicando che probabilmente i soldi sono spariti col fornitore), ma che nessuna somma è rientrata nella sfera del contribuente. È una prova difficile da orchestrare, ma se il fisco ipotizza retroscena finanziari, è utile smentirli con analisi dei conti.
- Corrispondenza e-mail o cartacea: presentare scambi di e-mail con il fornitore, ad esempio riguardo ai tempi di consegna, ai reclami su eventuali difetti, alle richieste di disponibilità. Questo è molto efficace perché mostra interazioni tipiche di un rapporto genuino cliente-fornitore. Se ci sono PEC (posta elettronica certificata) tanto meglio, perché attestano con data certa le comunicazioni. Anche lettere, fax, messaggi che attestino il dialogo commerciale.
- Testimonianze (se ammesse): nel processo tributario vige il divieto di prova testimoniale orale, ma nulla vieta al contribuente di produrre dichiarazioni scritte di terzi (ad esempio una dichiarazione sostitutiva di atto notorio) oppure di chiedere che vengano escussi testi in altri procedimenti (ad esempio nel parallelo procedimento penale, o in sede di interrogatorio davanti alla Guardia di Finanza). Spesso gli autisti o i dipendenti coinvolti nella ricezione merce possono attestare di aver scaricato i beni provenienti dal fornitore X. Tali dichiarazioni rese in sede extraprocessuale e prodotte come documenti possono avere un peso se dettagliate e coerenti, pur non essendo formalmente “testimonianza” in giudizio. La Cassazione ha sancito la utilizzabilità delle dichiarazioni rese da terzi in sede di verifica fiscale come elementi indiziari. Quindi, se ad esempio in sede di verifica i funzionari GdF hanno escusso un autista che ha confermato le consegne, la relativa verbalizzazione può essere usata a favore del contribuente.
- Eventuali provvedimenti penali a discarico: qualora, come spesso accade, parallelamente al contenzioso tributario vi sia un procedimento penale per fatture false, e se in sede penale il contribuente (o i suoi amministratori) è stato prosciolto o archiviato per insussistenza del fatto o mancanza di dolo, ciò deve essere segnalato al giudice tributario. Pur essendo procedimenti autonomi, un esito penale favorevole (es: sentenza che riconosce la buona fede dell’imputato) è un fortissimo argomento per la difesa nel merito fiscale. Ad esempio, se il Tribunale penale ha assolto perché “il fatto non costituisce reato” per difetto di dolo, in pratica ha riconosciuto la non consapevolezza dell’imputato: questo dovrebbe indurre la Commissione Tributaria a ritenere credibile la buona fede del contribuente. Va detto però che la giurisprudenza tributaria non è automaticamente vincolata da quella penale, quindi l’assoluzione penale non garantisce automaticamente la vittoria nel merito tributario; comunque è un elemento importante da valorizzare.
- Relazione tecnica periziale: in casi complessi, il contribuente può presentare una perizia di parte che ricostruisce, ad esempio, i flussi di merce e denaro, mostrando che tutto è coerente e reale. Ad esempio un consulente tecnico potrebbe certificare che, dalle scorte di magazzino all’inizio e fine anno, tenendo conto di quegli acquisti, i numeri tornano con le vendite, a riprova che le merci contestate c’erano. Oppure una perizia contabile sui flussi finanziari per dimostrare che l’IVA evasa dal fornitore non è finita nelle tasche del contribuente ma è stata una sottrazione a solo vantaggio del fornitore fraudolento. Le perizie non fanno prova legale, ma possono aiutare a chiarire aspetti tecnici al giudice.
In generale, un contribuente in buona fede dovrebbe sommare più elementi a suo favore, creando un quadro complessivo: operazione realmente avvenuta + nessun segnale premonitore + controlli effettuati + condotta conforme agli standard. Se riesce a convincere il giudice che più non avrebbe potuto fare, e che effettivamente è stato tratto in inganno, allora avrà buone chance di conservare i benefici fiscali (almeno parzialmente) e di non subire sanzioni.
Va anche ricordato che, sebbene la prova testimoniale in senso stretto sia vietata, il giudice tributario può basare il suo convincimento sul complesso degli elementi e anche su presunzioni semplici (purché gravi, precise e concordanti) a favore del contribuente. Ad esempio, se il contribuente prova consegna, utilizzo e rivendita delle merci, è lecito dedurre che l’operazione fosse reale anche se il fornitore era fittizio. In un caso del 2024, la Cassazione ha ribadito che spetta al contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo dichiarati che altrimenti risultano indeducibili, ma qualora egli la dimostri in modo convincente, il Fisco non può opporre mere supposizioni.
Attenzione ai tempi processuali: è fondamentale presentare tutte le prove il prima possibile, idealmente già in primo grado (Commissione Tributaria Provinciale). Le nuove regole sul processo tributario ammettono il deposito di documenti nuovi anche in appello, ma è sempre rischioso farsi trovare impreparati in primo grado. Inoltre, se alcune prove (es. testimonianze) emergono nel penale successivamente, valutare eventuali istanze di sospensione del giudizio tributario in attesa del penale, oppure il ricorso per revocazione in caso di scoperta di nuovi documenti decisivi.
In conclusione, dimostrare la buona fede equivale a narrare una storia credibile e supportata da evidenze: la storia di un contribuente diligente che ha concluso un affare apparentemente normale, ne ha ricevuto regolarmente i beni/servizi, e che è rimasto vittima anche lui di un fornitore disonesto. Se questa narrazione risulta plausibile al giudice, suffragata da pezze giustificative, l’esito del contenzioso potrà ribaltarsi a favore del contribuente.
Conseguenze fiscali in ambito IVA e come difendersi
Passiamo ora ad esaminare nello specifico le conseguenze sul piano IVA di una contestazione di fatture da fornitore cartiera e come la dimostrazione di buona fede incida su tali conseguenze.
Negazione del diritto alla detrazione IVA: Questa è la prima e più immediata conseguenza. L’Agenzia delle Entrate, quando ritiene che una fattura sia relativa ad operazione inesistente (soggettiva o oggettiva), procede a rettificare la detrazione IVA che il contribuente ha operato su quella fattura. In pratica, viene richiesto il pagamento dell’IVA a suo tempo detratta indebitamente, oltre agli interessi maturati. Ad esempio, se nel 2022 l’impresa Alfa ha detratto 10.000 € di IVA su fatture della Beta Srl (poi risultata cartiera), l’Ufficio emette un avviso di accertamento recuperando quei 10.000 € come IVA dovuta (oltre, appunto, interessi e sanzioni).
Tuttavia, come abbiamo lungamente spiegato, il diritto alla detrazione IVA non può essere negato indiscriminatamente. Vi sono due scenari:
- Se viene accertato che l’operazione era oggettivamente inesistente (cioè nessun bene consegnato o servizio reso), la logica conseguenza è che l’IVA è indebitamente detratta e quindi da restituire. Non c’è margine perché l’IVA è per definizione applicabile solo su cessioni/prestazioni reali: ficta negatur, nulla in VAT. In tal caso l’unica difesa possibile del contribuente è rovesciare l’assunto fattuale, provando che invece la cessione c’è stata (vedi sezione precedente sulle prove). Se non riesce, l’IVA diventa definitivamente indetraibile.
- Se invece l’operazione era soggettivamente inesistente (bene effettivo, ma fornitore finto), la detrazione IVA dipende dalla buona o mala fede del cessionario. In linea teorica, un acquirente in buona fede che ha acquistato beni reali dovrebbe poter detrarre l’IVA pagata, perché il presupposto sostanziale (acquisto di beni nell’ambito dell’attività) sussiste. Questo principio è stato riconosciuto dalla Corte di Giustizia UE e progressivamente dalla Cassazione, a tutela della neutralità dell’IVA per chi non partecipa a frodi. Dunque, se il contribuente prova la sua inconsapevolezza non colposa, non vi sarebbe motivo di negargli la detrazione: egli ha assolto l’IVA al fornitore (sebbene quest’ultimo non l’abbia versata all’Erario), e la neutralità implicherebbe che non debba rimettercela.
Nella pratica, il contenzioso verte proprio su questo: il Fisco cerca di dimostrare che il contribuente sapeva o poteva sapere, così da legittimare il diniego di detrazione; il contribuente cerca di provare il contrario. Se il giudice conclude che il contribuente era in buona fede, allora l’accertamento va annullato nella parte IVA, confermando il diritto alla detrazione. Se invece ritiene che vi fosse quantomeno colpa grave (ignoranza colpevole) da parte del contribuente, la detrazione sarà negata.
Un sviluppo giurisprudenziale recente da segnalare è l’estensione del diniego di detrazione al di là del caso classico di fattura falsa. La Cassazione, ord. n. 9919 del 16/04/2025 ha stabilito (in un caso molto discusso) che “ai fini del disconoscimento del diritto alla detrazione non è necessaria una situazione di frode – come nel caso di operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti – essendo sufficiente anche la conoscenza o doverosa conoscibilità di una situazione di evasione del versamento dell’IVA”. In quel caso concreto, l’acquirente era legato da vincoli familiari ai soci della società fornitrice e sapeva (o avrebbe dovuto sapere) che tale società sistematicamente non versava l’IVA allo Stato, pur emettendo regolari fatture. Pur mancando una “frode carosello” in senso stretto, la Suprema Corte ha ritenuto corretto negare la detrazione IVA all’acquirente “consapevole” dell’evasione a monte. Questo allineamento è coerente col principio europeo: anche sapere di partecipare a un’operazione che alimenta evasione altrui (il fornitore evasore) fa perdere il diritto. Implicazione pratica: il concetto di buona fede va riferito non solo alla falsità della fattura, ma anche ad altri contesti di evasione del fornitore. Quindi, se un contribuente sa che il suo fornitore è fiscalmente inaffidabile (es: che non versa l’IVA, pur senza usare cartiere), potrebbe vedere negata la detrazione se continua a fare affari con lui. Questa è una novità giurisprudenziale degli ultimi tempi, che affina ulteriormente la posizione: il contribuente deve stare attento non solo a evitare cartiere, ma anche a non favorire consapevolmente fornitori che evadono.
Tornando alla difesa in materia IVA: abbiamo detto che dimostrando la buona fede si può conservare la detrazione. Ma c’è anche il tema delle sanzioni IVA. L’indebita detrazione IVA configura una violazione amministrativa tributaria. Normalmente, la sanzione per un’indebita detrazione è pari al 90% dell’imposta indebitamente detratta (in base all’art. 6, comma 6, D.Lgs. 471/1997). Tuttavia, se la detrazione viene considerata addirittura un credito inesistente (cioè una frode conclamata), la sanzione sale dal 100% al 200% dell’importo. Nel caso delle fatture false, la prassi è applicare il 90% (trattandosi di imposta dovuta in meno, equiparata all’infedeltà dichiarativa). Se però emergesse una condotta dolosa particolarmente grave, si potrebbe qualificare come credito inesistente con sanzione ancora maggiore, ma ciò di solito è riservato a ipotesi in cui il contribuente ha creato un falso credito da compensare. Ad ogni modo, una sanzione del 90% su un’IVA di 10.000 € significa 9.000 € di multa, il che già indica la severità.
Se il contribuente dimostra la propria buona fede, può evitare tali sanzioni? Sì, in teoria. L’art. 6, comma 2, del D.Lgs. 472/1997 prevede che non sia irrogata sanzione quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata della norma o da fatto scusabile. La buona fede potrebbe essere vista come errore incolpevole – ad esempio essersi fidato di documenti apparentemente regolari. Inoltre, la Cassazione ha affermato che la non deducibilità di costi da reato non comporta sanzioni se il contribuente non aveva consapevolezza del reato (richiamando il principio del favor rei in caso di buona fede). Quindi, se anche per assurdo la detrazione venisse negata ma il contribuente ritenuto non colpevole, almeno la sanzione potrebbe essere annullata. Nei fatti, se il giudice tributario crede alla buona fede, di solito annulla proprio la ripresa a tassazione dell’IVA, rendendo superfluo affrontare il tema sanzionatorio (che cade di conseguenza).
In conclusione su IVA:
- Obiettivo del contribuente: convincere il giudice che l’operazione, per quanto “macchiata” dalla frode altrui, per lui era un acquisto genuino e inconsapevole, così da mantenere il diritto alla detrazione IVA.
- Obiettivo secondario: in caso di parziale soccombenza (es. giudice ritiene un po’ di colpa), puntare quantomeno a far ridurre o annullare le sanzioni, invocando l’assenza di dolo o colpa grave.
Dopo aver trattato l’IVA, passiamo ora al versante delle imposte dirette (IRES, IRPEF), dove entrano in gioco regole parzialmente diverse (in particolare la disciplina dei costi da reato e i principi di inerenza/certezza del reddito).
Conseguenze fiscali in ambito imposte dirette (IRES/IRPEF) e come difendersi
Quando si parla di fatture da fornitori cartiera, oltre all’IVA c’è il tema dei costi ai fini delle imposte sui redditi (IRES per le società, IRPEF per le ditte individuali e persone fisiche). L’Amministrazione finanziaria, infatti, in sede di accertamento tende a recuperare a tassazione non solo l’IVA indebitamente detratta, ma anche i costi fittizi che hanno abbattuto il reddito imponibile. In pratica, l’importo al netto IVA delle fatture contestate viene ripreso a tassazione come maggior reddito, con conseguente imposta (IRES/IRPEF) dovuta su tale differenza e relative sanzioni (generalmente 90% della maggiore imposta per dichiarazione infedele).
La difesa del contribuente sul fronte imposte dirette si basa su due argomenti principali: (1) la prova che il costo in realtà corrisponde a un’operazione realmente avvenuta e inerente (cioè che non è un “costo fittizio” ma un costo effettivo dell’attività); (2) l’applicazione della norma “di favore” introdotta nel 2012 sui costi da reato (art. 14 comma 4-bis L. 537/93 modificato), che permette comunque la deduzione di alcuni costi anche se legati a condotte fraudolente altrui, purché non direttamente usati per commettere reato.
Vediamo i possibili scenari e difese:
- Se l’operazione era oggettivamente inesistente: in tal caso, come già evidenziato, il costo è totalmente privo di riscontro reale e quindi indeducibile. Il contribuente può solo cercare di dimostrare che invece l’operazione c’era (riqualificandola come soggettiva). Ad esempio, se afferma: “è vero che il fornitore era fasullo, ma i beni li ho ricevuti da qualcun altro e li ho pagati”, allora l’operazione non era oggettivamente inesistente, ma soggettivamente inesistente. Quindi la prima linea di difesa è eventualmente questa “riqualificazione”: convincere che non si trattava di un costo inventato, ma di un costo per beni effettivi, solo fatturato da soggetto diverso. Se però i beni proprio non ci sono mai stati, non c’è norma che tenga: i costi simulati sono da espungere. A volte il contribuente in malafede cerca di sostenere che quei costi si riferivano ad altro (es. “erano provvigioni occulte che ho pagato”), ma ovviamente è difficile poi rivendicarne la deducibilità se per giunta ammette un illecito.
- Se l’operazione era soggettivamente inesistente (beni reali, fornitore fittizio): qui interviene la norma del 2012. In passato, prima della modifica normativa, l’Agenzia disconosceva comunque questi costi sostenendo che fossero “costi da reato” (essendo la fatturazione una frode). Oggi, invece, il contribuente ha un appiglio forte: l’art. 14, co.4-bis L. 537/93 stabilisce che sono deducibili i costi relativi a operazioni (anche fraudolente) non utilizzate per commettere reati, ma inerenti all’attività. Nel nostro caso, vuol dire: se Tizio ha comprato materie prime da Caio (che era una cartiera) e quelle materie prime sono state effettivamente usate per produrre i suoi prodotti, il costo è inerente e non è stato sostenuto per commettere un reato (Tizio non le ha comprate per delinquere, ma per lavorarci). Quindi il costo dovrebbe restare deducibile nonostante la frode di Caio. La Cassazione, come visto, ha confermato questo: “in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993, nella formulazione introdotta dal 2012, consente all’acquirente, anche quando consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, di dedurre i costi di beni e servizi non utilizzati direttamente al fine di commettere il reato, ma per essere commercializzati”. In altri termini, pure se Tizio sapeva della frode, finché i beni li ha effettivamente comprati e rivenduti, il costo rimane deducibile (ovviamente il caso in cui sapeva può comportare rogne penali, ma sul piano strettamente fiscale la deduzione è ammessa). L’unico limite è se quei beni/servizi “contrastino coi principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinabilità”, cioè se in concreto manca qualche requisito ordinario di deducibilità (ad esempio se il costo fosse gonfiato in modo antieconomico – l’antieconomicità estrema può essere contestata come carenza di inerenza). Quindi la linea difensiva sul merito per i costi soggettivamente falsi sarà: i beni/servizi sono effettivamente entrati nella mia attività (effettività del costo) e sono inerenti (mi servivano per produrre reddito), dunque vanno dedotti. Il tutto citando l’art. 14 comma 4-bis come modificato. Si può anche far notare al giudice che la norma ha efficacia retroattiva in bonam partem e si applica anche a fatti antecedenti il 2012 (ad esempio se la contestazione riguarda anno 2010, comunque la norma del 2012 si applica e “sanatoria” la deducibilità). Naturalmente, per rendere credibile questo, bisogna portare le medesime prove discusse prima: consegne, utilizzo dei beni, ecc. Se ad esempio l’azienda ha acquistato un macchinario dal fornitore fasullo e lo sta effettivamente usando in produzione, si potrà dedurne l’ammortamento; se ha comprato stock di merci e le ha vendute, il costo del venduto è deducibile. Attenzione: serve comunque che la spesa rispetti i principi contabili (competenza temporale, documentazione minima). La fattura c’è (seppur fittizia soggettivamente) e può valere come pez
- Il problema dei costi direttamente utilizzati per commettere reato: Questa dicitura della legge serve a escludere dalla deduzione quei costi che sono essi stessi parte integrante dell’atto criminoso. Nel contesto delle fatture false, un esempio potrebbe essere: una società crea fatture false solo per generare finti costi e abbattere l’utile, senza nessuna controprestazione reale. In tal caso quei costi sono il reato (dichiarazione fraudolenta) e quindi non vanno dedotti. Oppure immaginare che un’azienda paghi una tangente e la “giustifichi” a bilancio con una falsa fattura per consulenza: quella fattura è per un reato (corruzione) e il costo è direttamente finalizzato a un reato, quindi indeducibile. Nel nostro scenario tipico, se l’azienda era in buona fede, per definizione il costo non era volto a commettere reati, era volto a un acquisto vero. Dunque, su questo fronte la difesa è relativamente agevole: basta sostenere che il costo era finalizzato all’attività e non a uno scopo illecito. Se invece l’azienda era complice e ha usato la cartiera per farsi sconto d’IVA, allora in teoria stiamo in area di reato, ma paradossalmente la norma consente deduzione anche quando consapevole, come abbiamo letto, purché beni destinati a essere commercializzati. Diciamo che l’intento del legislatore è stato di evitare una doppia punizione: se i beni sono reali e generano ricavi tassati, almeno il costo lo deduciamo, sebbene tu contribuente fossi colluso (ti puniremo in altri modi, penalmente o con sanzioni, ma non tassandoti su un margine inesistente).
- Sanzioni sulle imposte dirette: L’utilizzo di fatture false in dichiarazione dei redditi è un atto di infedele dichiarazione (se fatto senza frode) o di dichiarazione fraudolenta (se con uso di fatture false in modo penalmente rilevante). Sotto il profilo amministrativo, di solito viene contestata la dichiarazione infedele con sanzione pari al 90% della maggior imposta dovuta (art. 1, comma 2, D.Lgs. 471/97). Anche qui se si ritenesse “frode conclamata” si potrebbe teorizzare sanzione 100-200%, ma normalmente rimane 90%. Se il contribuente però riesce a far valere la deducibilità dei costi (perché soggettivamente inesistenti ma reali), allora non ci sarà affatto maggiore imposta su quei costi e dunque nessuna sanzione. Diverso il caso in cui l’azienda fosse consapevole: lì comunque la deduzione spetta (paradossalmente), ma se era consapevole parliamo di reato, e quindi la sanzione amministrativa sarebbe secondaria rispetto al penale (che però non riscuote l’imposta, riguarda la pena). Da segnalare: Cassazione penale e Corte Costituzionale hanno discusso di possibili disparità: ad esempio, un imprenditore consapevolmente fraudolento che comunque deduce i costi reali non viene colpito fiscalmente (deduce tutto) ma solo penalmente, mentre prima del 2012 avrebbe perso anche la deduzione. La riforma è stata voluta dal legislatore anche per evitare che i costi di operazioni soggettivamente false ma reali fossero indeducibili, perché si è valutato che ciò finiva per tassare redditi inesistenti e punire due volte. Questa considerazione può emergere nelle arringhe difensive per sottolineare che l’ordinamento – con la modifica del 2012 – ha scelto di privilegiare la tassazione corretta del reddito effettivo.
Riassumendo sul piano imposte dirette:
- Se sei in buona fede ed è tutto reale: insistere che i costi sono legittimamente deducibili in base alla legge e alla giurisprudenza (operazioni realmente effettuate). Presentare prove che quei costi sono stati sostenuti nell’esercizio (fatture, pagamenti) e che corrispondono a beni/servizi effettivamente ottenuti. Citare le sentenze Cass. 4645/2020, 8480/2022, ecc., che confermano la deducibilità.
- Se qualcosa non torna (es: costi gonfiati): il Fisco potrebbe sostenere che, anche se deducibili in teoria, quei costi violano il principio di inerenza o determinabilità perché sproporzionati. Qui serve eventualmente difendersi mostrando che i prezzi erano di mercato (magari con listini, preventivi di altri fornitori), per evitare disconoscimenti per antieconomicità.
- In ogni caso la buona fede aiuta sulle sanzioni: un contribuente ignaro può sperare, come per l’IVA, nell’annullamento o almeno riduzione delle sanzioni, perché la violazione potrebbe risultare scusabile.
Si noti che, nell’eventualità remota in cui un giudice ritenesse deducibili i costi ma non detraibile l’IVA (ipotizzando ad esempio un contribuente consapevole che però deduce costi reali – caso limite), il risultato sarebbe: si paga solo l’IVA indetraibile. Questo scenario ibrido può succedere? Sì, ad esempio se il giudice dicesse “tu sapevi, quindi niente detrazione IVA, ma siccome i beni li hai rivenduti ti lascio i costi perché la legge lo consente”. In tal caso il contribuente comunque pagherebbe l’IVA recuperata e relative sanzioni, ma almeno non l’IRES. Questo per dire che i due piani (IVA e redditi) sono collegati ma non sempre allineati perfettamente.
Sanzioni amministrative e strumenti deflativi
Abbiamo già accennato alle sanzioni amministrative pecuniarie previste per queste violazioni (90% dell’IVA detratta indebitamente; 90% dell’imposta sui redditi evasa tramite costi indebiti). Conviene qui ricapitolare e aggiungere qualche dettaglio, e poi ricordare che il contribuente ha a disposizione anche strumenti deflativi del contenzioso (adempimento spontaneo, ravvedimento, definizione agevolata, etc.), i quali a volte possono mitigare il danno.
Principali sanzioni tributarie amministrative:
- Indebita detrazione IVA: sanzione dal 90% al 100% dell’imposta indebitamente detratta (art. 6 D.Lgs. 471/97). Spesso applicata al 90% (trattata come infedele dichiarazione IVA). Ad esempio, su 10.000 € di IVA contestata, sanzione di 9.000 €. Questa sanzione, se la violazione è frutto di frode, non beneficia di cause di non punibilità se non quella generale della forza maggiore o errore scusabile.
- Utilizzo di fatture false in dichiarazione dei redditi: sanzione pari al 90% della maggior imposta o della differenza di perdita (art. 1, c.2, D.Lgs. 471/97), con minimo €500. Anche qui è la sanzione standard per dichiarazione infedele. Se per esempio sono dedotti costi per 50.000 € e l’aliquota IRES 24% genera 12.000 € di imposta evasa, sanzione 10.800 € (90%). Se i costi indebiti riducevano una perdita, la sanzione è sul “risparmio d’imposta” teorico.
- Violazioni contabili correlate: in alcuni casi potrebbero contestare anche la violazione di emissione/registrazione di fatture false (art. 8 D.Lgs 471/97, sanzione fissa per ciascuna fattura irregolare, ma di solito puniscono il comportamento dichiarativo finale).
Riduzioni e attenuanti: Se il contribuente aderisce a strumenti deflativi (adesione all’accertamento, acquiescenza) le sanzioni vengono ridotte (1/3 del minimo in adesione, 1/3 in acquiescenza post-avviso se non impugna). Con il ravvedimento operoso (pagamento spontaneo prima di notifica atti) si possono ridurre moltissimo, ma realisticamente difficilmente uno scopre da solo di avere fatture false a meno che lo denunci il fornitore.
Non punibilità per buona fede: Non esiste una norma esplicita che esoneri da sanzione se il contribuente prova la propria buona fede. Tuttavia, come detto, l’art. 6 co.2 D.Lgs. 472/97 esclude la punibilità quando c’è “obiettiva incertezza” o mancanza di colpevolezza. Ci sono stati casi in cui, pur confermando il recupero dell’imposta, i giudici tributari hanno annullato le sanzioni riconoscendo che il contribuente era incolpevole (specie prima che la Cassazione affinasse l’onere probatorio per il Fisco). Oggi, se un giudice arriva a credere all’incolpevolezza, in genere, come detto, annulla direttamente anche l’imposta (almeno per IVA). Ma potrebbe succedere un caso in cui per stretto diritto l’IVA risulti indetraibile oggettivamente, però il contribuente è ritenuto incolpevole dell’errore: lì una strada equitativa potrebbe essere togliere la sanzione e lasciare solo il tributo.
Concorso formale di violazioni e continuazione: se ci sono tante fatture false su più anni, ci possono essere discussioni su come applicare sanzioni. Le norme prevedono il cumulo giuridico (applicare la sanzione più grave aumentata). Sono dettagli tecnici, ma in sostanza il totale sanzioni è spesso negoziabile.
Strumenti deflativi e definizioni: Il contribuente che riceve un PVC (processo verbale di constatazione) può valutare di definire in acquiescenza il PVC per ottenere sconti sanzioni. In passato c’erano normative speciali, come la definizione agevolata delle liti pendenti, o “condoni” vari (ad esempio la pace fiscale 2023 ex L. 197/2022 aveva uno stralcio interessi/sanzioni in alcuni casi se il contribuente non aveva colpe gravi). Al di là di misure straordinarie, c’è anche la via dell’accertamento con adesione: si discute col Fisco e magari si può convincerli a riconoscere qualcosa (es: i costi deducibili) in cambio di chiudere la vertenza. In quelle sedi, dimostrare buona fede può ammorbidire l’ufficio sulla richiesta sanzioni, magari accordando il minimo.
Occhio alla recidiva e alle soglie penali: se le violazioni sono ripetute e significative, oltre al penale (di cui diremo tra poco) il contribuente potrebbe essere classificato come contribuente a rischio per future verifiche. Ma questo esula dalla singola lite.
In sostanza, in sede amministrativa/contabile: il miglior risultato difensivo è l’annullamento totale dell’accertamento (niente imposta, niente sanzione). Un risultato intermedio è ottenere il riconoscimento dei costi ai fini IRES (quindi imposta sui redditi nulla o ridotta) pur magari perdendo sull’IVA: in tal caso le sanzioni quantomeno saranno limitate all’IVA. E in ogni caso, provare la buona fede può quanto meno condurre il giudice, se proprio deve dar torto sull’imposta, a motivare l’applicazione della sanzione nel minimo o la non applicazione per scusabilità.
Ricordiamo che esistono anche cause di non punibilità specifiche in ambito penale (pagamento integrale del debito tributario prima del dibattimento, ad esempio, che estingue alcune fattispecie penali minori), ma sul penale torniamo subito.
Profili penali (reati di emissione e utilizzo di fatture false)
La vicenda delle fatture da cartiera non si esaurisce mai sul solo piano fiscale. Come accennato, l’ordinamento italiano considera la frode tramite fatture false talmente grave da sanzionarla penalmente con apposite norme. È opportuno quindi fare una panoramica anche sulle conseguenze penali e su come la “buona fede” del contribuente giochi un ruolo essenziale per evitare condanne.
Le fattispecie di reato rilevanti sono principalmente due, previste dal D.Lgs. 74/2000 (la legge sui reati tributari):
- Art. 2 – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Questo reato punisce chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, si avvale di fatture per operazioni inesistenti per indicare nelle dichiarazioni elementi passivi fittizi. In sostanza, l’imprenditore o il legale rappresentante che presenta la dichiarazione annuale includendovi costi fittizi o IVA a credito da fatture false commette questo reato. È un delitto doloso: richiede il dolo specifico di evasione. Le sanzioni penali sono severe: attualmente (dopo le modifiche del 2015 e 2019) la pena è la reclusione da 4 a 8 anni. Non c’è soglia minima di punibilità per questo reato: anche una sola fattura falsa usata in dichiarazione integra il reato (prima del 2015 vigeva una soglia di €154.937,07 di imposta evasa, ma è stata eliminata). Ciò significa che appena l’ufficio denuncia il fatto, parte il penale. Naturalmente, se le fatture false sono di modesto impatto, la vicenda potrebbe chiudersi con l’archiviazione o patteggiamenti, ma la norma di per sé è molto affilata. Importante: essendo un reato di dichiarazione, la condotta si perfeziona al momento della presentazione della dichiarazione annuale (non al momento dell’uso interno della fattura). Quindi, per anno d’imposta, il reato è unico (anche se le fatture sono tante, fanno parte di un’unica condotta dichiarativa – il che rileva per il computo delle pene).
- Art. 8 – Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Questo invece punisce la controparte: chi emette fatture false (il fornitore cartiera). È speculare all’art. 2, con pena la reclusione da 4 a 8 anni per chi emette con lo scopo di consentire a terzi l’evasione. Spesso nelle frodi carosello i “cartieristi” vengono imputati di questo. Dal punto di vista del nostro contribuente (che è l’utilizzatore delle fatture), l’art. 8 è meno rilevante salvo che egli possa esservi implicato come concorrente (es. se due imprenditori accordandosi reciprocamente emettono fatture false a beneficio l’uno dell’altro).
Quindi, per il nostro contribuente debitore, il rischio penale principale è l’accusa di dichiarazione fraudolenta (art. 2). La buona fede, tradotta in termini penalistici, significa assenza di dolo. Se davvero l’imprenditore non sapeva che quelle fatture fossero false e non intendeva evadere, allora manca l’elemento soggettivo del reato. In tal caso non dovrebbe essere condannato penalmente per l’art. 2, perché o il fatto non sussiste (se addirittura il costo era reale e quindi non c’è elemento passivo fittizio) oppure il fatto non costituisce reato per difetto di dolo.
Va sottolineato: la soglia della prova nel penale è più alta (“oltre ogni ragionevole dubbio”), mentre nel tributario è sufficiente la prova per presunzioni. Ciò significa che è possibile – ed è anzi frequente – che un soggetto venga assolto penalmente per mancanza di prove di dolo, ma non riesca a vincere nel tributario perché lì sono bastati indizi per affermare la sua consapevolezza. Questa discrasia deriva proprio dai diversi standard probatori e finalità. Ad esempio, se gli indizi di frode non sono gravissimi, un giudice penale potrebbe dire “non ho certezza oltre il dubbio ragionevole che l’imputato sapesse, quindi assolvo”, mentre un giudice tributario con gli stessi indizi può dire “sono presunzioni gravi e concordanti, rigetto il ricorso del contribuente”.
Tuttavia, se il contribuente riesce in sede tributaria a dimostrare la buona fede (e quindi vince la causa), ciò praticamente implica che non c’era dolo; quel giudizio non vincola il penale, ma è probabile che l’esito penale sia l’archiviazione o l’assoluzione. Viceversa, se il tributario va male (giudice afferma consapevolezza), in penale però c’è ancora speranza di difendersi affermando che quegli indizi non bastano come prova rigorosa di colpevolezza.
Che fare penalmente se si è in buona fede? Naturalmente, collaborare con gli inquirenti spiegando l’accaduto, fornendo tutti i documenti che attestano i controlli fatti e la realtà delle operazioni. Spesso un aspetto decisivo è: il contribuente truffato denuncia a sua volta il fornitore? Se ad esempio un imprenditore scopre di essere rimasto coinvolto in una frode e va egli stesso a sporgere denuncia dicendo “ho scoperto che Tizio era una cartiera e io sono vittima perché ho pagato e ora mi trovo nei guai”, questo atteggiamento è fortemente indicativo di buona fede. Difficile infatti pensare che un complice vada spontaneamente a denunciare il socio del reato. Quindi, se succede di scoprire la frode (magari perché arriva la Finanza e rivela che il fornitore non si trova più), un consiglio utile è mostrare un comportamento proattivo: cooperare, fornire documenti, persino costituirsi parte offesa (per il danno subito, perché il fornitore non ha versato l’IVA causando il problema). Questo può non evitare il contenzioso tributario, ma aiuterà tantissimo nel penale e anche come equity nel tributario.
Soglie penali: Come detto, per l’uso di fatture false non c’è soglia di punibilità, a differenza di altri reati tributari. Ciò vuol dire che anche poche migliaia di euro di IVA possono far scattare l’indagine. Tuttavia, esistono soglie per altri reati (es. dichiarazione infedele semplice richiede >100k imposta evasa e >10% reddito) ma chi usa fatture false ricade sempre nel 2.
Prescrizione penale: Il reato di dichiarazione fraudolenta ha tempi di prescrizione attualmente di 8 anni (pena max 8 -> base 8 anni + eventuali aumenti). Con atti interruttivi può arrivare a oltre 10 anni. Quindi, ad esempio, per una dichiarazione 2019 presentata nel 2020, la prescrizione può arrivare attorno al 2030-2031. Questo per dire che il penale può rimanere pendente a lungo dopo la fine del contenzioso tributario.
Interazioni tra processo tributario e penale: La legge prevede che l’irrogazione di sanzioni amministrative tributarie è sospesa in pendenza di processo penale per gli stessi fatti. Ciò significa che se c’è un procedimento penale in corso per fatture false, le sanzioni tributarie definitive possono essere sospese (non riscosse immediatamente) fino all’esito penale. Questo tutela dal rischio di pagare sanzioni salate e poi magari essere assolti penalmente perché il fatto non sussiste. Però l’imposta e gli interessi invece sono dovuti indipendentemente (il fisco li vuole comunque). In caso di assoluzione piena penale con formula “perché il fatto non sussiste o non costituisce reato”, di solito si ha facile base per chiedere la revisione del contenzioso tributario se fosse già perso, o comunque quell’esito può portare a un riesame favorevole.
Sanzioni penali accessorie: Per completezza, se un contribuente viene condannato per l’art. 2, oltre alla reclusione ci sono sanzioni accessorie come l’interdizione dagli uffici direttivi di imprese e l’incapacità di contrattare con la PA per un certo tempo. Inoltre, dal 2019, alcuni reati tributari come questo fanno scattare la responsabilità amministrativa dell’ente (D.Lgs. 231/2001): quindi anche la società può essere sanzionata se il reato le ha portato vantaggio e l’azienda non aveva modelli organizzativi adeguati a prevenirlo. Questo aspetto interessa soprattutto medie-grandi imprese.
Come evitare il penale se ci si accorge della situazione: Una via di salvezza è l’istituto del ravvedimento operoso o pentimento attivo in sede penale. L’art. 13 del D.Lgs. 74/2000 prevede che per alcuni reati, pagando integralmente il debito tributario (imposta, interessi, sanzioni amministrative) prima dell’apertura del dibattimento, il reato sia estinto. Per i reati fraudolenti (art. 2 e 8), la regola è un po’ diversa: il pagamento costituisce solo circostanza attenuante molto rilevante, non causa di non punibilità. Recentemente è stato introdotto (nel 2019) l’art. 13-bis che però esclude la possibilità di patteggiamento se non si paga prima il dovuto. In sintesi: se il contribuente, anche dopo l’avvio dell’indagine, paga tutto il dovuto al Fisco, in sede di processo questo porta perlomeno a uno sconto di pena e a maggiori chance di misure alternative. Se fosse prima del processo, addirittura potrebbe convincere il PM a non procedere (ma non è garantito).
Riassumendo il penale dal punto di vista del “buon contribuente”:
- Se era davvero ignaro: in caso di indagine, mettere in luce la propria buona fede in ogni modo (documenti, denuncia del fornitore). Puntare a ottenere l’archiviazione o l’assoluzione. Nel frattempo, difendersi in tributario per cercare di annullare l’accertamento (che di riflesso convincerà anche il penale).
- Se c’è un dubbio: valutare l’opzione di patteggiare la pena (spesso con pena sospesa se incensurati e importi non enormi) per chiudere in fretta l’aspetto penale, concentrandosi poi sul tributario per limitare i danni economici.
- In ogni caso, pagare il dovuto (se economicamente fattibile) può migliorare la posizione penale e magari giovare come ravvedimento per ridurre sanzioni amministrative.
Va da sé che chi è in buona fede probabilmente contesterà anche la parte economica e cercherà di non pagare perché ritiene di aver ragione. Quindi è un bilanciamento difficile: pagare toglie il penale di mezzo ma vanifica la difesa nel merito (perché ammetti il debito). Spesso la scelta dipende dalla quantità in ballo e dalla certezza di poter dimostrare l’innocenza. Se il quadro probatorio è ambiguo, qualcuno preferisce transare e pagare (magari con transazioni tipo adesione) per ridurre il rischio, ma così subisce un torto se era innocente. Se il quadro è favorevole, si può combattere su entrambi i fronti.
In conclusione, dal punto di vista del contribuente onesto coinvolto in queste vicende, la priorità assoluta è evitare di passare per complice: nel tributario ciò significa mettere insieme tutte le prove di diligenza, nel penale significa collaborare e dimostrare di non aver tratto volontariamente beneficio dalla frode. Il lieto fine ideale è vincere la causa tributaria e ottenere l’archiviazione penale: obiettivi raggiungibili con un lavoro difensivo accurato e documentato.
Giurisprudenza rilevante (sentenze aggiornate al 2025)
Per rafforzare quanto esposto, in questa sezione riepiloghiamo alcune delle sentenze più significative e recenti in materia di fatture inesistenti, buona fede e onere della prova, con un breve commento del principio di diritto espresso da ciascuna. Si tratta di pronunce di legittimità (Corte di Cassazione) e, in parte, di riferimenti a casi della Corte di Giustizia UE, che costituiscono la base giurisprudenziale da citare nel contenzioso.
Cassazione civile, Sez. V, ordinanza n. 4647/2023 (dep. 14 febbraio 2023): Questa pronuncia è notevole perché fa una sintesi organica dei principi in tema di fatture soggettivamente inesistenti. La Corte afferma chiaramente che, in caso di detrazione IVA, spetta al Fisco provare – anche per presunzioni – non solo la fittizietà del fornitore ma anche che il destinatario (il contribuente) fosse consapevole della frode, con indizi tali da mettere in allarme qualsiasi imprenditore onesto. Solo dopo scatta l’onere per il contribuente di provare di aver agito senza consapevolezza e con la massima diligenza. Importante anche la sottolineatura che né la regolarità dei pagamenti né la mancanza di profitto bastano a provare la buona fede. Questa ordinanza richiama inoltre precedenti conformi (Cass. 24471/2022; 15369/2020) e richiama la necessità che il soggetto passivo non sappia né possa sapere di partecipare a frode (cita Corte di Giustizia Optigen 2006).
Cassazione Sez. V, ordinanza n. 12895/2024 (dep. 10 maggio 2024): Rilevante per la distinzione tra onere della prova in caso di operazioni soggettivamente vs oggettivamente inesistenti. La massima recita appunto che l’onere non è il medesimo nei due casi: per le soggettive l’Amministrazione deve provare fornitore fittizio e consapevolezza del destinatario (anche presuntivamente), e poi tocca al contribuente provare la diligenza massima; per le oggettive, provata dall’Amministrazione l’inesistenza (ad es. dimostrando che il fornitore è cartiera), spetta al contribuente provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate. Inoltre, la sentenza censura il giudice di merito che aveva invertito l’onere in modo scorretto: nel caso concreto la CTR aveva preteso che il contribuente provasse che le società fornitrici non fossero cartiere, mentre secondo la Cassazione era l’Amministrazione a doverlo provare. La Corte ribadisce poi che focalizzarsi sui pagamenti (ad es. pagamento avvenuto o meno) non è decisivo per la prova dell’inesistenza. Questa ordinanza è molto utile per delineare le corrette regole probatorie.
Cassazione Sez. V, ordinanza n. 14102/2024 (dep. 21 maggio 2024): Importante per il tema della diligenza esigibile. Stabilisce espressamente che le cautele richieste al cessionario per escludere il suo coinvolgimento inconsapevole non possono tradursi in verifiche complesse paragonabili a quelle proprie dell’Amministrazione. In altre parole, il contribuente non deve farsi carico di controlli sproporzionati. Conferma poi l’orientamento consolidato sul doppio livello di prova (Fisco prova consapevolezza con presunzioni oggettive, contribuente prova di aver agito con massima diligenza), citando moltissimi precedenti dal 2018 al 2022. Questa è una sentenza chiave da invocare quando il Fisco pretende che il contribuente dovesse “accorgersi” di cose che vanno oltre la sua portata.
Cassazione Sez. V, ordinanza n. 9919/2025 (dep. 16 aprile 2025): Caso innovativo riguardante evasione dell’IVA a monte senza fatture false. Qui come detto la fattispecie era: fornitore reale ma che non versa l’IVA, cliente legato da vincoli di parentela con i soci del fornitore e a conoscenza delle inadempienze. La Cassazione ha negato la detrazione IVA al cliente, affermando che non occorre una frode formale (cartiere) per negare la detrazione, è sufficiente la consapevolezza dell’evasione a monte. Viene ribadito che se il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che con il suo acquisto partecipava a un’evasione dell’IVA, perde il diritto alla detrazione, e ciò indipendentemente dal fatto che abbia o meno tratto beneficio dalla rivendita dei beni. L’onere della prova della scientia fraudis spetta comunque al Fisco, chiarisce la Corte. Questo caso (spesso citato come “Cassazione Alfa/Beta 2025”) è molto utile per capire che la buona fede deve esistere non solo rispetto all’esistenza della merce, ma anche rispetto alla correttezza fiscale del fornitore. Se emergono relazioni o elementi che dovevano far dubitare, anche senza cartiera, il rischio è la perdita del diritto.
Cassazione Sez. V, sentenza n. 21105/2017 (Sezioni Unite, dep. sett. 2017): Questa è una sentenza delle Sezioni Unite, spesso menzionata, che ha risolto alcuni contrasti in tema di costi da reato. Stabilì il principio (in un caso di false fatturazioni) che la norma dell’art. 14 comma 4-bis L. 537/93 (nel testo post-2012) è applicabile retroattivamente perché più favorevole, consentendo la deducibilità di costi da operazioni soggettivamente inesistenti anche per il passato. Quindi cassò decisioni di commissioni che ancora negavano deduzioni per periodi ante 2012. È una pronuncia importante dal punto di vista sistematico, confermando la volontà di tassare solo il reddito effettivo anche in presenza di frodi. (Nelle stringhe citate prima, c’era un riferimento a Cass. Sez. Unite 21105/2017 tra i precedenti consolidati).
Cassazione Sez. V, sentenza n. 9851/2018 (dep. 20 aprile 2018): Spesso citata come uno dei primi arresti chiari nel consolidare che, in tema di soggettive inesistenti, serve la prova della consapevolezza del cessionario. Confermata e seguita da molte altre (Cass. 27566/2018, 5873/2019 ecc.). Possiamo dire che dal 2018 in poi la giurisprudenza di legittimità è diventata costante su questa linea pro-contribuente (innocente).
Corte di Giustizia UE, cause unite C-80/11 e C-142/11 Mahagében (21 giugno 2012): Queste sentenze europee (citate pure dalla Cassazione) hanno affermato che il diritto alla detrazione non può essere limitato se non quando vi sia prova che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare a una frode. Inoltre, la Corte UE ha detto che gli Stati non possono imporre all’imprenditore di provare la regolarità del comportamento tributario del fornitore o di effettuare verifiche estranee alle sue possibilità (concetto poi ripreso dalla Cass. 14102/2024). Queste sentenze sono alla base del nostro principio di tutela del contribuente in buona fede.
Corte di Giustizia UE, causa C-277/14 PPUH Stehcemp (22 ottobre 2015): Riguarda anch’essa l’uso di presunzioni per dimostrare la consapevolezza nella frode IVA. La Cassazione la cita per affermare che la prova della partecipazione alla frode “può essere fornita anche mediante presunzioni semplici” valutando tutti gli indizi.
Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 4439/2019 (caso “Martini”): Dal lato penale, una pronuncia che spesso si cita (anche se non notissima come numero) è quella che ha escluso la punibilità di un amministratore che aveva firmato la dichiarazione con fatture false ma in totale inconsapevolezza, attribuendo la responsabilità al consulente fiscale fraudolento. Mostra come in sede penale sia riconosciuta la buona fede quando risulta che l’imputato non aveva controllo o conoscenza delle operazioni inesistenti (situazione peculiare, ma capita nelle grandi aziende con dirigenti infedeli).
Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 42819/2024 (dep. 22 novembre 2024): Questa è una pronuncia in ambito penale in tema di emissione di fatture false. Ha ribadito che l’accordo collusivo tra emittente e utilizzatore è alla base dei reati di cui agli artt. 2 e 8, e ha definito i confini del concorso tra chi emette e chi utilizza. Non riguarda direttamente la buona fede (che in penale equivale a non luogo a procedere), ma dà indicazioni sull’elemento soggettivo richiesto: la volontà di favorire l’evasione altrui per l’emittente, e la volontà di evadere per l’utilizzatore.
Diamo ora una tabella di riepilogo di alcune sentenze chiave citate e del loro contributo:
Tabella 2 – Principali sentenze in materia (2018-2025)
Decisione | Principio enunciato | Fonte/citazione |
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Cass. Sez. V, 9851/2018 | Onere al Fisco di provare fornitore fittizio e consapevolezza del cessionario nelle frodi soggettive; contribuente può difendersi provando la propria buona fede e diligenza. | Conforme Cass. 27566/2018; 21104/2018 |
Cass. Sez. U, 21105/2017 | (Sez. Unite) – I costi da operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili anche retroattivamente se i beni/servizi sono reali e non finalizzati a reato; la norma del 2012 si applica in bonam partem. | (richiamata) |
Cass. Sez. V, 5873/2019 | Conferma: Fisco deve provare che contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere della frode, con diligenza media; tale prova può fondarsi su elementi che avrebbero reso la frode riconoscibile a un imprenditore onesto e mediamente diligente. | |
Cass. Sez. V, 4645/2020 | In tema di imposte sui redditi, conferma l’applicazione retroattiva dell’art. 14 co.4-bis L.537/93 come mod. 2012: costi soggettivamente falsi deducibili anche se acquirente consapevole, purché beni non usati per commettere reato ma per l’attività commerciale. | |
Cass. Sez. V, 24471/2022 | Ribadisce i principi su IVA: diritto a detrazione fondamentale salvo frode; per soggettive inesistenti onere al Fisco di provare consapevolezza del cessionario, poi contribuente prova diligenza massima. (Spesso citata in coro con 37889/2022) | (citata) |
Cass. Sez. V, 4647/2023 | Vedi sopra: sintesi generale su onere della prova (doppio step) e irrilevanza di regolarità contabile/pagamenti per provare buona fede. Accoglie ricorso AE sul punto IVA, richiamando consolidata giurisprudenza. | |
Cass. Sez. V, 12895/2024 | Vedi sopra: distingue nettamente oneri probatori per soggettive vs oggettive. Afferma che per oggettive, provata cartiera dal Fisco, spetta al contribuente provare l’effettiva esistenza dell’operazione (fattura e pagamenti formali non bastano). Corregge CTR che aveva invertito onere. | |
Cass. Sez. V, 14102/2024 | Vedi sopra: principio di diritto – le cautele richieste al contribuente non possono estendersi a controlli complessi di competenza del Fisco. Reitera che Fisco deve provare consapevolezza (anche presunta) e contribuente diligenza massima. Ampia rassegna di precedenti conformi. | |
Cass. Sez. V, 9919/2025 | Vedi sopra: in caso di fornitore evasore, se cliente era consapevole o doveva esserlo (es. per stretti legami e reiterati omessi versamenti IVA), detrazione negata anche senza frode classica. Allinea principio unionale di contrasto a evasione: anche partecipazione a evasione “di fatto” fa perdere diritto. | |
CJUE, Optigen (2006) | (Cause riunite C-354/03 e altre) – Stabilisce che un’operazione non perde status di cessione imponibile se fatta in buona fede, ma se l’operatore sapeva o poteva sapere di frode, va considerato partecipe all’evasione e può essergli negato il diritto a detrazione. | (citata) |
CJUE, Mahagében (2012) | (Cause C-80/11 e C-142/11) – Gli Stati non possono esigere che il soggetto passivo compia indagini approfondite sul fornitore per poter detrarre l’IVA. Se esistono sospetti, sta al Fisco provare la conoscenza. Contribuente in buona fede non perde detrazione solo perché il fornitore è inadempiente. | (citata in Cassazione) |
CJUE, Maks Pen (2014) | (Causa C-18/13) – Ribadisce che il soggetto passivo che avrebbe dovuto sapere dell’evasione viene equiparato a chi sapeva (introduzione del concetto di “doverosa conoscibilità”). Principio ripreso dalla Cassazione. | (Cass. 2025 cita Maks Pen) |
Cass. Pen. Sez. III, 6737/2020 | (Esempio penale) – Ha affermato che in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti la buona fede non scusa mai, perché l’assenza dell’operazione implica necessariamente la volontà di ingannare il Fisco. Ciò sul penale indica che se i beni non esistono, l’intento fraudolento è in re ipsa per chi li ha dichiarati. | (sistemapenale.it nota) |
Cass. Pen. Sez. V, 37384/2019 | (Penale) – Ha ritenuto configurabile il concorso tra chi emette e chi utilizza fatture false. Ribadito che l’utilizzatore risponde dell’art. 2 solo se c’è dolo di evasione: non è punibile se manca la volontà di evadere (caso di amministratore ingannato). Questo è in linea con la difesa in buona fede: se provi che non intendevi evadere, niente condanna. | – |
(N.B.: fonti delle massime riportate in tabella si trovano tra i riferimenti bibliografici; per brevità non tutte le citazioni dirette sono riportate qui)
Questa carrellata giurisprudenziale dimostra come la direzione sia uniforme: massima severità verso gli effettivi responsabili di frodi e massima tutela, invece, verso i contribuenti incolpevoli che dimostrino diligenza. Ciò sia sul fronte IVA (neutralità vs contrasto frodi) che sul fronte reddituale (deducibilità dei costi reali vs contrasto ai costi fittizi). Un avvocato o difensore tributario dovrebbe tenere sottomano queste sentenze per citarle nelle memorie: ad esempio, citare Cass. 12895/2024 per sostenere un vizio di riparto onere, Cass. 14102/2024 per contestare pretese di controlli impossibili, Cass. 9919/2025 se c’è di mezzo conoscenza di inadempienze del fornitore, etc.
Esempi pratici e simulazioni (casi di studio)
Per chiarire ulteriormente come applicare i principi esposti, illustriamo alcuni scenari pratici simulati, focalizzati sulla realtà italiana, dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta) che deve decidere come comportarsi o come difendersi. Ogni scenario metterà in luce le possibili azioni prima e dopo l’eventuale accertamento.
Caso 1: Fornitore cartiera scoperto ex post, contribuente diligente.
Scenario: L’azienda Alfa Srl acquista regolarmente nel 2023 materiali di consumo dalla Beta Srl per 100.000 € + IVA 22%. Beta Srl è stata presentata ad Alfa da un conoscente nel settore. Alfa verifica la partita IVA (attiva), ottiene visura (Beta risulta costituita da 3 anni, sede operativa in capannone, apparentemente normale), richiede DURC (che Beta fornisce regolare). La merce viene consegnata con DDT, Alfa paga con bonifico. Prezzi in linea col mercato. Nell’autunno 2024, Alfa riceve una verifica fiscale: emerge che Beta Srl è in realtà una cartiera, senza dipendenti né mezzi, e che la merce in realtà proveniva da un grossista estero; Beta fungeva solo da filtro e non ha versato IVA per 1 milione, poi è sparita. Alfa rimane sorpresa: aveva valutato Beta affidabile in base ai documenti. L’Agenzia contesta ad Alfa l’IVA detratta (22.000 €) e i costi dedotti. Alfa impugna l’avviso.
Analisi difensiva: Questo è il caso classico di operazioni soggettivamente inesistenti con contribuente in buona fede. Alfa dovrà presentare in giudizio tutte le prove della sua diligenza: la visura camerale di Beta, il DURC, i DDT firmati, le contabili dei bonifici, magari fotografie della merce, contratti d’ordine, ecc. Mostrerà che Beta appariva avere struttura (il capannone, poi risultato preso in affitto solo per fingere; ma Alfa non poteva saperlo). Inoltre, evidenzierà che la Beta è stata scelta perché offriva condizioni buone ma non stracciate, infatti i prezzi erano normali, non c’era nessun segnale evidente. Alfa sottolineerà anche che la Beta aveva un DURC: addirittura lo Stato certificava che pagava i contributi (segno di affidabilità). Tutti questi elementi servono a convincere il giudice che Alfa non poteva ragionevolmente accorgersi della frode a monte.
Sul piano giuridico, l’avvocato di Alfa citerà Cass. 4647/2023 e simili a sostegno che manca la prova che Alfa fosse consapevole, e che anzi tutte le cautele possibili sono state adottate (diligenza massima). In parallelo, Alfa, come comportamento, denuncerà Beta per truffa fiscale, costituendosi parte offesa. Questo avrà peso penale (Alfa non sarà imputata, ma persona offesa; difficile accusare penalmente Alfa se essa stessa denuncia).
Probabile esito: In un caso così, è verosimile che in sede tributaria Alfa vinca il ricorso: il giudice riconoscerà che il Fisco ha provato l’inesistenza soggettiva (Beta fittizia) ma non ha provato alcun indizio di collusione da parte di Alfa, anzi Alfa ha dimostrato la propria correttezza. Quindi IVA detraibile confermata e costi deducibili (i beni sono reali e utilizzati). L’avviso verrà annullato. Penalmente, Alfa dovrebbe venire esclusa da responsabilità (potrebbe neppure partire il procedimento a suo carico, concentrandosi sugli amministratori di Beta e su eventuali complici).
Caso 2: Operazione oggettivamente inesistente mascherata, contribuente negligente.
Scenario: La ditta Gamma, d’accordo con un amico, si fa emettere nell’anno 2025 alcune fatture di consulenza informatica dalla ditta Delta (dell’amico) per €50.000 + IVA. In realtà nessun servizio è stato reso: è una modalità per trasferire un po’ di soldi all’amico e nel contempo creare un costo fiscale. Gamma paga con bonifico a Delta, poi quest’ultima restituisce in contanti il 50% a Gamma (accordo spartitorio). Nel 2026 Delta fallisce e il curatore segnala movimenti sospetti. Parte un accertamento incrociato e Gamma viene contestata per operazioni oggettivamente inesistenti (le consulenze mai svolte). L’amministratore di Gamma, messo alle strette, ammette che in effetti non c’erano report o documenti sui lavori, ma sostiene in contenzioso: “Pensavo che Delta avesse effettivamente svolto qualche analisi software per noi, magari verbalmente”.
Analisi difensiva: Questo scenario è di frode oggettiva conclamata. Gamma in realtà era consapevole, ma anche volendo fingere buona fede, non ha alcuna prova dell’esecuzione dei servizi. Non ci sono e-mail, report, nulla. Anzi ci sono evidenze della retrocessione di denaro (che difficilmente emergono in tributario, ma ipotizziamo di sì per completezza). In giudizio Gamma è destinata a perdere: l’Agenzia ha facile gioco nel dire che la fattura è fittizia (nessuna traccia di attività). E in base ai principi, una volta provata l’inesistenza dell’operazione, tocca a Gamma provare che il servizio c’è stato. Gamma non lo può fare. La pretesa quindi verrà confermata: IVA indetraibile e costi indeducibili. Gamma subirà anche sanzioni piene.
Nota sulla buona fede: Questo caso evidenzia che se l’operazione non c’è, la buona fede non salva. Gamma potrebbe dire “mi fidavo dell’amico, credevo lavorasse senza formalizzare” – ma non è credibile e comunque un imprenditore diligente avrebbe preteso almeno un report. Inoltre la retrocessione (se provata) incastra Gamma anche penalmente. Infatti questo è esattamente l’uso di fatture per evadere (art.2 D.Lgs 74/2000). Penalmente, Gamma rischia condanna con aggravanti (frode con artifici). Buona fede nulla: qui è dolo.
Probabile esito: Sconfitta per Gamma in Commissione Tributaria: dovrà versare IVA, IRES su 50k, sanzioni altissime (90% su IVA e IRES ciascuna). Penalmente, condanna per dichiarazione fraudolenta, salvo patteggiamento.
Caso 3: Frode carosello UE, contribuente forse consapevole (caso borderline).
Scenario: La società Omega compra e rivende telefonini. Dal 2022 acquista partite di smartphone da una società X polacca senza IVA (intra), poi li rivende in Italia. Dal 2023 inizia a comprare anche da una nuova società italiana Y srl che offre prezzi leggermente inferiori a X, con IVA. Omega detrae l’IVA di Y e continua il business. Nel 2024, verifica fiscale: risulta che Y srl è una missing trader, coinvolta in una frode carosello tra Polonia e Italia. In pratica, i telefoni arrivavano dalla Polonia, Y faceva da buffer non versando l’IVA, e Omega acquistava a prezzo vantaggioso. Omega afferma di aver semplicemente trovato un fornitore italiano più conveniente e di non sapere delle manovre a monte. Però alcuni indizi: il socio di Omega e quello di Y erano compagni di scuola; Y aveva soli 6 mesi di vita e fatturava milioni di euro senza struttura.
Analisi difensiva: Questo scenario riflette un tipico carosello IVA. Omega ha acquistato beni reali (telefoni consegnati) quindi operazioni soggettivamente inesistenti (il vero venditore era polacco forse, Y era interposta). Il vantaggio economico per Omega c’è stato (prezzi più bassi grazie all’IVA evasa da Y). Elementi contro Omega: stretta conoscenza col socio di Y, anomalia di Y (neo-costituita, grossi volumi senza logistica). Elementi a favore di Omega: i beni erano reali e registrati; Omega pagava Y con bonifici; Omega trattava Y come normale fornitore (contratti, ecc., ipotizziamo).
Questa è la situazione tipica dove il Fisco dirà: Omega avrebbe dovuto sapere. Omega proverà a dire: “Io ho visto i telefoni arrivare, ho controllato che Y fosse iscritta VIES per intra, ho pagato con F24 l’IVA per autofatture (forse no, scusate, qui l’acquisto da Y è interno con IVA) – comunque ho verificato partita IVA attiva, visura (ah, se l’ha fatta vedeva 6 mesi e nessun dipendente? brutta per Omega).
Il difensore di Omega punterà a smontare la tesi di consapevolezza: magari sostenendo che nel settore elettronica è comune che nuovi operatori appaiano e offrano sconti per farsi strada, e che la presenza di amicizia non prova che Omega sapesse delle manovre fiscali di Y. Cercherà di dimostrare che la diligenza media fu rispettata (Omega vide la merce, vide documenti di trasporto regolari, Y consegnava con corriere noto, ecc.). Magari Omega chiese a Y un certificato di affidabilità che Y fornì (non c’è un vero certificato di regolarità fiscale generica, ma ipotizziamo Omega chiese un DURC o un attestato di solvibilità). Se Omega riuscirà a convincere che non c’era evidenza di frode (nonostante i sospetti Fisco), potrebbe spuntarla.
Probabile esito: Difficile. Questo è borderline. Se la Commissione ritiene che l’amicizia + il prezzo anomalo + la giovanissima età di Y erano segnali evidenti, allora deciderà contro Omega: niente detrazione IVA (perché Omega almeno doveva sapere), e costi dedotti: qui però i costi potrebbero restare deducibili per via della norma (beni effettivamente rivenduti). Quindi possibile decisione: IVA negata, costi ammessi (Omega pagherà IVA 22% su acquisti da Y come indebito vantaggio, ma non verranno toccati i redditi perché i telefoni c’erano e venduti). Sanzione IVA 90%. Omega penalmente? Difficile, se non c’è prova di accordo, potrebbe sfangarla penalmente. Ma quell’amicizia e affari a rischio… dipende.
Se invece Omega porta buoni argomenti (es. altri clienti di Y ignari esistono, la GdF testimonia che la frode era ben nascosta), allora la Commissione potrebbe annullare anche l’IVA (riconoscendo buona fede). Non è scontato. In queste situazioni, spesso le CTR decidono in base alla percezione: se Omega appare onesto e vittima, vince; se appare furbetto che si è voltato dall’altra parte per risparmiare, perde.
Caso 4: Fatture false come copertura di tangenti (costo fittizio reato).
Scenario: L’azienda EdilZeta paga 100.000 € all’anno a una società di consulenza A per “studi di fattibilità”, ma in realtà quella consulenza è fittizia: serve a creare fondi neri con cui pagare tangenti a un politico locale per ottenere appalti. Le fatture di A (società compiacente) sono quindi oggettivamente inesistenti per un servizio mai svolto, e il costo è direttamente connesso a un reato (corruzione). La GdF scopre il giro nel 2025. EdilZeta viene contestata per IVA indetraibile e costi indeducibili 2023-24, più denuncia penale.
Analisi difensiva: Questo è fuori dalla “buona fede” in senso stretto perché EdilZeta volutamente ha creato false fatture. In più, è uno scenario in cui anche con la legge 2012 quei costi non sarebbero deducibili: sono costi utilizzati per commettere un reato (pagare tangenti). Quindi nessuna speranza: imposte da pagare, sanzioni 200% (credito IVA inesistente fraudolento). Penale: dichiarazione fraudolenta più corruzione.
Qui la difesa può solo cercare di limitare i danni: patteggiare, collaborare con procure per attenuanti. Non c’è buona fede da dimostrare, è caso di mala fede consapevole.
Caso 5: Errori formali senza frode (fattura con intestazione errata).
Scenario: La ditta Beta2 (non legata a Beta di prima, nome simile per esempio) esiste davvero e fornisce servizi reali, ma per errore alcune sue fatture sono state intestate a Gamma2 Srl (inesistente) anziché al reale acquirente Delta2 Srl, a causa di una confusione negli uffici. Delta2 ha contabilizzato quelle fatture e detrato IVA, pur essendo l’intestazione sbagliata. L’Agenzia rileva che formalmente sono fatture intestate a soggetto diverso e minaccia di disconoscere la detrazione perché “operazione inesistente soggettivamente” (cedente reale Beta2 ma cessionario formale Gamma2, che non esiste). Delta2 può dimostrare con contratti e bonifici che era lei la destinataria voluta.
Analisi difensiva: Questo è un caso più di irregolarità formale che di frode. Non c’è intento evasivo. La giurisprudenza in situazioni simili tende a riconoscere il diritto alla detrazione se l’operazione è reale e l’errore di intestazione è documentato. Non è proprio il tema classico di cartiere, ma può capitare. Delta2 qui invoca i principi di sostanza sulla forma, la buona fede perché l’errore non le è imputabile in dolo. Probabile soluzione: in autotutela magari l’ufficio si accontenta di fatture rettificative. Se va in lite, Delta2 vincerà dimostrando che c’è stata una prestazione reale tra Beta2 e Delta2, solo l’intestazione era sbagliata: nessuna frode, quindi detrazione spettante (magari con sanzione minima per irregolarità formale).
Questi esempi coprono diverse casistiche, evidenziando come varia l’approccio difensivo. Sempre, per chi non ha frodato volontariamente, la chiave è raccogliere prove e mostrare coerenza di comportamento. Per chi è in zona grigia, molto dipende dalla valutazione complessiva che il giudice farà degli indizi di (in)consapevolezza.
Domande frequenti (FAQ)
D: Cosa significa esattamente “fornitore cartiera”?
R: È un gergo per indicare un’azienda fittizia creata al solo scopo di emettere fatture false. Di solito non ha struttura reale (dipendenti, mezzi) e spesso è intestata a prestanome. Viene chiamata “cartiera” perché produce solo carta (fatture) senza attività economica sostanziale. Queste società permettono ai beneficiari delle fatture di ottenere indebiti vantaggi fiscali (IVA detratta, costi dedotti) senza che la cartiera versi le imposte dovute. Dal punto di vista legale, utilizzare fatture di una cartiera equivale a inserirsi, consapevoli o meno, in una frode fiscale.
D: Come posso verificare se un mio fornitore è affidabile o potenziale cartiera?
R: Ci sono vari controlli di due diligence che puoi (e dovresti) fare:
- Verifica la partita IVA sul sito dell’Agenzia delle Entrate (deve essere attiva) e, se è un fornitore UE, nel sistema VIES.
- Richiedi una visura camerale per vedere da quanto esiste, chi sono i soci/amministratori, il capitale sociale, la sede. Società neonate con capitale minimo e sede improvvisata sono a maggior rischio (anche se non è una prova definitiva).
- Se pertinente, chiedi il DURC (per lavori edili, appalti, ecc.) e magari una dichiarazione di regolarità fiscale (non c’è un certificato generico, ma un fornitore serio non avrà problemi a dichiarare di essere in regola con IVA e imposte).
- Controlla la presenza fisica: visita la sede o il negozio, oppure fai una ricerca online. Un fornitore senza sito, senza recapiti tracciabili o con sede in un luogo improbabile va valutato con cautela.
- Valuta le condizioni commerciali: prezzi stranamente bassi o pagamenti troppo flessibili (es. disponibilità a ricevere pagamenti su conti esteri o a cambiare intestazioni) possono segnalare irregolarità.
- Infine, considera di chiedere referenze ad altri clienti o fornitori del soggetto, se possibile.
In sintesi, informati come faresti per qualsiasi partner commerciale di rilievo. La Cassazione dice che devi usare la diligenza dell’uomo d’affari medio: non serve investigatore privato, ma nemmeno accettare tutto a occhi chiusi.
D: Ho scoperto che un mio fornitore potrebbe essere una cartiera: cosa devo fare?
R: Se hai anche solo il sospetto fondato che un fornitore sia fittizio o coinvolto in frodi (ad esempio hai appreso che il legale rappresentante è irreperibile, o altre aziende hanno avuto problemi, o trovi articoli di cronaca a suo carico), è prudente interrompere immediatamente i rapporti commerciali con lui. Inoltre:
- Raccogli e conserva con cura tutta la documentazione delle transazioni già avvenute. Ti servirà in caso di controlli per dimostrare la tua buona fede (mostrando che fino a quel momento nulla sembrava anomalo).
- Valuta di comunicare all’Agenzia delle Entrate o alla Guardia di Finanza quanto hai scoperto, specie se temi di essere coinvolto senza colpa. Una comunicazione spontanea (anche anonima al numero di pubblica utilità) può risultare a tuo favore successivamente.
- Verifica subito la regolarità delle fatture ricevute: se il fornitore non ha versato l’IVA e tu l’hai detratta, potresti pensare di accantonare quelle somme in vista di un possibile accertamento futuro.
- Confrontati col tuo consulente fiscale o avvocato: in alcuni casi, potrebbe suggerirti di fare un ravvedimento operoso se ritieni di aver fruito indebitamente di crediti/deduzioni (pagando spontaneamente riduci sanzioni). Attenzione però: ravvedersi significa ammettere l’indebito, quindi va ponderato strategicamente.
In generale, meglio agire attivamente che aspettare passivamente. Se il fornitore è effettivamente una cartiera, quasi certamente il Fisco prima o poi se ne accorge e arriverà anche da te: muoversi prima può metterti in una luce migliore (non complice, ma parte lesa che ha reagito).
D: Ho ricevuto un avviso di accertamento per IVA e costi su fatture di un fornitore risultatomi cartiera. Cosa devo fare subito?
R: Innanzitutto, niente panico: l’accertamento non è una condanna definitiva. Entro 60 giorni dalla notifica puoi presentare un’istanza di accertamento con adesione (sospende i termini per ricorrere e apre una negoziazione col Fisco). Questo a volte è utile per capire la posizione dell’Ufficio e mostrare le tue prove di buona fede; se l’Ufficio è rigido, almeno hai guadagnato tempo. Entro 120 giorni (60+60) dovrai comunque, se non c’è adesione positiva, presentare il ricorso alla Commissione Tributaria. I passi consigliati:
- Raccogli tutte le prove di cui abbiamo parlato (contratti, DDT, pagamenti, visure, e così via). Prepara un fascicolo ordinato.
- Contatta un professionista tributarista (avvocato o commercialista esperto in contenzioso): casi del genere sono complessi, non è raccomandabile il “fai da te”. Fornisci al professionista tutta la cronistoria e i documenti, senza nascondere nulla. Anche se qualcosa ti sembra sfavorevole, meglio che lo sappia il tuo difensore.
- Valuta, con il suo aiuto, se hai i requisiti per una sospensione dell’atto: se l’importo è enorme e rischi danni gravi a pagar subito, puoi chiedere al giudice tributario di sospendere la riscossione fino alla sentenza. Devi dimostrare il pericolo di danno e la fondatezza delle tue ragioni. Se hai solide prove di buona fede, la fondatezza c’è.
- Prepara la memoria difensiva (il ricorso introduttivo in realtà) dove spieghi i fatti e applichi i principi giuridici alle tue prove: lì citerai le leggi (es. art 19 DPR 633, art 14 L.537/93) e le sentenze rilevanti. Ad esempio: “Nel caso di specie, l’Amministrazione non ha fornito prova alcuna della consapevolezza del contribuente, in violazione del principio affermato da Cass. n. XXX/2024…”. Questi riferimenti mostrano al giudice che conosci (tu e il tuo difensore) la materia e che la legge è dalla tua parte se sei onesto.
- Non ignorare i termini: se lasci scadere i termini di ricorso, l’atto diventa definitivo e dovrai pagare. Anche se speri in un esito penale favorevole, non aspettare: difenditi subito nel tributario, perché un’accusa penale potrebbe impiegare anni a chiarirsi.
In sostanza, reagire prontamente e in modo strutturato è la chiave. Il successo dipenderà dalla bontà delle prove di buona fede e da come vengono presentate.
D: In giudizio tributario, come posso dimostrare la “massima diligenza” che ho adottato? Devo portare prove di ogni controllo fatto?
R: Sarebbe ideale presentare evidenze di tutte le cautele che hai effettivamente preso. Ad esempio, se hai controllato la visura del fornitore – allega quella visura al fascicolo di causa, con data antecedente alle fatture magari. Se hai fatto ricerche online, puoi produrre una stampa di una pagina web dell’epoca che mostrava che il fornitore aveva un sito, foto ecc. Ovviamente non tutto è formalizzabile: magari hai visitato i loro uffici ma non hai “prove” di questo se non la tua parola. In tali casi, puoi descrivere dettagliatamente nelle memorie queste circostanze (es: “in data tal dei tali il legale rappresentante della nostra società si recò presso la sede del fornitore, constatando la presenza di mezzi e personale impegnato nell’attività…”). Se c’erano testimoni (dipendenti tuoi presenti), puoi farti fare dichiarazioni scritte da loro.
Cose come il DURC o certificati vanno certamente prodotti se li possiedi. Anche email in cui magari chiedevi chiarimenti al fornitore su aspetti dei prodotti – dimostrano che interagivi normalmente e non c’era nulla di nascosto.
Ricorda: la “diligenza massima esigibile” non è un elenco chiuso. Il giudice valuta nel complesso se hai fatto “tutto il possibile in modo ragionevole”. Non serve arrivare a investigazioni straordinarie (la Cassazione dice che non devi fare il poliziotto tributario), ma devi convincerli che sei stato prudente e attento come qualsiasi imprenditore onesto sarebbe stato. Se qualcosa non hai fatto (ad esempio non hai controllato la sede fisicamente), puoi comunque difenderti spiegando perché non era anomalo non farlo (es: “Il fornitore era certificato ISO ed era fornitore di aziende ben più grandi di noi, quindi ci siamo fidati”).
In sintesi: porta tutte le prove documentali dei controlli effettuati. Per quelli non documentabili, affidati a narrazione e testimoni se possibile. Più il quadro che presenti è dettagliato e sincero, più avrai credibilità.
D: Se riesco a dimostrare la buona fede, cosa ottengo esattamente?
R: Ottieni di non subire le conseguenze negative ingiustamente. In pratica:
- Sul piano IVA: manterrai il diritto di detrarre quell’IVA. L’accertamento verrà annullato per la parte di IVA contestata (o comunque il giudice ti darà ragione su quell’aspetto). Significa che non dovrai restituire l’IVA detratta e ti eviterai la sanzione del 90% su di essa.
- Sul piano imposte dirette: presumibilmente i costi verranno riconosciuti deducibili (specie se beni/servizi reali). Giuridicamente, ancor più se eri in buona fede, quei costi dovevano esserlo comunque per legge. Quindi niente maggiori imposte né sanzioni su quel fronte.
- Sanzioni amministrative: se vinci sul merito, ovviamente decadono. Anche se per ipotesi il giudice mantenesse qualche piccolo rilievo, la tua buona fede conclamata potrebbe indurre a usare il minimo edittale o annullare le sanzioni per errore scusabile.
- Penale: se in parallelo c’è un procedimento penale, la sentenza tributaria a tuo favore (che di fatto attesta che tu non eri consapevole della frode) sarà un elemento potentissimo per il tuo avvocato penalista. Molto probabilmente il PM potrebbe chiedere l’archiviazione oppure, se si va a dibattimento, verrai assolto perché il fatto (fraudolento) non sussiste nei tuoi confronti. In altre parole, niente condanna penale.
Riassumendo, dimostrare la buona fede significa uscire “pulito”: pagherà (giustamente) chi ha orchestrato la frode, e tu invece conserverai i tuoi diritti fiscali come se il fornitore fosse stato regolare – perché dal tuo punto di vista lo era. Ti libererai anche dell’etichetta di evasore, con tutto quel che ne consegue (evitando possibili interdizioni, danni reputazionali, ecc.).
D: Se invece non riesco a convincere il giudice e perdo la causa, quali sono le conseguenze?
R: In tal caso, significa che il giudice ha ritenuto che la frode c’era e tu vi hai partecipato consapevolmente (o almeno con colpa grave). Le conseguenze:
- Dovrai versare l’IVA indetraibile contestata, più gli interessi maturati.
- Dovrai pagare le maggiori imposte sui redditi calcolate senza quei costi (salvo che magari i costi li lascino dedurre per via della norma del 2012 anche se eri consapevole, ma in genere se perde il contribuente su tutto può darsi disconoscano anche costi se non c’è prova effettività – dipende).
- Le sanzioni amministrative resteranno: probabilmente il 90% su IVA e su imposte dirette. Spesso nei contenziosi su false fatture i giudici, se rigettano il ricorso, confermano anche le sanzioni (perché ritengono provato il comportamento doloso). In teoria potresti chiedere in appello di ridurle, ma solo se hai argomenti per dire che c’è stata una minima buona fede residua.
- Penalmente: la sentenza tributaria negativa non vincola il penale, ma certo rafforza l’accusa. Se non sei già stato rinviato a giudizio, quasi certamente lo sarai. Se eri a giudizio pendente, una condanna tributaria potrebbe anche essere usata (le prove raccolte lì) nel dibattimento penale. Insomma, rischi seriamente la condanna penale per dichiarazione fraudolenta (reclusione, probabilmente con pena sospesa se è la prima volta e non cifre enormi, ma comunque una condanna, con precedenti penali a carico e possibili interdizioni).
- Dovrai inoltre pagare le spese di giudizio se ti vengono addebitate (in genere nel tributario si compensano se la questione era controversa, ma se il giudice percepisce mala fede potrebbe condannarti alle spese).
- La cartella esattoriale che seguirà avrà importi rilevanti (imposte + sanzioni + interessi). Potrai eventualmente rateizzare, ma il danno economico è forte.
E ovviamente, l’Agenzia delle Entrate ti terrà d’occhio per il futuro: potresti perdere alcuni benefici come il rilascio del visto di conformità per rimborsi, e sarai indicato come soggetto a rischio (questo non è scritto da nessuna parte ma succede, i controlli futuri saranno più probabili).
Perciò, perdere il caso è davvero uno scenario da evitare: conviene investire nella difesa fin dall’inizio per aumentare le chance di successo.
D: Le mie fatture erano per operazioni soggettivamente inesistenti: anche se perdessi sulla detrazione IVA perché magari dovevo sapere, il costo però è deducibile giusto?
R: Di norma sì, esatto. Come spiegato, grazie all’art. 14 comma 4-bis L. 537/93 (modificato), i costi di operazioni soggettivamente inesistenti rimangono deducibili se i beni/servizi sono reali e non usati per scopi illeciti. Questo vale anche se il contribuente era consapevole della frode (la logica è: puniamo penalmente, ma non tassiamo due volte). Quindi, paradossalmente, anche un contribuente colpevole potrebbe tenersi la deduzione dei costi. Il giudice tributario dovrebbe applicare la legge: se l’ufficio ha negato la deduzione e tu hai eccepito questa norma, dovrebbe darti ragione almeno su quello.
Tuttavia, serve cautela: devi dimostrare comunque che l’operazione c’era in sostanza (beni acquistati e rivenduti, ad esempio). Se non provi neanche quello, il costo è indeducibile perché manca il requisito di effettività. Spesso gli uffici quando trovano frodi contestano sia IVA che costi. È possibile un esito “misto”: ad esempio, il giudice dice che eri consapevole quindi perdi IVA, ma riconosce che i beni c’erano e che la norma consente la deduzione costi, quindi sul reddito vinci tu. Questo è ottimo perché ti evita la doppia batosta. Certo, perderci l’IVA non è bello, ma almeno non paghi imposte sui redditi ulteriori.
Quindi la risposta è: sì, in linea di massima i costi restano deducibili anche se perdi sulla frode IVA, a meno che l’ufficio non dimostri che quei costi erano falsi anche oggettivamente o che erano gonfiati. Ricorda di far valere espressamente questa difesa nel ricorso (molti si concentrano sull’IVA e dimenticano la questione costi): cita l’art. 14 co.4-bis L. 537/93 e la giurisprudenza (Cass. 4645/2020, Cass. 18356/2021, ecc.). In tal modo metti il giudice di fronte alla norma di legge che ti dà ragione su quell’aspetto.
D: In tutto questo, che ruolo ha lo Statuto del Contribuente (L. 212/2000)? Posso invocarlo a mio favore?
R: Lo Statuto del Contribuente sancisce principi generali, tra cui l’art. 10 che dice che i rapporti tra Fisco e contribuente sono improntati a collaborazione e buona fede, e che le sanzioni non si applicano se c’è incertezza normativa o se il contribuente si è conformato a indicazioni dell’amministrazione. Nel caso di fatture false, non c’è tanto un’incertezza normativa (la norma è chiara: le frodi non sono ammesse), quanto piuttosto una questione fattuale di buona fede del contribuente. Puoi certamente richiamare il principio di tutela dell’affidamento e buona fede dicendo, ad esempio, che tu hai agito confidando nella legittimità delle operazioni e che l’amministrazione dovrebbe riconoscerlo. Alcune CTP/CTR in effetti citano l’art. 10 Statuto per giustificare la non applicazione di sanzioni a contribuenti ingannati. Quindi può rinforzare la tua posizione sulla parte sanzionatoria.
C’è da dire che l’art. 10 è spesso invocato ma raramente decisivo nel merito: il giudice terrà conto più delle norme specifiche IVA e costi e relative interpretazioni. Tuttavia, come nota di colore nel ricorso, sottolineare che “sanzionare un soggetto che ha operato con normale diligenza significherebbe violare il principio di buona fede dello Statuto” può fare leva sull’equità.
Inoltre, lo Statuto prevede il diritto di essere informati e trattati con correttezza: se, ad esempio, l’Agenzia Entrate era a conoscenza di quell’attività fraudolenta e non ha messo in guardia i clienti (è raro, ma in certe frodi carosello internazionali l’Agenzia pubblica a posteriori black list di operatori a rischio), potresti lamentare che tu non avevi strumenti mentre l’amministrazione sì. Argomento da maneggiare con cautela, ma sfruttabile.
Quindi, sì, invocalo pure, male non fa. Anche se giuridicamente non è un salvacondotto, richiama un dovere di equità che potrebbe predisporre positivamente il giudicante verso la tua tesi di buona fede.
D: Dopo quanti anni il Fisco non può più contestare queste cose? C’è una prescrizione?
R: In campo tributario si parla di decadenza dei termini di accertamento. Per le fatture false, solitamente l’Amministrazione considera che ci sia un raddoppio dei termini (quando c’è obbligo di denuncia penale, i termini raddoppiano). Ad esempio, per IVA e imposte 2021 il termine ordinario sarebbe fine 2026, raddoppiato va a fine 2028 se c’è frode. Questo raddoppio è applicabile, ma la Corte Costituzionale ha detto che vale solo se la denuncia penale viene effettivamente presentata entro i termini ordinari. In pratica: se c’è frode rilevata, quasi sempre presentano la denuncia penale e quindi hanno più tempo per accertarti (8 anni invece di 4 dall’anno successivo a quello di dichiarazione).
Ciò significa che possono contestarti fatture false anche molti anni dopo rispetto ad altri tipi di evasione. Non contare troppo sulla prescrizione breve. Però, ad esempio, per l’anno 2015, i termini raddoppiati sarebbero fine 2023: se al 2025 ancora non ti hanno contestato nulla di quell’anno, su quello sei abbastanza tranquillo (salvo reati scoperti tardivamente, ma vabbè).
Quanto alla prescrizione penale: quella è sui 8-10 anni come detto. Quindi pure penalmente per un bel po’ sei esposto.
In breve: i tempi di “pericolo” sono lunghi. Perciò conviene tenere le pezze giustificative delle operazioni almeno per 10 anni o più, se sai di aver avuto rapporti a rischio. Molti buttano documenti dopo 5 anni pensando “fisco è decaduto”: e poi arriva la contestazione entro l’ottavo e tu non trovi più i DDT… sarebbe un guaio! Quindi conserva tutto.
D: Usare fatture false comporta anche problemi con i creditori o i soci?
R: Potenzialmente sì. Se sei un imprenditore individuale, la cosa si ferma al fisco e penale. Ma se sei amministratore di una società:
- I soci potrebbero agire contro di te se hai esposto la società a sanzioni per una tua condotta illecita. È raro, ma in teoria se paghi multe e tasse per colpa tua (che hai accettato fatture false), i soci potrebbero chiederti i danni.
- Se la società fallisce o va in crisi e viene fuori che avevi false fatture, un curatore potrebbe accusarti di irregolarità di gestione o distrazione di fondi (specie se c’erano giri di denaro anomali). Potrebbe configurarsi bancarotta fraudolenta fiscale in casi estremi.
- Verso terzi creditori, avere gonfiato costi abbassa utili e patrimonialmente può essere un atto a loro danno (non immediato, però).
In generale, è un comportamento scorretto che può avere riflessi su vari fronti, erodendo fiducia e portando a cause civili. Ad esempio, se partecipi a una gara pubblica e emergono condanne per frode fiscale, potresti essere escluso. Insomma, la reputazione ne risente e legalmente ci sono vari rischi collaterali.
Dal lato opposto, se sei in buona fede e vinci, risulti “pulito”. Ma se fosse rimasto qualche dubbio, questi riflessi potrebbero comunque farsi sentire. Quindi è un motivo in più per chiarire la tua posizione completamente.
Come si può evincere da queste FAQ, il comune denominatore è: la posizione del contribuente varia radicalmente se viene riconosciuto in buona fede oppure no. Tutto l’ordinamento – tributario e penale – fa perno su questa distinzione. Ecco perché l’impegno probatorio nel dimostrare la propria buona fede non è mai eccessivo: dal successo di tale dimostrazione dipende l’esito del contenzioso, la salvaguardia del patrimonio aziendale e, non da ultimo, la libertà personale e la reputazione professionale.
Conclusioni
Le vicende delle “fatture da fornitori cartiera” insegnano una lezione cruciale: nel sistema fiscale attuale, forma e sostanza devono viaggiare insieme. Il contribuente onesto, per non cadere vittima di frodi altrui, deve unire alla correttezza sostanziale (compiere operazioni reali e lecite) anche un’attenzione formale e preventiva verso i propri partner commerciali. La diligenza preventiva è la miglior difesa: scegliere con cura i fornitori, documentarsi sulla loro affidabilità e conservare traccia delle verifiche effettuate costituisce un investimento che può risparmiare in futuro un contenzioso tribolato.
Abbiamo visto come la legge e la giurisprudenza, specialmente negli ultimi anni, abbiano affinato gli strumenti per distinguere il contribuente “truffato” da quello “complice”. Al primo vengono riconosciuti tutela e diritti – gli si mantiene la detrazione IVA, la deduzione dei costi, gli si risparmiano le sanzioni e le manette; al secondo, giustamente, viene negato ogni vantaggio e inflitta la dovuta sanzione. Dimostrare di appartenere alla prima categoria è dunque essenziale. Per farlo servono: trasparenza, traccia documentale e consapevolezza dei propri obblighi.
Dal punto di vista pratico, questa guida può essere così riassunta: se ricevi un avviso di accertamento per fatture inesistenti e sei in buona fede, non darti per vinto. Hai dalla tua parte principi sanciti sia dal diritto interno sia da quello europeo che ti proteggono, purché tu riesca a convincere con i fatti. Ogni mail, ogni DDT, ogni visura presentata può fare la differenza nel persuadere il giudice che tu non eri parte del disegno fraudolento. Preparati a spiegare con semplicità e precisione il tuo operato: i giudici, anche quelli tributari, apprezzano le storie coerenti e supportate dalle prove.
Dal lato opposto, se, da imprenditore, stai valutando un’operazione “borderline” con un fornitore poco chiaro, chiediti se ne vale la pena: l’euforia di un risparmio fiscale illecito è niente rispetto agli anni che potresti passare tra ricorsi, tribunali e commercialisti per difenderti (spesso con poche speranze). La compliance fiscale conviene anche economicamente, sul lungo periodo.
Un’ultima parola va spesa sul piano culturale: la linea tracciata dalla Cassazione con sentenze come la 14102/2024 indica che il contribuente non dev’essere trasformato in un detective tributario. Ciò è sacrosanto: il sistema dell’IVA, basato su fiducia reciproca tra operatori, crollerebbe se ognuno dovesse dubitare di ogni transazione. La fiducia è un asset intangibile del sistema economico. Tuttavia, quella fiducia deve essere ragionevole: non cieca, ma vigilante. Il punto di vista del debitore, che questa guida ha assunto, è stato proprio quello di chi vuole adempiere correttamente e tutelarsi, senza essere paranoico ma nemmeno sprovveduto.
In conclusione, se ti trovi a dover dimostrare la tua buona fede in un contenzioso tributario su fatture da cartiera, sappi che hai molte frecce al tuo arco: normative favorevoli, precedenti giurisprudenziali consolidati, strumenti processuali efficaci. Usali con competenza (facendoti assistere da esperti) e con la coscienza tranquilla di chi ha agito onestamente. Il percorso non sarà breve né semplice, ma le probabilità di successo sono concrete. Questa guida ti ha fornito la mappa e gli strumenti; starà a te e ai tuoi difensori navigare il caso specifico. La posta in gioco – la salvaguardia dei tuoi diritti e del tuo nome – merita certamente lo sforzo.
Ricorda: la buona fede paga, nel senso che se davvero c’è stata, il nostro ordinamento prevede che non debba subire conseguenze ingiuste. E come dice un vecchio adagio giuridico, “le prove della buona fede non sono mai troppe”. Prevenire è meglio che curare, ma se ormai sei nell’arena, combatti con tenacia e con i fatti dalla tua parte. Le fonti autorevoli e le sentenze citate non sono lì per caso: usale per sostenere la tua voce. Alla fine, un contribuente diligente e ben difeso ha ottime chance di vedere riconosciuta la propria ragione, anche a fronte di una contestazione fiscale inizialmente pesante.
Fonti e riferimenti normativa e giurisprudenza
- Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n.633 – Articoli 19 e 54, disposizioni in materia di detrazione IVA e accertamento con presunzioni.
- Direttiva 2006/112/CE del Consiglio (Sistema comune IVA) – Articoli su diritto a detrazione e lotta alle frodi IVA.
- Legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, come modificato da art.8, co.1 D.L. 16/2012 conv. in L.44/2012 – Disciplina dei costi da reato e deducibilità dei costi da operazioni inesistenti (soggettivamente).
- Decreto Legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 – Art.6, comma 6 (sanzione 90% per indebita detrazione), Art.5 (infedele dichiarazione, sanz. 90%).
- Decreto Legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 – Art.6, comma 2 (non punibilità per buona fede/errore scusabile in materia sanzioni).
- Statuto del Contribuente (Legge 27 luglio 2000, n. 212) – Art. 10 (principio di buona fede e cooperazione, divieto di sanzioni in caso di incertezza normativa).
- Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – Art.2 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture false, pena 4-8 anni) e Art.8 (Emissione di fatture false).
- Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – Art.13 (circostanze attenuanti ed esimenti per pagamento del debito tributario) e Art.13-bis (condizioni di non patteggiabilità senza pagamento).
- Corte di Giustizia UE, sentenza 12 gennaio 2006 (cause riunite C-354/03, C-355/03, C-484/03, Optigen e altri) – Principio secondo cui un’operazione effettuata in buona fede non può essere negata ai fini IVA anche se a monte vi è frode, salvo il soggetto sapesse o dovesse sapere.
- Corte di Giustizia UE, sentenza 6 luglio 2006 (C-439/04, Kittel) – Introduzione del criterio “knew or should have known” (sapeva o avrebbe dovuto sapere) nella negazione del diritto a detrazione in presenza di frode.
- Corte di Giustizia UE, sentenza 21 giugno 2012 (cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagében e Dávid) – Divieto per gli Stati di imporre oneri eccessivi di controllo ai contribuenti; conferma che detrazione negata solo se scientemente partecipi a frode.
- Corte di Giustizia UE, sentenza 22 ottobre 2015 (C-277/14, PPUH Stehcemp) – Ammissibilità di prove presuntive per dimostrare che il contribuente sapeva della frode; utilizzo di indizi sulla mancanza di struttura del fornitore.
- Corte di Giustizia UE, sentenza 15 luglio 2015 (C-123/14, Italmoda; C-163/13, Fast Bunkering – richiamate da Cass.) – Rigoroso contrasto a frodi carosello, incluso diritto/dovere di rifiutare detrazione quando coinvolti in evasione consapevolmente.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 20 aprile 2018, n. 9851. Principio: onere dell’Amministrazione provare consapevolezza del contribuente nelle operazioni soggettivamente inesistenti.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 30 ottobre 2018, n. 27566. Conferma orientamento su onere probatorio doppio Fisco/contribuente in frodi soggettive.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, sentenza 24 agosto 2018, n. 21104. Richiamata in Cass. 14102/2024, consolida la necessità per il Fisco di provare che il cessionario “sapesse o potesse sapere” della frode.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 28 febbraio 2019, n. 5873. Dettaglia come provare il “sapere o dover sapere” e che spetta al Fisco farlo anche con presunzioni.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, sentenza 9 agosto 2022, n. 24471. Ribadisce la deducibilità dei costi da reato per operazioni soggettivamente inesistenti (retroattività norma 2012).
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 28 dicembre 2022, n. 37889. Enuncia il principio del doppio onere probatorio in linea con giurisprudenza precedente (spesso citata assieme a 24471/2022).
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 14 febbraio 2023, n. 4647. In tema di IVA e fatture soggettivamente false: Fisco deve provare fornitore fittizio + consapevolezza contribuente; contribuente prova di aver agito senza saperlo e con massima diligenza.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 14 febbraio 2023, n. 4619. Principio analogo: l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare che la fatturazione attiene a operazioni inesistenti e la conoscenza del contribuente.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 21 febbraio 2024, n. 4624. Ribadisce che Fisco deve provare fornitore fittizio e che destinatario era consapevole con indizi idonei a mettere in allerta imprenditore onesto.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 29 febbraio 2024, n. 5396. Evidenzia che il diritto alla detrazione IVA è principio fondamentale UE e restrizioni solo in caso di frode provata.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 10 maggio 2024, n. 12895. Onere prova diverso per soggettive vs oggettive inesistenti; per oggettive, una volta provata cartiera spetta al contribuente provare effettività operazioni.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 21 maggio 2024, n. 14102. Principio di diritto: non si possono pretendere dal contribuente verifiche complesse pari a quelle del Fisco per escludere la sua consapevolezza di frodi. Riafferma onere in capo al Fisco e diligenza massima esigibile del contribuente.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, ordinanza 16 aprile 2025, n. 9919. Caso fornitore evasore: detrazione negata se cessionario era legato da rapporti tali da dover conoscere evasione IVA a monte. Allineamento con principi unionali di contrasto all’abuso.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Penale V, sentenza 28 ottobre 2015, n. 43393. – Riguarda art. 14 L.537/93 in ambito penale tributario: conferma indeducibilità costi beni/servizi non scambiati (versione pre-2012) e aspetti di diritto intertemporale.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Penale III, sentenza 12 settembre 2017, n. 41104. – Ha riconosciuto la retroattività in bonam partem della modifica art.14 co.4-bis L.537 anche sul penale: se costi ora deducibili, cade l’aggravante penal-tributaria.
- Corte Suprema di Cassazione – Sezione Penale III, sentenza 1 marzo 2022, n. 6627. – Ha precisato che nelle operazioni oggettivamente inesistenti la buona fede non esclude la sussistenza del reato tributario, data l’assenza materiale dell’operazione.
- Prassi amministrativa: Circ. Agenzia Entrate n. 16/E del 2012 – ha fornito i primi chiarimenti dopo la modifica sui costi da reato, confermando deducibilità di costi da fatture soggettivamente inesistenti se beni effettivi (esempi pratici). Ris. AE n. 84/E 2018 – caso di frode carosello, l’AE ribadisce negazione detrazione se contribuente implicato.
- Massime giurisprudenziali dal Massimario Cassazione – ad es. Massima Cass. 20405/2023: “In tema di IVA, se l’Amministrazione contesta operazioni soggettivamente inesistenti ha l’onere di provare fornitore fittizio e consapevolezza dell’acquirente…”; Massima Cass. 2160/2024 – su operazioni oggettivamente inesistenti e onere di provare inesistenza attività imprenditoriale del fornitore.
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Le cosiddette cartiere sono società fittizie create con lo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti. Quando il fisco individua un fornitore come cartiera, spesso estende le contestazioni anche ai clienti, disconoscendo i costi e la detrazione IVA. Tuttavia, non sempre l’impresa che ha utilizzato quelle fatture era consapevole della natura fittizia del fornitore. In questi casi, la difesa si fonda sulla dimostrazione della buona fede, provando di aver adottato la normale diligenza nel rapporto commerciale.
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Conclusione
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