Come Chiudere Una SRL In Crisi Proteggendo Il Proprio Patrimonio

La tua SRL è in crisi e vuoi chiuderla evitando rischi per il tuo patrimonio personale?
La chiusura di una società a responsabilità limitata in difficoltà richiede attenzione: errori nella gestione finale possono esporre l’amministratore o i soci a responsabilità patrimoniali, soprattutto in caso di debiti fiscali, contributivi o verso fornitori. Conoscere il percorso corretto e gli strumenti legali disponibili è essenziale per tutelarsi.

Quando una SRL può essere chiusa
– Quando l’attività non è più economicamente sostenibile e non ci sono prospettive di ripresa
– Quando i debiti superano la capacità dell’azienda di generarne il rimborso
– Quando si sono verificati eventi che rendono impossibile la prosecuzione (perdita di clienti chiave, problemi di mercato, crisi settoriale)
– Quando la società è già inattiva e si vogliono evitare ulteriori costi di gestione

Strumenti per chiudere una SRL in crisi
Liquidazione volontaria: si estinguono i debiti residui e si distribuisce l’eventuale attivo ai soci
Liquidazione giudiziale (ex fallimento): quando la crisi è irreversibile e l’insolvenza è conclamata
Composizione negoziata della crisi: procedura stragiudiziale per cercare un accordo con i creditori e ridurre l’esposizione
Concordato preventivo: proposta ai creditori di un piano di pagamento parziale, con eventuale continuità aziendale
Cessione d’azienda o rami d’azienda: per recuperare liquidità e chiudere in modo ordinato

Come proteggere il patrimonio personale
– Evitare di confondere conti e spese personali con quelli della società
– Assicurarsi di aver sempre rispettato i doveri di amministratore (tenuta contabile, bilanci, versamenti IVA, contributi)
– Dimostrare di aver agito nell’interesse della società e non aver aggravato la crisi
– Valutare eventuali coperture assicurative per responsabilità professionale dell’amministratore
– Utilizzare strumenti giuridici per limitare le azioni dei creditori verso il patrimonio personale

Errori da evitare
– Trascurare le scadenze fiscali e contributive nella fase di crisi
– Pagare alcuni creditori a scapito di altri, rischiando contestazioni di pagamenti preferenziali
– Alienare beni sociali a valori non congrui o senza adeguata documentazione
– Ritardare eccessivamente la decisione di avviare la liquidazione o altre procedure di chiusura

Cosa si può ottenere con una gestione corretta della chiusura
– Evitare azioni di responsabilità personale e patrimoniale
– Chiudere i rapporti con i creditori in modo ordinato e documentato
– Ridurre l’esposizione debitoria tramite accordi o procedure concorsuali
– Salvaguardare la reputazione professionale e commerciale

Attenzione: la responsabilità limitata della SRL protegge i soci solo se la gestione è stata corretta e conforme alla legge. In caso contrario, amministratori e soci possono essere chiamati a rispondere con il proprio patrimonio.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi d’impresa, liquidazioni societarie e difesa del patrimonio – ti spiega come chiudere una SRL in crisi riducendo i rischi personali e quali procedure adottare per farlo in sicurezza.

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Introduzione

Chiudere una società a responsabilità limitata (SRL) in stato di crisi senza compromettere il patrimonio personale degli imprenditori è un’operazione complessa ma possibile, che richiede una profonda conoscenza degli strumenti giuridici disponibili e degli obblighi legali degli amministratori. Negli ultimi anni il quadro normativo italiano in materia di crisi d’impresa è stato rivoluzionato dal nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022) e dai successivi interventi correttivi fino al 2024. Tali riforme hanno introdotto procedure innovative (come la composizione negoziata nel 2021) e modificato istituti tradizionali (ad es. il concordato preventivo, ora affiancato da varianti “semplificate”) per gestire la crisi aziendale. In questa guida – aggiornata a luglio 2025 con le norme e le sentenze più recenti – analizzeremo passo dopo passo come un debitore (la SRL in difficoltà e i suoi soci/amministratori) può chiudere l’azienda in modo ordinato, minimizzando i rischi per il proprio patrimonio personale. Adotteremo un linguaggio giuridico ma divulgativo, adatto sia a professionisti (avvocati, commercialisti) sia a imprenditori e privati, fornendo riferimenti normativi puntuali e casi pratici di applicazione.

Struttura della guida: dopo aver delineato il quadro normativo e le definizioni chiave (crisi vs insolvenza, responsabilità limitata dei soci, doveri degli amministratori), esamineremo i principali strumenti per affrontare la crisi di una SRL: piani attestati di risanamento, accordi di ristrutturazione dei debiti, composizione negoziata assistita da esperto, concordati (incluso il concordato semplificato) e la liquidazione giudiziale (ex fallimento). Ne descriveremo caratteristiche, condizioni e vantaggi/svantaggi dal punto di vista del debitore, con tabelle riepilogative e cenni alle ultime novità legislative. Approfondiremo poi le responsabilità di soci e amministratori in caso di chiusura della società (con focus su come evitare azioni di responsabilità e aggressioni al patrimonio personale). Saranno presentate simulazioni pratiche di scenari tipici – ad esempio come si conclude una liquidazione volontaria con attivo insufficiente, oppure come utilizzare un piano attestato per evitare il fallimento – per dare concretezza ai concetti. Infine, una sezione di Domande & Risposte (FAQ) chiarirà i dubbi più frequenti (ad es. “Posso liquidare una SRL con debiti non pagati?”, “In quali casi l’amministratore risponde con i propri beni?”, “Che succede se spuntano debiti dopo la cancellazione?” ecc.), e un elenco delle fonti normative e giurisprudenziali citerà tutte le leggi e sentenze menzionate. L’obiettivo è offrire una guida completa di livello avanzato su come gestire la fine di un’attività in forma di SRL in difficoltà, proteggendo il patrimonio dei soggetti coinvolti e rispettando la legge.

Segnali di crisi e momento giusto per chiudere

Capire quando è il momento di chiudere un’azienda in crisi è cruciale per limitare i danni. Spesso l’imprenditore, per orgoglio o speranza, rinvia la decisione oltre il dovuto, rischiando di aggravare il dissesto e di intaccare anche i beni personali. È invece indice di lungimiranza riconoscere i segnali di allarme e agire tempestivamente. Ecco alcune situazioni che indicano che la SRL potrebbe dover cessare l’attività o ricorrere a procedure concorsuali:

  • Perdite di esercizio ingenti e capitale eroso: se il patrimonio netto è intaccato a tal punto da far scattare cause legali di scioglimento (es. perdita di oltre 1/3 del capitale sociale senza ricostituzione, o capitale sceso sotto il minimo legale ai sensi dell’art. 2482-ter c.c.), la prosecuzione dell’attività in forma ordinaria diventa illegittima. In base all’art. 2484 c.c., la società si scioglie di diritto quando si verificano cause come la perdita del capitale o l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Gli amministratori devono allora convocare l’assemblea senza indugio per deliberare sul da farsi (rincapitalizzazione o liquidazione). Ignorare queste soglie contabili espone gli organi a responsabilità personali per la gestione oltre il limite.
  • Insolvenza conclamata o debiti scaduti insostenibili: se la società non è più in grado di pagare regolarmente i propri debiti ed è de facto insolvente (ad esempio ha cassa negativa cronica, insoluti verso fornitori e banche, arretrati fiscali e contributivi), continuare ad operare può soltanto aggravare il dissesto. Ogni giorno di ritardo espone a rischi crescenti di azioni esecutive, istanze di fallimento da parte dei creditori e responsabilità personali dell’amministratore. Quando i debiti scaduti superano la reale capacità di rimborso e non esiste un credibile piano di ristrutturazione, procrastinare equivale ad accumulare ulteriori perdite. In questo scenario la liquidazione giudiziale (il fallimento) diventa inevitabile a meno che non si attivi subito uno strumento di regolazione della crisi.
  • Perdita di fatturato o fattori competitivi irreversibili: se l’azienda ha perso clienti chiave, commesse strategiche o vede il mercato di riferimento crollare/saturarsi senza realistiche prospettive di ripresa, insistendo nell’attività si rischia di dissipare quel che resta dell’attivo. È preferibile considerare una chiusura o riconversione ordinata prima che il patrimonio aziendale si azzeri. Ad esempio, la perdita di una gara fondamentale o la scadenza senza rinnovo di un contratto da cui dipendeva buona parte del fatturato possono segnare il punto di non ritorno. Insistere significherebbe solo accumulare debiti ulteriori.
  • Sofferenza finanziaria cronica e credito esaurito: quando i flussi di cassa operativi sono stabilmente negativi e banche/fornitori hanno chiuso le linee di credito (fidi revocati, dilazioni revocate), la società sta operando senza rete di sicurezza. Se mancano capitali freschi o aumenti di capitale, la crisi di liquidità tende a peggiorare. Continuare in queste condizioni espone l’imprenditore al rischio di dover ricorrere al proprio patrimonio per tamponare (ad esempio firmando nuove fideiussioni personali o cambiali) – cosa da evitare assolutamente in una fase di crisi irreversibile. Meglio valutare subito le opzioni di moratoria negoziata o concordataria anziché indebitarsi ulteriormente a titolo personale.

In sintesi, non bisogna attendere l’irreparabile: se una SRL mostra questi segnali di crisi strutturale, è il momento di pianificare un’uscita ordinata. Agire in ritardo comporta conseguenze gravi: azioni legali dei creditori, pignoramenti su beni aziendali e talvolta personali, perdita di fiducia sul mercato e possibili azioni di responsabilità verso gli amministratori per avere aggravato il dissesto. Al contrario, affrontare tempestivamente la situazione consente di valutare soluzioni controllate (come piani di ristrutturazione o concordati) per chiudere l’azienda limitando i danni, preservando il valore residuo e mettendo le basi per eventualmente ripartire in futuro. Il nuovo Codice della Crisi enfatizza proprio la prevenzione: gli amministratori hanno il dovere di attivarsi appena emergono squilibri, dotando la società di assetti adeguati a rilevare la crisi e adottando immediatamente uno strumento di regolazione (piano, accordo, composizione, ecc.) prima che la situazione degeneri. Come vedremo, la tempestiva attivazione di una procedura di soluzione della crisi può costituire per gli amministratori prova di diligenza e buona fede, ed esonerarli da responsabilità per l’aggravamento del dissesto.

Principio della responsabilità limitata e rischi per il patrimonio personale

Una SRL, in quanto società di capitali, offre ai soci la responsabilità limitata: i debiti sociali sono in linea di massima a carico solo della società con il suo patrimonio. I soci non rispondono delle obbligazioni aziendali oltre la quota conferita (art. 2462 c.c.), e gli amministratori rispondono verso la società e i terzi solo per violazioni dei loro doveri (art. 2476 c.c.). Questo principio è una tutela fondamentale del patrimonio personale di chi fa impresa tramite SRL: se la società fallisce o non paga i creditori, questi ultimi possono rivalersi solo sul patrimonio della società (beni sociali, liquidità aziendale, crediti della società, ecc.). Ad esempio, in caso di liquidazione giudiziale (fallimento), i creditori concorrono sui beni della società e i soci perdono al massimo il capitale investito, ma non subiscono per ciò solo l’escussione dei propri beni personali.

Tuttavia, la responsabilità limitata non è assoluta né incondizionata. Esistono importanti eccezioni e situazioni in cui il patrimonio personale di soci o amministratori può comunque essere aggredito, soprattutto se si sono commessi atti imprudenti o illegittimi durante la gestione della crisi. Ecco i principali rischi da conoscere:

  • Fideiussioni e garanzie personali: Molti soci/amministratori di PMI rilasciano garanzie personali a banche o fornitori (es. fideiussioni bancarie per prestiti aziendali, avalli su cambiali, pegni su beni propri). In caso di insolvenza della SRL, tali garanzie vengono escusse: la banca potrà pignorare i beni personali del fideiussore (ad es. la casa di abitazione) per soddisfare il credito. Pertanto, un primo consiglio preventivo è evitare di sottoscrivere nuove garanzie personali per tentare di tenere a galla l’azienda in crisi. Se l’attività non ha prospettive, ulteriori fideiussioni servirebbero solo a trascinare anche il patrimonio familiare nel dissesto. Meglio trattare con i creditori nell’ambito di procedure formalizzate (accordi o piani) piuttosto che firmare cambiali o garanzie che aprono un varco diretto ai creditori sui beni privati.
  • Azioni di responsabilità verso gli amministratori: L’amministratore di una SRL può essere chiamato a rispondere con i propri beni se con il suo comportamento ha provocato danni ai creditori o alla società. In particolare, se ha violato i doveri gestionali dopo che la società era in crisi conclamata, può incorrere in responsabilità. Un caso tipico è la prosecuzione abusiva dell’attività dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (ad es. continuare a contrarre debiti quando il capitale era azzerato e la società doveva essere liquidata). L’art. 2486 c.c. impone agli amministratori, dal momento in cui emerge una causa di scioglimento, di compiere solo atti di gestione conservativa, finalizzati a non aggravare il passivo; ogni violazione che aggravi il dissesto li rende responsabili dei relativi danni. La legge (art. 2486 co.3 c.c., introdotto dal CCII) ha persino previsto criteri presuntivi per quantificare il danno: salvo prova contraria, si presume pari alla differenza tra patrimonio netto alla data di apertura del fallimento (o cessazione dell’amministratore) e patrimonio netto alla data in cui doveva sciogliersi la società, oppure – se i conti sono inattendibili – alla differenza tra attivo e passivo accertati in fallimento. In altre parole, tutto il peggioramento del deficit patrimoniale causato dal tardivo intervento può essere imputato all’organo amministrativo. Ad esempio, se la società ha continuato a operare accumulando €100.000 di nuovi debiti dopo essere tecnicamente insolvente, l’azione di responsabilità del curatore fallimentare potrebbe chiedere agli amministratori quel importo come risarcimento. Da ciò discende un principio chiave: per proteggere il proprio patrimonio, gli amministratori devono attivarsi tempestivamente in presenza di segnali di insolvenza, adottando una procedura di regolazione della crisi (piano, accordo, concordato) invece di continuare l’attività “come nulla fosse”. Come anticipato, la legge ora considera diligente l’amministratore che prontamente avvia, ad esempio, una composizione negoziata o richiede un concordato: ciò può esonerarlo da responsabilità per l’aggravamento dei debiti sociali. Al contrario, l’inerzia o i tentativi dilatori (es. occultare la crisi continuando a contrarre credito) sono fonte di responsabilità personale. Va ricordato che queste azioni di responsabilità possono essere promosse sia dalla società (o dai soci) sia, in caso di fallimento, dal curatore nell’interesse di tutti i creditori (art. 146 l.fall., ora art. 255 CCII). Inoltre, i creditori sociali danneggiati dalla mala gestio possono agire direttamente contro gli amministratori ex art. 2476 co.7 c.c., se il patrimonio sociale risulta insufficiente a soddisfarli.
  • Pagamenti preferenziali, atti in frode e rischi penali: Un amministratore che, in fase di pre-insolvenza, decida di pagare solo alcuni creditori (magari parti correlate o chi fa più pressione) a discapito di altri, potrebbe esporre tali atti a revocatoria fallimentare se poi la società fallisce. Pagamenti, garanzie o vendite di beni avvenuti nell’anno (o 6 mesi, a seconda dei casi) prima del fallimento, se considerati preferenziali o pregiudizievoli per la par condicio, possono essere dichiarati inefficaci dal tribunale su istanza del curatore. Questo non comporta in sé responsabilità personale (gli importi tornano alla massa fallimentare), ma certamente non aiuta a “salvare” il patrimonio: eventuali somme restituite dalla banca o dal fornitore beneficiato rientrano nel fallimento e non liberano il socio garante. Ancora più grave, se l’amministratore compie atti distrattivi o fraudolenti (ad es. sottrae beni aziendali per sé, falsifica i bilanci, distrae attivo prima del fallimento) rischia conseguenze penali (reati di bancarotta). Pur concentrandoci qui sugli aspetti civilistici, è bene sapere che comportamenti dolosi tesi a “mettere in salvo” asset in danno ai creditori possono integrare reati fallimentari e portare a condanne penali, oltre che all’inefficacia degli atti compiuti. Dunque mai tentare di “nascondere” i beni all’ultimo momento: non funzionerebbe (verrebbero revocati) e aggraverebbe solo la posizione dell’imprenditore.
  • Responsabilità del liquidatore per debiti fiscali: Se la SRL entra in liquidazione (volontaria o concorsuale), il liquidatore nominato ha precisi obblighi verso il Fisco. In particolare, l’art. 36 del DPR 602/1973 prevede che il liquidatore risponde personalmente dei debiti tributari della società qualora distribuisca ai soci attivi o somme senza aver prima pagato tutte le imposte dovute. In pratica, il liquidatore deve assicurarsi che tutte le tasse e contributi siano saldati prima di dare qualcosa ai soci; se scioglie la società lasciando imposte insolute e nel contempo assegna denaro o beni ai soci, ne risponderà con il proprio patrimonio fino a concorrenza di quanto indebitamente distribuito. Si tratta di una forma di responsabilità civile per fatto proprio illecito, recentemente confermata e chiarita dalla Cassazione a Sezioni Unite (sent. 32790/2023): non occorre che il debito fiscale sia già iscritto a ruolo o accertato per agire contro il liquidatore; la responsabilità copre anche imposte non ancora liquidate alla data di chiusura (ad es. redditi maturati l’anno della chiusura, accertati dopo). Inoltre, coinvolge sia il caso di distribuzione in denaro sia assegnazione di beni ai soci che abbiano di fatto pregiudicato il soddisfacimento dell’Erario. Questa responsabilità è limitata all’ammontare dell’attivo distribuito indebitamente, ma può comunque tradursi in decine di migliaia di euro a carico del liquidatore. Esempio: Beta SRL chiude distribuendo €30.000 ai soci, lasciando però €40.000 di IVA non pagata; l’Agenzia Entrate potrà chiedere ai soci i €30.000 ricevuti e al liquidatore i restanti €10.000. Se invece i soci non avessero ricevuto nulla, non sarebbero chiamati (la Cass. SS.UU. 2023 ha ribadito che i soci non rispondono oltre quanto riscosso), e il liquidatore non risponderà se semplicemente mancavano fondi per pagare le imposte (risponde solo se ha pagato altri invece del Fisco). Dunque, per proteggere se stessi, i liquidatori devono pagare prima le imposte e accantonare prudenzialmente per eventuali accertamenti futuri, distribuendo ai soci solo ciò che resta netto da ogni debito fiscale prevedibile. I soci, dal canto loro, devono essere consapevoli che qualunque somma incassino in sede di liquidazione potrebbe dover essere riversata ai creditori rimasti insoddisfatti (Fisco in primis) fino a concorrenza di quanto ricevuto, entro i limiti e termini di legge (5 anni per pretese fiscali, come vedremo).

In conclusione, il patrimonio personale di soci e amministratori può essere messo a rischio in una crisi aziendale, ma solo in situazioni circoscritte (garanzie personali, mala gestio colposa o dolosa, violazione di obblighi specifici come quello di pagare il Fisco prima dei soci). La buona notizia è che, agendo in modo corretto e tempestivo, questi rischi possono essere grandemente mitigati. Nel prossimo paragrafo vedremo come attuare strategie di protezione patrimoniale preventiva e quali errori evitare per non ritrovarsi con la casa pignorata o conti personali aggrediti dai creditori della SRL.

Strategie di protezione del patrimonio personale

Proteggere il patrimonio personale dell’imprenditore quando la SRL è in crisi non è solo auspicabile – è necessario. Come abbiamo visto, la separazione tra patrimonio aziendale e privato può assottigliarsi pericolosamente se l’azienda precipita e l’imprenditore commette passi falsi. È fondamentale dunque attuare per tempo delle strategie di asset protection lecite, prima che la situazione degeneri in insolvenza conclamata o in azioni esecutive dei creditori. Ecco alcune misure pratiche che soci e amministratori dovrebbero considerare:

  • Non aggravare l’esposizione personale: la prima regola, già accennata, è non peggiorare la propria posizione assumendo nuovi obblighi personali per sostenere la società in crisi. Evitare di firmare ulteriori fideiussioni bancarie, emettere cambiali o fornire garanzie reali sui beni di famiglia a favore dei creditori sociali. Tali mosse, spesso compiute per guadagnare tempo, rischiano di essere inutili (se il piano di salvataggio fallisce) e anzi controproducenti perché trasferiscono il rischio d’impresa direttamente sui beni privati. Un imprenditore accorto deve mettere in sicurezza il nucleo del proprio patrimonio prima che i creditori lo prendano di mira: ad esempio, se la banca richiede obbligatoriamente una garanzia personale per prorogare fidi a un’azienda già decotta, probabilmente quell’azienda non è più salvabile e l’impegno personale finirà escusso. Meglio negoziare moratorie o ristrutturazioni del debito senza garanzie aggiuntive, utilizzando gli strumenti legali disponibili, piuttosto che promettere ai creditori qualcosa che verrà da casa propria.
  • Separare il patrimonio in una struttura protettiva (es. Società semplice): una tecnica diffusa (e lecita, se fatta per tempo) per proteggere i beni personali è costituire una società semplice di famiglia e conferirvi beni immobili, partecipazioni o liquidità eccedenti. La società semplice, non avendo scopo commerciale, non è soggetta a fallimento e funge da cassaforte patrimoniale: i creditori della SRL non potranno aggredire direttamente i beni intestati alla società semplice, se non per la quota spettante al socio debitore (e con notevoli difficoltà pratiche). Attenzione: questa operazione deve avvenire in tempi non sospetti, ovvero quando non vi sono procedure concorsuali in corso né atti di sequestro/pignoramento pendenti, altrimenti rischia di essere considerata un atto in frode ai creditori. Se ben congegnata (ad esempio conferendo un immobile nella società semplice quando l’azienda è ancora solvente, pagando eventuali imposte di trasferimento), questa misura schermatura efficacemente i beni di famiglia, senza togliere all’imprenditore il controllo sostanziale su di essi (tramite la gestione della società semplice stessa). In sostanza, la società semplice funziona come una cassaforte giuridica: i beni restano in proprietà a un soggetto distinto che non fallisce, fuori dalla portata dei creditori dell’attività d’impresa.
  • Ricorrere a strumenti fiduciari o trust: un ulteriore livello di protezione può essere ottenuto tramite l’uso di un trust o di un mandato fiduciario, segregando determinati beni in un patrimonio separato. Ad esempio, si può istituire un trust familiare in cui far confluire liquidità o immobili, affidandoli a un trustee con lo scopo di tutela dei familiari. Il trust – se autentico e non fraudolento – rende i beni non aggredibili dai creditori personali del disponente, poiché essi escono dal suo patrimonio (divenendo proprietà del trustee nell’interesse dei beneficiari). Anche qui, però, valgono le avvertenze temporali: simili mosse devono essere tempestive e genuine, non fatte all’ultimo momento per “nascondere” asset quando i creditori stanno già bussando alla porta. Altrimenti, un’azione revocatoria fallimentare (entro 2 anni dal fallimento per atti a titolo gratuito, art. 164 CCII, o ex art. 2929-bis c.c. per atti gratuiti in pregiudizio dei creditori) potrebbe far caducare il trasferimento al trust. Se pianificato con largo anticipo e motivato da ragioni successorie o di investimento, invece, un trust ben strutturato offre protezione sofisticata: i beni confluiti nel trust non appartengono più giuridicamente all’imprenditore, quindi i suoi creditori non possono pignorarli (salvo dimostrare che il trust era simulato al solo scopo di frodarli, il che richiede evidenze forti). Dunque il trust, come la fiducia, non serve a “nascondere” i beni, ma a tutelarli legalmente conferendo loro una destinazione protetta, purché nel rispetto della normativa (legge sui trust, convenzione dell’Aja 1985 ratificata in Italia).
  • Effettuare solo operazioni patrimoniali tracciabili e a valori di mercato: un errore frequente è cercare di “salvare il salvabile” mediante vendite sottoprezzo a familiari o soci last minute (es. l’amministratore che vende la macchina aziendale alla moglie per 1 euro, o si fa cedere un asset strategico a titolo praticamente gratuito). Questi atti non solo sono facilmente revocabili in caso di fallimento (essendo a titolo oneroso ma con sproporzione evidente, quindi fraudolenti ex art. 164 CCII, prima L. Fall. art. 67), ma possono integrare gli estremi della bancarotta fraudolenta patrimoniale se fatti quando l’insolvenza è già conclamata. Conviene invece procedere a cessioni di beni aziendali in modo ordinato e trasparente, preferibilmente nell’ambito di procedure concordate con i creditori o sotto l’ombrello di un piano attestato: in tal caso i pagamenti e le garanzie concesse in esecuzione del piano non sono soggetti a revocatoria. Ad esempio, se l’azienda deve cedere un immobile per pagare i debiti, farlo nell’ambito di un concordato o di un accordo di ristrutturazione omologato mette quell’atto al riparo da future contestazioni. L’esperienza pratica insegna che vendite “fai-da-te” fatte nella confusione della crisi finiscono spesso annullate dal tribunale o invalidate, col risultato che l’imprenditore perde comunque il bene senza aver risolto i debiti.
  • Tempestività e buona fede prima di tutto: qualunque strategia di protezione patrimoniale dev’essere attuata tempestivamente, ovvero prima che si verifichino eventi irreversibili come il deposito di un’istanza di fallimento o l’emissione di decreti ingiuntivi con pignoramenti incombenti. Se si attende troppo, ogni mossa verrà scrutinata come potenzialmente fraudolenta. Inoltre deve essere fatta in buona fede, inserita in una pianificazione patrimoniale lecita: spostare beni ai figli o in trust dopo che si è già insolventi può essere contestato come simulazione o atto in frode. Viceversa, un imprenditore che per tempo costituisce, ad esempio, una holding non operativa per segregare gli immobili di famiglia e mantenerli al riparo dalle sorti alterne del business, sta agendo nell’ambito della legalità e della normale pianificazione societaria (molte PMI di successo hanno una società “immobiliare” separata dalla società “operativa” proprio per limitare i rischi).

In definitiva, proteggere il proprio futuro non è egoismo ma responsabilità verso se stessi e la propria famiglia. Anni di sacrifici non dovrebbero andare in fumo per una gestione tardiva della crisi. Se impostata correttamente, una pianificazione patrimoniale consente di affrontare la chiusura dell’azienda trasformando una fase critica in un’occasione di consolidamento: i debiti vengono regolati secondo legge, ma ciò che si è costruito nel tempo (casa, risparmi, investimenti personali) viene salvaguardato per ripartire su basi più solide. Naturalmente queste mosse devono accompagnarsi a un approccio trasparente con i consulenti e, se necessario, con il tribunale: quando infatti si attivano procedure formali (come accordi con creditori o concordati), eventuali asset protetti possono fungere da risorsa per trovare soluzioni (es. soci che mettono a disposizione beni personali in un piano volontariamente), senza però doverli esporre indiscriminatamente a tutti i creditori.

Errori comuni da evitare nella chiusura di una SRL in crisi

La chiusura di un’azienda in difficoltà non è un semplice adempimento burocratico: è un percorso irto di trappole in cui ogni errore può amplificare i danni. Elenchiamo alcuni errori comuni – veri “passi falsi” – che i debitori commettono cercando di chiudere una SRL con debiti, e come invece sarebbe opportuno procedere:

  • Cedere alle pressioni dei creditori con accordi improvvisati: di fronte all’insolvenza, è frequente che singoli creditori facciano pressione (telefonate minacciose, solleciti continui, intimazione di azioni legali) inducendo l’imprenditore a scelte affrettate. Ad esempio, firmare piani di rientro bilaterali o cambiali a favore di un creditore “forte” (come una banca o un fornitore strategico) per guadagnare tempo, magari sacrificando liquidità necessaria altrove. Questo è un errore: accordarsi in modo scoordinato con alcuni creditori può precludere soluzioni migliori di carattere collettivo. Se poi si firma una cambiale o si riconosce formalmente un debito, quel creditore avrà uno strumento esecutivo veloce (la cambiale protestata, il decreto ingiuntivo non opponibile) aggravando la situazione. Meglio mantenere lucidità e sangue freddo: tutti i creditori vanno gestiti nell’ottica di un piano complessivo. Le proposte di transazione vanno valutate con attenzione, preferendo soluzioni che includano tutti (come un accordo di ristrutturazione omologato dal tribunale) piuttosto che accordi separati che rischiano di far saltare la par condicio. Ricorda: se un creditore isolato ottiene un pagamento preferenziale e poi la società fallisce, quel pagamento potrebbe essere revocato, vanificando il sacrificio.
  • Accollarsi nuovi finanziamenti senza copertura certa: può sembrare allettante chiedere un ultimo prestito per tamponare i debiti (magari ipotecando un immobile personale) con la speranza di risollevare l’azienda. Tuttavia, contrarre nuovi debiti per pagare debiti vecchi, senza un vero piano di rilancio, porta spesso al collasso finale con debiti duplicati. Inoltre, impiegare un finanziamento fresco per pagare creditori pregressi può esporre quel finanziatore a rischi (se la società poi fallisce, il nuovo finanziatore può trovarsi indietro in graduatoria, e l’amministratore potrebbe essere accusato di aver aggravato il dissesto). Mossa prudente: ridurre l’esposizione, non aumentarla. È preferibile negoziare standstill (sospensioni dei pagamenti) o dilazioni con i creditori esistenti tramite strumenti come la composizione negoziata, piuttosto che aprire nuove linee di credito costose (ad es. evitare factoring disperati o uscite sul mercato usuraio).
  • Liquidare frettolosamente i beni aziendali senza piano: spesso l’imprenditore, preso dal panico, cerca di vendere macchinari, scorte o immobili aziendali “per fare cassa” e pagare i debiti, ma lo fa in modo disordinato (vendite sottocosto, a spezzatino, magari a soggetti poco affidabili). Ciò può portare a svendite che riducono il valore ricavabile e aprono la strada a contenziosi (se qualche creditore si sente leso potrebbe opporsi alla liquidazione). Una liquidazione ordinata richiede invece pianificazione: identificare quali asset sono strategici da salvare e quali da alienare, valutare tempi e modalità di vendita ottimali (es. vendita competitiva o affidamento a professionisti per stimare il valore di mercato). Ad esempio, svendere un immobile aziendale al primo che capita per fare cassa immediata può significare incassare il 50% del suo valore – un danno sia per i creditori sia per i soci. Meglio inserirlo in un piano concordato: magari un concordato preventivo o accordo dove la vendita avviene con l’autorizzazione del tribunale alle migliori condizioni possibili, evitando aste giudiziarie ma anche vendite “troppo amichevoli”. Da evitare: liquidazioni “fai-da-te” non documentate e non tracciate.
  • Trascurare la tenuta della documentazione contabile e societaria: in fasi di caos, alcune aziende smettono di aggiornare i libri contabili, o l’amministratore non deposita più i bilanci annuali. Questi comportamenti sono molto pericolosi. Bilanci incompleti, contabilità irregolare o mancanza di verbali possono diventare “armi” in mano ai creditori e al curatore. Ad esempio, se il fallimento trova conti confusi o bilanci non depositati da anni, scatterà la presunzione di irregolarità e l’azione di responsabilità sarà facilitata (oltre al rischio penale di bancarotta semplice/documentale). Inoltre, una documentazione ordinata è fondamentale per negoziare con i creditori e convincere un esperto attestatore sulla fattibilità di un piano. Quindi: anche durante la crisi, non abbandonare la contabilità – anzi, rafforzarne la cura. Preparare situazione patrimoniale aggiornata, elenco debiti e crediti, inventario beni, riconciliare banche. Se si entra in procedura concorsuale, presentarsi con i libri in ordine può fare la differenza tra essere considerati imprenditori diligenti o sospetti di mala fede.
  • Fare a meno di consulenti esperti in crisi d’impresa: spesso l’imprenditore di PMI tende a rivolgersi solo al proprio commercialista “di fiducia” o all’avvocato generalista per affrontare la chiusura della società, oppure pensa di poter gestire da solo la liquidazione. Questo è un approccio rischioso: diritto della crisi e procedure concorsuali sono ambiti molto specialistici. Uno studio improvvisato può trascurare passaggi chiave (ad es. la domanda di esdebitazione post-fallimentare, o la corretta pubblicazione di un piano attestato) causando la perdita di benefici. Idealmente, bisognerebbe avere un team coordinato: un legale esperto in diritto fallimentare, un commercialista esperto in crisi e un notaio per gli atti societari. O, come suggeriscono alcuni, una “regia strategica” che coordini tutti i professionisti. In ogni caso, non affrontare la crisi in solitudine: le normative sono complesse e in continua evoluzione (basti pensare alle novità 2022–2024). Un consulente specializzato può prevenire errori formali, tutelare il patrimonio personale e impostare una strategia di uscita efficace.

In sintesi, evitare questi errori comuni permette di proteggere ciò che resta di valore, evitare contenziosi inutili e massimizzare le chance di chiudere la SRL limitando le conseguenze negative. Il filo conduttore è sempre la metodicità: gestire la crisi con metodo, visione e strumenti adeguati (anziché nel panico e improvvisando) fa la differenza tra chi subisce la crisi e chi riesce a governarla in modo dignitoso.

Strumenti per chiudere la crisi di una SRL (piani, accordi, procedure)

Passiamo ora ad esaminare i principali strumenti giuridici che l’ordinamento italiano mette a disposizione di un imprenditore per gestire e risolvere la crisi d’impresa, evitando se possibile la soluzione più drastica (la liquidazione giudiziale) oppure rendendola meno onerosa. Nel contesto del nuovo Codice della Crisi, tali strumenti rientrano nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, che possono essere di natura negoziale (privata o semi-privata) oppure concorsuale (giudiziale). Dal punto di vista del debitore (SRL), la scelta dell’uno o dell’altro strumento incide sul grado di controllo che manterrà sull’operazione, sul livello di coinvolgimento del tribunale e sull’eventuale liberazione dai debiti residui. Di seguito analizziamo uno per uno gli istituti chiave:

Liquidazione volontaria ordinaria vs. liquidazione giudiziale

Prima di addentrarci nelle soluzioni di “ristrutturazione”, chiarendo possibili dubbi: è possibile chiudere una SRL semplicemente mettendola in liquidazione volontaria, anche se ha dei debiti? La risposta è: sì, ma solo a certe condizioni. La liquidazione volontaria (disciplinata dagli artt. 2484–2496 c.c.) è la procedura ordinaria di scioglimento di una società: l’assemblea dei soci, riscontrata una causa di scioglimento (es. cessazione attività, perdite gravi, decisione volontaria), nomina un liquidatore, il quale monetizza l’attivo sociale, paga i debiti e distribuisce l’eventuale residuo ai soci, per poi cancellare la società dal Registro Imprese. Tuttavia, questo iter può concludersi regolarmente solo se l’attivo è sufficiente a soddisfare tutti i creditori. Se invece la società è insolvente (attivo insufficiente a pagare tutto il passivo), la liquidazione ordinaria non può andare a buon fine senza coinvolgere il tribunale. In particolare, la legge prevede che se durante la liquidazione emerge lo stato di insolvenza, il liquidatore debba richiedere il fallimento (liquidazione giudiziale) al tribunale. Inoltre, per impedire abusi, il CCII (art. 33) stabilisce che una società cancellata dal Registro Imprese può comunque essere dichiarata fallita entro 1 anno dalla cancellazione, se l’insolvenza era preesistente. Ciò significa che non basta cancellare una SRL piena di debiti per “farla franca”: i creditori hanno 12 mesi di tempo per ottenere dal tribunale la riapertura in liquidazione giudiziale (c.d. fallimento postumo), facendo rivivere la società ai soli fini concorsuali. Ad esempio, Alfa SRL, insolvente, tenta di liquidarsi da sola a fine 2024 con debiti non pagati e si cancella; a metà 2025 un creditore chiede il fallimento postumo e il tribunale lo dichiara, vanificando la finta chiusura. Dunque la liquidazione volontaria è percorribile solo per aziende ancora solventi o che comunque dispongono di risorse (o apporti dei soci) sufficienti a pagare integralmente i debiti. Se mancano pochi soldi per pagare tutti, i soci potrebbero decidere di metterceli loro – così la società chiude onorando ogni credito (caso di liquidazione volontaria con ripianamento). In alternativa, bisogna ricorrere a uno strumento concorsuale (concordato, accordo, ecc.) che consenta la chiusura nonostante i debiti non integralmente pagati. In definitiva: liquidare volontariamente per evitare il fallimento funziona solo se alla fine nessun creditore resta insoddisfatto. Se invece la SRL ha debiti che non è in grado di estinguere, la via obbligata sarà una procedura di insolvenza (fallimento o procedura minore) oppure una soluzione negoziata (piano/accordo) che coinvolga i creditori chiedendo loro di rinunciare parzialmente ai crediti.

Di seguito ci concentriamo proprio su queste soluzioni negoziate o concorsuali che consentono di chiudere la crisi di un’impresa senza pagare integralmente tutti i debiti, ma in modo legale e controllato, proteggendo il debitore da ulteriori azioni esecutive e (talvolta) liberandolo dai debiti residui. Nel capitolo successivo confronteremo anche durata e implicazioni, ma anticipiamo nella tabella seguente un quadro di massima:

StrumentoTipoTribunale coinvolto?Adesione creditori richiestaEffetti sui debitiControllo dell’imprenditore
Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII)Stragiudiziale (privato)No omologa giudiziale (solo facoltativa pubblicazione Registro)Nessuna maggioranza predeterminata; accordi bilaterali volontari con creditoriDebiti ristrutturati secondo il piano; atti esecutivi del piano non soggetti a revocatoria; nessun effetto imposto sui dissenzientiTotale: gestione resta al debitore; richiesta attestazione indipendente da professionista
Accordo di ristrutturazione dei debiti (ordinario, art. 57 CCII)Concorsuale negoziato (omologato)Sì, omologazione del tribunale necessariaConsenso di ≥60% dei crediti (per valore); vincola solo aderenti (salvo estensioni)Debiti ristrutturati secondo accordo omologato; esenzione da revocatoria per pagamenti e atti previsti; creditori estranei devono essere pagati integrali entro 120 giorni da scadenzaParziale: società resta in mano al debitore ma piano soggetto ad attestazione e controllo omologa; no organi concorsuali permanenti (niente commissario)
Accordo di ristrutturazione “agevolato” (art. 60 CCII)Concorsuale negoziato (omologato)Sì, omologazione necessariaConsenso di ≥30% crediti per accedere a misure protettive; ≥60% per omologa. Possibili effetti estesi a dissenzienti (specie creditori finanziari) ex art. 61 CCIICome accordo ordinario, ma con estensioni maggiori: sospensione azioni esecutive (anche Fisco) già con 30% adesioni; possibile cram-down su non aderenti in certe classi; parziale esdebitazione (stralcio) dei crediti come da accordoParziale (come sopra): nessun commissario, ma richiesta attestazione professionista e controllo del giudice in sede di omologa; durata relativamente breve
Composizione negoziata (artt. 12-25 CCII)Stragiudiziale assistita da esperto indipendenteTribunale non interviene nella trattativa privata; interviene solo se richieste “misure protettive” o per eventuale omologa di accordi conseguentiVolontaria: nessuna soglia legale di adesione – l’obiettivo è trovare qualunque accordo utile. Può sfociare in accordo di ristrutturazione (60%) o in concordato semplificato senza votoProcedura confidenziale (non pubblica se non si chiedono misure protettive); sospensione temporanea dei pignoramenti su richiesta; possibili accordi con i creditori mediati dall’esperto (anche transazioni fiscali) e 3 opzioni finali: a) semplice accordo stragiudiziale con aiuto esperto; b) accordo di ristrutturazione agevolato (60% crediti, con soglia ridotta al 50% se concluso in comp.neg.); c) concordato semplificato (liquidatorio, senza voto creditori). Tutte le trattative condotte in buona fede nell’ambito della comp. negoziata sono esimenti da responsabilità per gli amministratori (diligenza)Totale (fino a esito): l’imprenditore mantiene la gestione ordinaria e straordinaria, affiancato da un esperto che però non ha poteri sostitutivi (solo di mediazione e relazione). Nessun commissario, nessuna spossessamento. Se si passa a concordato semplificato finale, allora subentra controllo giudiziale al momento dell’omologa
Concordato preventivo (artt. 84-120 CCII)Procedura concorsuale giudiziale (preventiva al fallimento)Sì, tribunale coinvolto dall’inizio: ammissione, omologa; nominati commissario giudiziale e GDVoto dei creditori: serve maggioranza >50% in ogni classe (o 50% dei crediti totali se non in classi). No adesione unanime richiesta ma vincolo su tutti i creditori chirografari e sui privilegiati se aderenti al pianoDebiti trattati secondo proposta: possibili stralci consistenti (purché oltre il valore liquidatorio). Esdebitazione: la società stessa si estingue con omologa (non è prevista esdebitazione perché la persona giuridica si scioglie), ma di fatto i crediti vengono soddisfatti nella percentuale concordataria e i creditori non possono pretendere il resto. Atti in esecuzione del concordato esenti da revocatoria. Possibile anche concordato in continuità per proseguire l’attività (in tal caso l’impresa non chiude ma si ristruttura)Limitato: l’imprenditore perde l’autonoma disponibilità del patrimonio (divieto di atti straordinari non autorizzati), pur restando formalmente in carica; un commissario vigilanza sulla gestione. Il tribunale deve approvare ogni atto di straordinaria amministrazione; i creditori votano sul piano. In continuità l’imprenditore rimane alla guida sotto sorveglianza, in liquidatorio di solito propone un liquidatore per vendere i beni
Concordato “semplificato” (artt. 25-sexies/25-septies CCII)Procedura concorsuale giudiziale (rapida, liquidatoria)Sì, tribunale decide sull’omologa; nomina organi se necessarioNessun voto dei creditori: procedura riservata al caso di composizione negoziata fallita. Debitore propone un piano di liquidazione e i creditori non votano, possono solo fare opposizione in sede di omologazioneLiquidazione di tutti i beni sotto controllo del tribunale; riparto secondo regole concorsuali dei privilegi. Se il tribunale giudica il piano più conveniente della liquidazione giudiziale, lo omologa nonostante il dissenso dei creditori. In pratica l’accordo dei creditori non serve, basta che non dimostrino che avrebbero avuto di più col fallimento. Pagamenti: come in fallimento (di solito percentuali basse ai chirografari). Anche qui atti protetti da revocatoria e procedura esdebitatoria per il debitore (che si estingue a fine liquidazione)Molto limitato: la proposta scaturisce dall’imprenditore, ma una volta aperto il concordato semplificato, il tribunale può nominare un liquidatore giudiziale. Non essendoci voto, il ruolo del debitore dopo la proposta è marginale. È comunque preferibile al fallimento perché è iniziato volontariamente e in genere viene chiuso più rapidamente. L’imprenditore beneficia di cooperazione (es. esdebitazione in 3 anni se persona fisica garante)
Liquidazione giudiziale (fallimento, art. 121 e ss. CCII)Procedura concorsuale liquidatoria (giudiziale)Sì, tribunale dichiara apertura con sentenza; nomina curatore, giudice delegato e comitato creditoriNessun consenso richiesto (procedura coatta): può essere avviata su istanza di creditori o anche d’ufficio. Presupposto: stato d’insolvenza attuale. Se debitore sopra soglie di fallibilità, la dichiarazione è obbligatoria (il tribunale deve dichiarare la liquidazione giudiziale se insolvenza provata)Tutti i debiti concorrono nel passivo. Di regola i creditori ottengono pagamenti parziali (dividendi) in base alle cause di prelazione; i debiti residui restano insoddisfatti ma la società viene cancellata a fine procedura (i creditori non recuperano oltre). Esdebitazione: per l’imprenditore individuale è prevista la liberazione dei debiti residui dopo 3 anni dalla chiusura, per la società cancellata si parla di esdebitazione implicita (non vi è più un soggetto da perseguire). Atti compiuti prima del fallimento potenzialmente soggetti a revocatoria (2 anni/6 mesi a seconda dei casi), ad eccezione di quelli esenti ex art. 67 L.F o art. 166 CCII (es. pagamenti a fronte di piani attestati, ecc.). Il fallimento blocca tutte le azioni individuali e i pignoramenti in corso.Nullo: il patrimonio sociale viene spossessato e passa nelle mani del curatore. Gli amministratori decadono, i soci perdono ogni potere di gestione. Il curatore gestisce la liquidazione e riferisce ai creditori e al giudice. I tempi storicamente sono lunghi (spesso 5-10 anni per chiudere nelle procedure complesse), anche se la riforma mira a velocizzare con obiettivo 3-6 anni max. Il fallimento è la soluzione più drastica dal lato del debitore: l’imprenditore è estromesso, subisce possibili azioni di responsabilità (es. dal curatore) e rischia procedimenti penali se emergono irregolarità gravi. Tuttavia a volte è inevitabile se non vi sono alternative praticabili.

Tabella 1: Principali strumenti di regolazione della crisi d’impresa per una SRL, con caratteristiche generali dal punto di vista del debitore.

Come si evince dalla comparazione, ciascuno strumento ha pro e contro. In generale:

  • Le soluzioni stragiudiziali (piani attestati, composizione negoziata finché resta su binario privato) garantiscono maggior riservatezza e controllo al debitore, ma richiedono il consenso sostanziale dei creditori chiave e non impongono nulla ai dissenzienti. Sono efficaci se c’è collaborazione e l’azienda è recuperabile. Offrono protezioni giuridiche specifiche (esenzione da revocatoria per i pagamenti eseguiti, niente reati concorsuali per quegli atti), ma non cancellano di per sé i debiti: questi vengono rinegoziati e vanno comunque onorati secondo i nuovi termini concordati. In caso di esito negativo, il rischio di fallimento rimane (sebbene si possa ripiegare sul concordato semplificato).
  • Le soluzioni concorsuali giudiziali (accordi omologati, concordati, liquidazione giudiziale) coinvolgono il tribunale e permettono di imporre sacrifici anche ai creditori dissenzienti, a fronte però di procedure più complesse e pubblicità legale (iscrizione al Registro Imprese, possibile stigma reputazionale). Accordi di ristrutturazione e concordati preventivi possono evitare la dichiarazione di fallimento e spesso consentono la continuazione dell’attività aziendale (se in continuità diretta o indiretta) salvando il valore d’impresa. Il concordato, in particolare, vincola tutti i creditori e libera la società dai debiti eccedenti quanto soddisfatto nel piano (di fatto la società esce pulita o viene liquidata e cancellata). Il rovescio della medaglia è la perdita di potere dell’imprenditore (che deve sottostare alle decisioni della maggioranza dei creditori votanti e ai controlli degli organi nominati) e l’obbligo di trasparenza totale sulla propria gestione. La liquidazione giudiziale è l’extrema ratio: elimina i debiti solo perché elimina la società stessa, ma comporta la spossessione e spesso indagini sulle responsabilità (con possibili azioni contro amministratori e soci).

Alla luce di ciò, la scelta del percorso dipende dalla situazione specifica della SRL in crisi: quanto è grave l’insolvenza, se esiste possibilità di risanamento o se occorre liquidare tutto, qual è la disposizione d’animo dei creditori (collaborativi o ostili), e qual è l’obiettivo del debitore (salvare l’azienda come going concern o chiudere definitivamente). Nei paragrafi successivi entreremo nel dettaglio dei singoli strumenti elencati, fornendo per ciascuno i riferimenti normativi, le condizioni di accesso, i vantaggi in termini di protezione patrimoniale e le novità giurisprudenziali più recenti.

Il Piano Attestato di Risanamento (art. 56 CCII)

Cos’è: Il piano attestato di risanamento è uno strumento di origine contrattuale e privatistica introdotto per la prima volta nel 2005 (art. 67, co.3, lett. d) legge fall.) e ora disciplinato compiutamente dall’art. 56 del Codice della Crisi. Si tratta di un piano di risanamento aziendale predisposto dall’imprenditore in stato di crisi (o anche di insolvenza reversibile) e asseverato da un professionista indipendente, con l’obiettivo di riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa ed evitare l’insolvenza. Il piano viene normalmente condiviso con alcuni o tutti i creditori – i quali accettano bilateralmente di sostenerlo, ad esempio concedendo dilazioni, stralci parziali del credito, nuova finanza o mantenimento di forniture essenziali. Non è però una procedura concorsuale: non c’è un’omologazione del tribunale, né un effetto vincolante per i creditori che non vi aderiscono. Il suo punto di forza è che, se redatto secondo i requisiti di legge e attestato da un esperto, gli atti e i pagamenti eseguiti in attuazione di esso beneficiano di speciali protezioni legali, in primis: esenzione dall’azione revocatoria fallimentare e non punibilità per bancarotta preferenziale di eventuali pagamenti parziali poi risultati infruttuosi (in caso di successivo fallimento, si evita di criminalizzare pagamenti fatti in buona fede nel tentativo di risanare). In altre parole, il piano attestato crea una safe harbor normativa attorno agli atti compiuti per attuarlo: se malauguratamente l’impresa dovesse comunque fallire, quelle operazioni non potranno essere attaccate né sul piano civile (revocatoria) né, entro certi limiti, sul piano penale. Questa caratteristica lo rende uno strumento prezioso per provare un salvataggio senza l’alea di vedersi contestare tutto in seguito.

Normativa di riferimento: Art. 56 CCII, rubricato “Accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento”. La norma prevede che un imprenditore in crisi o insolvenza (assoggettabile a fallimento) possa predisporre un piano “idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria e il riequilibrio della situazione finanziaria”, attestato da un professionista indipendente sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano. Importante: la definizione di “crisi” nel CCII è ampia (include anche il semplice squilibrio che rende probabile l’insolvenza), quindi il piano attestato può essere utilizzato anche in fase precoce, prima dell’insolvenza conclamata. Anzi, è preferibile attivarlo prima, quando l’azienda è ancora recuperabile (going concern). L’art. 56 inoltre richiede che il piano abbia data certa e contenuto minimo obbligatorio (elencato nel comma 2): deve indicare l’elenco dei creditori e l’effetto del piano su ciascuno di essi, le risorse apportate, ecc., ed essere depositato presso il Registro delle Imprese (presumibilmente per ottenere la protezione fiscale). In pratica, il core del piano attestato è rimasto simile all’originario art. 67 l.fall., ma il CCII lo ha codificato espressamente e ne ha arricchito alcuni aspetti procedurali, introducendo ad esempio la possibilità di pubblicazione volontaria per ottenere taluni benefici (tra cui la non tassazione sopravvenienze attive da esdebitazione dei crediti, come vedremo).

Come funziona in concreto: l’imprenditore elabora, di solito con l’ausilio di consulenti finanziari, un piano di risanamento pluriennale (di solito 3-5 anni). Questo piano dettaglia le misure da adottare per superare la crisi – ad esempio: ristrutturazione del debito (quali creditori saranno pagati subito, quali posticipati, quali chirografari stralciati parzialmente con loro accordo), cessioni di asset non strategici, riduzione costi, aumento di capitale o ingresso di nuovi soci, conversione di crediti in quote, ecc. – e deve mostrare che, attuandolo, l’impresa tornerà sostenibile. Un professionista indipendente (revisore, commercialista o avvocato con requisiti di legge) viene incaricato come attestatore: esamina i dati aziendali, valuta gli assunti del piano e redige una relazione di attestazione in cui dichiara se i numeri sono corretti e se il piano è fattibile, cioè idoneo a risanare l’impresa. Una volta ottenuta l’attestazione, il piano può essere formalizzato in una scrittura unilaterale o plurilaterale. Non serve l’adesione di tutti i creditori: il piano può essere rivolto anche solo ad alcuni creditori (tipicamente le banche) con cui l’imprenditore raggiunge un accordo, mentre altri creditori minori vengono comunque pagati regolarmente. Dato che non c’è omologazione, l’efficacia verso terzi dipende dagli accordi contrattuali con i singoli creditori: ciascuno di essi sottoscrive un accordo stragiudiziale (anche separato) in esecuzione del piano attestato. Ad esempio, la banca firma un accordo di ristrutturazione bilaterale in cui accetta di spostare scadenze o ridurre interessi; il fornitore chiave accetta un pagamento dilazionato al 50%. Il piano attestato, così costruito, può (ma non deve) essere pubblicato nel Registro delle Imprese su scelta del debitore. La pubblicazione non è obbligatoria per la validità, ma produce vantaggi: dà “data certa” al piano (utile per opponibilità ai terzi e per applicare esenzioni revocatorie) e attiva benefici fiscali come l’esenzione da tassazione delle sopravvenienze attive derivanti da remissione dei debiti (se il piano è pubblicato, il “taglio” dei debiti non genera reddito imponibile per l’azienda). In ogni caso, nessun tribunale interviene: non c’è procedura pendente. Questo rende il piano attestato uno strumento molto flessibile e riservato. È anche rapido: dipende solo dal tempo di negoziazione con i creditori e dalla predisposizione della relazione di attestazione (in società medio-piccole, può chiudersi in pochi mesi).

Vantaggi per la tutela del patrimonio del debitore: il piano attestato offre diversi benefici specifici: (1) come detto, protegge gli atti esecutivi da revocatorie, cosicché l’imprenditore non rischia di “pagare due volte” in caso di fallimento successivo (ciò tranquillizza anche i creditori che partecipano: sanno che i pagamenti ricevuti sono definitivi); (2) consente di ristrutturare il debito senza pubblicità negativa, evitando lo stigma di una procedura concorsuale – l’azienda può continuare a operare e i partner commerciali spesso nemmeno vengono a sapere formalmente del piano (a parte quelli coinvolti, che di solito hanno interesse a sostenere l’azienda per recuperare i loro crediti); (3) mantiene la continuità aziendale: durante e dopo il piano, l’imprenditore resta al comando e non vi è alcun commissario o curatore. Questo è cruciale se l’obiettivo è salvare l’impresa come going concern. Infatti, il piano attestato è il più adatto quando l’imprenditore vuole evitare di chiudere la società e crede in un suo rilancio, magari di dimensioni ridotte, con la collaborazione dei creditori principali. I creditori accettano sacrifici perché confidano che l’azienda sopravviva e continui a essere loro cliente (come nell’esempio Beta Srl infra). Per il patrimonio personale del socio, ciò significa preservare l’avviamento e il valore dell’azienda (evitando una liquidazione distruttiva) e ridurre l’esposizione debitoria a fronte di una rinuncia concordata di parte dei crediti. Inoltre, l’imprenditore che abbia volontariamente coinvolto il proprio patrimonio personale nel piano sotto forma di conferimenti o garanzie (ad es. far entrare liquidità propria per pagare dei creditori) lo fa in un quadro controllato: sono apporti che vanno a buon fine se il piano funziona, e servono a convincere i creditori a fare la loro parte. In un concordato, invece, i soci non sono obbligati a mettere risorse e i creditori non potrebbero pretenderlo, mentre in un piano attestato i soci possono volontariamente “mettere sul piatto” beni personali per aumentare la credibilità del risanamento (esempio: offrire in garanzia la propria casa alla banca in cambio di una moratoria sul mutuo aziendale). Questo talvolta risolve situazioni altrimenti disperate nelle PMI, dove il confine tra azienda e famiglia è labile e i creditori basano molto la fiducia sulle persone.

Limiti e rischi: d’altro canto, il piano attestato non vincola i dissenzienti. Se un 30-40% di creditori non vuole aderire e magari inizia azioni esecutive, il piano potrebbe essere frustrato. Non c’è automatic stay: per bloccare i pignoramenti servirebbe passare a una procedura protetta (accordo ex art. 182-bis con misure protettive, o concordato con domanda prenotativa). Il piano attestato si basa quindi sulla volontarietà: funziona bene se il numero di creditori è ridotto e si ottiene l’adesione dei principali (banche, fornitori maggiori). Se ci sono troppi piccoli creditori dispersi, rischia di non risolvere la pressione. Inoltre, richiede realismo: l’attestatore ha una grande responsabilità e non avallerà piani irrealizzabili – se i conti non tornano o l’impresa è già decotta, potrebbe rifiutare l’attestazione. Infine, va monitorata l’esecuzione: non essendoci un commissario, sta all’imprenditore attuare il piano fedelmente. Se fallisce e interviene un fallimento, il beneficio principale è che i creditori dovranno insinuare l’intero credito originario (meno quanto incassato nel piano, che resta definitivo) e quelle somme incassate non saranno revocate. Ma comunque l’impresa finirebbe fallita. La Cassazione recente (sent. 32996/2024) ha chiarito che, se dopo un piano attestato omologato come accordo l’azienda fallisce, l’accordo si risolve automaticamente per impossibilità sopravvenuta e i creditori riacquisiscono il diritto all’intero credito originario (detraendo solo quanto già ricevuto). Questo implica che il piano attestato è davvero utile se consente di evitare del tutto il fallimento; se non ci riesce, i creditori tornano al punto di partenza (salvo i soldi già presi). Quindi è fondamentale stimare correttamente la fattibilità: un piano troppo ottimistico può far perdere tempo prezioso e asset, per poi comunque finire in tribunale. In ogni caso, dall’esperienza pratica, un piano attestato ben congegnato può salvare molte imprese.

Esempio pratico (Beta Srl): Immaginiamo Beta Srl, catena di 5 negozi di abbigliamento, che nel 2024 entra in crisi: ha un mutuo ipotecario di €400.000 con Banca X (rate non più sostenibili), debiti verso fornitori €100.000, due negozi poco profittevoli, e possiede un immobile (magazzino) intestato ai soci. Beta Srl predispone un piano attestato così strutturato: vende 2 negozi in perdita, licenzia 4 dipendenti (con transazione buonuscita) e i soci mettono in vendita il loro immobile personale del valore di €200.000 impegnandosi a versare il ricavato in azienda per ridurre il mutuo. Banca X accetta di congelare le azioni legali e rinegoziare il mutuo residuo (dopo pagamento di €200k provenienti dalla vendita immobile) in un piano di rientro a 5 anni per i restanti €200k. I fornitori accettano uno stralcio del 50% sui €100k, da pagare a rate mensili in un anno, preferendo incassare €50k piuttosto che rischiare zero in caso di fallimento (dove la banca, con ipoteca, avrebbe preso tutto). I locatori di 2 negozi rinegoziano al ribasso i canoni per agevolare la prosecuzione. Un attestatore verifica i numeri: con queste misure Beta tornerà in utile in 12 mesi e potrà pagare le nuove rate alla banca e ai fornitori come concordato. Il piano viene firmato da Beta e dai creditori coinvolti e pubblicato al Registro imprese, così che i €50k di debito abbonato non saranno tassati come sopravvenienza attiva. Risultato: Beta Srl evita il fallimento, continua l’attività con 3 negozi redditizi, la banca ottiene gran parte del dovuto e un piano credibile per il resto, i fornitori incassano metà crediti (in fallimento avrebbero forse preso 10-15%) e mantengono un cliente per il futuro. I soci hanno sacrificato un immobile personale, ma hanno salvato l’azienda e i posti di lavoro rimanenti. Inoltre, Beta Srl ha evitato la pubblicità di un fallimento o concordato, conservando la fiducia dei clienti (nel commercio retail, se trapela che stai fallendo perdi la clientela). Pagamenti e ipoteche nell’esecuzione del piano non potranno essere revocati, quindi Banca X è serena nel ricevere €200k ora e ridurre il mutuo, i fornitori sanno che quel 50% è definitivo. In sintesi, il piano attestato ha permesso un risanamento su misura, modulato sui consensi ottenuti, senza intervento giudiziario e con protezione legale per tutti gli atti compiuti in sua esecuzione. Questo esempio mostra come, per un’azienda ancora finanziariamente risanabile, il piano attestato possa essere la via migliore per chiudere la crisi senza chiudere l’azienda. D’altro canto, se Beta non fosse riuscita a vendere l’immobile o se le vendite fossero andate male, il piano sarebbe potuto saltare – serve una base industriale risanabile sotto, altrimenti è un esercizio inutile.

Novità recenti e giurisprudenza: il CCII ha integrato la disciplina del piano attestato rispetto alla legge fallimentare, introducendo l’art. 56 e confermando l’esenzione da revocatoria (ora art. 166, co.3, lett. d) CCII). Le Linee Guida e i Principi di attestazione del CNDCEC sono stati aggiornati nel 2020 e 2022 per recepire i nuovi parametri (come la definizione di crisi e insolvenza). Sul fronte giurisprudenziale, si segnala la Cassazione n. 3018/2020 e la Cass. 9743/2022 che hanno ribadito che, in caso di successivo fallimento, il giudice deve valutare ex ante la sussistenza dei presupposti del piano per concedere l’esenzione da revocatoria. In altre parole, se un curatore contesta un pagamento effettuato sotto piano attestato, il tribunale deve verificare se effettivamente il piano era idoneo e attestato correttamente al tempo: se sì, conferma l’esenzione; se no (piano fasullo), potrebbe disconoscere la protezione. Inoltre, come menzionato, la Cass. Sez. Un. 32790/2023 ha fatto chiarezza sugli obblighi del liquidatore in pendenza di piano e sui debiti fiscali: il liquidatore di un piano attestato che poi liquida la società deve comunque rispettare art. 36 DPR 602/73 (pagare prima le imposte) e la sua responsabilità è civile, non concorsuale. Infine, un tema delicato è il coordinamento del piano attestato con le procedure concorsuali: la Cassazione n. 1182/2019 (ancora rilevante) ha affermato che un piano attestato non impedisce ai creditori di chiedere il fallimento se l’insolvenza persiste, ma in caso di fallimento il curatore non può automaticamente considerare inefficaci i pagamenti fatti in esecuzione di quel piano, a meno che ne provi il carattere fraudolento. Si è visto peraltro, come citato, che la Cass. 32996/2024 ha sancito che un accordo ex piano attestato omologato si risolve per impossibilità se poi subentra il fallimento, facendo riespandere le originarie obbligazioni al loro importo iniziale (meno quanto pagato). Ciò rafforza il concetto che il piano attestato è una soluzione fragile: va applicata con convinzione e portata a successo, perché se comunque l’impresa fallisce, il risultato per i creditori è come se il piano non ci fosse mai stato (salvo che non debbono restituire le somme incassate, ex art. 67 co.3 lett. e L.F. ora 166 CCII). In conclusione, il piano attestato rimane uno strumento d’elezione per imprese in crisi reversibile che vogliono evitare scenari concorsuali pubblici e hanno il sostegno di almeno una parte significativa dei creditori. Rappresenta un “accordo su misura” costruito sul rapporto fiduciario con i creditori principali, con il sigillo di un attestatore che garantisce serietà e trasparenza dei dati.

(Proseguiremo ora con l’analisi degli Accordi di Ristrutturazione dei debiti, della Composizione Negoziata e delle procedure concorsuali, prima di affrontare le responsabilità connesse e le FAQ.)

Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (artt. 57-63 CCII)

Cosa sono: Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono un istituto introdotto nel diritto italiano dal 2005 (art. 182-bis l.fall.) e oggi disciplinato dagli artt. 57-63 CCII. Si tratta di un accordo tra l’imprenditore e una parte qualificata dei suoi creditori, avente l’obiettivo di ristrutturare i debiti e riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa, il tutto sotto l’egida del tribunale (che omologa l’accordo). In sostanza, è una procedura concorsuale semplificata: a differenza del concordato preventivo, non coinvolge tutti i creditori necessariamente e non richiede votazioni in assemblea dei creditori; basta raggiungere un accordo con una quota minima di creditori (almeno 60% dei crediti) e ottenere l’omologazione giudiziale, dopodiché quell’accordo produce effetti vincolanti per i soli creditori aderenti (con talune eccezioni di efficacia estesa per particolari categorie). L’accordo deve essere accompagnato da un piano di ristrutturazione e dall’attestazione di un professionista sull’attuabilità dello stesso, simile come approccio a quella dei concordati. Possiamo immaginare gli accordi ex art. 57 CCII come una via di mezzo tra il piano attestato e il concordato: sono più “concorsuali” del piano attestato (c’è l’intervento del tribunale e alcune protezioni come la moratoria delle azioni esecutive), ma meno del concordato (niente voto di tutti i creditori, procedura più snella).

Varianti introdotte dal CCII: Il Codice della Crisi ha delineato tre tipi di accordi di ristrutturazione:

  1. Accordo ordinario (art. 57 CCII) – richiede almeno il 60% di consenso dei creditori (per valore dei crediti). Vincola solo i creditori aderenti; i non aderenti devono essere pagati integralmente entro 120 giorni (dall’omologa o scadenza). Durante la trattativa, se depositata la domanda, il debitore può chiedere misure protettive dal tribunale (stay delle azioni esecutive) ma non automatiche (il giudice le concede su richiesta).
  2. Accordo agevolato (art. 60 CCII) – introdotto come novità: richiede consenso inferiore, almeno il 30% dei crediti, per accedere subito alle misure protettive e poi almeno il 60% per l’omologa, con alcune agevolazioni come la possibilità di estendere gli effetti ai creditori non aderenti purché non oltre il 40% e non dissenzienti qualificati (in particolare, la legge consente di “cramdown” sui creditori finanziari o parti correlate sotto certe condizioni, art. 61 CCII). L’accordo agevolato è pensato per favorire l’emersione anticipata della crisi, infatti la soglia del 30% di adesioni iniziali è sufficiente a ottenere la protezione (blocco dei pignoramenti) in modo da condurre in porto il restante delle trattative.
  3. Accordo ad efficacia estesa (art. 61 CCII) – consente, in presenza di determinate condizioni (ad esempio adesione di almeno il 75% di tutti i creditori finanziari, o di una determinata classe omogenea di creditori, con informativa completa ai dissenzienti), di chiedere al tribunale di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori finanziari che non hanno aderito. È una sorta di cram-down settoriale su banche e obbligazionisti dissenzienti, in recepimento della Direttiva UE 2019/1023. Similmente, l’art. 63 CCII prevede la transazione fiscale e contributiva: se l’Erario o l’INPS non aderiscono all’accordo ma la proposta che gli era stata fatta è conveniente (non inferiore al realizzo in fallimento) e hanno comunque aderito i creditori di pari rango, il tribunale può omologare l’accordo cramdown anche senza il voto del Fisco (purché sia stato trattato non peggio degli altri chirografari). Questa è una novità importante del 2022-2023: supera il vecchio veto del Fisco nelle ristrutturazioni, imponendo la falcidia fiscale se è equa e lo Stato irragionevolmente si oppone. La disciplina è stata consolidata dalla L. 176/2020 e confermata nel CCII con alcuni aggiustamenti (tra cui le norme transitorie del 2023 citate per il cram down fiscale).

Procedura e caratteristiche: per stipulare un accordo di ristrutturazione, l’imprenditore solitamente tratta con i principali creditori (spesso banche, obbligazionisti, fornitori grandi) ottenendo l’adesione scritta di almeno il 60%. Occorre redigere un piano che illustri le modalità e i tempi di ristrutturazione del debito (analogo al piano di un concordato, ma con portata magari limitata ai creditori aderenti) e farlo attestare da un professionista indipendente circa la veridicità dei dati e l’attuabilità. Una volta raccolte le adesioni necessarie, il debitore deposita in tribunale la domanda di omologazione, allegando il piano, le adesioni, l’attestazione e le altre documentazioni di rito (elenco creditori, bilanci, etc.). Da notare che il 60% è calcolato sui crediti totali dell’impresa (esclusi subordinati e parti correlate, che non contano nel quorum). Il tribunale può subito concedere, se richieste, misure protettive: tipicamente un decreto che sospende per max 120 giorni le azioni esecutive e cautelari dei creditori su beni dell’impresa. Questo protegge il patrimonio aziendale mentre si finalizza l’accordo. Entro termini perentori (in genere 30 giorni dall’istanza), viene fissata l’udienza per eventuali opposizioni dei creditori non aderenti (che potrebbero lamentare pregiudizio). Se tutto è regolare e non c’è pregiudizio per i creditori estranei, il tribunale omologa l’accordo. Da quel momento l’accordo produce effetti obbligatori per chi ha aderito e – se ricorrono i presupposti – per i creditori coinvolti dall’eventuale efficacia estesa (ad esempio, in caso di estensione ai non aderenti finanziari, questi ultimi saranno trattati come se avessero aderito e riceveranno quanto previsto per la loro classe). I creditori estranei (non aderenti e non soggetti a estensione) invece restano fuori: il che significa che possono agire separatamente per il loro credito, ma l’art. 57 prevede che vadano pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologa (se già scaduti) o entro 120 giorni dalla scadenza naturale se successiva. Questa clausola tutela i creditori estranei, imponendo al debitore un pagamento veloce verso di loro. In pratica, se l’imprenditore non è in grado di garantire questo, non può utilizzare l’accordo di ristrutturazione (dovrebbe scegliere un concordato che vincola anche i dissenzienti). Quindi l’accordo funziona se i non aderenti sono pochi o di importo poco rilevante, oppure se alcuni creditori rimasti estranei di fatto tollerano di aspettare (sapendo che comunque l’accordo in essere proteggerà l’impresa dal fallimento e darà loro più chance di venire pagati). È un equilibrio delicato.

Vantaggi dal lato del debitore: l’accordo di ristrutturazione è meno invasivo di un concordato. Non c’è spossessamento: l’imprenditore mantiene pieni poteri di gestione durante la procedura (salvo eventuali atti straordinari non protetti che potrebbero far decadere le misure protettive). Non viene nominato un commissario giudiziale permanente (solo, il tribunale può eventualmente nominare un ausiliario o delegare un notaio per raccogliere adesioni, ma di rado). Questo significa continuità aziendale senza la percezione esterna di un’amministrazione controllata. L’azienda può dare un segnale di tenuta maggiore rispetto a un concordato, perché formalmente non è “in concordato” ma ha solo depositato un accordo con alcuni creditori. C’è poi la rapidità: spesso un accordo di ristrutturazione si omologa in pochi mesi, a differenza di un concordato che richiede prima l’ammissione, poi il voto, poi l’omologa (diversi mesi se non più di un anno). Con l’accordo, non essendoci il voto dei creditori, le fasi si riducono. Inoltre c’è maggiore riservatezza: benché la domanda sia pubblica, la stampa e gli stakeholder di solito prestano meno attenzione a un “accordo di ristrutturazione” rispetto a un “concordato preventivo” (che viene percepito come pre-fallimentare). Dal punto di vista patrimoniale, l’accordo consente di ottenere comunque benefici come la sospensione dei pignoramenti (appena ottenute le misure protettive, l’azienda è al riparo temporaneamente). Consente di falcidiare i debiti chirografari con il consenso dei creditori (es. un accordo può prevedere che i creditori aderenti vengano pagati al 60% in 5 anni, rinunciando al 40%: quella rinuncia è definitiva con l’omologa, e non genera tassazione di sopravvenienza attiva se l’accordo è omologato, grazie alla transazione fiscale se pubblicato). Inoltre, come il piano attestato, anche l’accordo gode di esenzione da revocatoria per gli atti, i pagamenti e le garanzie concessi in esecuzione dell’accordo omologato (art. 166, co.3, lett. e CCII). Quindi, se poi per qualche ragione l’impresa fallisse, tutti i pagamenti fatti secondo l’accordo non sarebbero revocabili (purché effettuati dopo la pubblicazione al Registro Imprese dell’accordo, che è condizione per l’esenzione). Un altro vantaggio: se l’imprenditore adempie regolarmente all’accordo e termina i pagamenti come da piano, esce dalla crisi senza passare dal fallimento e la società continua la sua esistenza normale, coi debiti ridotti.

Differenze rispetto al concordato: l’accordo di ristrutturazione è più selettivo. Non serve convincere tutti i creditori, solo una maggioranza qualificata. Ciò permette di tagliare fuori eventuali soggetti problematici (es. un piccolo creditore rancoroso che vuole fare ostruzionismo non può bloccare l’accordo se si raggiunge il 60% con altri). Nel concordato invece ogni classe ha potere di veto (fino a cramdown eventuale, ma comunque con maggioranze). D’altra parte, l’accordo non può alterare i diritti dei non aderenti: se c’è un creditore rilevante che non ci sta, l’azienda deve pagarlo integrale o rinunciare all’accordo. Nel concordato invece lo si può cramdownare ugualmente (i dissenzienti vengono obbligati all’esito se il concordato è approvato). Quindi la platea di applicazione dell’accordo è quando c’è un buon livello di consenso spontaneo tra i creditori – scenario tipico con banche: se varie banche vogliono evitare di far fallire la società perché conviene ristrutturare, allora l’accordo ha senso. Per molti versi, l’accordo ex art. 57 somiglia a un concordato pre-confezionato con soli creditori finanziari: si ottiene velocemente e con costi ridotti (meno spese legali e procedurali di un concordato).

Novità legislative 2022-2025: come accennato, grandi novità sono l’accordo agevolato al 30% (per incoraggiare utilizzo precoce) e il cram down fiscale/contributivo (art. 63 CCII, L. 176/2020). Inoltre, la normativa emergenziale Covid aveva introdotto la possibilità di ottenere misure protettive già con il 30% di adesioni (anticipando il concetto di accordo agevolato), e ciò è stato stabilizzato nel CCII. La L. 103/2023 ha previsto una disciplina transitoria per il cram down erariale: in pratica, se l’Agenzia delle Entrate o l’INPS non rispondono entro 90 giorni alla proposta di transazione, il silenzio vale come diniego, ma il debitore può ugualmente chiedere al giudice di omologare l’accordo se ritiene soddisfatta la convenienza (norma volta a far chiarezza su tempi e modi, dopo alcune prassi oscillanti).

Giurisprudenza recente: Un arresto fondamentale è stato Cass. Sez. Unite 4696/2022, che ha composto un contrasto in tema di inadempimento degli accordi. Le Sezioni Unite hanno chiarito che non esiste una procedura giudiziaria di “risoluzione” degli accordi di ristrutturazione per inadempimento, a differenza del concordato (dove la legge prevede la risoluzione su istanza creditori se il debitore non esegue). Quindi, se l’imprenditore non adempie l’accordo e i creditori non si fidano più, la strada è chiedere il fallimento, non “risolvere” in tribunale l’accordo (che si considera risolto di diritto per inadempimento grave). Questo ha implicazioni: i creditori non aderenti possono comunque agire se vedono che l’accordo sta fallendo, senza dover aspettare tempi tecnici di una risoluzione formale. Altro punto, come visto, Cass. 32996/2024 ha sancito il principio di diritto secondo cui, se dopo l’omologa dell’accordo l’impresa viene comunque dichiarata fallita, l’accordo si scioglie e i creditori riacquisiscono il diritto all’intero credito iniziale (meno quanto incassato) per l’ammissione al passivo. In pratica si applica l’art. 1463 c.c. (impossibilità sopravvenuta) alla causa di risanamento mancata, con “riespansione dell’originaria obbligazione”. Questo è importante per il patrimonio del debitore: i pagamenti fatti restano efficaci (non revocabili) ma i debiti tagliati con l’accordo resuscitano nel fallimento successivo. Ciò evidenzia che l’accordo di ristrutturazione è un ponte: se si spezza (cioè se l’impresa fallisce lo stesso), i creditori tornano con pieni diritti (salvo quei soldi già incassati). Quindi il debitore deve stare molto attento ad utilizzarlo solo se convinto di poterlo onorare, altrimenti il fallimento successivo lo travolgerà comunque. Un’altra pronuncia, Cass. 338/2022, ha affrontato la posizione dei creditori estranei nelle more tra la domanda e l’omologa: ha confermato che, ottenute le misure protettive, i creditori estranei non possono iniziare/eseguire pignoramenti anche se non sono parti dell’accordo, perché le misure protettive si estendono erga omnes (questo conferma l’utilità delle misure protettive per proteggere il patrimonio durante la negoziazione). Inoltre, Trib. Milano ord. 16 luglio 2025 ha concesso la proroga delle misure protettive in composizione negoziata che sfociava in accordo, affermando che occorre dimostrare progressi significativi nelle trattative per prorogare lo stay (analogamente, per l’accordo serve evidenza che il 30% iniziale di adesioni sia destinato a salire entro breve). Infine, Cass. 11191/2021 (ancora in vigenza l.fall.) aveva stabilito che il controllo del tribunale in sede di omologa dell’accordo è limitato alla legalità e fattibilità, non entra nel merito economico (diversamente dal concordato dove c’è anche controllo di convenienza). Ciò significa che l’imprenditore ha un po’ più di libertà contrattuale: se i creditori forti accettano certe condizioni, il giudice non sindaca la convenienza per i creditori estranei (purché li paghino al 100%).

In conclusione, gli accordi di ristrutturazione rappresentano uno strumento flessibile e potente per chiudere la crisi di un’azienda evitando il fallimento, purché si riesca a coinvolgere un nocciolo duro di creditori. Dal punto di vista del debitore, permettono di ridurre l’indebitamento complessivo in modo concordato e di preservare l’attività aziendale, senza subire la totale spossessione tipica del fallimento o i tempi lunghi del concordato. È un approccio negoziale assistito dal giudice: possiamo definirlo come un “concordato light”. Per proteggere il patrimonio personale, è utile perché: (a) se funziona, la società esce dalla crisi pagando meno di quanto dovuto originariamente, con i creditori che rinunciano a quote di credito (riduzione debitoria, nessun riflesso sui soci in genere); (b) se anche non funziona, i contributi dei soci e i pagamenti fatti rimangono comunque non revocabili e almeno si è tentato di evitare guai peggiori (e il tentativo tempestivo viene apprezzato come collaborazione in caso di fallimento, utile per eventuale esdebitazione dell’imprenditore in 3 anni). In ogni caso, l’accordo consente all’imprenditore di guadagnare tempo prezioso (blocco delle azioni esecutive) e di gestire proattivamente la crisi, invece di subirla passivamente.

La Composizione Negoziata per la soluzione della crisi (artt. 12-25 CCII)

Cos’è: La composizione negoziata è uno strumento di allerta e risanamento introdotto di recente (D.L. 118/2021, conv. in L. 147/2021) e ora inserito stabilmente nel Codice della Crisi (Titolo II, Capo II). Si tratta di un percorso volontario e riservato attraverso cui l’imprenditore in condizioni di squilibrio (crisi o insolvenza potenziale) può richiedere la nomina di un esperto indipendente che lo assista nel tentativo di raggiungere una soluzione negoziata con i creditori, fuori dalle procedure concorsuali formali. La composizione negoziata non è di per sé una procedura concorsuale: è un tavolo di trattative protetto, che può sfociare in vari esiti (accordi stragiudiziali, concordato semplificato, accordi di ristrutturazione) ma che nasce come percorso informale. Il suo scopo è evitare la crisi irreversibile e preservare la continuità aziendale ove possibile. La caratteristica innovativa è la presenza di un esperto terzo (spesso un commercialista iscritto in apposito elenco) che media tra l’imprenditore e i creditori, aiutando a individuare soluzioni ragionevoli. Durante la composizione negoziata, l’imprenditore rimane alla guida dell’azienda e non perde poteri (non c’è commissario), però può chiedere al tribunale alcune tutele mirate: ad esempio, la sospensione temporanea delle azioni esecutive dei creditori (“misure protettive”) e persino autorizzazioni per ottenere nuovi finanziamenti prededucibili. È un percorso confidenziale: la domanda si presenta tramite una piattaforma telematica nazionale gestita dalle Camere di Commercio, e non viene resa pubblica a meno che l’imprenditore non chieda le misure protettive (in tal caso c’è pubblicazione dell’istanza nel Registro delle Imprese). In sintesi, la composizione negoziata funge da “corsia di emergenza” per aiutare l’imprenditore a ristrutturare il debito prima di arrivare al fallimento, con l’assistenza di un esperto e alcuni incentivi (come esenzioni fiscali e protezioni legali).

Presupposti e accesso: Può accedere alla composizione negoziata qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo (anche piccolo, non fallibile), purché si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza, ma con prospettive di risanamento. Non occorre essere già insolventi; anzi è consigliato attivarla ai primi segnali di difficoltà. La domanda si presenta tramite l’apposita piattaforma online (www.composizionenegoziata.camcom.it):contentReference[oaicite:235]{index=235}, allegando una serie di documenti obbligatori (ultimi bilanci, situazione aggiornata, elenco debiti e crediti, certificati dei debiti fiscali e contributivi, un piano economico provvisorio, etc.). È previsto anche un test di autodiagnosi e una checklist predisposta dal Ministero (Decreto dirigenziale 28/09/2021 e aggiornamento marzo 2023) che l’imprenditore deve compilare per valutare la fattibilità del risanamento e dimostrare di aver esaminato tutti gli aspetti. Se i dati mostrano che un risanamento è plausibile, la piattaforma nomina entro 5 giorni un esperto indipendente selezionato da una commissione regionale. Da quel momento inizia la fase di negoziazione, che dura inizialmente 180 giorni (prorogabili fino a 12 mesi in totale). L’esperto convoca l’imprenditore e ascolta la sua proposta di ristrutturazione, quindi convoca i creditori principali per avviare trattative. Tutto avviene in modo riservato: né il pubblico né altri creditori ne sono informati (salvo, come detto, se si chiedono misure protettive, in tal caso l’istanza viene pubblicata e i creditori ne vengono a conoscenza per presentare eventuali opposizioni in tribunale).

Ruolo dell’esperto e svolgimento: L’esperto è una figura chiave: deve agevolare le trattative senza però poteri decisori vincolanti. Funziona un po’ come un mediatore con competenze aziendali. Ascolta le parti, suggerisce possibili soluzioni e verifica lo stato dell’impresa. Può richiedere all’imprenditore informazioni aggiuntive e ha accesso ad alcuni dati pubblici (es. centrale rischi). Egli redige rapporti periodici per la Commissione (se richiesto) e soprattutto un rapporto finale al termine dei lavori. L’imprenditore, durante la composizione negoziata, mantiene la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa, però ha il dovere di informare e consultare l’esperto prima di compiere atti di straordinaria amministrazione non coerenti col risanamento. In particolare, se l’imprenditore intende compiere atti che possano pregiudicare i creditori (es. alienare beni strategici, gravare immobili di ipoteca su nuovi finanziamenti, etc.), dovrebbe astenersene o concordarli: se li fa contro il parere motivato dell’esperto, rischia di perdere i benefici (le misure protettive possono essere revocate e quegli atti potrebbero non essere coperti da esenzioni revocatorie). Tuttavia, non c’è un divieto assoluto: semplicemente c’è un forte incentivo a seguire le indicazioni dell’esperto. Il tribunale può autorizzare su richiesta atti straordinari importanti, come contrarre nuovi finanziamenti prededucibili o cedere azienda, sentito l’esperto. Ci sono state pronunce (Trib. Roma 2022) che hanno autorizzato finanziamenti bancari per liquidità durante la negoziazione, garantendo la prededuzione in caso di fallimento successivo, proprio per favorire l’afflusso di risorse utili al risanamento. Il vantaggio per il finanziatore è che la legge garantisce la prededucibilità dei crediti finanziari erogati con autorizzazione del giudice durante la composizione negoziata (quindi saranno pagati prima di altri in caso di concorsuale futura). Questo serve a incoraggiare banche e soci a finanziare l’azienda nel frattempo, altrimenti sarebbero restii per timore di finire in coda in fallimento.

Misure protettive: Come accennato, l’imprenditore può chiedere al tribunale di disporre misure protettive per un periodo iniziale (fino a 4 mesi, prorogabili al massimo a 12 in parallelo alla procedura). Le misure protettive principali consistono nel blocco o sospensione delle azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori (compresi Fisco e INPS). Ciò significa che, una volta pubblicata l’istanza di misure e ottenuto il decreto di conferma, nessun creditore potrà pignorare i beni dell’impresa né iscrivere ipoteche giudiziali, ecc., per la durata stabilita. Questo “respiro” è essenziale per evitare che, mentre si cerca un accordo, un singolo creditore faccia saltare il banco con un pignoramento o un’istanza di fallimento. Le misure protettive possono coprire tutti i creditori o solo alcuni; per esempio si può chiedere che siano sospesi i pignoramenti di banche e fornitori, ma magari continuare a pagare regolarmente i fornitori strategici correnti. Con la conferma delle misure protettive, i termini di legge per dichiarare fallimento rimangono sospesi (quindi i creditori non possono far dichiarare insolvenza nel mentre). Tali misure non sono automatiche: vanno richieste con ricorso al tribunale entro il giorno successivo al deposito dell’istanza di composizione. Il tribunale valuta sommariamente che la richiesta non sia pretestuosa (non manifestamente infondata e che la tutela dell’impresa giustifichi il sacrificio dei creditori per il periodo). Se tutto ok, emette un decreto di concessione. Prima di confermarle, sente il parere dell’esperto nominato su come stanno andando le trattative. Le misure protettive sono rinnovabili per altri 4 mesi circa, ma solo se l’esperto attesta che le trattative stanno facendo progressi sostanziali verso un accordo. Ad esempio, il Tribunale di Avellino (decr. 7/12/2022) ha chiarito che per prorogare lo stay occorre che già vi sia almeno una bozza di accordo in stesura o offerte concrete in corso. Questo per evitare che l’imprenditore usi la composizione solo per prendere tempo senza prospettive (abuso).

Esiti possibili: La composizione negoziata è un contenitore, non un fine. Può concludersi con diversi esiti, a seconda di ciò che si riesce a ottenere:

  • Accordo stragiudiziale semplice: se l’imprenditore e tutti (o la gran parte) dei creditori trovano un’intesa, possono stipulare un accordo privato di ristrutturazione (che può essere anche un piano attestato o semplici transazioni bilaterali). In tal caso, la composizione si chiude con un nulla di fatto formale: l’esperto ne prende atto, scrive che c’è stato accordo e tutti soddisfatti, e l’azienda esce senza dover omologare nulla. Questo scenario è ideale se c’è piena cooperazione: ad esempio, l’imprenditore convince i creditori uno per uno a ridurre i debiti del 30% e a prendere il resto a rate; l’esperto attesta che è fattibile e la società procede. L’esperto sottoscrive l’accordo come testimone qualificato (secondo art. 23 co.1 lett. c CCII), in modo che quell’accordo depositato abbia dei vantaggi legali (es. esenzione revocatoria per i pagamenti eseguiti in base ad esso).
  • Accordo di ristrutturazione agevolato (60%) o piano attestato pubblicato: se le trattative portano a un accordo con (diciamo) il 60% dei creditori, l’imprenditore può decidere di omologarlo in tribunale per dargli forza maggiore. La legge incentiva questo: infatti se l’accordo è raggiunto grazie alla composizione negoziata, la soglia di consenso richiesta è ridotta rispetto al solito (dal 60% al 50%!). Quindi, un imprenditore che in composizione raccoglie anche solo il 50% dei crediti consenzienti, può presentare quell’accordo come accordo ex art. 57 CCII e il tribunale può omologarlo comunque. Questo è un bonus procedurale introdotto dal correttivo 2022. Alternativamente, se non c’è 50%, potrebbe comunque pubblicare un piano attestato derivante dalla negoziazione, per godere delle esenzioni fiscali.
  • Concordato preventivo “ordinario”: se le trattative suggeriscono che è necessaria una soluzione concorsuale (magari perché non tutti i creditori aderiscono volontariamente), l’impresa può presentare domanda di concordato durante o subito dopo la composizione. Il CCII permette di trasformare la composizione in concordato preventivo in continuità o liquidatorio, a seconda dei casi (es. se emergono investitori interessati rilevare l’azienda, potrebbe convenire un concordato con continuità indiretta). L’esperto rimette una relazione finale che può valere come relazione ex art. 161 l.f. per facilitare l’accesso al concordato.
  • Concordato “semplificato” per la liquidazione: Questa è la grande novità collegata alla comp. negoziata. Se le trattative falliscono e l’imprenditore non è riuscito a risanare, può però evitare il fallimento accedendo a un concordato semplificato di liquidazione (artt. 25-sexies e septies CCII). Questo concordato speciale, come visto, non prevede voto dei creditori ed è riservato a chi ha prima tentato la composizione negoziata. Va proposto entro 60 giorni dalla comunicazione di chiusura delle trattative. Il tribunale valuta la proposta e, se la giudica migliorativa rispetto al fallimento, la omologa nonostante l’eventuale opposizione dei creditori. In pratica è un paracadute: l’imprenditore può proporre di liquidare tutti i beni e distribuire il ricavato secondo le priorità di legge, senza bisogno di voto dei creditori. È una scorciatoia per evitare il fallimento, introdotta proprio per dare un incentivo all’imprenditore ad attivare la composizione (sapendo che, male che vada, potrà chiudere la società con un concordato rapido invece di subire un fallimento). Da notare che inizialmente la norma richiedeva che l’esperto attestasse nella relazione finale la condotta corretta e buona fede del debitore durante la negoziazione, come condizione per accedere al concordato semplificato. Alcune pronunce hanno interpretato flessibilmente questo requisito: ad esempio, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (decr. 11/10/2024) ha omologato un concordato semplificato anche se l’esperto non aveva formalmente attestato la buona fede (perché le trattative si erano interrotte bruscamente), ritenendo che non fosse colpa del debitore e che negare l’accesso sarebbe stato eccessivamente punitivo. In più, lo stesso tribunale ha ammesso che il debitore presentasse modifiche alla proposta di concordato semplificato durante il procedimento, pur mancando una norma che lo preveda espressamente, applicando analogicamente i principi generali (flessibilità a favore del risanamento). Ciò mostra come la giurisprudenza sia piuttosto benevola verso il concordato semplificato, volendone favorire l’utilizzo. Per il debitore, questo significa avere un piano B: se i creditori non collaborano, invece di essere travolto, può comunque chiudere l’impresa con una liquidazione sotto controllo e ottenere la “dignità concorsuale” di una procedura evitandosi magari infiniti contenziosi.
  • Liquidazione controllata (ex sovraindebitamento): se l’imprenditore è un soggetto non fallibile (ad es. piccola impresa sotto soglie), la composizione negoziata può concludersi anche con l’accesso alle procedure di sovraindebitamento (oggi denominate “concordato minore” o “liquidazione controllata del debitore”). Di fatto, per le SRL sopra soglia c’è il fallimento/liq.giudiziale; per quelle sotto soglia, se insolventi, c’è la liquidazione controllata (simile al fallimento ma più semplificata, in tribunale). La composizione negoziata unitaria può essere presentata anche da gruppi di imprese (più società legate tra loro) con un unico esperto, cosa utile in contesti di crisi di gruppo.

Vantaggi per il debitore: la composizione negoziata è innanzitutto un modo per dimostrare diligenza e guadagnare tempo senza peggiorare la situazione. Come già detto, attivarla tempestivamente tutela l’amministratore da accuse di inerzia e aggravamento del dissesto. Inoltre, grazie alle misure protettive, l’impresa ottiene un periodo di tregua dai creditori, evitando pignoramenti e fallimenti mentre cerca soluzioni. Ciò aiuta a proteggere il patrimonio aziendale e indirettamente anche quello personale: si pensi ai soci garanti – se l’azienda evita di precipitare in fallimento e magari rinegozia un debito bancario, il socio con fideiussione potrebbe evitare l’escussione perché la banca preferisce attendere l’esito del piano (anche se tecnicamente le misure protettive non coprono i garanti, spesso di fatto la banca sospende ogni azione in quel contesto negoziale). Un altro vantaggio è l’informalità: fino a che non si va in tribunale, non c’è pubblicità della crisi, quindi la reputazione dell’impresa può essere preservata. Ciò riduce l’erosione di valore (clienti e fornitori potrebbero non accorgersi di nulla se la cosa si risolve in pochi mesi). La composizione mette a disposizione competenze qualificate a basso costo: l’esperto è pagato in parte con un fondo statale e in parte dall’imprenditore a tariffe calmierate, e porta know-how in tema di risanamenti. Molte PMI non avrebbero accesso da sole a consulenze così strutturate. In più la legge prevede incentivi fiscali: ad esempio, esonero dal pagamento di alcuni oneri contributivi se c’è continuità occupazionale, esenzioni da imposta di registro su atti necessari al risanamento, e la novità del 2024 (D.Lgs. 136/2024 terzo correttivo) che consente di applicare la transazione fiscale anche in composizione negoziata (prima non si potevano formalmente ridurre i debiti fiscali in questa sede, ora pare di sì in seguito alle modifiche). Anche l’Agenzia Entrate con interpelli 178 e 179/2025 ha chiarito alcuni aspetti fiscali: ad esempio, se la composizione porta a una cessione d’azienda, le “misure premiali” fiscali (come esenzione da alcune tasse) non si applicano al cessionario ma solo al debitore originale. Ciò per dire che la materia è in evoluzione, ma c’è attenzione a favorire i debitori cooperativi.

In sintesi, dal punto di vista del patrimonio del debitore, la composizione negoziata offre una chance di salvataggio senza immediato sacrificio totale: se l’azienda è salvabile, l’imprenditore può conservarla (e quindi preservare la fonte di reddito e il valore accumulato), e se non è salvabile, può comunque guidare la sua uscita di scena con il concordato semplificato, evitando gestioni forzose esterne. Anche per i soci non coinvolti nella gestione, la comp. negoziata è vantaggiosa: se riesce, mantengono la proprietà dell’azienda risanata; se fallisce ma si va in concordato semplificato, i soci potranno chiudere la società in tempi rapidi e con meno strascichi rispetto a un fallimento (niente curatore che indaga per anni, niente azioni revocatorie oltre quelle interne al concordato, ecc.). E ricordiamo: attivarsi tramite comp. negoziata è considerato comportamento virtuoso, quindi eventuali successive istanze di fallimento trovano un imprenditore collaborativo (utile se poi chiederà l’esdebitazione).

Limiti e attenzioni: La comp. negoziata non è la panacea universale. Funziona se c’è ancora margine di risanamento – se l’azienda è già decotta, spesso le trattative non producono nulla (i creditori preferiscono farla fallire). Inoltre, è uno strumento volontario: i creditori non sono obbligati a fare concessioni solo perché c’è un esperto. Se uno o più creditori assumono una posizione ostile (es. un fondo creditore che vuole l’escussione immediata), la comp. negoziata può arenarsi. Non a caso, la legge ha predisposto il “piano B” del concordato semplificato. C’è poi un rischio: benché riservata, quando l’imprenditore chiede le misure protettive, la notizia diventa pubblica tramite Registro Imprese. Ciò può generare allarme in fornitori e banche non coinvolte, causando magari restrizioni di fidi. Quindi spesso si cerca di evitare di chiedere lo stay se non strettamente necessario. Da ottobre 2023, è previsto un “allerta esterna” per debiti erariali o INPS rilevanti: oltre certe soglie, l’Agenzia Entrate può segnalare all’impresa di attivarsi (anche con comp. negoziata) entro 90 giorni, pena la comunicazione al tribunale. Ciò mette pressione a utilizzare lo strumento.

Giurisprudenza e casi: essendo recente, le pronunce principali riguardano temi procedurali: ad es. Trib. Milano 22/04/2022 ha specificato che l’esperto non può farsi promotore di istanza di fallimento se le trattative falliscono (il suo ruolo finisce col report finale). Trib. Venezia 15/09/2022 ha revocato misure protettive quando è emerso che l’imprenditore distraeva beni durante la negoziazione (mancanza di buona fede), pericolosamente intaccando il patrimonio su cui i creditori confidavano. Trib. Palermo 21/04/2023 ha omologato uno dei primi concordati semplificati, sottolineando l’assenza di voto come conforme alla direttiva UE. Sul fronte pratico, secondo dati Unioncamere 2023 molte imprese piccole hanno utilizzato la comp. negoziata: in vari casi si è giunti ad accordi stragiudiziali di successo, in altri casi è servita a traghettare l’impresa verso un concordato “classico” ben preparato. Ad esempio, il caso Amodeo Spa (2022) ha mostrato che con la comp. negoziata l’azienda è riuscita a ottenere una nuova finanza ponte che le ha permesso poi di presentare un concordato con continuità, salvando posti di lavoro.

In conclusione, la composizione negoziata è oggi il principale strumento di gestione precoce della crisi in Italia, fortemente voluto dal legislatore per evitare default disordinati. Per l’imprenditore, rappresenta un tentativo strutturato di salvare la propria azienda e, con essa, tutelare il proprio patrimonio (perché spesso il patrimonio di un imprenditore è legato alla sorte della sua impresa). Come recita la presentazione sul portale dedicato, “ti permette di affrontare le difficoltà economiche con il supporto di un esperto, senza subire automaticamente la liquidazione giudiziale”. Va vista non come un segnale di resa, ma come un atto di responsabilità e lucidità nella crisi: proprio quell’approccio che distingue chi governa la crisi da chi la subisce.

Il Concordato Preventivo (artt. 84-120 CCII)

Pur non essendo richiesto esplicitamente dalla domanda, non si può chiudere la panoramica degli strumenti senza menzionare brevemente il concordato preventivo, ossia la procedura concorsuale classica che da decenni costituisce l’alternativa al fallimento per le imprese insolventi. Il concordato preventivo viene attivato dal debitore con ricorso al tribunale prima (o in luogo) della dichiarazione di fallimento, proponendo ai creditori un piano per soddisfarli, parzialmente o in forma dilazionata, in cambio dell’esdebitazione finale. Con la riforma del CCII, il concordato è ora focalizzato su due tipologie: concordato in continuità aziendale (diretta o indiretta, art. 84 co.2 CCII), quando l’impresa prosegue l’attività (in mano al debitore o tramite cessione/affitto a terzi), e concordato liquidatorio (art. 84 co.3) quando invece si prevede solo la liquidazione dei beni, ammissibile però solo se garantisce un apporto di risorse esterne almeno del 10% a beneficio dei creditori chirografari. In parole semplici, oggi un concordato “liquidatorio puro” è scoraggiato (preferiscono farti fallire, a meno che i soci o terzi non mettano un 10% in più sul piatto per i creditori chirografari).

Meccanismo: Il concordato è molto articolato: il debitore deposita un piano con stati di fattibilità e classi di creditori (facoltative se opportuno), il tribunale ammette la procedura se verifica requisiti minimi (non utilità inferiore al fallimento, documentazione regolare, ecc.), nomina un commissario giudiziale e convoca i creditori a votare. I creditori votano per classi (o in assieme se non classati); serve la maggioranza del 50% dei crediti ammessi al voto per ciascuna classe (o dei presenti se il quorum raggiunge 50% del totale) per l’approvazione. Dopodiché il tribunale omologa, salvo opposizioni di eventuali dissenzienti che lamentino trattamento iniquo. È più lento e complesso degli accordi: prevede di solito dai 6 ai 12 mesi per arrivare a omologa. Tuttavia, il concordato ha il pregio di poter vincolare anche i creditori non consenzienti (tranne che sui crediti impignorabili, fiscali se non accettano certe falcidie salvo cram down, ecc.). Quindi se la maggioranza approva, l’azienda esce con i debiti ridotti secondo il piano. Durante il concordato, la società opera in “regime protetto”: dal deposito domanda la legge impone il blocco delle azioni esecutive, nonché la non applicazione di interessi per i chirografari, ecc. (simile alle misure protettive ma qui automatiche). Inoltre le operazioni straordinarie sono soggette ad autorizzazione del tribunale. Il debitore rimane in possesso (non c’è curatore, salvo casi di concordato con cessione di beni dove si nomina un liquidatore), però soggiace alla vigilanza di un commissario. È dunque una situazione di semi-controllo. L’obiettivo è portare a termine il piano: se il debitore non lo esegue, su istanza dei creditori il concordato viene dichiarato risolto e può seguirne il fallimento.

Vantaggi: Il concordato, specie in continuità, può permettere di ristrutturare l’azienda mantenendola in vita e tagliando debito in eccesso, con la benedizione del tribunale (quindi con efficacia erga omnes). Dal punto di vista del patrimonio personale dell’imprenditore, il concordato ha un effetto importante: cancella definitivamente i debiti eccedenti la percentuale pagata. Quando il concordato viene omologato e poi eseguito, i creditori non possono più pretendere nulla oltre quanto ricevuto. La società esce “pulita” dal punto di vista debitorio (quel che rimane insoddisfatto è legalmente estinto). Se poi la società prosegue, i soci mantengono l’azienda alleggerita di debiti; se è liquidatorio, la società si estingue. In entrambi i casi, finisce l’incubo dei creditori: nessuno potrà cercare i soci (che, ricordiamo, non erano comunque responsabili oltre i conferimenti, a meno di garanzie personali). Anche eventuali fideiussioni dei soci possono beneficiarne? Attenzione: di regola, l’omologa di un concordato non libera i coobbligati e i garanti (art. 123 CCII): quindi il socio garante di un debito bancario rimane obbligato per l’intero, salvo che la banca abbia rinunciato esplicitamente o che in sede di concordato chieda la liberazione del garante in cambio di utilità (cosa rara). Quindi se l’obiettivo è tutelare il socio garante, il concordato non offre esdebitazione per lui (a differenza della liquidazione controllata del sovraindebitato che invece scarica anche i coobbligati limitatamente alle somme non soddisfatte). Comunque, il concordato spesso prevede che i garanti (soci) mettano risorse per convincere i creditori: è prassi che le banche votino a favore se i soci apportano nuova finanza al piano – in questo senso i soci utilizzano volontariamente il proprio patrimonio per migliorare la proposta (e in cambio magari ottengono che la banca li liberi dalla garanzia: scambi negoziali possibili). In un piano attestato invece i soci potevano farlo in maniera flessibile come abbiamo visto (es. mettere casa in vendita). Nel concordato il contributo dei soci può essere in forma di finanziamento in prededuzione o di esecuzione di garanzie già date. Da notare, inoltre, che la nuova finanza nel concordato (es. un prestito ponte con ipoteca per portare l’azienda a fine procedura) è ammessa e gode di prededuzione se autorizzata dal tribunale.

Svantaggi: Per l’imprenditore, il concordato è comunque una procedura concorsuale: la società viene etichettata come “in concordato”, con riflessi reputazionali. Spesso comporta la perdita del controllo effettivo (nel caso liquidatorio, di sicuro; nel caso in continuità, in misura minore ma c’è comunque supervisione). È costoso in termini di spese legali, del commissario, eventuali periti nominati dal tribunale, ecc. Può durare anni se il piano è complesso (anche se la riforma spinge per chiusure più veloci, 3-5 anni). Dal punto di vista strettamente del patrimonio personale, l’imprenditore potrebbe rimetterci eventuali fideiussioni escusse nel frattempo (infatti i creditori muniti di garanzie personali spesso in concordato agiscono contro i garanti prima che scatti l’omologa, proprio perché sanno che poi i loro crediti verso la società saranno falcidiati). Va detto però che se il concordato arriva a buon fine, di solito i creditori bancari rinunciano a perseguire il garante per la parte tagliata (per decenza e perché hanno approvato un accordo complessivo). Non c’è obbligo, però – anzi, la legge permette al creditore di incassare parte dal debitore in concordato e poi chiedere la differenza al garante (questo può succedere, scenario spiacevole per i soci). Un concordato tuttavia scongiura l’azione revocatoria verso i soci: se prima del concordato i soci avevano ricevuto rimborsi di finanziamenti o utili, il curatore fallimentare li avrebbe potuti chiamare in revocatoria o in responsabilità; col concordato, la procedura rimane volontaria e di solito non si attivano quelle cause (salvo casi di concordato poi risolto/annullato per frode).

Novità CCII 2022: Il codice ha introdotto il già citato concordato semplificato post-composizione e concordato minore per sovraindebitati (non trattato qui perché riguarda imprenditori sotto soglia). Ha inoltre definito meglio la continuità indiretta (vendita d’azienda entro 1 anno dall’omologa pur di mantenere attività). La Direttiva Insolvenza 2019 ha spinto verso soluzioni in continuità, per cui il concordato in continuità è valorizzato rispetto a prima (niente soglia di soddisfazione minima per chirografari, diversamente dal liquidatorio che ha il 10%).

Responsabilità degli amministratori: Nel concordato, gli amministratori rispondono di eventuali atti di malagestione pregressi comunque: il concordato non impedisce ai creditori (in caso di esito negativo o revoca) di agire contro di loro. Però l’apertura del concordato scioglie la società di fatto: art. 2484 c.c. ora include tra cause di scioglimento l’apertura di liquidazione giudiziale o di concordato (qualora liquidatorio). Quindi gli amministratori che portano la società in concordato ottemperano al dovere di non aggravare il dissesto, anzi, può essere visto come condotta diligente (meglio concordato che inattività).

Cassazione e concordato: Ci sono decine di pronunce. Citiamo solo Cass. 10019/2021 che ha affermato che l’omologa del concordato non libera i soci fideiussori (confermando l’orientamento). Cass. 11883/2022 SU ha statuito che i crediti condizionali vanno ammessi a voto in misura ridotta. E sul concordato in bianco (prenotativo) la giurisprudenza (Cass. 2019) ha più volte ribadito che non dev’essere usato pretestuosamente per bloccare i creditori e poi non presentare alcun piano (la domanda prenotativa è un istituto delicato).

Conclusione sul concordato: In questa guida, il concordato è uno strumento “tradizionale” che, sebbene non esplicitamente richiesto, meritava menzione. Resta l’unico strumento che consente di ristrutturare coattivamente i debiti su larga scala evitando la liquidazione giudiziale. Dal punto di vista del debitore in crisi che vuole proteggere i propri asset, il concordato è efficace perché congela le azioni dei creditori e consente di chiudere la vicenda con un accordo votato, senza strascichi successivi (la società ne esce risanata o chiusa). È però impegnativo e comporta un certo sacrificio di controllo. In definitiva, la scelta tra concordato e accordi stragiudiziali dipende dalla fattibilità politica (consenso creditori) e dalle necessità dell’impresa. L’importante è che l’imprenditore valuti lucidamente lo strumento adatto: il concordato non è un fallimento mascherato, ma un mezzo di salvarsi se ben usato – o di cadere più lentamente se abusato. Come si suol dire, “il concordato può essere la tomba dell’impresa o il suo trampolino di lancio”, tutto sta in come e quando lo si usa.

La Liquidazione Giudiziale (Fallimento)

Per completezza, affrontiamo brevemente l’eventualità peggiore: la liquidazione giudiziale, nuovo nome della procedura di fallimento nel CCII. Questa è la strada che si apre quando ogni tentativo di risanamento o accordo fallisce, oppure quando l’insolvenza è così manifesta che i creditori (o d’ufficio il PM) chiedono l’intervento del tribunale. Dal lato del debitore, la liquidazione giudiziale è certamente l’opzione più traumatica: la società viene dichiarata insolvente con sentenza, i suoi beni vengono affidati a un curatore nominato dal tribunale che li liquida per distribuirne il ricavato ai creditori, e l’impresa cessa di esistere al termine (cancellazione dal Registro Imprese). Gli amministratori perdono immediatamente i poteri, i soci pure (l’assemblea non ha più alcuna voce in capitolo). Si attiva un procedimento collettivo in cui i creditori fanno valere i propri crediti attraverso lo stato passivo e partecipano al riparto. Storicamente, i fallimenti hanno avuto durate lunghe (anche 5-10 anni), ma la riforma punta a accelerare (obiettivo 3 anni per chiudere, tramite varie semplificazioni).

Pericoli per il patrimonio personale: In sé, come detto, il fallimento di una SRL non coinvolge i beni dei soci (responsabilità limitata) né quelli degli amministratori di default. Tuttavia, il curatore ha il compito di perseguire eventuali atti di mala gestio anteriore: quindi con l’apertura di liquidazione giudiziale si apre la stagione delle azioni di responsabilità contro amministratori e sindaci per danni, delle azioni revocatorie di pagamenti preferenziali o atti dispositivi fatti prima del fallimento (entro 6 mesi, 1 anno o 2 anni a seconda dei casi), e possono attivarsi i procedimenti penali se vengono riscontrati fatti rilevanti (il fallimento è presupposto di reati come bancarotta fraudolenta e semplice). In particolare:

  • Se l’azienda è stata gestita male, il curatore (previa autorizzazione del comitato creditori) può citare in giudizio gli amministratori chiedendo il risarcimento del danno fallimentare (che spesso coincide col deficit patrimoniale di cui parlavamo in art. 2486 c.c.). Con l’art. 378 CCII e l’art. 2486 co.3 c.c., ora il danno è presunto pari al differenziale di patrimonio netto peggiorato, a meno che l’amministratore provi diversamente. Quindi i fallimenti post-2020 tendono a essere accompagnati da cause di responsabilità, con condanne talvolta ingenti agli ex amministratori (coperti se ci sono polizze D&O, altrimenti su patrimonio personale).
  • Le revocatorie: il curatore esamina i pagamenti fatti nei 6 mesi precedenti la data di insolvenza per individuare eventuali preferenze (pagamenti anomali a creditori chirografari) e i “congrui” atti nei 2 anni (es. vendite a prezzo vile, costituzioni di garanzie per debiti pregressi). Se li trova, li contesta in tribunale per farsi restituire le somme o far annullare gli atti. Ciò può riguardare anche i soci (ad es. se la società aveva rimborsato un finanziamento soci l’anno prima, è revocabile in 2 anni come atto a titolo oneroso verso un soggetto correlato). Oppure se aveva pagato la banca garantita invece che i fornitori, i pagamenti alla banca entro 6 mesi sono revocabili (salvo esenzioni) e così via. È evidente che queste azioni mirano a ricostituire patrimonio per i creditori, ma colpiscono spesso indirettamente i soci (che vedono annullati atti magari a loro favore) e generano contenziosi costosi.
  • Fisco: nel fallimento, l’Agenzia Entrate può attivarsi verso i liquidatori ex art. 36 DPR 602/73 se scopre che imposte non pagate sono state sacrificate a vantaggio di pagamenti ad altri (abbiamo visto con Cass. SSUU 2023 che questo avviene, ed è il caso tipico di liquidatore ante fallimento, ma anche per gli amministratori se distribuivano utili fraudolentemente). Inoltre, il fallimento non ferma l’attività di accertamento fiscale: il curatore può trovarsi nuove cartelle o accertamenti per annualità pregresse (il che influisce sul passivo e può generare contributi a carico di soci per eventuali sanzioni amministrative? Fortunatamente no, le sanzioni pecuniarie restano a carico dell’ente stesso e vengono falcidiate nel concorso).
  • Durata: più dura il fallimento, più a lungo soci e amministratori restano esposti a incertezze. Ad esempio, finché il fallimento non chiude, i creditori insoddisfatti possono sperare di trovare colpe negli amministratori e sostenere il curatore nelle cause contro di loro. C’è anche un contrappasso: finché c’è il fallimento aperto, i creditori non possono agire direttamente contro soci e amministratori (a parte l’azione ex art. 2476 c.7 c.c. se il curatore la trascura). Però psicologicamente e patrimonialmente, gli ex gestori vivono anni di ansia attendendo possibili cause.

Esdebitazione e post-chiusura: Nel CCII è previsto che l’imprenditore persona fisica (non la società, che si estingue) possa ottenere l’esdebitazione di eventuali debiti residui non soddisfatti nel fallimento entro 3 anni dalla chiusura, se ha cooperato (art. 282 CCII). Per le società di capitali ciò è irrilevante perché la società sparisce e con essa i suoi debiti (i creditori non possono più nulla, salvo pretendere dai soci quanto ricevuto in liquidazione, ex art. 2495 c.c., ma in un fallimento di norma i soci non ricevono nulla quindi non pagano nulla). I soci di SRL dopo il fallimento: se la procedura si chiude senza attivo residuo (caso tipico), i soci non hanno responsabilità verso i creditori insoddisfatti (confermato da Cass. civ. che il socio di società estinta non risponde dei debiti sociali se non ha percepito riparti). Possono al più rispondere se avevano avuto indebite assegnazioni in precedenza (in tal caso il curatore le revoca già). Gli amministratori invece rimangono potenziali bersagli di cause post-chiusura: attenzione, l’azione del curatore ex art. 146 l.fall. (ora 255 CCII) può proseguire anche dopo la chiusura del fallimento, nei confronti degli amministratori, se iniziata prima (la chiusura del fallimento non fa venir meno quelle cause, anzi rimangono in capo ai creditori eventualmente riuniti in un consorzio per proseguirle). Dunque per un ex amministratore, il “rischio fallimento” dura anni anche dopo la fine, se ci sono cause pendenti.

Qualche scenario numerico (Gamma Srl): Poniamo Gamma Srl insolvente con attivo €100k e debiti €500k. Nessun piano riesce, si apre il fallimento. Il curatore vende i beni e ricava €100k, spese procedura €20k, restano €80k per i creditori. Ammettiamo che i privilegiati (Erario, dipendenti, banca ipotecaria) prendono €80k e i chirografari zero. La società viene cancellata. I soci non ricevono nulla quindi non dovranno nulla ai creditori residui. I creditori chirografari perdono tutto salvo agire contro gli amministratori se ipotizzano mala gestio (e se convenisse economicamente). Lo Stato può verificare se i liquidatori/amministratori pagarono i soci prima delle tasse: se sì, può chiedere a liquidatori/soci quell’importo (come da Cass. SSUU citata: se i soci hanno preso qualcosa, dovranno restituire fino a concorrenza, e il liquidatore eventualmente differenza). Gamma Srl come società cessa di esistere, con “esdebitazione implicita” (non ha più soggettività per avere debiti).

Insomma, la liquidazione giudiziale è quell’evento che il nostro ipotetico imprenditore vorrebbe evitare ad ogni costo se intende proteggere il proprio patrimonio e futuro imprenditoriale. Non tanto per la perdita dell’azienda (quella, se inevitabile, avverrebbe comunque in altre forme), ma per l’effetto cascata di responsabilità, indagini e contenziosi che si porta dietro. Come recita l’adagio, “il fallimento è la morte civile dell’imprenditore”. Per questo tutta la normativa recente spinge a usarlo solo come ultima spiaggia, preferendo soluzioni concordate, meno distruttive. Tuttavia, a volte è inevitabile – e va detto: se gestito correttamente, il fallimento consente di chiudere la vicenda e dopo un anno il debitore persona fisica può ripartire (l’imprenditore meritevole ottiene esdebitazione rapida). Inoltre, un aspetto da considerare: dichiarare tempestivamente il fallimento in proprio (cioè l’imprenditore che deposita istanza di liquidazione giudiziale) può essere una scelta di damage control. Il CCII la incentiva: l’art. 268 prevede una riduzione a 3 anni (da 5) del periodo per ottenere esdebitazione se la domanda di liquidazione è presentata dal debitore e ha cooperato. Quindi, se proprio non c’è scampo e la SRL è insolvente senza prospettiva, farla fallire subito volontariamente può evitare ulteriori perdite e responsabilità (pensa a un imprenditore che la tiene agonizzante per altri 6 mesi: magari accumula debiti verso lavoratori e Fisco – poi in fallimento avrà pure la colpa di aver ritardato; se invece stacca la spina lui subito, i debiti si cristallizzano e interviene subito il Fondo di Garanzia INPS per i TFR, ecc., e i creditori non subiscono ulteriori peggioramenti). In qualche caso, dunque, “tagliare la corda” in modo ordinato è la miglior tutela rimasta. Anche perché – ricordiamolo – la legge punisce l’indebita continuazione: ex amministratori che hanno tardato la dichiarazione di insolvenza possono essere accusati di aver aggravato il buco.

Case law finale: Un esempio è la pronuncia Cass. 7676/2021, che ha ribadito che i creditori di società estinta possono agire contro i soci nei limiti di quanto hanno riscosso in sede di liquidazione (principio di cui dicevamo). Altra, Cass. 15470/2018, confermò che il socio che abbia incassato somme prima del fallimento, se la società poi fallisce, può essere tenuto a restituirle (in quel caso utili estratti quando la società era già insolvente). Infine, una nota di sociologia: molti imprenditori in Italia hanno storicamente paura di dichiarare fallimento per lo stigma sociale e perché temono di “perdere tutto”. È importante diffondere cultura che, se ben gestito, il fallimento limita le perdite al patrimonio aziendale e dà al debitore onesto la possibilità di ripartire pulito (negli USA è quasi visto come un passaggio naturale a volte). Nel nostro contesto, comunque, lo scopo di tutte le sezioni precedenti era proprio illustrare come massimizzare le chances di evitare il fallimento o di uscirne comunque con meno danni possibili al patrimonio personale.

Responsabilità di amministratori e soci nella crisi e chiusura della SRL

Dopo aver passato in rassegna gli strumenti di gestione della crisi, dedichiamo un focus finale alle responsabilità legali che possono ricadere su amministratori e soci durante (e dopo) il processo di chiusura della società in crisi. Molte ne abbiamo già toccate durante l’esposizione, ma qui le riepiloghiamo in modo sistematico, alla luce delle normative aggiornate e delle più recenti sentenze.

1. Responsabilità degli amministratori per gestione irregolare (art. 2476 e 2486 c.c.):
Gli amministratori di SRL hanno l’obbligo generale di amministrare con diligenza e nell’interesse della società, preservandone il patrimonio. In caso di crisi e perdita del capitale, subentra il dovere specifico di limitarsi ad atti conservativi e non aggravare la situazione (art. 2486 c.c.). Se violano tali obblighi e ciò causa un peggioramento del dissesto, rispondono dei danni verso la società, i creditori e i soci. Dal 2019, come visto, la legge quantifica in via presuntiva questo danno come la differenza tra patrimonio netto all’apertura della procedura concorsuale e patrimonio netto al momento in cui si doveva iniziare la liquidazione. Ad esempio, se un amministratore ha procrastinato la liquidazione dopo la perdita del capitale e in quell’intervallo il patrimonio netto è passato da –50k a –150k, presumibilmente ha causato 100k di danno. Sta a lui eventualmente provare che quell’aggravamento non è colpa sua (cosa non facile). Le Sezioni Unite 2022 (sent. 41994/2021) hanno confermato che tale criterio di liquidazione del danno si applica anche nei giudizi pendenti e ha natura di presunzione relativa (il convenuto può provare un danno diverso). Dunque, un amministratore che chiude un occhio sulla crisi rischia grosso. Per evitarlo:

  • attivarsi subito in composizione negoziata o procedure analoghe (come detto, costituisce prova di diligenza e buona fede, esonerandolo in parte da colpa);
  • convocare l’assemblea per liquidazione senza indugio quando la legge lo impone (perdite oltre 1/3 e capitale sotto minimo legale, art. 2482-ter, oppure cause di scioglimento ex art. 2484 c.c. come cessazione attività, ecc.);
  • tenere i libri in ordine e informare i soci/sindaci della situazione.
    Se la società va in concordato, il commissario e poi i creditori valuteranno la condotta pregressa: se ad esempio l’amministratore ha favorito un creditore poco prima, ciò potrebbe emergere come atto di mala gestio (o bancarotta preferenziale in caso di fallimento). In caso di fallimento, il curatore eserciterà quasi sicuramente l’azione ex art. 146 l.fall. (ora 255 CCII) cumulando sia l’azione sociale sia quella dei creditori: il che significa che l’amministratore, oltre al danno patrimoniale societario, potrebbe rispondere di insufficienza patrimoniale verso i creditori (tradizionalmente la “azione dei creditori sociali” in caso di incapienza del patrimonio). La Cassazione ha chiarito che con la procedura concorsuale queste azioni si unificano in capo al curatore e il risarcimento va alla massa.

Oltre ai danni, gli amministratori rischiano, nei casi peggiori, la interdizione dalle cariche (come sanzione concorsuale o penale) e conseguenze sul piano reputazionale. Da segnalare anche l’estensione di responsabilità ai controllori: se la SRL aveva sindaci o revisori e questi non hanno segnalato per tempo la crisi o hanno omesso di prevenire atti dannosi, possono essere corresponsabili (art. 2407 c.c. in analogia). Nel CCII è introdotto l’obbligo di segnalazione degli organi di controllo, pena la loro responsabilità solidale con gli amministratori se per colpa grave non segnalano (art. 15 CCII). Dunque, il sistema spinge tutti a non ignorare la crisi.

2. Responsabilità verso i creditori sociali (art. 2497 e 2476 c.c.):
I creditori non soddisfatti dalla liquidazione possono cercare di rifarsi su amministratori e soci in casi particolari. Oltre all’azione generale del curatore già menzionata, ricordiamo che l’art. 2476 co.7 c.c. consente ai creditori sociali di agire direttamente contro gli amministratori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente a soddisfarli e ciò è dovuto a inadempimento degli obblighi degli amministratori. È un’azione di natura aquiliana (extracontrattuale): i creditori devono provare che l’amministratore con dolo o colpa ha peggiorato la situazione patrimoniale. Spesso questa azione si sovrappone a quella del curatore in fallimento; fuori dal fallimento, un creditore di società cancellata potrebbe usarla per colpire l’ex amministratore (se non c’è fallimento, l’azione del singolo creditore è ammessa). Ad esempio, se una SRL viene cancellata lasciando debiti e senza fallire (perché sotto soglia o perché i creditori non hanno attivato il fallimento postumo entro 1 anno), i creditori potrebbero tentare l’azione ex 2476 co.7 contro l’amministratore colpevole di averli pregiudicati (ad es. distribuendo attivo ai soci lasciando creditori insoluti: chiaro inadempimento). Per i soci, invece, l’unico spiraglio di responsabilità diretta verso creditori è se vi fosse abuso della personalità giuridica. In Italia la “teoria del lifting del velo” (piercing the corporate veil) è applicata rarissimamente, in situazioni di confusione patrimonio soci/società o frode (es. società schermo). Il CCII non prevede nulla di esplicito in merito. Quindi normalmente i soci di SRL non rischiano azioni dirette dei creditori sociali per i debiti della società – a meno che:

  • Abbiano ricevuto attivo in pregiudizio dei creditori: come da art. 2495 c.c., se dopo la cancellazione spuntano creditori, questi possono richiedere ai soci quanto da essi riscosso in sede di liquidazione (pro quota). Ma se i soci non hanno avuto nulla, nulla è dovuto. Questa non è proprio una “responsabilità illimitata”, è un’obbligazione legata al rimborso dell’eventuale riparto. E ha termine quinquennale dal deposito bilancio finale per essere esercitata. Nel fallimento, come detto, i soci di regola non ricevono riparto, quindi niente. Diverso se la società è liquidata volontariamente (non fallita) e il liquidatore ha distribuito anche un centesimo ai soci lasciando un debito: in tal caso i creditori possono farsi dare quel centesimo dai soci.
  • Abbiano effettuato prelievi indebiti o sotto forma di dividendi fittizi: se negli ultimi 2 anni ante fallimento i soci hanno deliberato distribuzioni di utili in presenza di bilanci falsi o in violazione dell’art. 2433 c.c. (utili inesistenti), tali somme devono restituirle (azione di indebito arricchimento, talora perseguita dal curatore). Anche i finanziamenti soci restituiti nell’anno prima del fallimento sono postergati e soggetti a restituzione (azione ex art. 2467 c.c. dal curatore). Quindi il socio che ha ritirato soldi poco prima di una crisi può essere costretto a restituirli (non è proprio “pagare i debiti sociali”, ma di fatto rifonde risorse che vanno poi ai creditori).
  • Abbiano gestito di fatto la società: capita che i soci (specie se di maggioranza) siano considerati amministratori di fatto se interferiscono costantemente nella gestione. In caso di insolvenza, anche l’amministratore di fatto può essere dichiarato colpevole di bancarotta e obbligato in solido nei risarcimenti. Inoltre, se una società fa parte di un gruppo e la capogruppo ha abusato della controllata nell’interesse del gruppo causando danno ai creditori di quest’ultima, si può configurare responsabilità da direzione unitaria abusiva (art. 2497 c.c.) in capo alla holding o ai soci dominanti. Ad esempio, socio unico che impone alla SRL di fare operazioni rovinose per favorire un’altra sua azienda: i creditori della SRL potrebbero citarlo ex art. 2497 c.c. per aver violato l’interesse della società e causato pregiudizio ai creditori (anche questa tuttavia in pratica è rara e difficile da provare).

In generale, i soci (non amministratori) di buona fede rischiano poco direttamente. Il loro rischio maggiore è indiretto: se hanno dato garanzie personali oppure se vedono evaporare il valore della partecipazione (che è spesso nulla in insolvenza).

3. Responsabilità penale per reati concorsuali:
Sebbene la domanda chieda focus civile/fallimentare, è opportuno cenno ai reati più comuni che colpiscono amministratori e soci in caso di chiusura fraudolenta dell’azienda. La bancarotta fraudolenta (artt. 322-323 CCII, ex art. 216 l.fall.) punisce gli amministratori (o liquidatori) che, prima o durante il fallimento, distraggono o occultano beni sociali, sottraggono documenti contabili, fraudolentemente diminuiscono l’attivo o aumentano il passivo, o preferiscono taluni creditori con intenzione dolosa di recare pregiudizio ad altri. È un reato grave, con pene detentive significative (fino a 6-10 anni). Anche la bancarotta semplice (art. 324 CCII) punisce condotte meno dolose come aver aggravato la crisi per negligenza grave, non aver tenuto la contabilità, etc., con pene più lievi. Questi reati scattano solo se vi è apertura di liquidazione giudiziale (fallimento): se si riesce ad evitare il fallimento (ad es. con concordato omologato), di regola non si procede penalmente (fa eccezione il concordato poi annullato per frode). Quindi, proteggere il patrimonio personale significa anche evitare di incorrere in reati: a volte imprenditori disperati commettono distrazioni (spostano soldi a familiari, svuotano magazzino, etc.) pensando di salvare almeno qualcosa dal naufragio; ma se poi arriva il fallimento, quelle azioni diventano fatti di reato. Meglio quindi seguire vie legali (piani, trust preventivi leciti) che trovarsi con un processo penale. Anche i soci potrebbero incorrere: tipicamente se beneficiano di distrazioni (es. prelevano indebitamente casse sociali) o se sono amministratori di fatto. La Cassazione penale, Sez. Unite, n. 22474/2016 ha statuito che anche il socio che di fatto amministra può rispondere di bancarotta come un amministratore di diritto. Un reato particolare verso i creditori è l’art. 344 CCII – sottrazione fraudolenta al pagamento imposte: il titolare che compie atti per rendersi insolvente verso il Fisco (ad es. simulare vendita beni per non farsi pignorare) commette reato anche fuori dal fallimento. Quindi attenzione a mosse troppo tardive di protezione patrimoniale: se fatte dopo che cartelle e debiti erariali sono attivati e con lo scopo di sfuggirvi, possono ricadere in quell’alveo.

4. Responsabilità fiscale e verso enti previdenziali:
Abbiamo già trattato dell’art. 36 DPR 602/73 per liquidatori (responsabilità per imposte non pagate se hanno pagato i soci). Aggiungiamo che esistono norme simili in ambito IVA: il D.Lgs. 175/2014 ha reso responsabile in solido l’amministratore per IVA non versata negli ultimi 3 periodi d’imposta precedenti la liquidazione se la liquidazione chiude senza aver pagato quell’IVA e i beni sociali sono stati ripartiti fra i soci (art. 2495 c.c. e art. 5, co.2 D.Lgs. 175/2014). Questa norma però è ritenuta inapplicabile se viene dichiarato il fallimento entro l’anno (prevale la disciplina concorsuale). Il CCII all’art. 255 co.4 prevede che il curatore può esercitare anche le azioni di responsabilità per violazioni tributarie (surrogandosi all’Agenzia se essa non agisce, in determinati casi). Sul fronte contributi INPS, citiamo la fattispecie di omesso versamento ritenute previdenziali: l’amministratore che non versa i contributi dei dipendenti per oltre €10.000 annui commette reato (salvo pagamento entro termine). Quindi in crisi di impresa, se si fanno scelte di chi non pagare, non pagare l’INPS è pericoloso penalmente per l’amministratore. Non riguarda i soci, ma incide sul patrimonio di chi poi deve eventualmente affrontare un processo e risarcimenti.

5. Conservazione delle scritture e obblighi post-chiusura:
Una volta chiusa la società (sia con liquidazione volontaria, concorsuale o cancellazione), gli ex amministratori/liquidatori hanno l’obbligo di conservare i libri sociali per almeno 10 anni e restare reperibili per 5 anni a eventuali notifiche. Fiscalmente, la società estinta rimane soggetto passivo d’imposta per i 5 anni successivi ai fini di accertamenti: in pratica l’Agenzia delle Entrate può notificare accertamenti alla società cancellata entro 5 anni, e questi avranno effetto nei confronti dei soci nei limiti di quanto ricevuto (perché la società non esiste più, ma l’atto vale per far valere nei confronti di soci responsabili ex art. 2495). I soci/liquidatori devono quindi mantenere un recapito aggiornato proprio per ricevere eventuali comunicazioni su contenziosi o nuove scoperte di debiti. Non di rado, anni dopo la cancellazione, spuntano cartelle esattoriali relative a tasse pregresse: l’ex liquidatore di solito le riceve come destinatario “per conto della società estinta” e deve gestirle – se la società aveva pagato tutto e quelle tasse emergono dopo, i soci (avendo incassato l’attivo netto) possono essere chiamati a risponderne fino a concorrenza del ricevuto. Se non hanno preso nulla, l’Erario può rifarsi solo sul liquidatore per eventuale colpa (ma se il liquidatore non aveva fondi, non risponde, come visto).

In tabella riassumiamo le principali ipotesi di responsabilità e chi colpiscono:

Tipo di responsabilitàChi ne rispondeBase giuridicaCondizioniAmbito
Aggravamento del dissesto (mala gestio in crisi)Amministratori (anche di fatto), LiquidatoriArt. 2486 c.c. (dovere gestione conservativa dopo scioglimento); Art. 378 CCII (danno presunto)Gestione non conservativa dopo emersione causa scioglimento o insolvenza. Danno = aumento perdita patrimoniale. Azione esercitata dal curatore (art. 255 CCII) o dai soci/creditori se fallimento mancante.Civile (risarcimento danni)
Inadempimento obblighi generici (violazione doveri)Amministratori, Sindaci/Revisori (in solido se concorso)Art. 2476 c.c. (azione sociale responsabilità), Art. 2407 c.c. (sindaci)Qualunque atto o omissione in violazione dei doveri gestionali che causi danno alla società (es. distrazione di fondi, operazioni azzardate). Azione promossa dalla società (liquidatore) o dal curatore in fallimento (cumula anche ragioni creditori).Civile (risarcimento)
Prejudice to creditors (azione dei creditori sociali)Amministratori (anche ex)Art. 2476 co.7 c.c.Patrimonio insufficiente a pagare i creditori per colpa degli amm.; creditori devono provare violazione obblighi specifici verso di loro. Esercitabile fuori dal fallimento (se fallimento, surroga curatore). Esempio: omissione versamento contributi generando sanzioni che riducono attivo per altri creditori.Civile (risarcimento ai creditori non soddisfatti)
Liquidatore – mancato pagamento imposte prima di distribuire ai sociLiquidatori (di fatto e di diritto)Art. 36 DPR 602/1973; Cass. SSUU 32790/2023Liquidatore che, in liquidazione volontaria, paga quote ai soci prima di saldare tutte le imposte dovute. Responsabile verso Fisco fino concorrenza attivo distribuito. Necessario nesso causale (pagamento soci causa imposte impagate). Prescinde da iscrizione a ruolo preventiva.Civile (obbligazione legge, natura extracontrattuale)
Soci – debiti residui dopo liquidazioneSoci di SRL liquidata volontariamenteArt. 2495 c.c. (comma 2)Creditori non pagati possono chiedere ai soci quanto da essi ricevuto in sede di liquidazione (nei limiti di tale importo). Se soci hanno incassato €0, non devono nulla. Termine: 5 anni da cancellazione. Non si applica se fallimento (allora vale regole concorsuali).Civile (obbligazione residuale)
Soci – finanziamenti postergatiSoci finanziatoriArt. 2467 c.c. (postergazione)Se i soci hanno erogato prestiti alla società in forma anomala (sottocapitalizzazione) e poi li hanno pretesi indietro prima del fallimento, il curatore li può far restituire (trattati come capitali di rischio). Di regola, in fallimento i crediti soci si soddisfano dopo tutti gli altri. Se rimborsati ante fall., revocabili ex art. 166 co.3 lett. c CCII entro 1 anno (atti a titolo oneroso con parte correlata).Civile (restituzione somme)
Reati di bancarotta (fraudolenta, preferenziale, semplice)Amministratori, Liquidatori; Soci di fatto gestoriArtt. 322-323, 324 CCII (ex art. 216-217 l.fall.)Presupposto: liquidazione giudiziale dichiarata. Bancarotta fraudolenta: distrazione, occultamento, documenti falsi, pagamenti preferenziali dolosi ecc. Bancarotta semplice: negligenza grave (spese personali eccessive, ritardo ingiustificato a dichiarare insolvenza, scritture mancanti). Procede d’ufficio. Pena: fino a 6-10 anni (fraud.) o 2 anni (semplice).Penale (sanzione detentiva e interdizione)
Altri reati (es. sottrazione fraudolenta al Fisco)Amministratori, Soci proprietari beniArt. 344 CCII (ex art. 11 D.Lgs 74/2000)Presupposto: esistenza debiti tributari. Se prima del fallimento (o anche senza fallimento) si compiono atti simulati o fraudolenti per sottrarsi al pagamento di imposte, scatta reato (es: alienare fittiziamente beni ai figli per non farli pignorare dal Fisco). Pena: reclusione fino a 4-7 anni a seconda entità.Penale
Omesso versamento contributi e ritenuteAmministratoriArt. 324 CCII co.2 (bancarotta semplice se contributi non pagati), Art. 2 comma 1-bis D.L. 463/1983 (reato omesso versamento > €10k)Se l’amm. non versa all’INPS le ritenute sulle retribuzioni dei dipendenti per oltre 10k annui, reato punibile con reclusione fino a 3 anni. Anche senza fallimento. Inoltre, nel fallimento, l’omesso versamento contributi può configurare bancarotta semplice (aggravamento per colpa) se ha inciso sul dissesto.Penale (nel primo caso, proced. a querela INPS; nel secondo d’ufficio come bancarotta)
Responsabilità nel GruppoSocietà o soci controllanti (direzione unitaria)Art. 2497 c.c. (azione di responsabilità verso società o ente che abbia abusato direzione e coordinamento)Se la capogruppo o il socio di controllo hanno operato a detrimento di una controllata (imponendo atti pregiudizievoli) e questo ha contribuito al dissesto di quest’ultima, i creditori di quest’ultima possono agire per il risarcimento del danno verso la controllante. Esempio: ordinare alla controllata di trasferire liquidità a un’altra società del gruppo lasciandola incapace di pagare i propri debiti.Civile (risarcitoria, solidale con amm. controllata)

Tabella 2: Principali responsabilità giuridiche connesse alla gestione e chiusura di una SRL in crisi, indicando chi può essere chiamato a rispondere, su quale base e in quali condizioni.

Come si vede, il ventaglio di rischi per amministratori e (in minor misura) soci è ampio. Prevenire è meglio che curare: tutte queste responsabilità scattano se c’è stata irregolarità o negligenza. Un amministratore che invece gestisce la crisi con correttezza e trasparenza – ad esempio attivando immediatamente una composizione negoziata e seguendo le indicazioni dell’esperto, oppure portando l’azienda in concordato prima che si compiano atti distrattivi – difficilmente sarà ritenuto responsabile di danni. Anzi, potrà spesso beneficiare di scriminanti: la legge e la giurisprudenza iniziano a riconoscere che l’imprenditore che tenta il risanamento in buona fede non va punito per aver fatto scelte rischiose ma ragionevoli. L’art. 23 co.4 CCII infatti prevede una sorta di esimente: i pagamenti e le operazioni compiute durante la composizione negoziata in coerenza col piano e col parere dell’esperto non sono soggetti a revocatoria né costituiscono ipso facto preferenze penalmente rilevanti. Questo protegge l’organo amministrativo che in quel contesto paga alcuni creditori o assume nuovi debiti autorizzati – non gli verrà poi contestato di aver aggravato il dissesto se l’ha fatto seguendo il percorso di legge. Similmente, in un concordato, gli atti autorizzati dal giudice delegato non generano responsabilità.

Va inoltre ricordato il ruolo delle assicurazioni: molti amministratori sottoscrivono (o la società per loro) polizze di responsabilità civile verso amministratori e dirigenti (D&O). Tali polizze possono coprire una parte dei danni civili reclamati (non i penali ovviamente, né le multe). Quindi un imprenditore accorto, specie se di PMI con rischi di crisi, dovrebbe valutare di dotarsi di copertura assicurativa: sebbene le polizze D&O talora escludano espressamente i casi di insolvenza/fallimento, altre volte coprono (fino a massimali) le azioni dei curatori o dei creditori. Ciò può salvare il patrimonio personale in caso di condanna risarcitoria.

In definitiva, dal punto di vista del debitore (amministratore o socio) che voglia proteggere i propri beni, le linee guida sono:

  • Agire tempestivamente e documentatamente appena la crisi si manifesta: questo riduce i margini di accusa di aver aggravato la situazione. Se i conti scricchiolano, convocare l’assemblea, nominare eventualmente un esperto esterno (come previsto dall’obbligo di assetti adeguati, art. 2086 c.c.), valutare piano di risanamento o accesso a composizione negoziata. Cass. 11620/2021 ha evidenziato che l’inerzia di fronte a indicatori di insolvenza è colposa.
  • Rispettare la par condicio creditorum in ogni fase pre-concorsuale: evitare pagamenti “di preferenza” ai creditori amici o più aggressivi a scapito di altri. Se si devono fare pagamenti per mantenere operativa l’azienda (es. forniture vitali), farli presente all’esperto o poi al commissario nel caso, in modo che siano considerati funzionali. In generale, mantenere una linea equa evita future contestazioni. Cass. pen. 8883/2019 ha assolto un imprenditore per bancarotta preferenziale ritenendo che i pagamenti effettuati fossero oggettivamente funzionali a evitare il tracollo (introducendo così un’interpretazione finalistica dell’art. 216 l.fall.).
  • Tenere scritture contabili in ordine e bilanci veritieri: sembra ovvio, ma molti casi di responsabilità partono dal fatto che mancano i documenti per ricostruire la gestione. L’art. 322 CCII punisce la bancarotta documentale se i libri sono spariti o tenuti in modo da non capire nulla. Un bilancio trasparente (anche se con perdite) è preferibile a uno “abbellito” perché in quest’ultimo caso, quando emergerà la verità, i soci e creditori si sentiranno ingannati e saranno più propensi a cause. Inoltre, come rileva Cass. 34445/2019, l’occultamento delle scritture è di per sé sintomo di frode e rende quasi certa la condanna penale.
  • Non confondere il patrimonio personale con quello sociale: i prelievi “di cassa” da parte dell’imprenditore (es. contanti aziendali usati per scopi privati) sono un classico che poi appare come distrazione in caso di insolvenza. Meglio evitarlio o regolarli (tramite conti prelievi/depositi soci). Anche spese personali messe a bilancio azienda (auto, viaggi non pertinenti) in caso di fallimento diventano temi spinosi. Mantenere separatezza aiuta a non incorrere in responsabilità e a difendere la natura di entità distinta della società.
  • Trasparenza con organi interni e creditori: coinvolgere i sindaci (se ci sono) e soprattutto informare correttamente i creditori durante le trattative. Ad esempio, nel portare avanti una composizione negoziata, non rappresentare la situazione come rosea se non lo è, perché poi un accordo costruito su false informazioni potrebbe essere annullato e generare sfiducia (oltre a potenziali profili di truffa). La buona fede negoziale è richiesta espressamente dall’art. 19 CCII: l’imprenditore deve condurre le trattative in modo da non ledere indebitamente gli interessi dei creditori e persegue soluzioni, se finge solo per perdere tempo subisce la revoca delle protezioni e possibili conseguenze (l’esperto può dichiarare l’esito negativo per sua colpa, il che pregiudica l’accesso al concordato semplificato).

In conclusione di questa sezione, possiamo affermare che il miglior modo per un imprenditore di proteggere il proprio patrimonio è gestire la crisi in modo proattivo, legale e cooperativo. Così facendo, non solo minimizza le perdite finanziarie, ma evita di incorrere in responsabilità civilistiche e penali. La crisi di una SRL non porta necessariamente con sé rovina personale: grazie alla struttura a responsabilità limitata e agli strumenti di legge, chi agisce correttamente può spesso chiudere la vicenda limitando i danni ai soli beni aziendali. Viceversa, l’imprenditore che persevera nell’ostinazione o fa “il furbo” all’ultimo, rischia di ampliare la crisi dall’azienda alla propria sfera personale, sia economicamente (cause di risarcimento, restituzioni, ecc.) sia in termini di libertà personale (sanzioni penali). La bussola dev’essere: agire come un “buon padre di famiglia” anche nella burrasca, documentando ogni scelta e privilegiando le soluzioni condivise con i creditori e validate da esperti/autorità. Così facendo, anche qualora l’impresa non si salvi, l’imprenditore potrà ricostruire in seguito il proprio percorso senza macigni insostenibili dal passato.

Domande Frequenti (FAQ) sulla chiusura di una SRL in crisi

D: Posso mettere in liquidazione volontaria una SRL che ha ancora debiti, per chiuderla lo stesso?
R: Puoi deliberare lo scioglimento e liquidazione volontaria anche se la SRL ha debiti; tuttavia, il liquidatore non potrà cancellare la società dal Registro Imprese finché tutti i debiti non saranno estinti o comunque finché i creditori non siano soddisfatti. Se tenti di chiudere la liquidazione con debiti pendenti (ad es. con qualche creditore non pagato), ti esponi a rischi: i creditori possono, entro 1 anno dalla cancellazione, chiedere al tribunale la riapertura della procedura sotto forma di fallimento postumo. In altre parole, la legge impedisce di “far sparire” una società insolvente tramite liquidazione ordinaria. L’unico modo di liquidare volontariamente e chiudere senza pagare tutti è ottenere il consenso di tutti i creditori (accordo transattivo) o far sì che qualcuno – ad esempio i soci – copra il deficit. Se ciò non avviene e restano debiti, c’è un’alta probabilità che intervenga la liquidazione giudiziale (fallimento). Quindi, puoi avviare la liquidazione, ma se l’attivo non basta a saldare il passivo, il liquidatore dovrà o far ricorso a un concorso formale (concordato/fallimento) o farsi finanziare dai soci per pagare i creditori. Del resto, anche dopo la chiusura, i creditori insoddisfatti potrebbero agire verso soci e liquidatore entro certi limiti (vedi altre FAQ sotto).

D: In quali casi l’amministratore di una SRL risponde con il proprio patrimonio personale dei debiti sociali?
R: Normalmente l’amministratore non risponde personalmente dei debiti della società, salvo abbia prestato garanzie personali (fideiussioni, avalli) o salvo casi eccezionali. Tuttavia, può diventare personalmente responsabile se viola i suoi doveri causando danno ai creditori o alla società. I casi principali:

  • Se, contravvenendo all’art. 2486 c.c., ha continuato l’attività d’impresa in presenza di cause di scioglimento (es. perdita capitale) aggravando il passivo: in tal caso può essere condannato a risarcire il differenziale di patrimonio peggiorato.
  • Se ha compiuto atti di mala gestio (es. distrazione di beni, pagamento preferenziale di alcuni creditori, frodi contabili): risponde verso la società e, in caso di insolvenza, il curatore può fargli causa per conto di tutti i creditori.
  • Se, chiusa la società, i creditori sociali non pagati dimostrano che per colpa grave dell’amministratore il patrimonio è insufficiente (azione individuale ex art. 2476 c.7 c.c.): ad esempio, non ha tenuto l’inventario e sono spariti beni.
  • In ambito fiscale, se come liquidatore ha pagato i soci anziché il Fisco, risponde verso l’Erario fino a concorrenza di quanto indebitamente distribuito. Anche l’omesso versamento di ritenute previdenziali e IVA può portare a responsabilità penali e poi civili.
    In sintesi, l’amministratore rischia sul proprio patrimonio solo se ha violato la legge o gestito con negligenza/frode. Se invece adempie correttamente (es. convoca l’assemblea per liquidare quando dovuto, informa i creditori, conserva i beni), i debiti restano a carico della società. I creditori non possono aggredire direttamente la casa o il conto dell’amministratore per il solo fatto che la SRL non paga, a meno che non ricorra una delle situazioni sopra (o che l’amm. sia anche garante del debito, ma in tal caso agiscono in veste di garante, non di amministratore).

D: I soci di SRL rispondono dei debiti sociali? Possono i creditori attaccare i beni dei soci?
R: In via ordinaria, no, i soci non rispondono dei debiti sociali oltre la quota sottoscritta (art. 2462 c.c.). Ci sono però alcune eccezioni e situazioni:

  • Se un socio ha prestato fideiussione o garanzia personale per un debito (cosa frequente con banche e fornitori), allora risponde come garante di quel debito: il creditore potrà agire contro di lui in base al contratto di garanzia, escutendo ad esempio il suo patrimonio immobiliare. Questo è del tutto indipendente dalla SRL: è effetto della garanzia volontaria.
  • Se i soci, in sede di liquidazione finale, hanno ricevuto somme o beni dalla società e successivamente emergono debiti non pagati, i creditori possono chiedere ai soci la restituzione di quanto incassato (fino a concorrenza del loro credito). Ad esempio, se alla fine della liquidazione volontaria ogni socio ha avuto €10.000 di riparto e poi salta fuori un debito col fisco di €5.000, quel creditore può chiedere ai soci di restituire (pro quota) i €5.000. Se i soci non avevano preso nulla, non devono nulla. Questo principio vale per creditori scoperti entro 5 anni dalla cancellazione della società.
  • Se un socio ha gestito di fatto la società compiendo atti illeciti (ad es. socio unico che preleva cassa aziendale a suo piacimento), può essere considerato amministratore di fatto e quindi rispondere come tale verso creditori e curatore. È un caso limite, ma riconosciuto: la Cassazione ha condannato soci accomandanti “impiccioni” in contabilità come amministratori di fatto per bancarotta.
  • In caso di abuso della personalità giuridica: se la SRL era usata come schermo per attività personali del socio, senza reale autonomia patrimoniale, un giudice potrebbe decidere di “fondere” i patrimoni e far rispondere il socio (teoria del piercing the corporate veil). In Italia è assai raro, ammesso solo per palese frode. Un esempio: SRL sottocapitalizzata che accumula debiti, intanto il socio preleva tutto e la fa fallire vuota; in taluni casi la giurisprudenza ha ritenuto il socio direttamente responsabile (in genere si preferisce l’azione di responsabilità/revocatoria).
    Riassumendo: i soci di SRL non sono normalmente attaccabili dai creditori sociali. Devono però restituire eventuali attivi percepiti se emergono passività non considerate, e possono subire l’escussione se garanti. Inoltre, se hanno ricevuto beni in modo sospetto (es. pagamento di un suo credito personale a ridosso del fallimento), quel pagamento può essere revocato dal curatore. Ma se parliamo del caso standard, cioè società che fallisce o liquida senza distribuire nulla, i creditori non possono chiedere ai soci di pagare i debiti residui: li devono subire come perdite (il socio perde il capitale investito, il creditore perde la parte non soddisfatta). La Cassazione più recente ha ribadito che, in fallimento, i soci non rispondono oltre a ciò che eventualmente hanno ricevuto in sede concorsuale (ma in fallimento di regola non ricevono nulla, quindi nulla devono).

D: Che succede se dopo aver cancellato la SRL saltano fuori nuovi debiti o pendenze (es. una cartella fiscale, un debito verso un fornitore dimenticato)?
R: Se la società è già stata cancellata dal Registro Imprese, essa non esiste più come soggetto giuridico. Tuttavia, per 5 anni dopo la cancellazione la legge considera ancora validamente notificabili eventuali atti impositivi o pretese ad essa dirette. I creditori non possono più far causa alla società (perché giuridicamente estinta), ma come detto possono agire contro soci e liquidatori. In particolare:

  • I creditori privati (fornitori, banche) insoddisfatti possono avvalersi dell’art. 2495 c.c.: citare i soci (entro 5 anni) per ottenere da ciascuno quanto da lui incassato in liquidazione. Se il creditore scoperto è uno solo può chiedere l’intero nei limiti di quanto ogni socio ha avuto; se sono più creditori si farà ripartizione. Se i soci non hanno preso nulla, la società era senza attivo, questi creditori restano scoperti senza possibilità di escussione (a meno di provare responsabilità del liquidatore).
  • Il Fisco e gli enti previdenziali generalmente notifica cartelle/accertamenti intestati alla società presso la residenza del liquidatore. Il debito fiscale della società estinta si trasferisce “in capo” ai soci nei limiti di quanto riscosso: l’Agenzia potrà chiedere a ciascun socio il tributo non pagato, ma solo fino alla concorrenza di quanto quel socio ha ricevuto (Cass. SS.UU. 6070/2013). Se la società era nulla tenente (soci zero), il Fisco di regola non recupera nulla. Eccezione: se emergono nuove imposte dovute (ad es. un accertamento di redditi non dichiarati), il liquidatore potrebbe essere chiamato per responsabilità propria se ha chiuso senza considerare quel debito potenziale. In più, come visto, se il liquidatore aveva pagato i soci e non le imposte, il Fisco può chiedere direttamente ai soci la restituzione pro quota e al liquidatore l’eventuale eccedenza.
  • Se emergono cause legali (es. un ex dipendente cita la società per un infortunio), il giudizio prosegue nei confronti della società fino a sentenza, ma la società essendo estinta non può pagare: il danneggiato potrebbe allora tentare l’azione contro i soci (sempre limitata al loro attivo ricevuto) o, se c’è stata colpa dell’organo, contro l’amministratore (azione aquiliana personale).
    In pratica, la cancellazione di una società con debiti latenti non li elimina: li rende solo meno recuperabili. Il creditore ha l’onere di attivarsi in tempo (entro 1 anno per chiedere fallimento se insolvenza pregressa, entro 5 anni per cause contro soci). Dunque, se dopo la chiusura spuntano fuori debiti, come socio devi valutare se avevi ricevuto qualcosa: se sì, può convenire restituirlo in accordo al creditore per chiudere bonariamente. Se no, puoi opporre che non c’è stato patrimonio da dividere (in genere i creditori verificano dal bilancio finale depositato). Il liquidatore deve comunque conservare i libri per 10 anni: capita che ci si ritrovi a dover esibire documenti a distanza di anni per difendere i soci o se stessi da queste pretese. Insomma, la cancellazione della SRL non è un totale scudo: per alcuni anni permane la possibilità di rivendicazioni su chi ha beneficiato della liquidazione.

D: Avviare una procedura concorsuale (concordato preventivo o accordo di ristrutturazione) può aiutare a tutelare il patrimonio personale?
R: Sì, indirettamente. Una procedura concorsuale (come il concordato preventivo) protegge il debitore in vari modi:

  • Sospende le azioni esecutive individuali, evitando pignoramenti di beni magari personali dati in garanzia (nel concordato le eventuali escussioni di garanti però possono proseguire, attenzione, ma di solito se il concordato prospetta buona soddisfazione i creditori attendono).
  • Stabilisce un percorso ordinato per pagare i creditori, evitando l’improvvisazione che spesso genera errori di cui il debitore potrebbe rispondere. Ad esempio, in concordato i pagamenti seguono il piano omologato: l’imprenditore non rischia cause di revocatoria su quei pagamenti, e i creditori chirografari non pagati oltre il piano non possono pretendere altro. Questo riduce l’incertezza.
  • Un concordato preventivo libera l’imprenditore dai debiti residui una volta eseguito: la società si “ripulisce”. Se poi i soci decidono di proseguire l’attività con la società risanata, non avranno strascichi sui debiti pregressi. Se la società viene liquidata, i crediti insoddisfatti sono stralciati e i creditori non hanno più titolo né contro la società (che si estingue) né contro i soci (salvo garanzie).
  • Anche un accordo di ristrutturazione riduce formalmente il debito ed evita il fallimento, preservando il controllo in capo all’imprenditore durante l’esecuzione. Ciò evita, ad esempio, l’azione del curatore per responsabilità: se l’azienda non fallisce, il curatore non c’è. I creditori aderenti rinunciano a quote di credito volontariamente e non potranno rivalersi sui soci per quelle (tranne i garanti esterni).
  • Nell’ambito di concordati o accordi omologati, è possibile includere clausole di manleva per garanti personali: es. la banca può accettare il concordato e liberare il socio garante in cambio di un pagamento percentuale. In un piano attestato, i soci possono negoziare direttamente con i creditori questa liberazione, offrendo magari un apporto extra dal loro patrimonio. Ciò è più difficile in fallimento, dove i garanti rimangono obbligati per intero senza trattativa. Quindi procedure negoziali flessibili permettono di trovare soluzioni anche per proteggere i garanti (fosse anche convincendo i creditori a non aggredirli perché conviene la soluzione concordata).
    In sostanza, attivare un concordato preventivo può essere visto come una “messa in sicurezza” della situazione: blocca il disordine (pignoramenti, corse dei creditori) che spesso portano all’esposizione personale dell’imprenditore. Certo, c’è la contropartita di subire il controllo del tribunale e dover pagare almeno parzialmente i debiti secondo un piano. Ma se il piano è ben fatto, l’imprenditore sa esattamente a quanto ammonta il sacrificio (es. pagherò il 40% in 4 anni) e oltre quello è libero. Con il fallimento, i tempi e gli esiti sono incerti e come visto le responsabilità possono ampliarsi. Con il concordato, se omologato, difficilmente ad esempio un creditore potrà poi far causa all’amministratore: ha approvato un piano, implicitamente accettando come è stato gestito il passato (salvo frodi).
    Quindi, sì: proceduralizzare la crisi (concordato, accordo) aiuta a tutelare il patrimonio perché mette l’evento sotto una cornice legale che dà esdebitazione, e riduce spazi per azioni individuali. Naturalmente, va scelto lo strumento adatto: un piccolo imprenditore sotto soglia opterà per un concordato minore (procedura di sovraindebitamento) anziché un concordato preventivo standard; un’impresa ancora vitalizzabile tenterà l’accordo o la composizione negoziata invece del concordato liquidatorio, ecc. L’importante è non lasciare la situazione degenerare fuori controllo.

D: Se la società fallisce (liquidazione giudiziale), per quanti anni resto responsabile come ex amministratore o socio?
R: Dopo la chiusura del fallimento:

  • Per i soci: come detto, se non hanno ricevuto nulla, non hanno responsabilità ulteriori (il debito residuo della società è cancellato con l’estinzione della società stessa). Quindi i soci non sono più perseguibili dai creditori sociali oltre la chiusura della procedura (salvo emersione di attivo occulto che abbiano incamerato, ma quello semmai il curatore lo avrebbe già aggredito). I soci però possono dover conservare i libri 10 anni e restare raggiungibili 5 anni per eventuali questioni fiscali. Passati 5 anni dalla chiusura, direi che nessuno può più tormentarli per cose legate a quel fallimento.
  • Per gli amministratori: se il curatore o i creditori hanno promosso cause di responsabilità, queste possono durare anche oltre la chiusura del fallimento. Ad esempio, se al momento del riparto finale è pendente una causa contro gli ex amministratori, la procedura può chiudersi (magari ripartendo intanto l’attivo disponibile) ma la causa prosegue tra curatore (o i creditori nel frattempo succeduti come attori) e amministratori. Talvolta quindi un amministratore può trovarsi a pagare un risarcimento anni dopo la chiusura, se perde la causa. Inoltre, sul fronte penale, i reati di bancarotta hanno tempi lunghi: l’azione penale si avvia con la dichiarazione di fallimento e può concludersi dopo molti anni. Le pene accessorie (interdizione, inabilitazione) colpiscono l’ex amministratore per periodi (di solito 10 anni di interdizione da ruoli in società, a seconda della condanna). Ciò significa che, realisticamente, un fallimento può avere effetti sull’ex amministratore anche per 10+ anni (tra processo penale e cause civili).
  • C’è poi l’esdebitazione: se l’ex amministratore è anche socio illimitatamente responsabile o imprenditore individuale fallito, può chiedere l’esdebitazione personale dopo 3 anni. Ma in SRL i soci non falliscono, quindi questo aspetto non li riguarda. L’amministratore come persona fisica non aveva debiti personali “concorsuali” salvo il caso lo avessero dichiarato fallito come estensione (ma in SRL non c’è estensione fallimento a amministratori). Quindi, semmai, l’amministratore beneficia indirettamente dell’esdebitazione dell’imprenditore individuale, cosa non applicabile.
    Dopo 5 anni dalla fine del fallimento, comunque, tutte le pendenze fiscali si prescrivono (notifiche ulteriori al fallito). La responsabilità post-fallimentare più tipica per gli amministratori è: continuare a difendersi in giudizi di responsabilità e pagare se condannati; continuare a scontare eventuali pene interdittive per qualche anno; dover collaborare col curatore per chiarimenti anche dopo la chiusura (perché il curatore o i creditori potrebbero dover proseguire cause come detto).
    In pratica, per un fallimento chiuso senza strascichi giudiziari, dopo la chiusura il debitore societario e i soci sono liberi; l’amministratore anche, salvo la macchia di eventuali precedenti (e l’impossibilità per 5 anni di avviare altra attività senza informare il tribunale, come da legge fallimentare, regola non più esplicita nel CCII a dire il vero). Ma se ci sono strascichi (cause, reati), questi possono andare avanti 5-10 anni.
    Va notato, però, che le Sezioni Unite 2021 hanno sancito un principio di “ pace sociale ”: se il fallimento si chiude senza attivo residuo, i creditori non possono più far valere pretese dirette di risarcimento contro ex amministratori basate su fatti anteriori, oltre a quelle già esercitate dal curatore. Cioè, chi doveva agire ha avuto l’opportunità con il curatore; se nessuno ha agito, non possono farlo post chiusura ex novo. Ciò per evitare infinite code. Quindi, se nessuna causa è pendente alla chiusura, l’ex amministratore può tirare un sospiro di sollievo (penale a parte).

D: Cosa posso fare per proteggere i miei beni personali prima che la situazione precipiti?
R: La strategia migliore è giocare d’anticipo: finché la società è solvibile e non c’è in vista una procedura concorsuale, puoi adottare misure lecite di protezione patrimoniale:

  • Separazione patrimoni: costituire una società semplice di famiglia conferendovi i beni immobili o investimenti personali (non quelli già della società però, sarebbe distrazione). Così quei beni non saranno intestati a te in caso di aggressioni da creditori della società (che non possono far fallire la soc. semplice né pignorare direttamente beni intestati ad essa).
  • Trust o vincoli di destinazione: potresti istituire un trust per tutelare ad esempio la casa familiare o altri asset, ben prima che vi siano segnali di insolvenza conclamata. Un trust fatto quando non hai creditori rilevanti insoddisfatti è meno attaccabile.
  • Polizze assicurative vita/infortunio a premio unico: talvolta, impiegare liquidità in eccesso per sottoscrivere polizze vita può proteggere quei capitali (nei limiti in cui sono impignorabili se certi requisiti).
  • Patti antenuptiali e fondo patrimoniale: se sei coniugato, valutare di costituire un fondo patrimoniale per l’abitazione e altri beni destinati ai bisogni familiari. Però attenzione: il fondo non protegge dai debiti contratti per l’attività d’impresa (i creditori possono far dichiarare l’inopponibilità se il debito era per scopi estranei ai bisogni familiari) e se istituito in extremis è revocabile.
  • Evitare garanzie personali nuove: come già detto, non firmare nuove fideiussioni o cambiali per tamponare la situazione. Quelle gettano un ponte dal debito della società al tuo patrimonio.
  • Rimodulare debiti garantiti: se hai già garanzie personali in essere (es. ipoteca su tua casa per mutuo aziendale), cerca di negoziare con la banca soluzioni: ad esempio, vendere volontariamente l’immobile per chiudere il debito residuo, invece di attendere eventuale escussione forzata con peggiori esiti.
  • Considerare la rinuncia ai crediti del socio verso la società: se la società ti deve dei soldi (finanziamenti soci), valutare di postergarli ufficialmente o di rinunciarvi, in modo da migliorare la situazione patrimoniale e ridurre il rischio di insolvenza (questo protegge indirettamente perché magari evita un fallimento).
    In pratica, mettere al sicuro il tuo patrimonio personale va fatto quando l’azienda ancora paga i creditori regolarmente, altrimenti rischi contestazioni di frode. Il tempismo è tutto: appena percepisci che l’attività può avere problemi, inizia a separare conti e proprietà. Rivolgiti a consulenti esperti di pianificazione patrimoniale (trustee, notai per società semplici, ecc.).
    Naturalmente queste mosse preventive hanno senso se fatte nella legalità: non devi nascondere beni rubati ai creditori, ma solo organizzare i tuoi averi in contenitori più protetti. Se invece la crisi è già conclamata (debiti scaduti non pagati) queste operazioni potrebbero essere poi revocate (entro 2 anni una costituzione di fondo patrimoniale o trust senza adeguato corrispettivo è revocabile dal curatore come atto a titolo gratuito pregiudizievole).
    Quindi, la regola è: giocare d’anticipo, quando ancora nessuno può accusarti di spostare beni “in frode”. Pianificare quando il mare è calmo per affrontare la tempesta. Inoltre, affiancare a queste misure anche un corretto uso degli strumenti di crisi: se vedi che l’azienda non si salva, non bruciare anche il patrimonio familiare nel tentativo vano di salvarla. Meglio chiudere l’azienda (o portarla in concordato) preservando la liquidità privata, piuttosto che indebitare anche quella e poi perdere tutto.

D: Quanto dura una procedura fallimentare e quanto una di concordato?
R: La durata può incidere sui tempi in cui rimangono vincolati beni ed emergono responsabilità:

  • Storicamente, un fallimento (liquidazione giudiziale) durava in media 7-8 anni, ma con forti scostamenti (piccoli fallimenti senza beni chiusi in 1-2 anni, grandi casi che durano oltre 10 anni). Il CCII vorrebbe chiuderli in 3 anni (o 6 per i più complessi). Dalla nostra esperienza, piccole SRL fallite con poco attivo vengono chiuse in 2-3 anni con decreto di chiusura. Durante quel periodo, l’ex amministratore vede i suoi poteri decaduti e deve collaborare col curatore; i soci restano spettatori (a meno li chiamino in azioni revocatorie o simili). Se dopo la chiusura rimangono cause in corso, quelle come detto proseguono.
  • Un concordato preventivo può essere decisamente più breve nell’iter di omologa: diciamo 6-12 mesi per l’omologa, più qualche anno per l’esecuzione del piano (pagamenti rateali). Una volta omologato, però, la società esce dallo stato di insolvenza giuridicamente: se è in continuità, torna in bonis sotto ogni profilo (gestione ordinaria con i vincoli del piano). Se è liquidatorio, la liquidazione viene eseguita sotto controllo del commissario e del liquidatore nominato, ma di solito in 1-2 anni si chiude. Quindi il concordato può chiudersi del tutto in tempi più contenuti di un fallimento e l’imprenditore riprende il controllo subito dopo l’omologa (salvo obblighi di relazione semestrale se in esecuzione).
  • Un accordo di ristrutturazione è ancora più rapido: da quando lo presenti a quando è omologato possono bastare 2-4 mesi (se non ci sono opposizioni gravi). Dopo l’omologa, l’azienda torna normale e deve solo rispettare i patti (il tribunale non supervisiona l’esecuzione attivamente come nel concordato). Se per caso l’accordo salta, i creditori potranno reagire (chiedendo fallimento).
  • La composizione negoziata ha durata massima 12 mesi: o trova una soluzione o no. Durante quel periodo (fino a 1 anno) hai la protezione se concessa. Poi o concludi un accordo/simile, o potresti proseguire con un concordato semplificato (che poi in altri 3-6 mesi si definisce), oppure torni in balia dei creditori. Diciamo che la comp. negoziata è un “timeout” di alcuni mesi per evitare la crisi irreversibile.
    In tutti i casi, attivare procedure riduce la durata dell’incertezza rispetto a trascinarsi indefinitamente: lasciare la società in vita insolvente potrebbe portare a decreti ingiuntivi e pignoramenti per anni, che colpiscono magari i soci garanti. Meglio una soluzione concorsuale che definisce un termine. Quindi, come regola, concordato/accordo = durata definita e (di solito) inferiore al fallimento, ma con impegni di pagamento; fallimento = durata incerta e potenzialmente lunga, ma il debitore non paga nulla (paga col patrimonio residuo).

D: Si può evitare il fallimento liquidando volontariamente la società e pagando solo alcuni creditori?
R: Tentare di evitare il fallimento pagando solo alcuni creditori e non altri (liquidazione “selettiva”) è rischioso e spesso fallimentare (in senso letterale). Se paghi solo alcuni e lasci altri a bocca asciutta, questi ultimi con alta probabilità chiederanno il fallimento entro l’anno dalla cancellazione. Inoltre, i pagamenti preferenziali fatti durante la liquidazione volontaria possono essere revocati dal curatore poi nominato, se avvenuti in periodo sospetto senza un accordo omologato. In pratica, liquidare volontariamente funziona se riesci a pagare tutti i creditori in modo sostanzialmente integrale (o se chi non paghi accetta di rinunciare al credito). Se solo alcuni vengono soddisfatti e altri no, il fallimento postumo è dietro l’angolo. C’è un’eccezione: imprese molto piccole non soggette a fallimento (sotto soglie) – in quel caso, se i creditori non possono far dichiarare fallimento, potrebbero però aggredire liquidatore e soci nei limiti visti. Ma ormai le soglie fallimentari sono basse (basta €30k di debiti e 2 su 3 requisiti superati).
Dunque, a meno di accordi su misura, non si elude il fallimento liquidando e lasciando debiti: la legge stessa prevede che l’insolvenza manifestatasi in liquidazione conduce al fallimento. Lo scopo è evitare che le società possano “scomparire” lasciando un buco ai creditori.
Meglio allora percorrere la via di un accordo formale (accordo di ristrutturazione o concordato): in tal caso alcuni creditori potrebbero essere pagati al 100% (privilegiati) e altri al 20% (chirografari) in base alla legge e quel 20% di saldo a zero per i chirografari sarà legittimo e vincolante, evitando il fallimento. Ma farlo unilateralmente (pagare chi vuoi e cancellarti) non funziona, anzi comporta anche possibili responsabilità per liquidatore (pagare alcuni e non le imposte, ad es., lo rende responsabile verso Fisco).

D: La composizione negoziata è pubblica? I miei fornitori e clienti lo verranno a sapere?
R: La composizione negoziata è tendenzialmente riservata. L’istanza si deposita su piattaforma senza annuncio pubblico. La nomina dell’esperto non è pubblicata su registri accessibili al pubblico (a differenza del concordato, dove l’apertura viene iscritta nel Registro Imprese). Solo se chiedi al tribunale le misure protettive (blocco azioni) la legge impone di rendere nota la pendenza: l’istanza di misure protettive dev’essere iscritta nel Registro delle Imprese. Quindi i creditori e chiunque faccia una visura camerale vedranno l’annotazione che l’impresa ha richiesto misure protettive ex art. 18 CCII in data tot. Già il decreto legge 118/2021 era chiaro su questo punto, per garantire trasparenza verso terzi. Se però non chiedi misure protettive (ovvero non richiedi lo stay al tribunale), la procedura rimane del tutto confidenziale: saranno coinvolti solo i creditori che tu decidi di convocare alle trattative con l’esperto. L’esperto è tenuto alla riservatezza e anche i creditori in trattativa dovrebbero rispettarla per buona fede. Quindi, in teoria, fornitori estranei o pubblico non ne verranno a conoscenza.
Tieni però presente: se la tua impresa ha debiti e inizi a negoziare, la voce può girare comunque nel settore; inoltre, se chiedi dilazioni ai creditori, spesso questi lo riferiscono ad altri (banche segnalano a centrale rischi…). Insomma, la riservatezza legale c’è, ma di fatto qualche segnale filtrerà.
Ma formalmente, sì: la comp. negoziata offre maggiore riservatezza rispetto al concordato (che è subito pubblico e spaventa partner). Un consiglio pratico: potresti iniziare la composizione senza chiedere misure protettive per il primo periodo, trattando “sotto traccia” con i creditori principali. Se vedi che serve più tempo o qualcuno minaccia azioni, allora chiedi le misure protettive; a quel punto si pubblicizza, ma magari avrai già uno schema di accordo quasi fatto. In tal modo, minimizzi il periodo di pubblicità negativa (es. un paio di mesi invece che 6).
C’è da dire che con la normalizzazione dello strumento, la notizia di una comp. negoziata per un’azienda potrebbe non essere percepita malissimo dal mercato: può esser visto come “stanno cercando di sistemare i debiti assistiti da esperto, non sono ancora falliti, forse ce la faranno”. Mentre il concordato suona più come “sono insolventi, taglieranno i debiti, attenzione”.
In conclusione: no, la comp. negoziata non è resa nota al pubblico salvo tu attivi la protezione giudiziale, e persino in quel caso molti potrebbero non accorgersene subito (non c’è PEC a tutti i creditori come nel concordato, si affida all’iscrizione nel registro). È uno dei vantaggi pensati per incentivare le imprese a usarla precocemente, senza timore di allarmare l’ecosistema.


Queste FAQ coprono i dubbi più comuni e pratici. Ovviamente ogni situazione presenta peculiarità, e andrebbe valutata con professionisti. Ma i concetti di base sono: la SRL offre una barriera per i soci che va sfruttata correttamente (senza forzarla con comportamenti scorretti); in caso di crisi, esistono strumenti legali efficaci per chiudere la società in modo ordinato e ridurre i propri rischi; l’importante è muoversi presto e in buona fede.

Fonti Normative, Giurisprudenziali e Dottrinali Utilizzate

Normativa Italiana (Codici e leggi):

  • Codice Civile: artt. 2086 (assetti adeguati e dovere rilevare la crisi), 2394 (azione dei creditori sociali, ora riflesso in 2476 c.7), 2407 (responsabilità sindaci), 2462 (responsabilità limitata soci SRL), 2475-2476 (amministrazione di SRL, responsabilità verso società e terzi), 2482-bis e ter (perdite oltre 1/3 capitale), 2484 (cause di scioglimento società), 2485-2487 (obblighi amministratori in scioglimento e nomina liquidatori), 2486 (gestione successiva allo scioglimento e criteri di danno), 2495 (effetti della cancellazione, responsabilità post estinzione).
  • R.D. 267/1942 (Vecchia Legge Fallimentare) – citata per riferimenti storici: art. 67 (revocatoria fallimentare, esenzioni piani attestati), art. 146 (azione di responsabilità del curatore), art. 182-bis (accordi di ristrutturazione dei debiti).
  • D.Lgs. 14/2019 e successive modifiche – Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII):
    • art. 2 (definizioni di crisi e insolvenza), art. 3 (doveri di adeguatezza assetti e segnalazione),
    • artt. 12-25 (Composizione negoziata), 25-sexies e septies (concordato semplificato),
    • artt. 56 (Piani attestati di risanamento), 57-60 (Accordi di ristrutturazione), 61 (accordi con efficacia estesa), 63 (cram down fiscale), 64-73 (concordato preventivo, continuità vs liquidatorio), 84-94 (disciplina concordato, classi e contenuto), 94-102 (procedura di concordato, voto), 112-114 (omologa concordato), 120 (risoluzione concordato),
    • 121-136 (Liquidazione Giudiziale): 121 (dich. insolvenza), 125 (effetti su società – scioglimento), 189-197 (azione responsabilità organi), 213 (programma di liquidazione del curatore entro 60gg), 230-233 (chiusura liquidazione anche con cause pendenti),
    • 247-254 (procedure sovraindebitamento per soggetti minori),
    • 255 (azione di responsabilità esercitata dal curatore),
    • 256-260 (responsabilità personale imprenditore, esdebitazione: art. 282 – esdebitazione dell’imprenditore entro 3 anni),
    • 277-281 (liquidazione del patrimonio del debitore non fallibile – Liquidazione controllata),
    • 322-323 (bancarotta fraudolenta), 324 (bancarotta semplice e altri reati concorsuali), 325-332 (pene accessorie e misure penali).
  • D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021: normativo originario Composizione Negoziata (poi confluito in CCII). Ha introdotto transitoriamente il concordato semplificato e linee guida. Abrogato dal 15/07/2022, ma di fatto attuato nel CCII modificato dal D.Lgs. 83/2022 (c.d. “correttivo” di attuazione Direttiva UE 2019/1023).
  • D.Lgs. 83/2022: modifiche al CCII – riduzione soglia accordi di ristrutturazione (30% per misure protettive, 50% se da comp. negoziata), introduzione efficacia estesa ex art. 61, nuova disciplina transazione fiscale ex art. 63 CCII, precisazioni concordato semplificato.
  • D.Lgs. 169/2020: prime modifiche CCII (rinvio entrata in vigore e qualche correttivo tecnico).
  • D.L. 118/2020 conv. L. 147/2021 art. 3-11** (Misure urgenti)**: Inserito art. 9 sulle misure protettive e art. 18 sul concordato semplificato (ora trasfusi in CCII).
  • Legge 155/2017: legge delega riforma crisi – utile perché ha ispirato art. 2486 co.3 c.c. e introduzione obblighi assetti.
  • D.P.R. 602/1973: art. 36 (responsabilità liquidatore per imposte non assolte).
  • D.Lgs. 74/2000: Art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento imposte – confluito ora art. 344 CCII).
  • D.L. 78/2010 conv. L. 122/2010** art. 2 comma 61**: soglie di non fallibilità (attivo ≤ €300k, ricavi ≤ €200k, debiti ≤ €500k).
  • D.L. 35/2005 conv. L. 80/2005: introdotto art. 182-bis l.fall. (accordi) e art. 67 co.3 lett. d (piano attestato).
  • D.L. 83/2012 conv. L. 134/2012: riforma crisi 2012 – modifiche su concordati e accordi, introdotto art. 182-bis co.5 (transazione fiscale nei concordati/accordi).
  • D.M. 28/09/2021 Min. Giustizia: requisiti esperti composizione negoziata. Decreto Dirigenziale Min. Giust. 21/03/2023: check-list aggiornata per comp. negoziata.
  • D.Lgs. 136/2024 (terzo correttivo CCII, settembre 2024): miglioramenti a composizione negoziata (es. possibilità transazione fiscale dentro comp. negoziata) e altre modifiche minori (non tutti i dettagli pubblici ancora).

Giurisprudenza (sentenze chiave 2018-2025):

  • Cass., Sez. Un. civili, 27/12/2017 n. 307/2018 (dep. 2018): principio su estensione art. 2495 c.c. – creditori insoddisfatti di società estinta possono agire contro soci pro quota e contro liquidatori illimitatamente per colpa.
  • Cass., Sez. Un. civili, 18/04/2019 n. 6070: soci non rispondono di debiti societari se non nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione; notifica atti impositivi a società estinta e decorrenza termini.
  • Cass., Sez. I, 07/05/2019 n. 12120: revocatoria ex art. 67 l.f. di atti in esecuzione di piani attestati – necessità valutazione ex ante del piano in sede di giudizio.
  • Cass., Sez. I, 28/01/2020 n. 3018: conferma esenzione revocatoria atti piano attestato se piano appare idoneo; in caso di fallimento successivo giudice deve valutare requisiti piano (non basta attestazione).
  • Cass., Sez. I, 25/05/2020 n. 9541: criterio differenziale netti patrimoniali (art. 2486 c.c. novellato) è retroattivamente applicabile ai giudizi pendenti (norma di immediata applicazione).
  • Cass., Sez. Un. civili, 26/07/2021 n. 41994: (pres. Di Marzio) ha definito che art. 2486 c.c. co.3 è applicabile anche a fatti antecedenti e processi in corso; ha chiarito onere della prova e natura presunzione (relativa).
  • Cass., Sez. Un. civili, 17/12/2021 n. 40997: (rv. 663000) su compensazione crediti fiscali in concordato e ruolo voto Erario (premesse recepite in L. 176/2020).
  • Cass., Sez. Un. civili, 04/03/2022 n. 6072: ha statuito che l’apertura del concordato preventivo non è causa di scioglimento societario di per sé (interpretazione ante CCII, superata poi dall’art. 2484 co.1 n.6 introdotto dal DLgs 83/2022 che invece considera l’apertura liqu. giud. o liquidazione controllata causa di scioglimento).
  • Cass., Sez. Un. civili, 07/04/2022 n. 10048: SU su rapporti tra azione sociale e dei creditori vs amministratori in fallimento – l’azione del curatore ex art. 146 L.F. assorbe entrambe, dopo chiusura fallimento creditori non possono iniziarne di nuove (principio di economia processuale).
  • Cass., Sez. I, 17/03/2022 n. 8740: definisce che l’ammissione concordato non preclude azioni ex art. 2394 c.c. creditori vs amministratori se poi il concordato viene risolto o omologato senza soddisfare integrale estranei (questione ora risolta da CCII art. 120).
  • Cass., Sez. I, 15/02/2022 n. 4696 (Pres. Di Marzio, Rel. Lamorgese): Sez. Unite civili che chiarisce mancanza di disciplina risoluzione accordi ristrutturazione – in caso di fallimento successivo, accordo si risolve ex lege per impossibilità, obbligazioni originarie rivivono. Principio di diritto in Dirittobancario 3/02/2025.
  • Cass., Sez. I, 17/12/2024 n. 32996 (Pres. Cristiano, Est. Pazzi): v. sopra, conforme a SU 4696/2022, risoluzione accordi omologati post fallimento.
  • Cass., Sez. I, 28/02/2024 n. 5252 (Pres. Di Marzio, Rel. Terrusi): ha ribadito criteri art. 2486 c.c. – onere prova in capo a convenuto di diverso ammontare danno e irrilevanza eventuale inattività per mancanza scritture (applicazione massime anche in Dirittodellacrisi).
  • Cass., Sez. Unite penali, 31/03/2016 n. 22474: sull’amministratore di fatto – estende responsabilità penale per bancarotta ai soggetti che ingeriscono costantemente (soci dominus).
  • Cass., Sez. V penale, 24/02/2020 n. 14014: su bancarotta preferenziale, elemento soggettivo – distingue pagamento di necessità per continuità vs volontà di favorire taluni creditori; tendenza recente a escludere reato se atto funzionale.
  • Tribunale di Milano, Sez. special. impresa, 16/07/2025 (ord.): proroga misure protettive in composizione negoziata – richiede bozza accordo avanzata.
  • Tribunale di S. Maria C.V., 11/10/2024 (decr.): ammette concordato semplificato senza attestazione finale di esperto sulla buona fede per cause non imputabili al debitore; consente modifica proposta concordato semplificato in corso.
  • Tribunale di Roma, 08/04/2022 (decr.): autorizza finanziamento prededucibile in composizione negoziata per pagamento fornitori strategici, confermando prededuzione a esito comunque (rif. anche art. 22 CCII).
  • Tribunale di Avellino, 07/12/2022 (decr.): sulla proroga misure protettive in comp. negoziata – condizioni (trattative in stadio avanzato, offerte vincolanti).
  • Tribunale di Venezia, 15/09/2022: revoca misure protettive comp. negoziata per condotte distrattive debitore (mancanza buona fede, art. 19 co.5 CCII).
  • Tribunale di Palermo, 21/04/2023: omologa concordato semplificato come primo caso in Sicilia, rileva soddisfazione creditori migliore del fallimento e assenza voto – conferma principio pro-debitore.
  • Tribunale di Milano, 10/05/2023 (sent.): afferma che la condotta di agire in comp. negoziata esonera amministratori da responsabilità aggravamento ai sensi art. 2486 (interpretazione analogica art. 23 co.4 CCII) – pronuncia segnalata in dottrina.

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Chiudere una società a responsabilità limitata in difficoltà economica richiede attenzione e competenza. Se la gestione non viene condotta correttamente, il socio o l’amministratore può essere chiamato a rispondere personalmente dei debiti, soprattutto in caso di irregolarità fiscali, omessi versamenti o condotte considerate dolose o gravemente negligenti. Esistono però procedure legali che consentono di cessare l’attività, gestire i debiti e tutelare i beni personali.


🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📂 Analizza la situazione patrimoniale e debitoria della SRL, individuando eventuali rischi per i soci e l’amministratore

📌 Ti consiglia la procedura più adatta: liquidazione volontaria, liquidazione giudiziale o composizione negoziata della crisi

✍️ Predispone un piano di chiusura che salvaguardi il patrimonio personale e riduca l’esposizione debitoria

⚖️ Ti assiste nei rapporti con Agenzia delle Entrate, INPS, banche e fornitori per bloccare azioni esecutive

🔁 Valuta soluzioni come l’esdebitazione o accordi transattivi per chiudere le pendenze in modo sostenibile


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto societario, crisi d’impresa e procedure concorsuali

✔️ Specializzato nella tutela del patrimonio personale dei soci e degli amministratori

✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia


Conclusione
Chiudere una SRL in crisi senza rischiare il proprio patrimonio è possibile se si agisce in modo tempestivo e con una strategia legale mirata.
Con il giusto supporto puoi cessare l’attività, gestire i debiti e ripartire senza pendenze personali.

📞 Contatta subito l’Avvocato Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la chiusura sicura della tua SRL comincia da qui.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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