Accertamento Agenzia Delle Entrate A Carico Di Tassista: Strategie Di Difesa

Hai ricevuto un accertamento dall’Agenzia delle Entrate per la tua attività di tassista e non sai come reagire?
Il settore taxi è spesso oggetto di controlli mirati, con verifiche su corse, incassi, spese e dichiarazioni fiscali. Se ti contestano ricavi non dichiarati, irregolarità IVA o incongruenze nei dati comunicati, è fondamentale impostare una difesa mirata per evitare sanzioni pesanti e proteggere il tuo lavoro.

Quando un tassista può subire un accertamento fiscale
– Quando i ricavi dichiarati risultano incoerenti rispetto ai chilometri percorsi, alle ricevute rilasciate e ai costi sostenuti
– Quando emergono differenze tra gli incassi (anche con POS) e i corrispettivi registrati
– Quando le dichiarazioni IVA o dei redditi presentano anomalie o incongruenze
– Quando l’Agenzia delle Entrate utilizza controlli induttivi basati su medie di settore o su parametri standard
– Quando segnalazioni o incroci di dati con altre banche dati evidenziano possibili omissioni

Cosa può accadere dopo un accertamento
– Richiesta di pagamento di maggiori imposte (IRPEF, IVA, addizionali)
– Applicazione di sanzioni e interessi che fanno crescere il debito
– Notifica di cartelle esattoriali e possibile avvio di procedure esecutive
– Rischio di pignoramento di conto corrente o altri beni
– Nei casi più gravi, segnalazioni per presunti reati tributari

Strategie di difesa per un tassista
– Far esaminare l’avviso di accertamento da un avvocato tributarista esperto nel settore trasporti
– Richiedere copia della documentazione e dei calcoli utilizzati dal Fisco per la ricostruzione dei ricavi
– Dimostrare, con ricevute, fogli di servizio, registri di incassi e documenti contabili, l’effettiva entità dei guadagni
– Contestare presunzioni di reddito basate su medie di settore che non tengono conto di fattori specifici (periodi di fermo, manutenzioni, malattie, calo di domanda)
– Fornire giustificazioni documentate per eventuali differenze tra incassi e dichiarazioni
– Valutare l’accertamento con adesione per ridurre sanzioni e interessi, se la pretesa è solo parzialmente fondata

Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della pretesa tributaria
– La riduzione significativa di sanzioni e interessi
– La sospensione di cartelle e azioni esecutive
– La tutela del reddito e del mezzo di lavoro
– La possibilità di continuare l’attività senza blocchi finanziari

Attenzione: negli accertamenti ai tassisti il Fisco si basa spesso su presunzioni standardizzate che non sempre riflettono la realtà dell’attività. Una documentazione precisa e una difesa tempestiva possono fare la differenza.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e difesa delle attività di trasporto – ti spiega come affrontare un accertamento fiscale come tassista e quali strategie mettere in campo per proteggerti.

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Introduzione

L’accertamento fiscale nei confronti di un tassista è un atto con cui l’Agenzia delle Entrate rettifica i redditi dichiarati dal contribuente (in questo caso il conducente taxi) ritenendoli inferiori al reale e richiedendo quindi imposte aggiuntive, interessi e sanzioni. Si tratta di una situazione non rara, poiché il settore dei taxi – caratterizzato da ricavi spesso in contanti e costi variabili (carburante, manutenzione, licenze) – può presentare anomalie dichiarative che attirano l’attenzione del Fisco. Ad esempio, dichiarazioni di incassi insolitamente bassi o costanti nel tempo, incoerenti con l’attività svolta (magari in città turistiche o con orari di lavoro elevati), possono indurre l’Amministrazione finanziaria a sospettare un’evasione parziale dei redditi.

Dal punto di vista del tassista (contribuente), un avviso di accertamento rappresenta un evento critico: occorre capire le motivazioni dell’atto, verificare la correttezza della pretesa fiscale e attivare tempestivamente le strategie di difesa, in via amministrativa o giudiziale, per tutelare i propri diritti. In questa guida, aggiornata a luglio 2025, esamineremo in dettaglio gli strumenti normativi e giurisprudenziali a disposizione di un tassista per difendersi da un accertamento dell’Agenzia delle Entrate. Adotteremo un taglio avanzato, adatto a professionisti legali, imprenditori e contribuenti esperti, ma con un linguaggio il più possibile chiaro e divulgativo.

Illustreremo anzitutto il quadro normativo dell’accertamento tributario in Italia, con particolare riguardo ai metodi accertativi utilizzati per i piccoli imprenditori (come i conducenti taxi) e i relativi oneri probatori. Successivamente, analizzeremo le fasi del procedimento e le strategie di difesa attuabili in ciascuna fase: dagli strumenti deflattivi del contenzioso in sede amministrativa (come l’adesione all’accertamento e l’autotutela), fino alle tutele nella fase giurisdizionale (ricorso alle Commissioni Tributarie di primo e secondo grado, appello e oltre). Includeremo riferimenti alla più recente giurisprudenza (sentenze di Cassazione fino al 2024) e alle novità normative (come la riforma della giustizia tributaria del 2022-2023 e le nuove disposizioni sul contraddittorio e sull’autotutela introdotte nel 2023/2024).

Troverete inoltre esempi pratici, simulazioni di casi concreti, tabelle riepilogative per schematizzare concetti chiave, e una sezione Domande & Risposte che affronta i quesiti più comuni dal punto di vista del contribuente-tassista. Infine, tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate saranno elencate in fondo alla guida, così da consentire approfondimenti e verifica dei riferimenti.

Nota sul linguaggio e riferimenti: useremo termini giuridici correnti (ad es. avviso di accertamento, controvertibilità, onere della prova) spiegandone il significato pratico. Le Commissioni Tributarie (Provinciale e Regionale) recentemente sono state ridenominate, rispettivamente, Corte di Giustizia Tributaria di primo grado e di secondo grado (D.Lgs. 2 dicembre 2022 n. 130), ma per semplicità useremo ancora le sigle CTP e CTR riconosciute dagli operatori. Ogni affermazione rilevante è supportata da fonti autorevoli (normative, prassi ufficiali o sentenze di legittimità), citate nel formato richiesto.

Passiamo dunque ad esaminare il tema, iniziando dal contesto generale dell’accertamento tributario e dei poteri istruttori del Fisco in relazione all’attività di taxi.

Il contesto normativo dell’accertamento fiscale in Italia

Che cos’è un accertamento tributario? È il procedimento con cui l’amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate) controlla la veridicità delle dichiarazioni dei redditi e IVA presentate dal contribuente e, se riscontra delle discrepanze o elementi d’inattendibilità, determina un maggior reddito imponibile (o un maggior volume d’affari) su cui calcolare imposte dovute e sanzioni. Il potere di accertamento trova base in varie norme del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 (per le imposte dirette) e del D.P.R. 633/1972 (per l’IVA), nonché nello Statuto dei Diritti del Contribuente (L. 212/2000) che stabilisce principi di garanzia.

Tipologie di accertamento – analitico, induttivo, sintetico: Il Fisco dispone di diversi metodi accertativi. In situazioni ordinarie, l’ufficio procede ad un accertamento analitico basato sulle scritture contabili e sui documenti del contribuente, rettificando specifiche voci qualora trovi errori o violazioni. Tuttavia, quando la contabilità risulta formalmente regolare ma sostanzialmente inattendibile – ad esempio per incongruenze gravi rispetto alla realtà economica – la legge consente un accertamento di tipo induttivo, ossia basato su presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti (art. 39, co.1, lett. d del DPR 600/1973). Ciò significa che l’ufficio può ricostruire i ricavi non dichiarati inferendoli da elementi indiretti (indicatori economici, consumi, anomalie gestionali ecc.), anche se la contabilità in sé non presenta violazioni formali. In tali casi, la giurisprudenza qualifica la contabilità come “intrinsecamente inattendibile” per antieconomicità del comportamento e legittima l’uso di presunzioni semplici ai fini dell’accertamento, con il corollario che sul contribuente grava l’onere di provare il contrario, cioè la correttezza delle proprie dichiarazioni. Un’altra forma è l’accertamento sintetico del reddito complessivo della persona fisica (il cosiddetto redditometro ex art. 38 DPR 600/1973), che però si applica sul contribuente persona fisica in base alle spese sostenute e non è lo strumento tipico usato per i tassisti imprenditori (sebbene un tassista potrebbe subire un redditometro riferito al tenore di vita, è meno pertinente rispetto alla ricostruzione dei ricavi d’impresa). Nel caso dei tassisti, dunque, il metodo più frequente è l’accertamento analitico-induttivo sui ricavi d’impresa (art. 39, comma 1, lett. d) cit.), eventualmente affiancato da controlli IVA (art. 54 DPR 633/1972) con analoghi criteri presuntivi.

Presunzioni semplici e “gravi, precise e concordanti”: La legge impone che le presunzioni utilizzate dal Fisco abbiano requisiti di gravità, precisione e concordanza (art. 2729 c.c. e art. 39 DPR 600/73). In termini pratici, una singola presunzione di particolare forza probatoria può bastare (non è necessario un insieme nutrito di indizi) purché sia logicamente robusta e non contraddetta da altri dati. Ad esempio, per un tassista potrebbe costituire un indizio grave l’avere dichiarato incassi identici ogni mese a dispetto di forti oscillazioni stagionali della domanda, oppure l’avere consumato carburante per il doppio dei chilometri che risulterebbero dai corrispettivi dichiarati. Se l’ufficio fonda l’accertamento su tali presunzioni, spetta poi al contribuente il compito di fornire la prova contraria, spiegando in modo convincente l’anomalia (e.g. dimostrando che in certi periodi l’auto era ferma per guasti, che esistono costi non dedotti che alterano il ricarico apparente, o altre giustificazioni documentali). In mancanza di prove difensive solide, la presunzione grave regge e l’accertamento viene confermato dai giudici.

Strumenti di compliance: Studi di settore e ISA – come influiscono sull’accertamento: Per molte categorie di piccoli imprenditori (inclusi i taxi) il Fisco ha sviluppato negli anni degli strumenti statistico-matematici per valutare la congruità dei ricavi dichiarati rispetto a parametri settoriali. Fino al periodo d’imposta 2017 erano in vigore gli Studi di Settore, poi sostituiti dagli Indici Sintetici di Affidabilità fiscale (ISA). Questi strumenti attribuiscono un “punteggio di affidabilità” al contribuente in base a dati economici dichiarati e modelli econometrici di settore. Per il tassista, ad esempio, lo studio di settore (o l’ISA) tiene conto della città di esercizio, del numero di licenze, dei costi carburante, delle tariffe medie per corsa, ecc., stimando un range plausibile di ricavi annui. Se il contribuente risulta “congruo” e “coerente” rispetto a questi standard, beneficia di regola di minor probabilità di subire accertamenti (e con gli ISA può ottenere specifici benefici premiali come l’esclusione da alcuni controlli, oppure la riduzione di un anno dei termini di decadenza per l’accertamento, al raggiungimento di determinate soglie di affidabilità). Viceversa, un contribuente “non congruo” (ricavi dichiarati molto sotto la stima) o con basso punteggio ISA sarà più esposto a verifiche. Va però chiarito che la congruità ai parametri non garantisce immunità assoluta: l’ufficio può comunque procedere ad accertamento se dispone di elementi concreti di evasione. Tuttavia, in giudizio la coerenza con gli studi di settore/ISA costituisce un punto a favore del contribuente, perché l’onere probatorio dell’ufficio si aggrava: le presunzioni addotte dovranno superare la “presunzione di normalità” data dal fatto che il reddito dichiarato rientrava negli standard ufficiali. La Corte di Cassazione ha infatti annullato accertamenti fondati su calcoli astratti quando il tassista aveva dichiarato un reddito in linea con lo studio di settore: in tali casi, senza ulteriori elementi specifici, le ricostruzioni dell’Ufficio difettano di gravità e precisione e vanno invalidate. Un esempio emblematico è un caso di Firenze in cui il fisco aveva aumentato i ricavi da 18.000€ a 58.000€ basandosi soltanto su una stima di chilometri percorsi in servizio: i giudici supremi hanno ritenuto la metodologia arbitraria (mancava uno studio statistico sui km medi per corsa) e, dato che il contribuente era congruo allo studio di settore, hanno confermato l’annullamento dell’accertamento per difetto di presunzioni idonee.

Obbligo di contraddittorio preventivo: Un tassista che subisce una verifica fiscale o un accertamento ha diritto a essere trattato con trasparenza e buona fede (art. 10 L.212/2000, Statuto del contribuente) e, in certi casi, ad un contraddittorio anticipato con l’ufficio. Nel sistema italiano, a differenza di altri ordinamenti, non esiste una regola generale che imponga all’Agenzia Entrate di convocare sempre il contribuente prima di emettere l’avviso (tranne nei casi espressamente previsti). Ad esempio, per gli Studi di Settore vigeva l’obbligo di invito al contraddittorio: l’accertamento basato su studi senza aver prima invitato il contribuente a presentare le sue osservazioni è nullo. Con il passaggio agli ISA, l’obbligo formale di contraddittorio preventivo non è più automatico, anche perché gli ISA in sé non sono un metodo di accertamento ma solo indicatori di rischio. Tuttavia, quando l’ufficio utilizza parametri e medie per ricostruire i ricavi, la giurisprudenza ha spesso affermato che un contraddittorio sia opportuno e talora necessario, al fine di rispettare il diritto di difesa del contribuente (soprattutto dopo sentenze della Corte UE e della Corte Costituzionale sul punto). È quindi prassi che l’Agenzia invii un invito a comparire (magari proprio proponendo un’adesione, come vedremo) prima di emettere l’atto definitivo, quantomeno nei casi di accertamento analitico-induttivo fondato su presunzioni tecniche similari a studi di settore. Se ciò non avviene, l’eccepibilità della violazione dipende dal tipo di tributo: per i tributi armonizzati (es. IVA) il contraddittorio preventivo è ritenuto un principio fondamentale (derivato dal diritto UE) la cui assenza può invalidare l’atto se il contribuente prova che la sua partecipazione avrebbe potuto influire. Per le imposte non armonizzate (IRPEF/IRAP), vale invece la disciplina interna che – attualmente – non generalizza l’obbligo di contraddittorio, salvo disposizioni specifiche (come detto, studi di settore, o accertamenti bancari ex art. 32 DPR 600). In ogni caso, interloquire con l’ufficio nelle fasi di controllo è sempre consigliabile: presentare subito i chiarimenti e i documenti giustificativi al verificatore può talvolta evitare l’emissione dell’avviso o portare a una sua riduzione in sede amministrativa.

Tempistiche dell’azione accertativa: La legge stabilisce dei termini di decadenza entro cui l’Agenzia deve notificare gli avvisi di accertamento. Attualmente (dopo le modifiche introdotte dal DL 193/2016) il termine ordinario è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (es: per l’anno d’imposta 2020, il termine è il 31/12/2025). In caso di omessa dichiarazione, il termine diventa il 31 dicembre del settimo anno successivo. Ci sono poi cause di proroga: ad esempio, il compimento di accessi, ispezioni o verifiche presso il contribuente entro il termine finale sposta la decadenza di +2 anni; oppure il riscontro di un reato tributario (es. dichiarazione fraudolenta) raddoppia i termini. Questi dettagli sul quando l’atto può essere emesso sono importanti anche in ottica difensiva: se l’avviso viene notificato oltre termine, il contribuente può eccepirne la decadenza e ottenerne l’annullamento per vizio originario. In un contesto difensivo avanzato si controlleranno dunque con attenzione le date (anno d’imposta, eventuali proroghe per Covid o per adesioni in corso d’opera, ecc.) e la regolarità della notifica. Ad esempio, un avviso per il 2015 notificato dopo il 31/12/2020 sarebbe tardivo (salvo raddoppio) e quindi nullo.

Conclusione sul quadro generale: In sintesi, la difesa del tassista di fronte a un accertamento parte dalla comprensione del metodo usato dall’ufficio e delle prove su cui esso si basa. Sapere che la contabilità può essere contestata per antieconomicità e incongruenze, e che in tal caso il tassista dovrà dimostrare la bontà dei propri dati, aiuta a orientare la strategia: il contribuente dovrà raccogliere documenti (ricevute, registri corse, contratti, estratti conto, documentazione di fermo tecnico del veicolo, ecc.) per contestare le presunzioni dell’ufficio. D’altro canto, se l’accertamento appare fondato su mere elucubrazioni astratte e il tassista risulta aver dichiarato un reddito coerente col suo settore, si potrà far leva su tale coerenza per evidenziare la mancanza dei requisiti probatori dell’atto impositivo.

Nei paragrafi successivi entreremo nel merito specifico del caso dei tassisti, analizzando quali situazioni tipiche possono dare adito ad accertamento e come il contribuente può difendersi efficacemente, prima in sede amministrativa e poi eventualmente in sede giudiziaria.

Presunzioni ed elementi di rischio nel caso dei tassisti

In questa sezione esamineremo quali elementi concreti l’Agenzia delle Entrate tende a considerare per valutare la verosimiglianza dei ricavi dichiarati da un tassista, e quali insegnamenti emergono dalla giurisprudenza recente relativa ad accertamenti in questo settore. Conoscere in anticipo quali comportamenti o indici di rischio possano destare sospetti permette al tassista sia di prevenirli (gestendo meglio la propria contabilità e dichiarazione), sia di preparare adeguatamente la propria difesa qualora un accertamento si concretizzi.

Elementi tipici di ricostruzione dei ricavi per i taxi

L’attività di taxi si presta a ricostruzioni indirette poiché lascia tracce misurabili: i chilometri percorsi dal veicolo, i litri di carburante acquistati, le ricevute rilasciate, le tariffe ufficiali fissate dai regolamenti comunali, ecc. Di seguito, alcuni parametri che il Fisco può incrociare:

  • Chilometri annuali vs. corrispettivi dichiarati: Ogni taxi ha un contachilometri e spesso le percorrenze annue possono essere dedotte anche dai tagliandi di manutenzione o dalle schede carburante (ormai fatture elettroniche carburante). Se un tassista dichiara, poniamo, 20.000 km annui percorsi in servizio con incassi totali di 18.000€, ma risulta che ha acquistato benzina sufficiente per percorrerne 50.000, l’ufficio potrebbe sostenere che vi è un delta di chilometraggio non contabilizzato. Su questo differenziale, ipotizzando ad esempio una tariffa media per km, ricostruirebbe i ricavi occultati. Caso pratico: In un’accertamento eseguito a Firenze, l’Agenzia delle Entrate aveva stimato maggiori ricavi proprio partendo dai km percorsi: aveva ritenuto “poco credibile” che a fronte di 35.100 km dichiarati (come da studio di settore compilato) i ricavi fossero solo 18.000€, e tramite una corsa media di 3,2 km al costo medio di 6,87€ aveva rideterminato i ricavi in 58.000€. Questo approccio “chilometrico” è però rischioso se non calibrato: la Cassazione ha annullato l’atto sottolineando come fosse basato su calcoli matematici arbitrari, senza tener conto che non tutti i km percorsi dall’auto generano corrispettivi (ci sono tragitti a vuoto, uso privato del mezzo, ecc.) e senza alcun supporto statistico sulle percorrenze medie delle corse taxi in quella città. Quindi, il semplice raffronto chilometri vs incassi può essere contestato dal contribuente evidenziando queste falle (ad es., producendo la documentazione che attesta periodi di fermo o km non produttivi di corse). Se invece l’ufficio arricchisce l’analisi chilometrica con altri elementi (come vedremo nel caso seguente), l’accertamento può reggere.
  • Consumi di carburante e “piattezza” dei costi: Un indice subdolo ma rivelatore è la congruenza tra carburante consumato e ricavi dichiarati. Un tassista attivo percorrerà distanze proporzionali alle corse effettuate. Se un contribuente mostra un consumo di carburante stabile ogni trimestre ma dichiara ricavi ugualmente “piatti” e scollegati dalla stagionalità, potrebbe emergere una contraddizione. Ad esempio, se nei mesi estivi (tipicamente più lavoro in città turistiche) i km percorsi aumentano ma i ricavi restano identici agli altri mesi, c’è il sospetto che parte degli incassi non siano stati fatturati. Nella vicenda del tassista fiorentino del 2018, la CTR Toscana aveva valorizzato proprio l’anomalia dei consumi costanti: a fronte di chilometraggi variabili nei diversi trimestri, i costi e i ricavi dichiarati erano insolitamente costanti. Inoltre, il prezzo medio per km risultava inferiore alle tariffe ufficiali comunali. Il complesso di questi elementi – chilometri, carburante, stagionalità e tariffe – è stato ritenuto una prova presuntiva grave, precisa e concordante di ricavi non dichiarati. La Cassazione, confermando la legittimità dell’accertamento, ha osservato che è ragionevole presumere maggiori ricavi quando il fatto noto (ad esempio i chilometri percorsi e i litri di carburante) rende altamente probabile il fatto ignoto (incassi superiori al dichiarato) secondo canoni di comune esperienza. Questo soddisfa il requisito delle presunzioni semplici: non serve certezza, basta un elevato grado di probabilità logica. Per difendersi su questo fronte, il tassista deve fornire spiegazioni specifiche: ad esempio, dimostrare che una parte del carburante è stata consumata in tragitti extra servizio (uso personale, o perché iscritto a un servizio NCC parallelo, ecc.), oppure che ha praticato sconti/promozioni ai clienti tali da giustificare tariffe sotto la media (magari accordi con hotel, corse convenzionate a prezzo fisso più basso – anche se bisogna ricordare che l’uso di tariffe inferiori a quelle regolate potrebbe non essere lecito, e comunque sarebbe un’ammissione di comportamenti atipici).
  • Orari di lavoro e corse effettuate: Altro elemento: l’ufficio può richiedere al tassista informazioni sugli orari di lavoro (ad es. turnazioni, numero di giorni di lavoro annui). Se un taxi risulta in servizio 12 ore al giorno per 300 giorni l’anno, teoricamente le corse effettuabili sono migliaia. Se a fronte di questa potenzialità i ricavi dichiarati sono esigui, l’ufficio può ritenere antieconomica la gestione. La Cassazione ha spesso affermato che operare in perdita o con ricavi troppo bassi rispetto ai costi è indice di inattendibilità: un imprenditore normale non lavorerebbe sistematicamente in perdita, quindi dichiarare margini risicati per più anni può essere una strategia di sotto-dichiarazione (con utili reali non dichiarati). Nel caso del tassista, presentare costi elevati (carburante, manutenzione) a fronte di incassi esigui indica che l’attività sarebbe quasi in perdita, ipotesi poco credibile se protratta nel tempo. Difesa: evidenziare eventuali circostanze particolari che abbiano inciso sui ricavi di quell’anno (es. lunghi periodi di malattia o sospensione del servizio, restrizioni amministrative, lavori stradali che hanno ridotto la clientela, ecc.), mostrando che non c’è una regola pluriennale di antieconomicità ma un evento contingente. Oppure dimostrare che taluni costi dichiarati non erano correlati all’attività tipica (ad esempio spese straordinarie per motivi personali imputate in contabilità) così che il risultato “in perdita” non è indice genuino dell’andamento del lavoro.
  • Banca dati e pagamenti elettronici: Dal 2020 è obbligatorio per i tassisti dotarsi di POS e accettare pagamenti elettronici. Ciò significa che una parte dei compensi transita in modo tracciato. L’ufficio può incrociare i dati dei pagamenti elettronici (desumibili dall’Anagrafe dei rapporti finanziari o dalle comunicazioni degli intermediari) con l’ammontare dei corrispettivi dichiarati. Se – come spesso accade – la maggioranza delle corse è pagata in contanti, l’analisi del POS serve fino a un certo punto. Ma se dalle transazioni elettroniche risultano incassi significativi e il totale dichiarato non è molto superiore a quelli, potrebbe emergere che le corse in contanti non sono state interamente dichiarate. Inoltre, l’ufficio può fare indagini finanziarie sui conti bancari del tassista (e, previa autorizzazione, anche di familiari stretti): eventuali versamenti ingiustificati su tali conti possono essere imputati a ricavi non contabilizzati, salvo che il contribuente provi la diversa provenienza (donazioni, redditi esenti, ecc.). L’ordinanza Cass. n. 20816/2024 ad esempio conferma la legittimità di un accertamento basato su movimenti bancari sui conti del coniuge e della madre del contribuente, ritenuti dal Fisco frutto di ricavi in nero dell’attività d’impresa; onere del contribuente era dimostrare che tali somme avevano altra origine, altrimenti scatta la presunzione di cui all’art. 32 DPR 600/73.
  • Valore della licenza e spese per acquisirla: Un aspetto talvolta considerato (soprattutto in passato) è il valore della licenza taxi. In alcune grandi città le licenze hanno costi elevati sul mercato secondario. Se un tassista ha acquistato (o ottenuto) la licenza per un importo consistente o ha pagato un rilevante entry fee ad una cooperativa radiotaxi, è plausibile che contasse su certi livelli di reddito per rientrare dell’investimento. Incassi cronicamente bassi mal si conciliano con una licenza costosa (anche se ciò di per sé prova poco, potrebbe significare errori imprenditoriali). Alcune sentenze di merito hanno comunque preso in esame la spesa per la licenza come elemento nel mosaico indiziario sulla capacità contributiva del tassista.

In sintesi, i segnali d’allarme per l’Agenzia, nel settore taxi, includono: ricavi costanti mese per mese (“ricavi piatti”), incongruenze con le tariffe ufficiali, elevati km o consumi non coerenti coi corrispettivi, dichiarazioni di reddito estremamente basse (al limite dell’antieconomicità), discordanze tra movimenti finanziari e incassi. Questi indizi, se significativi e combinati, possono costituire quelle presunzioni gravi, precise e concordanti che la legge richiede per procedere ad accertamento induttivo.

La giurisprudenza recente: principali sentenze sui taxi e principi di diritto

Esaminiamo ora alcune sentenze chiave della Corte di Cassazione riguardanti accertamenti a tassisti, che delineano i principi applicabili. È utile vedere come, a seconda delle circostanze, gli esiti possano essere diversi: in alcuni casi il tassista è riuscito ad avere ragione, in altri l’Amministrazione ha prevalso. Tali pronunce offrono una guida su quali elementi contano in giudizio.

  • Cass. ord. n. 18906/2018 – Ricavi “piatti” e tariffe basse (Tassista di Firenze): In questo caso un tassista fiorentino aveva dichiarato per più anni ricavi uniformi ogni mese, con un prezzo medio per km risultato inferiore a quello concordato dalla categoria con il Comune. L’Agenzia ricostruì i ricavi in base a questi elementi (corse medie, tariffe ufficiali) e sia CTP che CTR diedero ragione al Fisco. La Cassazione ha confermato la legittimità dell’accertamento, affermando che dichiarare sempre lo stesso incasso mensile, in un’attività soggetta a notevoli fluttuazioni, è indice di inattendibilità. Inoltre, praticare prezzi medi per km non allineati alle tariffe autorizzate evidenzia un’antieconomicità che può ben sorreggere presunzioni di maggior reddito. Principio di diritto: in presenza di contabilità formalmente regolare ma incongrua rispetto alle condizioni di esercizio (ricavi troppo bassi rispetto a chilometri e tariffe), l’Ufficio può procedere ad accertamento induttivo basato su presunzioni semplici, e spetta al contribuente fornire la prova contraria. Nel caso di specie, la difesa non era riuscita a spiegare perché, ad esempio, lavorando in una città turistica come Firenze i ricavi non aumentassero nei periodi di alta stagione. La Cassazione ha ritenuto la motivazione del giudice d’appello adeguata e coerente, preclusa a sindacato di legittimità. Esito: accertamento confermato, tassista soccombente.
  • Cass. ord. n. 32883/2019 – Chilometri vs. schede carburante (Tassista di Firenze): Vicenda simile, ma con esito differente in grado d’appello. In questo caso l’ufficio aveva utilizzato la divergenza tra i km dichiarati negli studi di settore e i km desunti dalle schede carburante per ricostruire i ricavi. La CTR, valutando molteplici elementi (orari di lavoro 12h/die, fatture della cooperativa radiotaxi che evidenziavano chiamate, numero di ricevute, chilometri dichiarati – 35.100 – a fronte di una corsa media di 3,2 km, costo medio 6,87€), aveva dato ragione al Fisco. In Cassazione, il contribuente sosteneva che essendo congruo allo studio di settore 2003, l’Ufficio non potesse accertare senza ulteriori prove specifiche, e che mancava il contraddittorio preventivo. La Suprema Corte ha respinto tali motivi: ha ribadito che gli studi di settore sono solo uno degli strumenti utilizzabili e che l’accertamento analitico-induttivo è possibile anche in presenza di contabilità regolare, purché supportato da presunzioni in grado di far seriamente dubitare della completezza e fedeltà dei dati dichiarati. Nel merito, la Cassazione ha ritenuto che la CTR avesse individuato puntualmente una serie di gravi incongruenze (tempi di attività, esiguità dei costi di manutenzione, elevati km percorsi, ecc.) tali da giustificare l’accertamento, a prescindere dalla congruità agli studi di settore. Esito: contribuente ancora una volta perdente, con affermazione importante: la congruità agli studi di settore non “sterilizza” l’accertamento se vi sono altre prove logiche di evasione.
  • Cass. ord. n. 26018/2022 – “Accertamento chilometrico” arbitrario (Tassista congruo): Questa recentissima pronuncia ha segnato invece una vittoria per il tassista, ponendo un limite all’uso disinvolto delle presunzioni. Il caso, anticipato nell’introduzione, riguardava un tassista di Firenze che aveva tenuto una contabilità formalmente regolare ed era congruo e coerente con lo studio di settore applicabile. L’Agenzia, ritenendo comunque “poco credibili” i ricavi dichiarati (18.000€ annui), aveva proceduto ad aumentare il reddito presunto a ~58.000€ effettuando una stima basata sul numero dei chilometri: in sostanza aveva dedotto che una parte dei km percorsi (detratti arbitrariamente quelli “per finalità proprie”) fosse eccessiva rispetto ai ricavi, ricalcolando questi ultimi in proporzione. La CTP aveva confermato l’atto, ma la CTR Toscana lo annullò completamente, e la Cassazione le ha dato ragione. I giudici supremi hanno evidenziato che la “redditività presunta” era frutto di semplici calcoli matematici non fondati su riscontri oggettivi: la ripartizione tra km personali e km per servizio era stata fatta in modo arbitrario, senza uno studio statistico sulle corse medie e sui costi medi nel Comune in questione. Inoltre – elemento chiave – in presenza di una dichiarazione in linea con gli studi di settore, le presunzioni del Fisco difettavano del requisito di gravità, precisione e concordanza. Questa sentenza rimarca che il mero sospetto o l’elaborazione teorica non bastano: servono indizi concreti e non contraddittori per legittimare l’accertamento, specie se il contribuente ha già superato il vaglio degli indicatori ministeriali. Esito: accertamento nullo, contribuente vittorioso, principio della necessaria solidità delle presunzioni in caso di contribuente “virtuoso” negli studi di settore.
  • Cass. sent. n. 8342/2020 – Antieconomicità e onere della prova: Questa decisione (una sentenza della Quinta Sezione Tributaria) affronta in generale il tema dell’antieconomicità per le imprese di piccole dimensioni (con riferimento anche al caso taxi). La Corte ha ribadito che se l’Ufficio contesta al contribuente un comportamento antieconomico – nel senso di ricavi troppo esigui rispetto ai costi o al potenziale – ciò rende la contabilità intrinsecamente inattendibile e abilita l’accertamento induttivo. In tali ipotesi, “incombendo sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni”. Inoltre, viene confermato che anche un solo elemento (purché preciso e grave) può sorreggere il convincimento del giudice di merito, senza bisogno di una molteplicità di indizi. Nel caso di specie, la Cassazione ritenne corretta la modalità di accertamento analitico-induttivo e censurò la CTR che l’aveva annullato basandosi solo sulla regolarità formale della contabilità: una contabilità formalmente regolare non è intoccabile se viene dimostrata un’enorme incongruenza (nel caso della sentenza, si parlava di percentuali di ricarico anomale: era però un caso di commerciante, non tassista). Questo principio è comunque applicabile: se un tassista sostiene ad esempio 10.000€ di costi carburante e dichiara 12.000€ di incassi, ha un margine talmente ridotto (2000€) che appare illogico; l’ufficio può quindi legittimamente dubitare e ricostruire il reddito, e spetterà al tassista provare perché quell’anno è andata così (ad es., avendo cambiato auto, sostenuto costi straordinari, fatto pochi turni, etc.).
  • Cass. ord. n. 27692/2024 – Presunzioni vs contribuente congruo (tendenze attuali): Questa pronuncia, emessa a fine 2024, conferma la tendenza già vista nel 2022 di maggiore rigore verso il Fisco quando il contribuente risulta affidabile secondo gli indicatori ufficiali. Dalla nota apparsa sulla stampa specializzata, si evince che la Cassazione ha accolto il ricorso di un tassista congruo, affermando che per procedere ad accertamento sono necessari elementi presuntivi davvero “gravi e precisi” e non meri scostamenti teorici. In altri termini, se un tassista ha un profilo di compliance elevato (dichiara redditi in linea con i benchmark di settore/ISA), l’Ufficio deve portare qualcosa in più sul tavolo per giustificare un’accusa di evasione. Questo è coerente con il principio di proporzionalità e con il fatto che gli ISA mirano a premiare i contribuenti affidabili: la loro funzione deflattiva verrebbe meno se poi comunque fioccano accertamenti su contribuenti con punteggi alti senza evidenze specifiche di irregolarità.

Osservazione: Va segnalato che le pronunce di legittimità valutano primariamente la correttezza giuridica della sentenza di secondo grado (CTR). Quindi, la Cassazione può arrivare a esiti diversi non tanto perché uno scenario sia opposto all’altro, ma perché in un caso la CTR aveva motivato bene l’accertamento e nell’altro no. Ad esempio, Cass. 32883/2019 e 18906/2018 hanno convalidato accertamenti dove i giudici di merito avevano elencato chiaramente più elementi di prova, mentre Cass. 26018/2022 ha annullato un atto perché la CTR aveva ritenuto (a ragione) insufficienti le prove e la Cassazione ha condiviso che quelle presunzioni erano deboli. In pratica, per un tassista che si difende in giudizio, ciò significa che è cruciale far emergere nel processo tutte le circostanze a proprio favore, costringendo il giudice di merito a valutarle dettagliatamente: se la motivazione della sentenza di merito è robusta e aderente ai fatti, sarà difficile ribaltarla in Cassazione; se invece il contribuente non fornisce elementi e la CTR si limita a affermazioni generiche, la partita è persa.

Di seguito una tabella riassuntiva di alcune pronunce citate, con i punti salienti:

Sentenza CassazioneAnnoCircostanze principaliEsito e principio
Ord. 18906/2018 (Cass. V)2018Tassista fiorentino con ricavi “piatti” ogni mese e prezzo/km inferiore alle tariffe ufficialiAccertamento confermato – L’antieconomicità e l’incongruenza dei ricavi giustificano l’accertamento induttivo; studi di settore non vincolano il Fisco se emergono indizi gravi. Onere sul contribuente di provare eventualmente il contrario (non assolto).
Ord. 32883/2019 (Cass. V)2019Ricostruzione ricavi mediante km percorsi (schede carburante) e altri elementi (12h lavoro, stagionalità flussi a Firenze, ecc.), contribuente formalmente congruo allo studio settoreAccertamento confermato – Anche con contabilità regolare e congrua, è lecito l’accertamento analitico-induttivo ex art.39 c.1 lett.d) DPR 600/73 se ci sono presunzioni plurime gravi, precise e concordanti (km, costi, tariffe, ecc.) che rendono inattendibile il dichiarato. Studi di settore = uno strumento tra altri, non esclude accertamento.
Ord. 26018/2022 (Cass. V)2022Tassista congruo allo studio di settore; l’ufficio aumenta ricavi con calcolo su km percorsi, senza contraddittorio e senza studi statistici a supportoAccertamento annullato – Presunzioni prive di gravità e precisione in presenza di dichiarazione coerente col settore. Un calcolo matematico astratto (accertamento “chilometrico” puro) è arbitrario se non fondato su dati oggettivi e se il contribuente era virtualmente in regola. Confermato il principio che servono elementi forti per scardinare la “presunzione di normalità” data dalla congruità.
Sent. 8342/2020 (Cass. V)2020Accert. analitico-induttivo per antieconomicità (non specifico taxi, ma applicabile): contabilità formalmente ok ma margini irrisoriContribuente soccombente – Ribadito che il comportamento antieconomico (esercizio in perdita o margini illogici) legittima l’accertamento induttivo; onere del contribuente provare la correttezza delle dichiarazioni. Basta anche un solo elemento grave per fondare la ripresa.
Ord. 27692/2024 (Cass. V)2024(Dati non tutti pubblici – caso tassista) Contribuente affidabile (ISA alti) contestato su base presuntiva genericaAccertamento annullato (ricorso del tassista accolto) – In linea con Cass.2022, viene richiesto un elevato standard di gravità delle prove se il contribuente è “virtuoso”. L’assenza di gravi incongruenze concrete comporta l’illegittimità dell’atto. (Principio di continuità: l’ufficio non può accertare “per formula”, servono fatti specifici).

(Le fonti complete di ciascuna sentenza sono fornite in bibliografia. Ordinanze Cassazione significano decisioni brevi su ricorsi ritenuti manifestamente fondati/infondati nei motivi trattati.)

Sintesi per il contribuente: Un tassista deve essere consapevole che dichiarazioni anomale o troppo basse rispetto ai parametri possono attivare un accertamento. In sua difesa, può però contare sul fatto che, in giudizio, il Fisco deve comunque dimostrare indirettamente il maggior reddito con presunzioni serie. Essere congruo e affidabile (ad esempio avendo un buon punteggio ISA) non impedisce automaticamente l’accertamento, ma pone il contribuente in una posizione più forte per contestarlo. Viceversa, presentare andamenti antieconomici inspiegati mette in difficoltà la difesa: il giudice potrebbe dare per scontato che c’è evasione se il tassista non giustifica perché mai avrebbe lavorato quasi gratis.

La miglior strategia è dunque prevenire: mantenere una contabilità accurata di km, corse, incassi; evitare di dichiarare cifre improbabili (meglio dichiarare qualche euro in più che far insospettire con numeri irrealistici); e, se circostanze particolari hanno inciso, documentarle (es. tenere certificati di malattia, ricevute di officine per periodi di fermo, contratti che spiegano tariffe diverse, ecc.). In caso di accertamento, far emergere tali spiegazioni sin dal primo confronto con l’ufficio. Vediamo ora come procedere in concreto in fase amministrativa, quando l’accertamento è notificato.

Strategie di difesa in fase amministrativa (prima del ricorso)

Quando un tassista riceve un Avviso di Accertamento (o un atto preliminare come un invito al contraddittorio), la prima distinzione da fare è se intende definire la questione in via amministrativa (evitando il contenzioso) oppure prepararsi a contestare l’atto in Commissione Tributaria. La difesa in fase amministrativa si attua mediante alcuni strumenti deflattivi del contenzioso, previsti dalla legge, e attraverso l’interlocuzione con l’ufficio. Tali strumenti offrono vantaggi (spesso la riduzione di sanzioni) ma comportano in genere la rinuncia a impugnare l’atto una volta conclusi. Esaminiamoli uno per uno dal punto di vista del contribuente.

Opzione 1: Acquiescenza all’accertamento (pagamento con riduzione sanzioni)

L’“acquiescenza” consiste nell’accettare senza contestazioni l’esito dell’accertamento, pagando quanto dovuto entro il termine per il ricorso (60 giorni dalla notifica). Perché mai un contribuente dovrebbe farlo? Per via di un forte beneficio sulle sanzioni: in caso di acquiescenza, le sanzioni irrogate nell’atto vengono ridotte ad 1/3 (un terzo) del minimo edittale previsto dalla legge. Ad esempio, per un’imposta evasa di 10.000€, la sanzione “standard” per dichiarazione infedele sarebbe il 90% (minimo) = 9.000€; pagando in acquiescenza, la sanzione scende a 3.000€. Questo incentivo è stabilito dall’art. 15 del D.Lgs. 218/1997 e dall’art. 2 comma 5 del D.Lgs. 462/1997 per i tributi definiti in sede amministrativa.

Come procedere: se il tassista ritiene che l’accertamento sia sostanzialmente corretto (o comunque vede poche chance di vittoria in giudizio) e vuole chiudere subito la pendenza evitando ulteriori aggravi, può effettuare il versamento di imposta, interessi e sanzioni ridotte entro 60 giorni. Il pagamento può anche essere rateizzato (fino a 8 rate trimestrali, 16 se l’importo supera 50.000€, analogamente a quanto previsto per l’adesione). Occorre poi comunicare all’ufficio l’avvenuto pagamento, così che non iscriva a ruolo le somme. L’acquiescenza comporta rinuncia al ricorso: pagando, si “concorda” tacitamente con l’atto e questo diviene definitivo.

Vantaggi: massima semplificazione, sanzioni ridotte di 2/3, niente spese di lite o lungaggini. Svantaggi: bisogna pagare (almeno la prima rata) in tempi brevi; ci si preclude qualsiasi contestazione futura sull’atto, anche se emergessero elementi favorevoli. È quindi indicata solo se si è realmente convinti che non valga la pena lottare, oppure quando l’ufficio – magari dopo un contraddittorio informale – rettifica parzialmente l’atto e lo riformula in sede di autotutela invitando al pagamento agevolato (talvolta gli uffici usano l’acquiescenza “guidata”: correggono errori evidenti nell’avviso e propongono al contribuente di pagare con sanzioni ridotte). Attenzione: l’acquiescenza non è più ammessa se si è già presentato ricorso (bisogna optare entro i 60 giorni iniziali). Inoltre, se nell’atto sono irrogate sanzioni penali (non è il caso delle sanzioni amministrative tributarie ordinarie) o se il contribuente ha già aderito a un PVC, non si applica la riduzione.

Simulazione pratica: Il sig. Mario, tassista, riceve un accertamento che recupera IVA e IRPEF per €5.000 di imposte, con sanzione del 100% (per semplificare) pari a €5.000. Se ritiene di non avere giustificazioni solide, pagando entro 60gg dovrà versare €5.000 imposte + interessi, e sanzioni ridotte a €1.667 (un terzo di 5.000) anziché €5.000 – un risparmio di €3.333. Valuta che impugnare costerebbe tra compenso al difensore e rischio di soccombenza più di quella cifra, per cui opta per il pagamento e chiude la partita. Viceversa, se fosse convinto di aver ragione, pagare equivarrebbe a cedere senza combattere: in tal caso meglio l’opzione ricorso (che vedremo) o quantomeno l’adesione.

Opzione 2: Accertamento con adesione (definizione concordata con l’ufficio)

L’accertamento con adesione è lo strumento deflattivo per eccellenza, previsto dal D.Lgs. 19 giugno 1997 n. 218. È un procedimento di natura negoziale tra contribuente e Amministrazione, in cui – tramite il dialogo e spesso reciproche concessioni – si può arrivare a determinare in modo concordato il quantum dovuto, evitando così il giudizio. La filosofia dell’adesione è: “contribuente e Fisco trovano un accordo sulle imposte, scongiurando il contenzioso”. In cambio, al contribuente è riconosciuta un’ulteriore agevolazione sulle sanzioni. Secondo la definizione ufficiale, “l’accertamento con adesione consente al contribuente di definire le imposte dovute ed evitare, in tal modo, l’insorgere di una lite tributaria; si tratta di un ‘accordo’ tra contribuente e ufficio”. Può essere raggiunto sia prima dell’emissione di un avviso (su iniziativa dell’ufficio che inviti a comparire), sia dopo la notifica di un avviso, su istanza del contribuente, purché il contribuente non abbia ancora presentato ricorso in Commissione.

Vantaggi principali dell’adesione: (i) riduzione delle sanzioni amministrative: in caso di definizione, le sanzioni applicabili sono ridotte ad 1/3 del minimo previsto (similmente all’acquiescenza). (ii) Sospensione dei termini: la presentazione dell’istanza di adesione (dopo avviso) sospende sia il termine per fare ricorso in CTP sia quello per il pagamento provvisorio, per 90 giorni. Ciò dà respiro al contribuente per trattare senza l’incubo della scadenza dei 60 giorni. (iii) Possibilità di trovare un esito “di compromesso”: l’ufficio, in sede di adesione, può mostrare apertura a ridurre parzialmente la pretesa se il contribuente porta elementi validi. Ad esempio, nel caso del tassista, si potrebbe concordare un abbattimento dei ricavi accertati tenendo conto di alcune giustificazioni (chilometri improduttivi, periodi di malattia documentati, ecc.) portate dal contribuente, pur senza azzerare totalmente l’accertamento. L’ufficio ha interesse a chiudere rapidamente incassando almeno in parte, il contribuente ad evitare sanzioni piene e cause lunghe: l’adesione è la terra di mezzo.

Come attivare l’adesione: Se l’avviso di accertamento è già stato notificato (caso frequente), il contribuente può presentare entro 60 giorni dalla notifica una domanda in carta libera di accertamento con adesione all’ufficio che ha emesso l’atto. La domanda va preferibilmente motivata, indicando gli elementi sui quali si intende discutere e allegando documenti utili. Una volta ricevuta l’istanza, l’ufficio convoca il contribuente per avviare il contraddittorio (di solito entro 15-30 giorni). Da qui possono seguire uno o più incontri, nei quali il contribuente (anche tramite il proprio consulente) espone le ragioni e magari propone un esito diverso (es: riconoscere un certo ammontare di ricavi non dichiarati, ma inferiore a quanto preteso, oppure riclassificare alcuni costi). È fondamentale, in questa fase, portare all’attenzione dell’ufficio tutti gli elementi a proprio favore: per un tassista, ad esempio, presentare la documentazione dei chilometri per uso privato, le ricevute non fiscali eventualmente rilasciate per corse gratuite (es. ad amici o parenti, se esistono evidenze), le pezze giustificative di spese che riducono la marginalità, ecc. L’ufficio dal canto suo può avere margine di manovra, ad esempio rinunciando a contestare le voci meno sicure e concentrandosi su quelle più solide. Se le parti trovano un punto d’incontro, redigono un atto di adesione con i nuovi importi concordati, che viene sottoscritto da contribuente e capo ufficio. Perfezionamento: l’accordo si perfeziona solo con il pagamento delle somme dovute (o almeno della prima rata) entro 20 giorni. Se non si paga, l’adesione decade e l’accertamento originario rimane valido (ma a quel punto il termine per ricorrere potrebbe essere scaduto, il che è pericoloso – quindi se non si è sicuri di poter pagare, meglio non firmare). Se invece non si raggiunge alcun accordo, il contribuente può comunque proporre ricorso entro i termini (che, ricordiamo, sono sospesi per 90 giorni + eventuale periodo residuo). In pratica, la finestra per ricorrere riprende a decorrere dopo i 90 giorni di sospensione.

Adesione su iniziativa dell’ufficio: In alcuni casi, soprattutto se dalle dichiarazioni ISA emerge un punteggio basso o anomalie macroscopiche, l’Agenzia prima di emettere l’avviso può inviare un Invito a comparire (ex art.5 D.Lgs.218/97) proponendo direttamente l’adesione. Il contribuente può presentarsi e discutere, e se si trova l’accordo viene formalizzato un atto di adesione prima dell’emissione dell’accertamento. In tali casi, oltre al vantaggio sulle sanzioni (1/3 del minimo), si evita proprio l’emissione dell’atto impositivo. Se l’accordo non si trova, l’ufficio poi emetterà l’avviso “ordinario” che potrà essere impugnato. Per il tassista, l’invito può arrivare se, ad esempio, per più anni consecutivi l’ISA segnala punteggi molto bassi: l’Agenzia potrebbe preferire convocare subito il contribuente per una definizione bonaria invece di emettere accertamenti multipli. C’è anche la possibilità di adesione ai PVC della Guardia di Finanza (processi verbali di constatazione): se un tassista subisce una verifica dalla GdF che conclude con un verbale, può aderire entro 30 giorni a quel verbale ottenendo sanzioni ridotte a 1/6 (regime particolare). Questo scenario è meno comune nel caso taxi, ma va menzionato.

Sanzioni e aspetti penali nell’adesione: Come detto, sanzioni amministrative = 1/3 del minimo. Inoltre, vi è un riflesso anche sul penale: se le violazioni contestate integrerebbero un reato tributario (ad es. infedele dichiarazione ex D.Lgs. 74/2000), il perfezionamento dell’adesione con pagamento prima della dichiarazione di apertura del dibattimento penale è considerato una circostanza attenuante nel procedimento penale. Può comportare fino a 1/3 di riduzione della pena e il non applicarsi delle pene accessorie. Questa previsione incoraggia il contribuente a sanare in via amministrativa anche situazioni penalmente rilevanti. Per un tassista, il penale scatterebbe solo in casi molto gravi (ad es., imposta evasa > €100.000 per dichiarazione infedele); se mai capitasse, aderire all’accertamento riducendo il debito può influire positivamente in sede penale.

Limiti dell’adesione: L’adesione è ammissibile su tutti i tipi di accertamento tributario (IRPEF, IRAP, IVA, addizionali, ecc.), ma non copre altri enti (es: contributi INPS, sanzioni amministrative non tributarie). Inoltre, non si può più fare adesione se già si è notificato ricorso. E, importante, una volta firmato l’atto di adesione e pagato, non si può impugnare l’accordo (vale come conciliazione extragiudiziale definitiva). Dunque, bisogna negoziare bene: è opportuno farsi assistere da un consulente esperto in sede di adesione, perché si sta stipulando un vero e proprio accordo transattivo col Fisco.

Esempio pratico di adesione: Il sig. Luigi, tassista, riceve un avviso che contesta €40.000 di ricavi non dichiarati su un anno, con maggiore IRPEF+addizionali per €12.000 e IVA €4.400, più sanzioni 90% (~€14.000). Luigi ritiene l’importo esagerato, ma ammette di aver forse sottostimato alcuni incassi. Presenta istanza di adesione esponendo che in quell’anno l’auto è stata ferma 2 mesi per incidente (documentato) e che ha applicato tariffe scontate ad una convenzione (dimostrata da una lettera di un hotel). Durante il contraddittorio, l’ufficio, riconoscendo queste circostanze, propone di ridurre i maggiori ricavi a €20.000 (anziché 40k). Luigi accetta. Si sottoscrive l’accordo: imposte rideterminate (IRPEF ~€6.000, IVA €2.200) e sanzioni sul nuovo (1/3 del minimo, quindi 30% circa) ~€2.500. Luigi può rateizzare in 8 rate trimestrali da circa €1.300 l’una. In questo modo, Luigi evita di andare in causa e se la cava con un esborso totale minore di quello inizialmente preteso (iniziale circa €30.000 tra imposte e sanzioni; definito circa €10.700 + interessi). L’ufficio dal canto suo incassa subito e chiude il caso. Se Luigi non avesse avuto elementi da presentare, l’ufficio magari non avrebbe concesso sconti: a quel punto Luigi avrebbe dovuto valutare se aderire lo stesso (per risparmiare sulle sole sanzioni) o tentare il ricorso.

Adesione sì o no? In generale, vale la pena tentare l’adesione quando: (a) l’accertamento ha fondamento almeno in parte (il contribuente riconosce qualche irregolarità) e può trattare una riduzione; (b) si vuole chiudere rapidamente per evitare incertezze o pubblicità negativa; (c) non ci sono questioni di principio o diritto da far valere in giudizio (ad es., nullità formali). Se invece l’atto è totalmente infondato o ci sono vizi procedurali evidenti (come la decadenza, o la mancata notifica del PVC obbligatorio), allora l’adesione potrebbe non essere opportuna: meglio far valere tali eccezioni in ricorso, dove si potrebbe vincere in toto. Va anche detto che l’adesione è un processo volontario: si può sempre interrompere le trattative e decidere di ricorrere se non si trova un accordo soddisfacente.

Opzione 3: Autotutela (richiesta di annullamento d’ufficio all’ente)

L’autotutela tributaria è il potere della Pubblica Amministrazione di annullare o rettificare i propri atti quando si riconosce che sono illegittimi o errati. Non è uno strumento di “accordo” come l’adesione, bensì un atto unilaterale dell’Amministrazione che, nell’interesse della giustizia e dell’economia dei mezzi, fa marcia indietro su un provvedimento palesemente sbagliato. In materia fiscale, l’autotutela è regolata da norme generali (L. 241/1990 sul procedimento amministrativo) e specifiche indicazioni di prassi. Nel 2023 il legislatore è persino intervenuto introducendo nell Statuto del contribuente due nuovi articoli, il 10-quater e 10-quinquies L.212/2000, per disciplinare l’autotutela cosiddetta obbligatoria, e la recente Circolare Agenzia Entrate n. 21/E del 7 novembre 2024 ha fornito linee guida agli uffici.

Quando invocare l’autotutela? In un caso di accertamento a carico di un tassista, l’autotutela va richiesta se l’avviso presenta errori evidenti o giuridici tali per cui dovrebbe proprio essere annullato o riformulato dall’ufficio stesso, senza bisogno di ricorrere al giudice. Ad esempio: scambio di persona (il tassista Mario Rossi riceve un avviso destinato in realtà a Mario Bianchi); errore di calcolo macroscopico (somme raddoppiate per un refuso); oppure un chiaro errore di diritto (l’ufficio ha applicato una norma in maniera palesemente errata, o ha ignorato una agevolazione spettante). Ancora, rientrano in autotutela quelle situazioni in cui sia sopravvenuta una pronuncia della Corte Costituzionale o di Cassazione a Sezioni Unite che dopo l’emissione dell’accertamento abbia sancito l’illegittimità di quella pretesa. In tali casi, attendersi che l’ufficio prosegua sarebbe inutile e costoso per tutti: meglio che annulli d’ufficio l’atto.

Autotutela obbligatoria vs facoltativa: La novità introdotta con il D.Lgs. 30 dicembre 2023 n. 219 (attuativo della delega fiscale) è la distinzione tra casi in cui l’autotutela è doverosa e casi in cui è rimessa alla discrezionalità. L’art. 10-quater L.212/2000 elenca alcune ipotesi di “errore palese” in cui l’Amministrazione deve procedere ad annullamento in autotutela. Tra queste, come riportato, vi sono: “l’errore materiale, di calcolo, di persona, l’errore riconoscibile del contribuente e l’errore sull’individuazione del tributo”. Ad esempio, se l’ufficio ha notificato due volte lo stesso avviso (duplicazione), o ha calcolato male le imposte dovute, o – ipotesi interessante – ha tassato con un tributo una fattispecie assoggettabile ad altro tributo (magari confondendo norme), rientra nell’obbligo di autotutela. L’art. 10-quinquies invece disciplina l’autotutela “facoltativa”, ovvero le altre situazioni in cui l’ufficio può correggersi ma non è obbligato per legge a farlo.

Procedura e termini: Il tassista che rileva uno di questi vizi deve presentare un’istanza motivata di autotutela all’ufficio che ha emesso l’atto (meglio via PEC o raccomandata, per avere prova di invio). Nell’istanza vanno indicati i dati dell’atto e spiegato l’errore riscontrato, allegando eventuale documentazione a sostegno. Importante: la presentazione dell’istanza non sospende né i termini di ricorso né l’esecutività dell’atto. Significa che, per cautelarsi, il contribuente dovrebbe comunque preparare (e magari depositare) il ricorso entro 60 giorni, perché se l’ufficio non risponde in tempo utile, si rischia di far passare il termine e perdere il diritto a impugnare. La legge di riforma tuttavia ha introdotto la possibilità di impugnare in Commissione anche il silenzio-rifiuto sull’autotutela obbligatoria: in pratica, se il contribuente chiede un annullamento per un caso rientrante nell’art. 10-quater, e l’ufficio tace per oltre 90 giorni, si forma un rifiuto tacito impugnabile. Quindi, volendo, il contribuente può fare ricorso contro il silenzio dell’ufficio (entro il termine di prescrizione del diritto, si presume). Tuttavia, attenzione: questa impugnabilità è ammessa solo per l’autotutela obbligatoria, non per quella facoltativa. Nel caso di autotutela facoltativa (cioè situazioni non ricomprese nel 10-quater), il silenzio non è impugnabile e si può ricorrere solo contro un diniego espresso dell’ufficio, entro 60 giorni da tale diniego. In sintesi: se si tratta di errore macroscopico (obbligatoria) e l’ufficio non risponde in 90gg, si può considerare quel silenzio come un atto impugnabile davanti alla Corte di Giustizia Tributaria; se l’errore è di altro tipo (facoltativa), solo un eventuale rifiuto scritto può essere portato in giudizio, non il silenzio.

Circolare 21/2024 – istruzioni agli uffici: La circolare emanata nel novembre 2024 dall’AE chiarisce che l’ufficio, ricevuta un’istanza di autotutela, deve tempestivamente condurre un esame approfondito e trasparente della documentazione fornita. Questo per garantire imparzialità e dare risposta al contribuente. In caso di autotutela obbligatoria, appunto, scatta l’obbligo di decidere entro 90 giorni. La competenza a decidere è dell’ufficio locale che ha emanato l’atto (non bisogna dunque rivolgersi alla Direzione Regionale salvo atti emessi da essa). Le strutture centrali intervengono solo se l’atto contestato è stato emesso centralmente (raro nei casi di accertamento su piccoli contribuenti). La circolare inoltre elenca una serie di situazioni tipiche in cui concedere autotutela e invita gli uffici a utilizzarla per evitare contenziosi inutili.

Esempi di autotutela nel caso taxi:

  • Errore di persona: Avviso intestato al padre (omonimo) invece che al figlio effettivo titolare della licenza. Qui l’autotutela è doverosa (atto nullo per inesistenza del destinatario).
  • Errore di calcolo: L’ufficio ha sommato male i ricavi presunti e applicato due volte la stessa aliquota IVA. Anche questo rientra nell’errore materiale palese: l’ufficio dovrebbe correggere.
  • Doppia imposizione: Il tassista ha già definito con adesione un PVC per il 2021 pagando le somme dovute; nonostante ciò, l’AE emette un ulteriore avviso per lo stesso 2021. Ovviamente uno dei due atti va eliminato. Presentando le ricevute di pagamento, l’ufficio annullerà in autotutela il secondo avviso (classico caso di errore dell’ufficio).
  • Errore sul tributo: L’ufficio, interpretando male la norma, ha preteso IRAP dal tassista anche se questi è un lavoratore autonomo senza autonoma organizzazione (i tassisti individuali normalmente non sono soggetti a IRAP in assenza di organizzazione di beni e persone). Questo è un errore di diritto: la Cassazione da anni esclude IRAP per i taxi se ricavi modesti e senza dipendenti. Il contribuente può invocare l’art. 10-quater (errore riconoscibile del funzionario su presupposto d’imposta) e l’ufficio dovrebbe annullare la quota IRAP.
  • Sentenza favorevole sopravvenuta: Poniamo che, dopo l’accertamento, esca una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che stabilisce che per i piccoli imprenditori non si possono usare certi tipi di presunzioni (ipotesi teorica). Se il caso del tassista rientra proprio in quel principio, l’ufficio potrebbe riconoscere l’autotutela, pur facoltativa, per evitare un contenzioso perso.

Rapporto con il ricorso: L’autotutela non sostituisce il ricorso: è complementare. Un contribuente accorto, se ha dubbi che l’ufficio conceda l’annullamento, presenterà comunque ricorso entro 60 giorni e poi, se l’ufficio annulla in autotutela, potrà sempre rinunciare al giudizio. Viceversa, confidare nell’autotutela senza ricorrere può essere pericoloso (salvo nei casi lampanti) perché se l’ufficio rifiuta e il termine è scaduto, l’atto diventa definitivo. La riforma ha mitigato ciò introducendo l’impugnabilità del silenzio in alcune ipotesi, ma è prudente non fare affidamento esclusivo su di essa, almeno fintanto che la prassi non sarà consolidata. In ogni caso, anche se si è presentato ricorso, l’ufficio può sempre annullare l’atto in autotutela (anche dopo i 60 giorni, anche durante il processo, persino dopo sentenza se è in appello ecc.). L’autotutela, di per sé, è possibile “in pendenza di giudizio o in presenza di atti definitivi”: significa che l’Agenzia potrebbe, teoricamente, annullare un atto anche dopo sentenza passata in giudicato (se ad es. emerge un errore clamoroso o un indirizzo nuovo di legittimità pro-contribuente). Però, se c’è giudicato favorevole all’amministrazione, l’art. 10-quater esclude autotutela obbligatoria, salvo il giudicato sia meramente processuale o su motivi diversi da quelli per cui si chiederebbe autotutela. In pratica: se il contribuente ha perso definitivamente in Cassazione, l’AE non è tenuta a riesaminare il caso (a meno di circostanze eccezionali). Diverso sarebbe se il giudicato ha rigettato per motivi procedurali senza entrare nel merito: lì un’autotutela potrebbe ancora avere spazio in teoria.

In breve: l’autotutela è uno strumento unilaterale: il contribuente può e deve segnalarne i presupposti, ma non può costringere l’ufficio a concederla (eccetto i casi obbligatori che comunque, se disattesi, portano poi in tribunale). Dunque, è utile attivarla quando si hanno buone ragioni e magari come leva negoziale (ad esempio: far notare un vizio dell’atto può convincere l’ufficio a essere più accomodante in adesione). Non va però confusa con una scorciatoia: se il problema è solo la quantificazione del reddito (questione di merito), difficilmente l’ufficio ammetterà l’errore in autotutela – al più lo farà in sede di adesione. L’autotutela è più adatta a vizi oggettivi. Per le questioni di merito o interpretative, spesso si dovrà passare dal giudice.

Opzione 4: Altri istituti deflattivi e “fiscal peace”

Oltre a acquiescenza, adesione e autotutela, esistono ulteriori modalità per definire l’accertamento senza un contenzioso pieno:

  • Mediazione/reclamo (per piccoli importi): Fino al 2023, per gli atti di valore non eccedente €50.000, era obbligatorio presentare un reclamo-mediazione prima di andare in causa. Il ricorso stesso si considerava un reclamo: l’Agenzia aveva 90 giorni per valutare una proposta di mediazione, e se veniva accettata dal contribuente, l’atto si definiva con sanzioni ridotte al 35%. Dal 2023, con la riforma del contenzioso (D.Lgs. 130/2022 e succ. mod.), questa fase è stata abolita. Dunque, per gli accertamenti notificati a partire dalle nuove disposizioni, non c’è più differenza procedurale tra liti sotto o sopra 50.000€. Il contribuente può comunque sempre tentare una risoluzione stragiudiziale (tramite adesione prima, o conciliazione dopo aver presentato ricorso, v. oltre), ma non c’è più un obbligo legale di mediazione pre-ricorso. Questo significa che un tassista con un avviso di €10.000 oggi può depositare ricorso entro 60 giorni senza aspettare 90 giorni di mediazione come avveniva prima; allo stesso modo, non potrà più beneficiare automaticamente della sanzione ridotta al 35% come avveniva in caso di esito positivo della mediazione. L’assenza di mediazione impone di pagare subito il contributo unificato di iscrizione a ruolo (tassa sul ricorso) entro 30 giorni dal ricorso, cosa che prima era differita a 120 giorni con la mediazione. In sostanza, c’è una semplificazione: niente più reclamo obbligatorio. Ciò però toglie un’opportunità al contribuente di avere uno sconto sanzioni “automatico” in caso di accordo. Comunque, chi volesse – anche senza obbligo – proporre all’ufficio una soluzione prima dell’udienza, può utilizzare lo strumento della conciliazione giudiziale (vedi dopo).
  • Rottamazioni e definizioni agevolate (“pace fiscale”): Negli ultimi anni il legislatore ha varato diverse misure di definizione agevolata sia delle cartelle esattoriali sia delle liti pendenti. Ad esempio, la legge di Bilancio 2023 (L.197/2022) ha previsto: la definizione agevolata degli atti di accertamento (art.1 co.179 L.197/22) per avvisi in certi stadi, la definizione delle controversie tributarie pendenti (co.186-205), e la c.d. rottamazione-quater delle cartelle per ruoli fino al 2017 (con annullamento sanzioni e interessi). Per un tassista, queste opportunità possono essere rilevanti in due momenti:
    (a) Se ha già una causa pendente contro l’accertamento, potrebbe usufruire di una definizione agevolata pagando una percentuale del valore (in passato, ad esempio, se aveva vinto in primo grado c’era la possibilità di chiudere pagando solo il 40% del valore in lite, o 15% se aveva già due gradi a favore, ecc.). Queste misure variano di anno in anno; nel 2023 erano presenti e hanno chiuso molte liti. Bisogna monitorare le norme di ciascuna Legge di Bilancio.
    (b) Se l’accertamento è definitivo ed è confluito in una cartella esattoriale (ruolo), potrebbe rientrare nelle rottamazioni periodiche: il contribuente versa il solo capitale e interessi ridotti, con stralcio delle sanzioni e interessi di mora. Ad esempio, la rottamazione-quater del 2023 copriva i carichi 2000-2017 e permetteva ai debitori, tassisti inclusi, di chiudere debiti anche da accertamenti con un risparmio sulle sanzioni.

Queste misure non sono ordinarie ma straordinarie, legate a scelte di politica fiscale. Non possiamo prevedere se nel 2025 ce ne saranno di nuove. Ma è utile saperlo: se un tassista ha perso un ricorso e gli arriva la cartella, potrebbe valutare di aderire a eventuali condoni/rottamazioni anziché intraprendere cause su cartella (dove peraltro avrebbe poche armi se l’accertamento è diventato definitivo).

Importante: La partecipazione a definizioni agevolate o rottamazioni comporta quasi sempre la rinuncia a contenziosi relativi alle somme definite. Quindi, è un’alternativa al proseguire con i ricorsi. Spesso queste norme richiedono di pendenza del giudizio o di non aver già un giudicato. Bisogna leggere attentamente i requisiti quando escono.

Tabella riepilogativa strumenti difensivi in fase amministrativa:

StrumentoQuando e come si attivaVantaggiSvantaggi / Note
Autotutela (annullamento d’ufficio)In qualsiasi momento, con istanza all’ufficio (meglio entro 60gg). Obbligatoria per errori palesi (es. doppio avviso, errore di persona) – risposta attesa entro 90gg; facoltativa negli altri casi.– Annulla/riduce l’atto senza costi né sanzioni, se accolta– Corregge errori evidenti evitando cause– Discrezionale (tranne casi obbligatori): nessuna garanzia di accoglimento– Non sospende termini di ricorso (serve ricorso “prudenziale”)– Impugnabile solo diniego espresso o silenzio su obbligatoria
Acquiescenza (pagamento e chiusura)Entro 60 giorni dalla notifica avviso; pagamento integrale (o 1ª rata) di imposte + interessi + sanzioni ridotte a 1/3.– Sanzioni ridotte al 33% del minimo– Niente contenzioso, fine immediata– Possibile rateazione (max 8/16 trimestrali)– Necessario esborso rapido– Rinuncia totale al ricorso (l’atto diventa definitivo)– Da valutare solo se pretesa fondata o rischio causa alto
Accertamento con adesione (concordato)Su istanza del contribuente entro 60gg dalla notifica avviso oppure su invito ufficio prima dell’avviso. Si negozia col Fisco (incontri). Se accordo: firmare e pagare entro 20gg.– Sanzioni ridotte a 1/3 del minimo (come acquiescenza)– Possibile riduzione parziale dei tributi per accordo– Sospende termini ricorso per 90gg– Rate fino 8/16 trimestrali– Attenuante penale in caso reati tributari (pagando prima del dibattimento)– Richiede disponibilità a un compromesso (di solito si paga qualcosa)– Se non si perfeziona (manca firma o pagamento) si rischia di perdere tempo prezioso per il ricorso (ma i 90gg sospendono)– Una volta perfezionato, non impugnabile e irrevocabile
Reclamo-mediazione(Non più obbligatorio dal 2023 per nuove liti) Prima obbligatorio per liti ≤ €50k: ricorso valeva come reclamo, 90gg per mediare. Oggi abolito.– (In passato) Sanzioni ridotte 35% se mediazione riusciva– Evitava costi processo se accordo– Oggi non applicabile; sostituito dalla conciliazione giudiziale in ogni grado– Rimane facoltà di trattativa informale, ma senza cornice 35% sanzioni
Definizioni agevolate (pacificazioni)Previste da leggi speciali (es. “rottamazioni”, “saldo e stralcio”, “definizione liti”). Tempistiche e condizioni di volta in volta.– Riduzione o azzeramento sanzioni e interessi– Chiusura rapida di liti pendenti (con pagamento % del valore) o di cartelle (solo imposte)– Dipendono dalla volontà del legislatore (non sempre attive)– Di solito richiedono rinuncia a contenzioso– Pagamento spesso concentrato in poche rate (es. in 5 anni max)

In conclusione della fase amministrativa, se il tassista riesce a ottenere la soddisfazione desiderata – annullamento in autotutela o accordo in adesione – la vicenda finisce qui, senza giudizio. Se invece nessuno degli strumenti deflattivi ha risolto la questione (perché l’ufficio non ha accolto autotutela, o l’adesione è saltata, o il contribuente ha scelto di non avvalersene), allora l’unica via per opporsi all’accertamento è il ricorso alla giustizia tributaria, ossia rivolgersi al giudice terzo per far valere le proprie ragioni.

Nel seguito, ci concentriamo sulle strategie difensive in sede giudiziale, dando per presupposto che il tassista abbia già eventualmente tentato (o valutato) le soluzioni amministrative di cui sopra.

Strategie di difesa in fase giudiziale (ricorso alle Commissioni Tributarie)

Se l’accertamento non viene definito in via amministrativa, il tassista ha la facoltà di impugnarlo di fronte alle Commissioni Tributarie – ora denominate Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado. La fase giudiziale inizia con la presentazione del ricorso contro l’atto impositivo e può articolarsi su due gradi di merito (CTP e CTR), oltre all’eventuale fase di legittimità in Cassazione. In questa sezione spiegheremo come impostare una difesa efficace in giudizio: dai motivi di ricorso che un tassista può far valere, alla gestione delle prove, fino agli istituti peculiari del processo tributario (come la conciliazione giudiziale recentemente potenziata). Considereremo anche cosa accade nelle more del processo riguardo alla riscossione delle somme, per evitare sorprese (come fermi amministrativi dell’auto o pignoramenti).

Il Ricorso in primo grado (Commissione Tributaria Provinciale)

Il ricorso introduttivo è l’atto con cui il contribuente chiede l’annullamento (totale o parziale) dell’accertamento davanti al giudice tributario di primo grado. Ecco gli aspetti principali:

  • Termine di proposizione: va proposto entro 60 giorni dalla notifica dell’atto (termine perentorio). Se si è presentata un’istanza di adesione, il termine è sospeso per 90 giorni, quindi si avranno 60+90 = 150 giorni totali dalla notifica per ricorrere. Attenzione: se l’ufficio notifica un diniego di autotutela obbligatoria, quel diniego va impugnato entro 60 gg separatamente (ma in genere si unisce tutto nel ricorso contro l’avviso stesso, se tempisticamente possibile). In caso di festività o periodo feriale (1-31 agosto), il termine è sospeso di 31 giorni (es: atto notificato in luglio: i 60gg ripartono da settembre).
  • Contenuto del ricorso: deve indicare l’ente impositore, gli estremi dell’atto impugnato, il valore della lite (di regola l’imposta contestata, al netto di sanzioni e interessi), i motivi di fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, e la richiesta finale (es: annullamento integrale dell’avviso, in subordine riduzione dei maggiori ricavi a un certo importo, ecc.). Va sottoscritto dal contribuente e, se il valore supera €3.000, di norma da un difensore abilitato (avvocato, dottore commercialista, esperto contabile o consulente del lavoro, o il praticante abilitato, etc.). Nel nostro caso, trattandosi di materia tributaria complessa, è caldamente consigliato farsi assistere da un professionista, anche se la legge consente l’autodifesa per liti fino a 3.000€.
  • Notifica del ricorso: va notificato all’Agenzia delle Entrate (Direzione Provinciale competente) entro il termine sopra detto, a mezzo PEC (obbligatorio per i difensori) oppure tramite ufficiale giudiziario o raccomandata. Per i contribuenti che stanno in giudizio personalmente è ammessa la raccomandata a/r direttamente all’ufficio destinatario.
  • Costituzione in giudizio: entro i successivi 30 giorni dal deposito/notifica, il ricorrente deve costituirsi presso la Segreteria della Commissione Tributaria adìta, depositando (telematicamente, tramite il Portale della Giustizia Tributaria – SIGIT) copia del ricorso notificato e degli allegati, la ricevuta di avvenuta notifica e la prova del versamento del contributo unificato (C.U.) dovuto. Il contributo unificato è una “tassa” per l’accesso al processo, variabile in base al valore della lite (ad es: per controversie fino a 5.000€ è €30; fino a 25.000€ è €60; fino a 75.000 è €120; etc., su su fino a max €1.500 per liti oltre 200.000€). La mancata costituzione nei termini rende il ricorso inammissibile, quindi estrema attenzione a questo passaggio: presentare il ricorso al giudice in tempo, completo di tutto.
  • Motive di ricorso tipici nel caso del tassista: Nel predisporre i motivi, il difensore imposterà sia motivi di legittimità/formali sia motivi di merito. Esempi:
    • Vizi formali/procedurali: notifica irregolare dell’avviso (es. a indirizzo sbagliato, o a mezzo pec non valida); difetto di motivazione (se l’atto non espone chiaramente le ragioni e il calcolo dei maggiori ricavi); mancata indicazione del responsabile del procedimento; omessa allegazione di documenti essenziali (es: se si basa su un PVC o su calcoli non riprodotti nell’atto e non allegati); violazione del contraddittorio (se era obbligatorio in quel caso e non avvenuto: per es., su accertamento basato su studi di settore era obbligatorio il contraddittorio ex art. 5-bis D.Lgs.218/97, la cui omissione è causa di nullità); tardività dell’atto (emesso oltre i termini di decadenza); incompetenza dell’ufficio (es: atto emesso da Direzione Regionale anziché Provinciale senza base normativa); omessa sottoscrizione valida (l’avviso deve essere sottoscritto dal capo ufficio o delegato: se mancasse la firma o fosse firmato da funzionario non delegato, è nullo). Questi motivi puntano all’annullamento totale per vizi di forma.
    • Motivi di merito: contestazione della fondatezza dell’accertamento. Qui il tassista deve contrapporre la propria ricostruzione dei fatti a quella del Fisco, evidenziando errori logici o valutazioni arbitrarie. Ad esempio: “L’ufficio ha calcolato una media di €X a corsa, ma ciò è errato perché… (spiegazione con dati). I km considerati dall’ufficio come percorsi in servizio in realtà includono tragitti a vuoto e privati per Y km (documentati da …). I costi fissi considerati ‘esigui’ in realtà sono bassi perché il contribuente ha un’auto ibrida con minori spese carburante (documenti allegati). Il prezzo medio per km apparente è inferiore alle tariffe perché il contribuente ha svolto N corse agevolate convenzionate (allega convenzione). Inoltre, il reddito dichiarato era perfettamente in linea col cluster di riferimento (allega prova punteggio ISA), circostanza ignorata dall’ufficio.” Tutto questo per argomentare che le presunzioni non sono gravi, precise e concordanti oppure che comunque esiste una prova contraria fornita dal contribuente che le supera. Si possono citare in ricorso le sentenze di Cassazione come quelle sopra: ad esempio, “Cassazione ha chiarito che se il contribuente è congruo allo studio di settore, le presunzioni basate su calcoli astratti difettano di gravità (Cass. 26018/22), situazione analoga a quella in esame”. Anche l’assenza di contraddittorio può essere riproposta come motivo di merito (se non si qualifica come vizio procedurale invalidante per legge, lo si argomenta come indice di carenza istruttoria: mancando il confronto, l’accertamento potrebbe essere “motivato per relationem” ad elementi standard non affinati col contraddittorio, e quindi contestabile nel merito). In definitiva, l’obiettivo è convincere la Commissione che l’accertamento è infondato o eccessivo e va annullato, o almeno ridotto.
  • Domande al giudice: Il ricorso può contenere sia una domanda principale (es: annullamento totale dell’atto) che subordinate (es: in subordine, rideterminazione dei ricavi in misura diversa). Ad esempio, si può chiedere al giudice di annullare integralmente l’accertamento perché privo di basi solide; in via subordinata, qualora ritenesse di confermare la sussistenza di ricavi non dichiarati, di quantificarli in misura inferiore tenendo conto delle prove offerte dal contribuente (le Commissioni hanno il potere di ridurre l’accertamento parzialmente). Inoltre, se l’avviso comprende sanzioni amministrative, il contribuente può chiedere l’annullamento anche delle sanzioni (o la non applicazione per obiettiva incertezza, ecc.).
  • Fase difensiva dell’AE: Una volta ricevuto il ricorso, l’Agenzia delle Entrate si “costituisce” in giudizio depositando il memoriale difensivo (entro 60 giorni dal ricevimento del ricorso, di regola). Qui controbatte ai nostri motivi e fornisce documenti e spiegazioni aggiuntive. Il tassista (ricorrente) potrà a sua volta depositare eventuali memorie aggiuntive fino a 10 giorni prima dell’udienza per replicare a quanto affermato dall’ufficio, e poi eventuali memorie di trattazione (5 giorni prima) per sintetizzare le richieste.
  • Udienza e decisione: Le liti tributarie possono essere decise con procedura scritto (decisione in camera di consiglio) o in pubblica udienza su richiesta di una delle parti. Spesso, per questioni complesse, si opta per l’udienza pubblica così da poter discutere oralmente il caso di fronte al Collegio giudicante (composto tradizionalmente da tre giudici tributari in primo grado, anche se la riforma 2022 ha introdotto il giudice monocratico per le liti fino a €3.000 e la figura del giudice professionale a tempo pieno per migliorare la qualità delle decisioni). All’udienza, il difensore del tassista potrà svolgere osservazioni orali a sostegno del ricorso e rispondere alle eventuali domande dei giudici; parimenti il funzionario dell’AE potrà ribadire la posizione dell’ufficio. Dopodiché, il Collegio si riunisce e emette la sentenza (o un dispositivo immediato e la motivazione entro 30 giorni). La sentenza viene poi notificata/delivered alle parti.
  • Sospensione dell’atto: Nel frattempo, dal 61º giorno dopo la notifica dell’avviso, l’atto diventa esecutivo. Questo significa che, salvo sospensioni, l’Agenzia delle Entrate Riscossione (AdER, ex Equitalia) potrebbe iniziare la riscossione anche se c’è ricorso pendente. Per legge, in pendenza di giudizio l’ufficio intanto iscrive a ruolo (affida al riscossore) solo 1/3 delle imposte accertate (senza sanzioni né interessi di mora, per ora) dopo la scadenza del termine ricorso, e ulteriori 2/3 dopo una sentenza di primo grado sfavorevole al contribuente. Questo meccanismo (art. 68 D.Lgs. 546/92) fa sì che il contribuente, pur avendo impugnato, possa ricevere una cartella di pagamento per circa un terzo del tributo contestato. Per evitare esecuzioni forzate su quel terzo, o su tutto se l’atto è immediatamente esecutivo, il contribuente può chiedere al tribunale tributario la sospensione dell’esecutività dell’atto. Si fa con istanza motivata (di solito inserita nel ricorso stesso) dimostrando che: (i) il ricorso non è pretestuoso ma presenta fumus boni iuris (ragioni fondate), e (ii) l’esecuzione dell’atto causerebbe un danno grave e irreparabile al contribuente (es: dover pagare subito porterebbe al fallimento l’attività, o il tassista non ha liquidità e subirebbe il fermo del veicolo necessario a lavorare). La Commissione decide sull’istanza sospensiva in tempi brevi (entro 180 giorni max, spesso prima). Se accorda la sospensione, la riscossione rimane sospesa fino alla decisione di merito. Se la nega, il contribuente può riproporla eventualmente in appello se perde in primo grado.
  • Prova nel processo tributario: Aspetto cruciale: il processo tributario è principalmente documentale. Non è ammessa di norma la prova testimoniale orale (la riforma ha ipotizzato in futuro una testimonianza scritta su richiesta, ma ad oggi di fatto il processo rimane documentale). Ciò significa che il tassista deve portare documenti a supporto delle sue affermazioni. Ad esempio, per provare la fermo dell’auto: fatture dell’officina o documenti assicurativi. Per provare i km non produttivi: magari un registro delle corse, o le ricevute di piazza. È ammessa anche la prova per presunzioni a favore del contribuente: es. portare una statistica indipendente che mostri che mediamente i taxi percorrono X km a vuoto. Il giudice valuterà tutto liberamente. È importante produrre già in primo grado tutti i documenti rilevanti, perché in appello l’integrazione probatoria è limitata (anche se non del tutto preclusa, specie se il documento era già esistente e il contribuente poteva produrlo prima, potrebbe essere considerata decadenza; ma la giustizia tributaria è abbastanza flessibile su nuovi documenti in appello, a differenza del processo civile ordinario). Dunque, sin dal ricorso di primo grado conviene allegare ogni evidenza disponibile a supporto dei motivi.

Esito del primo grado: La CTP può accogliere in toto il ricorso (annullando l’accertamento e quindi liberando il tassista da ogni addebito, con obbligo per l’Ufficio di rimborsare eventuali somme pagate in acconto), oppure respingerlo (confermando l’atto: il contribuente dovrà pagare, salvo appello), oppure accoglierlo parzialmente. Quest’ultimo caso significa che il giudice può “rimodulare” l’accertamento: ad esempio, dichiarare illegittime alcune voci ma non altre, riducendo il maggior reddito a una certa cifra. Nelle controversie complesse come questa, la decisione di merito spesso sta nel mezzo: magari il giudice riterrà che qualcosa in nero c’era, ma meno di quanto detto dall’AE, e taglierà la pretesa.

In caso di soccombenza parziale, entrambe le parti valuteranno se appellare la parte sfavorevole. In caso di vittoria piena del tassista, l’ufficio quasi certamente appellerà in CTR (salvo rare ipotesi di rinuncia se l’importo è minimale o se ritiene la sentenza corretta per nuovo orientamento). In caso di perdita totale del tassista, sarà il contribuente a dover decidere se appellare (di solito sì, salvo che la sentenza appaia insuperabile e si preferisca accedere magari a una definizione agevolata se prevista).

Prima di passare all’appello, menzioniamo un importante istituto deflattivo in corso di causa: la conciliazione giudiziale.

Conciliazione giudiziale: È la possibilità, prevista dall’art. 48 D.Lgs. 546/92, di trovare un accordo transattivo tra contribuente e ufficio dopo che il processo è iniziato, ma sotto l’egida del giudice. Fino al 2022 era poco usata; la riforma l’ha potenziata e resa possibile in ogni grado di giudizio (anche in Cassazione, da ultimo). In pratica, le parti possono concordare di chiudere la lite con reciproche concessioni (simile all’adesione, ma in fase processuale). Il vantaggio per il contribuente è che anche la conciliazione dà diritto a sanzioni ridotte: 40% del minimo in primo grado, 50% in secondo grado, 60% in Cassazione. Quindi se, ad esempio, in primo grado non si è fatto adesione ma poi ci si rende conto che è meglio evitare una sentenza incerta, si può proporre conciliazione pagando imposte magari un po’ inferiori a quelle iniziali e con sanzioni al 40%. In primo grado, il 40% del minimo significa pagare il 40% della sanzione base (lo sconto è quindi del 60%, leggermente meno vantaggioso dell’adesione che era 66% di sconto, ma ancora buono). In appello lo sconto è 50% (cioè si paga metà sanzione). In Cassazione, novità, si può conciliare con 60% di sconto (quindi pagando il 40% della sanzione). Per il resto, la conciliazione richiede l’accordo su un importo: in molti casi riflette quell’1/3, 2/3 di vittoria/sconfitta che entrambe le parti mettono nel conto. Formalmente si fa istanza congiunta al giudice, che emette un verbale di conciliazione con efficacia di sentenza. Il pagamento va fatto (in unica soluzione o in 8 rate trimestrali) entro 20 giorni dal verbale. Se una parte rifiuta senza motivo una conciliazione vantaggiosa, il giudice potrà tenerne conto sulle spese (in futuro, la delega prevedeva anche organi terzi per stimolarla, ma per ora il giudice può solo auspicare la conciliazione). In sostanza, la conciliazione è una sorta di “adesione tardiva” in corso di causa, utile specialmente dopo la fine della mediazione obbligatoria.

Nel caso di un tassista, si potrebbe conciliare ad esempio riducendo i maggiori ricavi a X invece di Y, con sanzioni al 40%. Se ci si accorda, la lite finisce lì (anche l’ufficio vi rinuncia all’appello se è in primo grado).

L’Appello in secondo grado (Commissione Tributaria Regionale)

Il processo di appello dinanzi alla CTR (oggi Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado) è sostanzialmente una ripetizione del primo grado, con la differenza che non si può introdurre nuove contestazioni che non siano già state oggetto del primo grado. Si può appellare per motivi di diritto o di valutazione delle prove, ma non per domande nuove. Ad esempio, se il tassista in primo grado non ha mai eccepito un vizio di notifica, non può tirarlo fuori per la prima volta in appello (si considererebbe motivo nuovo inammissibile). Può però insistere che il giudice di primo grado ha erroneamente valutato i fatti o male interpretato la legge.

L’atto di appello va notificato entro 60 giorni dalla notifica (o comunicazione) della sentenza di primo grado. Il destinatario sarà la controparte del primo grado. Chi appella è “appellante”, l’altra parte sarà “appellata” e potrà a sua volta fare appello incidentale se ha ragioni (ad esempio, se entrambe le parti hanno da ridire sulla sentenza, il contribuente e l’AE si appelleranno reciprocamente). Le regole procedurali (notifica, costituzione, termini) sono analoghe al primo grado, con in più l’obbligo di depositare copia della sentenza impugnata. Il contributo unificato va pagato di nuovo (ma solo la differenza se aumentato il valore in lite, sennò nulla se già pagato intero).

Esame in appello: La CTR riesamina il merito ma, come detto, nell’ambito dei motivi di appello. Il contribuente tassista qui punterà a far correggere gli eventuali errori della CTP. Ad esempio: “la CTP ha ritenuto grave la presunzione sui km percorsi basandosi su una statistica del tutto generica; ciò è un errore di giudizio, perché ignora le prove contrarie che invece dovevano far escludere gravità alla presunzione”. Oppure “la sentenza di primo grado non ha considerato affatto l’eccezione di nullità per difetto di motivazione che pure era stata formulata” (error in procedendo). L’appello può finire con conferma integrale, riforma totale, o riforma parziale della decisione impugnata. La CTR deciderà anch’essa con sentenza motivata. Le spese di lite in secondo grado tipicamente sono regolate in base alla soccombenza complessiva (potendo tener conto anche di quelle di primo).

Novità della riforma: Dal 2023, sono in fase di introduzione giudici tributari professionali (non più solo togati part-time). Questo dovrebbe aumentare la qualità e coerenza delle sentenze di merito. Inoltre, è stato previsto un filtro in Cassazione (vedi dopo) per ridurre ricorsi pretestuosi.

Conciliazione in appello: Anche in secondo grado, come detto, le parti possono accordarsi con sanzioni ridotte al 50%. Ad esempio, se in primo grado il tassista ha perso ma in appello l’ufficio teme di perdere, le parti potrebbero conciliare dimezzando sanzioni e magari tagliando un po’ l’imponibile.

Sospensione in appello: Se la CTP ha dato ragione all’ufficio (o parzialmente), quell’esito è esecutivo: l’AE può riscuotere 2/3 (tolto l’eventuale 1/3 già riscosso) dopo la sentenza di primo grado sfavorevole al contribuente. Quindi, se il tassista appella, può chiedere alla CTR la sospensione della sentenza di primo grado per evitare di pagare nel frattempo anche il secondo terzo. Simili criteri: fumus (ci sono elementi per ribaltare in appello) e periculum (pagare ora creerebbe danno grave). La CTR decide con ordinanza sulla sospensiva.

Esito del secondo grado: La sentenza della CTR chiude il merito. Se il contribuente vince in secondo grado, l’ufficio può valutare ricorso per Cassazione (limitato a motivi di diritto, no riesame fatti). Se il contribuente perde anche in CTR, l’unica e ultima possibilità è la Cassazione, ma va considerato che la Cassazione non rivede la quantificazione del reddito (salvo illogicità evidenti della sentenza di CTR) ma solo errori di diritto. Quindi, spesso, le liti tributarie terminano effettivamente col secondo grado, per un senso di economicità: raramente conviene proseguire oltre se non ci sono princìpi generali da far valere.

Ricorso per Cassazione (giudizio di legittimità)

La Cassazione è l’ultimo gradino: si può ricorrere entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di appello (o 6 mesi dalla pubblicazione se non notificata) per violazione di legge o vizi di motivazione (questi ultimi oggi molto circoscritti: solo motivazione inesistente o incomprensibile). Non si possono ridiscutere i fatti: quindi un tassista potrebbe ricorrere in Cassazione se ritiene che la CTR abbia applicato male una norma (es. errata interpretazione dell’art. 39 DPR 600/73 su presunzioni, o violazione di giudicato interno, ecc.), oppure se la sentenza di CTR è affetta da “motivazione apparente” (cioè non spiega il perché). Non potrà sperare che la Cassazione valuti se effettivamente i km erano X o Y: quello è un fatto già valutato.

La Cassazione può: rigettare il ricorso (allora la sconfitta del contribuente diventa definitiva, dovrà pagare tutto, e anzi pagare le spese di giudizio e un eventuale contributo addizionale); oppure accoglierlo, cassando la sentenza impugnata. In caso di accoglimento, normalmente rinvia gli atti a un giudice di merito di grado inferiore (magari la CTR in diversa composizione) per un nuovo esame conforme ai principi stabiliti. Raramente decide nel merito (lo fa se la causa è matura e non servono ulteriori accertamenti di fatto).

Conciliazione in Cassazione: Novità del D.Lgs. 130/2022 (integrato dal D.Lgs. 220/2023) è la possibilità di conciliare persino in Cassazione, con sanzioni ridotte al 60%. Questo si giustifica col fatto che dal 2023 la Cassazione può avere anche un ruolo “conciliativo” su impulso del presidente di sezione, per deflazionare ulteriormente. Non è comune, ma esiste.

Costi e valutazioni: Il ricorso per Cassazione va affidato a un avvocato cassazionista (iscritto in apposito albo), il che comporta onorari solitamente più elevati. Inoltre, se il valore è alto, il contributo unificato in Cassazione può arrivare a €2.000 (per liti oltre 200k). Dunque, salvo che non ci sia una questione di principio importante, economicamente il tassista valuterà bene se proseguire. Ad esempio, per un contenzioso su €20.000 di imposte, arrivare in Cassazione potrebbe non valere la candela a meno che non abbia chance concrete di ribaltare tutto su un punto di diritto.

Esecutività durante Cassazione: La sentenza di appello è esecutiva. Ciò significa che se il contribuente ha perso in CTR, deve pagare l’intero (al netto di quanto eventualmente già versato dopo il primo grado) anche se ricorre per Cassazione. Può chiedere alla Corte di Cassazione la sospensione dell’esecuzione, ma la Cassazione la concede solo in casi eccezionali (grave e irreparabile danno e ricorso con fondati motivi). Quindi, di norma, a questo stadio se ha perso in due gradi, il contribuente paga e poi eventualmente aspetta l’esito in Cassazione per vedersi restituire se vince. Questa è una ragione in più per cui di rado si arriva fino in fondo nei casi fiscali minori: spesso subentra convenienza a definire prima.

Cosa succede dopo (fase della riscossione coattiva)

Se, al termine del contenzioso (o per mancata impugnazione), l’accertamento diviene definitivo, le somme dovute – imposte, interessi e sanzioni – vengono iscritte a ruolo e riscuotibili coattivamente dall’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione). Il tassista riceverà una cartella di pagamento (o un avviso di intimazione) con l’ingiunzione a pagare entro 60 giorni. Se non paga, la riscossione potrà procedere con mezzi esecutivi: ad esempio, un’ipoteca su immobili di proprietà, un fermo amministrativo sul veicolo taxi (cosa devastante perché gli impedisce di lavorare finché non paga), il pignoramento di conti correnti o di parte dei guadagni futuri. Occorre quindi, se si arriva a questo punto, prendere provvedimenti:

  • Si può chiedere una rateizzazione della cartella ad AER. Per debiti fino a €120.000, si ha diritto a una dilazione automatica in 72 rate mensili (6 anni). Per importi maggiori o in caso di decadenza da precedenti dilazioni, si può chiedere fino a 120 rate (10 anni) ma provando lo stato di grave difficoltà. Rateizzare evita le azioni esecutive purché si rispettino i pagamenti. In caso di importi più piccoli, c’è anche la possibilità di sospensione amministrativa se si ritiene la cartella errata (ma se l’accertamento è definitivo, quella fase è passata).
  • Se il contribuente individua un vizio proprio della cartella (es: notifica nulla, o importo difforme dalla sentenza, ecc.), potrebbe impugnare la cartella davanti al giudice. Ma se la cartella rispecchia un accertamento definitivo, i motivi di impugnazione sono ristretti (non si può ridiscutere il merito ormai giudicato; si possono far valere solo vizi nuovi, come appunto errori di calcolo nell’atto della riscossione, prescrizione sopravvenuta, etc.).
  • Tutela del bene strumentale (auto): Per un tassista, l’auto è essenziale. Purtroppo il fermo amministrativo può colpire anche l’auto strumentale (non c’è un divieto, a differenza del pignoramento prima casa che è vietato in certi casi). Dunque, prevenire il fermo è fondamentale: o pagando o accordandosi per rate. Dal 2022, se si aderisce alla dilazione, il fermo non viene iscritto, e se già iscritto viene sospeso. Ma se si ignora la cartella, l’Agente può disporre il fermo e ciò impedisce la circolazione (blocco del veicolo al PRA). Un taxi con fermo non può circolare legalmente, mettendo il conducente in grave difficoltà. Quindi, massima attenzione a questo aspetto.
  • Sovraindebitamento e altre tutele estreme: se il debito fiscale è talmente alto da risultare impagabile, esistono procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (oggi Codice della Crisi d’Impresa prevede anche piani di ristrutturazione per privati e piccoli imprenditori, includendo debiti fiscali). Questo è un rimedio estrema ratio – ad es., un tassista che accumulato debiti di centinaia di migliaia di euro, magari per più accertamenti e interessi, potrebbe valutare un “piano del consumatore” o “liquidazione del patrimonio” se possiede beni, per liberarsi residualmente del debito. Ma sono procedure concorsuali in sede civile, oltre lo scopo di questa guida. È però utile sapere che le sanzioni tributarie in caso di crisi possono spesso venire stralciate in parte nei piani concordatari.
  • Reati tributari: un accenno doveroso: se l’accertamento definitivo configura evasioni oltre soglia penale, l’esito del processo tributario non preclude quello penale (che segue iter autonomo). Un tassista difficilmente oltrepassa soglie di punibilità penale (100k € di imposta evasa su IVA o redditi, o 2M € di ricavi non dichiarati) a meno di situazioni eccezionali. Se però succede, dovrà affrontare anche il procedimento penale per “dichiarazione infedele” o altro. In quell’ambito, l’aver definito l’illecito amministrativo (pagando con adesione o conciliazione prima del dibattimento) come detto attenua la pena. Mentre, curiosamente, una sentenza tributaria favorevole (che neghi la sussistenza di evasione) non vincola il giudice penale, ma può influenzarlo se basata su fatti concreti. L’approfondimento penale esula dalla guida, ma il concetto è: sotto un certo livello, il rischio è solo pecuniario; sopra, c’è rischio di sanzioni penali (ammende, reclusione con pena sospendibile in molti casi di infedele, ecc.).

Con questo si conclude idealmente il ciclo: dalla notifica dell’accertamento fino alla sua definizione ultima, passando per tutte le fasi e strategie di difesa.

Nel prossimo capitolo, riepilogheremo sotto forma di Domande e Risposte i punti chiave che un tassista (o il suo avvocato) devono considerare, e forniremo alcune simulazioni esemplificative.

Domande e Risposte sul tema (FAQ)

D: Ho ricevuto un “avviso di accertamento” dall’Agenzia delle Entrate relativo alla mia attività di tassista. Che cos’è esattamente questo atto e cosa comporta?
R: L’avviso di accertamento è l’atto formale con cui l’Agenzia delle Entrate le contesta di aver dichiarato meno redditi (o IVA) di quelli effettivamente conseguiti e ridetermina le imposte dovute. In pratica, l’ufficio ritiene – in base ai controlli effettuati – che Lei abbia evaso una certa imposta (IRPEF, IVA, addizionali) e gliene richiede il pagamento, aggiungendo gli interessi maturati e applicando delle sanzioni amministrative (di regola, per infedele dichiarazione, una percentuale sull’imposta evasa). L’avviso indica l’anno d’imposta accertato, i maggiori ricavi o compensi che Le vengono attribuiti e il calcolo del nuovo imponibile e delle imposte. Viene motivato con le ragioni della rettifica (es.: “dichiarazione antieconomica, incongrua rispetto agli studi di settore, ricostruzione induttiva dei ricavi basata su…”). È un provvedimento immediatamente esecutivo: se entro 60 giorni Lei non fa nulla, l’accertamento diverrà definitivo e potranno attivarsi procedure di riscossione forzata. Entro quei 60 giorni Lei può però attivarsi per difendersi: presentando istanza di adesione, chiedendo autotutela, o proponendo ricorso al giudice tributario. Nell’atto dovrebbe essere indicato sia il termine per impugnare (60gg) sia l’ufficio presso cui eventualmente richiedere un’adesione o informazioni. In sintesi, è l’atto che formalizza la pretesa fiscale dell’erario nei Suoi confronti. Se non concorda con essa, deve reagire entro le scadenze previste.

D: L’accertamento mi contesta ricavi non dichiarati basandosi su “presunzioni”. È legittimo tutto ciò?
R: Sì, la legge consente al Fisco di determinare un maggiore reddito anche sulla base di presunzioni semplici, purché siano gravi, precise e concordanti (art. 39, co.1, lett. d) DPR 600/73). Significa che l’ufficio può inferire l’esistenza di ricavi in più da elementi indiretti. Ad esempio: elevati consumi di carburante rispetto agli incassi, o tanti chilometri percorsi secondo le schede tecniche rispetto a pochi documentati a tassametro, o ancora incassi dichiarati sempre identici ogni mese (cosa inverosimile in un’attività variabile). Questi indizi, se opportunamente spiegati e non contraddittori, possono costituire base legale per l’accertamento. Non serve quindi che l’Agenzia trovi “la mazzetta di banconote” per provarLe il nero: può basarsi su ragionamenti logici e dati di fatto. Tuttavia, le presunzioni devono avere quei caratteri di gravità, precisione e concordanza. Se sono congetturali o fragili, Lei potrà contestarne la validità. Ad esempio, la Cassazione ha annullato un accertamento fondato su un mero calcolo aritmetico di chilometri percorsi ritenuto troppo arbitrario e non corroborato da studi o prove concrete, specie perché Lei (contribuente) era congruo allo studio di settore. Invece ha ritenuto legittimi accertamenti basati su incongruenze palesi e molteplici (km, costi, tariffe, ecc.) perché in quel caso le presunzioni erano effettivamente gravi e concordanti. Quindi: l’utilizzo di presunzioni è legittimo, ma se l’accertamento è fondato solo su supposizioni deboli o medie astratte, potrà essere invalidato. Spetterà al giudice valutare la solidità degli indizi e a Lei spetterà portare prove contrarie per smontarli.

D: Sono in regola con gli Studi di Settore/ISA: posso essere comunque accertato?
R: Essere “congruo e coerente” agli studi di settore (o avere un buon punteggio ISA) certamente La aiuta, ma non Le dà immunità totale. In teoria, l’Agenzia delle Entrate potrebbe comunque emettere un accertamento se dispone di elementi specifici di evasione. Però, nella prassi, i contribuenti con punteggi ISA alti o congrui di solito vengono esclusi dalle liste di controllo salvo anomalie macroscopiche. Inoltre, se pure venisse emesso un accertamento, questo dovrà misurarsi col fatto che Lei aveva già superato i parametri ministeriali. La giurisprudenza riconosce che la congruità agli studi di settore costituisce una presunzione di “normalità” del reddito. Quindi, eventuali contestazioni dell’ufficio devono essere particolarmente robuste. Ad esempio, se Lei è congruo e l’ufficio tenta comunque di accertare ricavi in più con qualche metodo induttivo, il giudice vorrà vedere prove forti. In mancanza, l’accertamento verrà annullato. Ciò è avvenuto in Cassazione: tassista congruo allo studio, l’accertamento fondato su semplici calcoli è stato dichiarato nullo per difetto di presunzioni gravi. D’altro canto, altre sentenze dicono che anche il congruo può essere accertato se emergono comunque incongruenze gravi (es. Lei dichiara il minimo accettabile dallo studio, ma girava 12 ore al giorno con tariffe medie molto più basse del dovuto – segno di evasione). In breve: se è congruo/affidabile, la chance di accertamento è bassa; se avviene, Lei è in una posizione difensiva forte perché può sempre dire: “ho seguito le regole e dichiarato il giusto secondo lo Stato, ora l’Ufficio deve provare in modo serio che ho evaso”. Spesso, far presente ciò (magari allegando documenti ISA) porta l’ufficio a più miti consigli già in adesione.

D: Ho 60 giorni di tempo: mi conviene fare subito ricorso o tentare un accordo con l’ufficio?
R: Dipende dalle circostanze del Suo caso. In generale, è bene esaminare l’accertamento con un professionista e valutare: quanto è fondato? Se ci sono errori palesi o pretese esorbitanti, ed elementi a Suo favore, spesso è utile prima dialogare con l’ufficio. Si può presentare un’istanza di accertamento con adesione, che Le congela i termini per ricorrere e apre una trattativa. Nell’adesione, Lei può ottenere uno sconto sulle sanzioni (pagando 1/3) e magari anche una riduzione dei ricavi accertati se porta argomenti validi. È un modo per risolvere in fretta senza andare in causa. Se l’ufficio in sede di adesione Le fa una proposta ragionevole (es. dimezza la pretesa) e Lei preferisce chiudere pagando il dovuto in rate, potrebbe essere conveniente aderire. Viceversa, se l’ufficio non mostra apertura o insiste su importi che Lei ritiene ingiusti, allora bisogna prepararsi al ricorso. In ogni caso, non faccia trascorrere inutilmente i 60 giorni: se tratta in adesione, ricordi che ha 90 giorni di sospensione, ma trascorso quello se non c’è accordo, deve depositare ricorso entro i nuovi termini (150 gg totali). Se invece dall’inizio l’atto è totalmente sbagliato su punti di diritto (es. fuori termine di legge) può anche decidere di ricorrere subito senza adesione e puntare a vincere in toto in giudizio. Un’altra strada intermedia è l’autotutela: se c’è un errore macroscopico (ad es. l’atto calcola male le imposte, o ha scambiato soggetto) chieda subito all’ufficio di annullarlo. Talvolta l’ufficio lo fa (specie su casi obbligatori), evitandole il ricorso. Quindi, ricapitolando: valuti la forza del Suo dossier. Se c’è margine di trattativa e vuole evitare battaglie legali, tenti l’adesione (male che vada, farà ricorso più tardi). Se l’ufficio è sordo o l’accertamento è assurdo, prepari il ricorso. Importante: non lasci scadere i termini; se è in dubbio, presenti intanto il ricorso (che può sempre ritirare se poi concilia) così è al sicuro da decadenze.

D: In caso di ricorso, devo pagare subito qualcosa? L’accertamento è “sospeso” automaticamente?
R: Presentare ricorso non sospende automaticamente la riscossione dell’accertamento. La regola attuale è che decorso il termine dei 60 giorni senza pagamento, l’atto diventa esecutivo. Tuttavia, la riscossione avviene in modo frazionato: l’Agenzia Entrate può intanto riscuotere un importo pari al 1/3 delle imposte accertate (senza sanzioni) dopo i 60 giorni, anche se Lei ha fatto ricorso. Ciò avviene attraverso la notifica di una cartella di pagamento “provvisoria”. Se poi la Commissione respinge il ricorso, l’AE potrà riscuotere un altro 1/3 (arrivando a 2/3 in totale) dopo la sentenza di primo grado. E dopo l’eventuale appello sfavorevole, il rimanente. Questa è la riscossione frazionata (art. 68 D.Lgs.546/92). Quindi, cosa deve aspettarsi: se ricorre, di norma entro qualche mese Le arriverà una cartella con circa un terzo del dovuto. Per evitare di pagare anche quel terzo durante la causa, può presentare istanza di sospensione alla Commissione Tributaria insieme al ricorso. Deve dimostrare un “danno grave e irreparabile” (es. che pagarla ora Le creerebbe enorme difficoltà economica) e che il ricorso ha “fumus boni iuris” (motivi validi). Se la Commissione accorda la sospensione, allora nulla è dovuto finché non c’è sentenza (o fino a un termine definito). Se la nega, dovrà pagare quel terzo (o chiedere dilazione) durante la causa. Va detto che su importi non elevatissimi spesso la sospensione non viene concessa, perché pagare un terzo ad esempio di €10.000 (cioè €3.300) non viene ritenuto “irreparabile” danno. Ma su cifre grandi, o se dimostra di avere un ISEE basso, ecc., la sospensione è possibile. In ogni caso, il resto (i 2/3 residui e le sanzioni) non verranno chiesti finché la causa non sarà definita almeno nel merito di primo e secondo grado. Dunque, presentare ricorso Le evita di dover pagare l’intero subito, ma tenga presente l’eventualità di dover fronteggiare la richiesta di un acconto. Se poi vince la causa, quanto pagato Le sarà restituito con interessi.

D: Se vinco la causa, riavrò indietro le somme che ho eventualmente versato?
R: Sì. Se la sentenza Le dà ragione (annullando in tutto o in parte l’accertamento), l’Amministrazione finanziaria dovrà restituirle le somme versate in eccedenza rispetto al dovuto, con gli interessi legali maturati. Questo vale sia per pagamenti spontanei (acconti versati, ecc.) sia per somme che Le sono state nel frattempo iscritte a ruolo e prelevate. In pratica, di solito se Lei aveva pagato il primo terzo e poi vince in primo grado, l’ufficio attende il passaggio in giudicato (ossia che scadano i termini per un appello, o che l’appello eventuale si chiuda) e poi avvia la procedura di rimborso. In alcuni casi, se la sentenza è esecutiva, può chiedere il rimborso subito. Per sicurezza, conviene trascorsi 90 giorni dalla sentenza definitiva, presentare un’istanza di rimborso all’ufficio allegando la sentenza e la prova dei pagamenti fatti. L’AE a quel punto emetterà un provvedimento di rimborso e l’AdER le accrediterà le somme dovute. Questo processo può richiedere qualche mese. Gli interessi sono calcolati al tasso vigente (di solito il 2% annuo semplice per i rimborsi fiscali). Naturalmente, se la vittoria è parziale (es. il giudice ha ridotto il reddito ma non annullato tutto), Le spetterà il rimborso proporzionale sulla parte non dovuta. Le eventuali spese di lite saranno anch’esse liquidate in sentenza: se Lei vince, normalmente l’AE è condannata a rifonderle un importo per le spese legali (non copre sempre il 100% di quel che spende, spesso il giudice liquida un tot a discrezione). Se invece perde, potrebbe essere condannato Lei alle spese (per importi modesti spesso le compensano, cioè ognuno paga le proprie).

D: Quali sono le principali ragioni di nullità dell’accertamento che potrei far valere?
R: Oltre al merito (mancanza di presunzioni serie), vi sono diversi vizi formali e procedurali che, se presenti, rendono l’atto nullo. I più rilevanti:

  • Notifica viziata: se l’avviso non Le è stato notificato secondo le forme di legge (es. consegnato alla persona sbagliata, indirizzo errato, mancata ricerca del destinatario, ecc.), può essere inesistente o nullo. È un tema tecnico, va valutato caso per caso.
  • Difetto di motivazione: la motivazione deve spiegare chiaramente i fatti e le ragioni giuridiche dell’accertamento. Se l’atto è generico o apodittico (es: “ricavi non congrui, pertanto si accerta +€50.000” senza spiegare il calcolo), allora viola l’obbligo di motivazione e può essere annullato. Tuttavia, se c’è un PVC della Finanza o altro atto richiamato, è valido che la motivazione sia “per relationem” a quel PVC, purché Le sia stato allegato o già noto.
  • Mancato contraddittorio quando previsto: per gli studi di settore (vecchi) era essenziale convocare il contribuente prima: la mancata attivazione del contraddittorio in quei casi rende nullo l’atto. Anche per accertamenti da indagini finanziarie su conti di terzi non preventivamente comunicati, la Cassazione ha talora annullato. In generale, la giurisprudenza è ancora oscillante sul contraddittorio endoprocedimentale, ma se la normativa lo prevedeva (come art. 5-ter D.Lgs.218/97 per studi settore, oggi abrogato, o nel caso di accertamento sintetico redditometro) e non è stato fatto, è un buon motivo di ricorso.
  • Termine di decadenza scaduto: se l’accertamento Le è stato notificato dopo i termini di legge (ad esempio per l’anno d’imposta 2016 notificato dopo il 31/12/2022 senza cause di proroga), allora è decaduto e va annullato. Questo è un motivo vincente automatico se vero.
  • Errore sul soggetto passivo: se l’atto è intestato alla persona sbagliata (es. a Lei ma i redditi contestati erano di un altro, magari per omonimia), è nullo per errore sul presupposto soggettivo. Oppure se era una società e lo mandano a lei fisica. Insomma, deve esserci corrispondenza tra contribuente e atto.
  • Mancata indicazione del responsabile del procedimento: la L.212/2000 art.7 impone di indicarlo. La giurisprudenza però ora dice che la sua assenza non è causa di nullità, quindi questo da solo non basta più (un tempo c’era dibattito).
  • Sottoscrizione non valida: l’accertamento deve essere firmato dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato. Se mancava la firma, o chi ha firmato non aveva delega, alcune sentenze hanno annullato l’atto (la prova della delega però grava sull’ufficio).
  • Violazione del principio di chiarezza su modalità di calcolo: se l’atto spara cifre senza spiegare come le ha ottenute, oltre alla carenza di motivazione c’è violazione dello Statuto del contribuente (art.7): anche questo può essere denunciato.
  • Violazioni nelle indagini finanziarie: se il fisco ha usato dati bancari di terzi senza autorizzazione, o non Le ha notificato l’avvio di indagine, potrebbe esserci un vizio. Sono questioni complesse, da vedere con l’avvocato.
    In sintesi, conviene passare l’atto al setaccio. Un vizio formale, se c’è, è ottimo perché porta all’annullamento a prescindere dal merito. Tuttavia, i giudici oggi sono un po’ più orientati alla “sostanza”: se è un errore lieve e non lesivo dei diritti, tendono a non annullare. Ma errori gravi come decadenza, difetto motivazione, ecc., fanno cadere l’atto spesso. Nel Suo ricorso, qualora ve ne siano, è bene sollevare tutti i vizi riscontrabili (formali e sostanziali), perché anche uno solo può farLe vincere.

D: Posso portare testimoni (es. passeggeri, colleghi) per provare che non ho guadagnato certe somme?
R: Purtroppo, nel processo tributario la prova testimoniale orale non è ammessa. È un retaggio che viene dal divieto del codice civile di prova testimoniale nei confronti della PA, e il processo tributario è storicamente documentale. La riforma recente ha aperto uno spiraglio per la testimonianza scritta (una dichiarazione giurata sostitutiva), ma al momento l’operatività è limitata e incerta – inoltre non tutti i giudici la ammettono. Quindi, non faccia affidamento sulla testimonianza di terzi. Se per esempio dei clienti potrebbero confermare che Lei ha praticato sconti o corse gratuite, la cosa migliore è farsi rilasciare dichiarazioni scritte sottoscritte da costoro, da presentare come elementi indiziari. Il giudice tributario potrebbe valutarle come inizio di prova o scritti di terzi. Non hanno lo stesso valore di una testimonianza sotto giuramento, ma meglio di niente. Meglio ancora se tali circostanze può provarle con documenti: es. volantini promozionali che offrivano sconti, registro dove annotava corse omaggio, fatture ad associazioni per servizi a tariffa ridotta, ecc. La difesa tributaria è un gioco di incastri documentali e logici. Se aveva, ad esempio, un secondo lavoro part-time che Le riduceva l’orario al taxi e spiega i minori incassi, porti il contratto di lavoro e le buste paga di quell’altro lavoro per far capire che faceva meno corse. Ogni fatto allegato va preferibilmente supportato da un pezzo di carta. L’assenza di testimonianza diretta è uno svantaggio per il contribuente, ma può ovviare raccogliendo dichiarazioni sostitutive (magari del suo meccanico che attesti i mesi di fermo dell’auto) e presentandole. Non avranno lo stesso peso di un testimone interrogato, ma il giudice le può considerare unitamente al resto. In definitiva: punti sui documenti; se ci sono persone in grado di avvalorare la Sua versione, faccia fare loro dichiarazioni scritte dettagliate. Sarà poi la sensibilità del giudice decidere se dar loro credito, sapendo che non sono prova legale ma semplici elementi.

D: L’accertamento riguarda un anno in cui sono stato molto male di salute e ho lavorato pochissimo. Posso farlo valere?
R: Assolutamente sì. Una causa giustificativa dell’antieconomicità può ribaltare la presunzione del Fisco. Se quell’anno Lei ha fatturato poco perché – ad esempio – è stato ricoverato 4 mesi e dunque il taxi è rimasto fermo, questo spiega perché i ricavi sono bassi senza bisogno di evocarne di occulti. L’importante è provare tale circostanza: presenti certificati medici, cartelle cliniche, qualunque prova delle sue condizioni di salute e del periodo in cui non ha potuto guidare. Se aveva un sostituto alla guida, indichi semmai come ha gestito. Ma se proprio il taxi è restato fermo, meglio ancora: può portare, ad esempio, i chilometri macchina da revisione a revisione per mostrare che quell’anno ha percorso molta meno strada del normale. La Cassazione considera situazioni come malattie, eventi eccezionali (pandemie, calamità naturali, ecc.) come idonee a giustificare temporanei scostamenti dai parametri di reddito. Quindi senz’altro lo faccia valere sia in adesione sia in giudizio. Idem dicasi per altre cause: es. lavori stradali prolungati che hanno reso difficoltoso il servizio in città, scioperi o proteste che hanno limitato l’operatività, ecc. Nel 2020-2021, un esempio eclatante: la pandemia Covid e i lockdown hanno letteralmente azzerato il turismo e ridotto drasticamente le corse taxi. Un accertamento su quegli anni sarebbe insensato senza considerare il Covid. Infatti il legislatore ha escluso gli ISA per il 2020. Nel Suo caso individuale, la malattia è paragonabile: un lungo stop giustifica meno incassi. Si assicuri di documentare e quantificare: ad esempio “da marzo a giugno sono stato fermo, corrispondenti ad un calo di X corse, per questo i ricavi annui sono inferiori di circa Y rispetto alla media, in linea con quanto contestato – ergo, il calo ha causa lecita, l’accertamento non deve imputarmi ricavi che non potevo fare”. Sottolinei queste cose al giudice: le Commissioni sono sensibili a spiegazioni concrete e comprensibili.

D: Se perdo il ricorso, posso appellare? E nel frattempo devo pagare?
R: Sì, può proporre appello alla Commissione Regionale entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. In appello può far rivedere la decisione, ma solo sui punti contestati (non può aggiungere motivi nuovi non sollevati prima). Durante l’appello, come detto, l’ufficio può chiederle un ulteriore pagamento pari ad un altro terzo delle imposte (raggiungendo i 2/3). Se vuole evitare di pagare anche quello finché non decide l’appello, deve chiedere alla CTR la sospensione della sentenza di primo grado (simile a quella del primo grado). La CTR gliela darà se la sentenza appare chiaramente sbagliata e se pagare ora le darebbe un danno grave. Altrimenti, dovrà pagare quel secondo acconto. Se poi in appello vince, glielo restituiranno. Se perde di nuovo, potrà valutare il ricorso in Cassazione (solo per motivi di diritto). Dopo la sentenza d’appello, se sfavorevole, l’Agenzia potrà riscuotere tutto il restante dovuto (salvo sospensiva in Cassazione, rara da ottenere). In pratica, se perde in due gradi, dovrà pagare quasi certamente, anche se va in Cassazione. Quindi valuti bene se proseguire oltre il secondo grado: spesso può esser più saggio cercare un accordo transattivo a quel punto (la conciliazione in appello o Cassazione) per risparmiare qualcosa di sanzioni e chiudere.

D: Che cos’è la conciliazione giudiziale? Me l’ha proposta l’avvocato dell’ufficio prima dell’udienza.
R: La conciliazione giudiziale è un accordo tra Lei e l’Agenzia delle Entrate raggiunto durante il processo, con l’intervento della Commissione che lo recepisce in un verbale. In pratica, è molto simile all’accertamento con adesione ma avviene quando c’è già un ricorso pendente. I vantaggi: riduzione delle sanzioni (al 40% se concilia in primo grado, 50% se in secondo), e fine immediata della causa (nessuno dei due appellerà di solito l’accordo). Se l’avvocato di controparte Le propone una conciliazione, significa che forse il loro caso non è granitico e preferiscono incassare almeno una parte. Lei dovrebbe confrontarsi col Suo difensore: conviene l’accordo? Esempio: Le offrono di ridurre del 30% i maggiori ricavi e di applicare sanzioni ridotte (40%). Se così facendo paga, poniamo, €10.000 invece di €18.000 totali, forse conviene se la causa appare incerta. Se invece Lei è in posizione forte (il giudice in udienza sembrava dalla Sua parte, o ha nuovi documenti risolutivi) forse le conviene proseguire e puntare a vincere tutto. La conciliazione è volontaria: se una parte non vuole, non si fa. Non può essere imposta. Talvolta è il giudice stesso a chiederci: “Signori, c’è margine per una conciliazione?”. Se c’è, di solito concedono un rinvio per tentare l’accordo. Valuti la proposta in termini economici: l’ufficio spesso mira a “salvare il capitolo”, cioè incassare almeno l’imposta, scontando le sanzioni. Se Lei preferisce togliersi il pensiero pagando solo il tributo (senza sanzioni o con sanzione minima) può accettare. Se trova l’offerta inadeguata può fare una controproposta. In ogni caso, se concilia, deve poi pagare l’importo concordato entro 20 giorni (o prima rata) e il gioco è chiuso.

D: Se ignoro l’accertamento e non pago né ricorro, cosa succede?
R: Male, purtroppo. Se trascorrono 60 giorni senza che Lei presenti ricorso o definisca l’atto, l’accertamento diventa definitivo (passa in giudicato amministrativo). A quel punto l’importo contestato è iscritto a ruolo e l’Agenzia delle Entrate-Riscossione avvierà la riscossione coattiva. Le arriverà quindi una cartella esattoriale per l’intero importo (imposte + sanzioni + interessi + aggi di riscossione). Se continua a ignorare anche quella, entro qualche mese l’Agente potrà disporre un fermo amministrativo sul Suo veicolo (impedendole di lavorare), oppure pignorare somme su conti bancari, o il quinto dello stipendio/pensione se ne ha, o iscrivere ipoteca su eventuali immobili. Insomma, il debito fiscale verrà forzatamente recuperato. Inoltre, perdendo la possibilità di ricorrere, ha perso anche la chance di far valere qualsiasi ragione a suo discarico. Non solo: anche volendo pagare a rate, avrebbe perso il beneficio della sanzione ridotta (quella c’è solo con adesione o acquiescenza entro i termini). Dovrà pagare le sanzioni intere (di solito 100% o 90% del tributo evaso) più more. Quindi, ignorare l’atto è la scelta peggiore. Se non aveva i soldi per pagare e pensava “non ricorro perché tanto ho torto”, almeno avrebbe dovuto fare acquiescenza per ridurre le sanzioni di un bel po’. Se non l’ha fatto, ora si trova il 100% di sanzioni sul groppone. Valuti a questo punto se c’è qualche rimedio straordinario: ad esempio, se il debito è molto grande e proprio non può pagare, potrebbe aderire (se aperta) a qualche rottamazione delle cartelle per togliere sanzioni e pagare solo imposte rateizzate. Oppure, se ne ha i requisiti, intraprendere una procedura da sovraindebitato per stralciare il debito parzialmente. Sono però soluzioni limite. La regola aurea è: mai lasciare decorrere i termini senza far nulla. Anche se uno pensa di aver torto, conviene aderire e ottenere lo sconto sanzioni, o al limite ricorrere tanto per guadagnare tempo (si possono sempre ritirare in corso d’opera i ricorsi se si vuole transare).

D: L’accertamento riguarda IRPEF e IVA: se pago tutto, sono a posto anche con il penale?
R: Dipende dall’entità dell’evasione: se le somme evase superano le soglie di rilevanza penale fissate dal D.Lgs. 74/2000, il fatto di pagare non elimina di per sé il reato (non c’è oblazione o estinzione automatica, salvo casi di pena pecuniaria applicata dal giudice penale se paghi prima del dibattimento nei reati di omesso versamento). Però può ottenere benefici: per il reato di dichiarazione infedele (art.4 D.Lgs.74/2000), se l’imposta evasa è oltre €100.000 e Lei viene denunciato, il fatto di aver definito l’accertamento con adesione e pagato tutto prima del dibattimento è considerato circostanza attenuante che riduce la pena sino a un terzo. Quindi, non la esonera dal processo penale, ma in sostanza rende probabile che se condannato, abbia pena minore o magari solo una multa. Nei reati più gravi (dichiarazione fraudolenta) il pagamento non estingue il reato, ma può comunque essere valutato positivamente dal giudice. D’altra parte, se le soglie penali non sono superate, la questione penale nemmeno si pone. Ad esempio, se Le contestano €50.000 di IVA evasa, è sotto soglia (che è 100k per infedele) quindi niente reato. Anche l’omessa dichiarazione ha soglia 50k imposta evasa: se Lei dichiarato poco ma qualcosa sì, di solito Le imputano infedele, non omessa. Insomma, la maggior parte dei casi di accertamenti a tassisti non sfociano nel penale. Ma se temesse il penale (lo capisce se l’evaso supera soglie, o se le contestano false fatture ecc.), il pagamento integrale con adesione e la collaborazione riducono di molto il rischio carcere. Per scrupolo, segnalo anche l’istituto del ravvedimento operoso (art.13 D.Lgs.472/97): ma quello vale se Lei spontaneamente, prima di un controllo, corregge la dichiarazione e paga il dovuto con mini-sanzioni. Nel momento in cui arriva l’accertamento, il ravvedimento non è più esperibile per quell’anno/violazione.

D: Quali documenti dovrei raccogliere per preparare una buona difesa?
R: Consigliamo di mettere insieme:

  • Documentazione fiscale degli anni in questione: dichiarazioni dei redditi, liquidazioni IVA, studi di settore/ISA presentati, fatture emesse (le cosiddette “ricevute taxi” se le rilasciava, o i corrispettivi giornalieri), libro dei corrispettivi se previsto. Questo serve a ricostruire la base dichiarata e individuare eventuali errori formali che può aver commesso (es. uno scontrino dimenticato?).
  • Documenti contabili e extracontabili: per difendere servono spesso registri non obbligatori. Esempio: se Lei teneva un taccuino delle corse (anche informale) con date, tragitti e incassi, è oro in sede di prova. Oppure le ricevute di chiamata del radiotaxi o le fatture che la cooperativa taxi Le emette per le provvigioni: quelle spesso riportano il numero di corse assegnate. Nel caso di Firenze citato, avevano usato anche le fatture della cooperativa per vedere quante corse faceva e confrontarle con i ricavi. Se Lei aderiva a Uber o altri servizi digitali, scarichi gli estratti delle corse fatte via app. Insomma, tutto ciò che quantifica l’attività svolta.
  • Dati veicolo: chilometraggio annuale – può reperirlo dalle revisioni (sul tagliando revisione c’è il km). Anche ricevute di officina con km annotati. Bolle di carburante con litri (ormai elettroniche sul portale ADE se pagava con scheda carburante). Così può calcolare i km totali e i litri totali e supportare/contestare eventuali calcoli d’ufficio.
  • Tariffe comunali ufficiali: recuperi la delibera comunale che fissa tariffe e supplementi. È utile per mostrare, ad esempio, che il costo fisso a chiamata è X, il km Y, la sosta Z. Così se l’ufficio sbaglia i calcoli, Lei glielo fa notare con i valori corretti.
  • Eventuali convenzioni o accordi speciali: ha lavorato per un’azienda con tariffa forfettaria (tipo navetta)? Prenda il contratto o la corrispondenza che lo prova. Qualunque scostamento va spiegato con documenti.
  • Situazioni personali particolari: certificati medici per malattie, prove di incidenti stradali (es. per auto ferma: verbale incidente, fattura carrozziere e periodo di fermo assicurativo). Se aveva un secondo lavoro: contratto di lavoro o CU. Se è partito a metà anno: licenza taxi rilasciata con data, per giustificare che ha lavorato solo 6 mesi quell’anno.
  • Documenti redditometro/spese: se l’ufficio (non comune ma possibile) avesse dubbi dal tenore di vita – es. Lei ha comprato casa o auto di lusso dichiarando reddito basso – prepari documenti di eventuali finanziamenti, mutui, aiuti familiari per quell’acquisto. A volte guardano anche quello.
  • Giurisprudenza e prassi: il Suo difensore citerà le sentenze opportune. Potrebbe allegarne copie. Utili anche circolari dell’Ade: es. la circ. n. XX/… dice che se uno è congruo studi di settore non si procede salvo casi eccezionali – può esistere (in passato c’erano impegni in tal senso).

In sostanza, prepari un dossier completo della Sua attività per quell’anno, come se dovesse dimostrare a qualcuno ogni singolo euro da dove viene e dove è andato. Più è trasparente, più chance ha che l’ufficio o il giudice capiscano e Le diano ragione.

D: Se ho altre pendenze col fisco (cartelle arretrate, ecc.), una causa persa peggiora la mia situazione?
R: Ogni accertamento fa storia a sé. Però, chiaramente, se Lei ha già cartelle non pagate, un nuovo debito fiscale aggrava la Sua esposizione. L’Agente della Riscossione quando procederà, considererà il totale dei debiti. Quindi, ad esempio, se Lei aveva già 2 cartelle e gliene arriva una terza da questo accertamento, e non paga, il rischio di misure come il fermo auto aumenta (più facile lo applichino per 3 cartelle che per una sola). Inoltre, a livello cautelare, se l’importo dell’accertamento è molto alto, l’Agenzia delle Entrate potrebbe iscrivere ipoteca sui suoi immobili o chiedere un sequestro conservativo durante la causa (accade per grossi importi, di solito sopra 50-100k, e se temono Lei alieni i beni). Non è frequente per i taxi, ma teoricamente se ha casa di proprietà e un debito fiscale ingente, potrebbero iscrivere ipoteca a tutela del credito erariale. Infine, se ha diverse pendenze e li definisce, magari potrebbe valutare strumenti di composizione complessiva (una transazione fiscale se fosse in procedura concorsuale, etc.). Ma sto andando oltre: diciamo, ogni debito sommato agli altri peggiora la posizione debitoria globale. Dal punto di vista del giudizio, il giudice non considera se Lei è recidivo o altro – decide sul singolo atto. Quindi in causa il fatto di avere altre liti non incide (se non per eventuale valutazione di “abuso del processo” se facesse cause fotocopia pretestuose, ma non è il caso di un tassista con più annualità contestate: lì semmai potrebbero unire i procedimenti se analoghi).

D: Come incide la nuova “Giustizia tributaria” sulla mia causa?
R: Dal 2023 c’è una riforma in atto: i giudici tributari stanno diventando togati (professionisti assunti per concorso) al posto in parte dei giudici onorari precedenti. Ciò dovrebbe garantire decisioni più uniformi e preparate. Hanno cambiato il nome delle commissioni in Corti di giustizia tributaria e alcune regole (come la mediazione abolita, la conciliazione estesa, la testimonianza scritta come possibilità). Per il Suo caso pratico: si troverà magari di fronte giudici un po’ più tecnici; se la lite è di valore contenuto, in primo grado potrebbe decidere un giudice monocratico (solo, senza collegio) – ciò avviene per controversie sotto €3.000 già ora, e probabilmente aumenterà la soglia negli anni. Ma questo non cambia la Sua difesa, se non che un giudice solo spesso è più rapido a decidere. La riforma ha anche introdotto filtri in Cassazione: la Corte potrà cestinare ricorsi palesemente infondati con ordinanza in camera di consiglio (lo faceva già in parte). Quindi, in sintesi, non c’è da preoccuparsi: i cambiamenti vanno nella direzione di semplificare e velocizzare. Per Lei, l’importante è seguire le regole procedurali vigenti (il Suo difensore lo sa: ora è tutto telematico, ad esempio).

D: Mi conviene farmi assistere da un difensore? O posso fare da solo?
R: Per le cause tributarie, se il valore in contestazione supera €3.000 (imposta, al netto di sanzioni), c’è obbligo di assistenza tecnica da parte di un difensore abilitato (solitamente avvocato o commercialista). Sotto tale soglia, potrebbe stare in giudizio da solo. Tuttavia, il Suo è un caso complesso, e il Fisco sarà rappresentato da funzionari esperti. È fortemente consigliabile farsi assistere da un professionista esperto di diritto tributario. Egli saprà impostare correttamente i motivi di ricorso, rispettare i formalismi e termini (evitando inammissibilità), e rappresentarLa efficacemente in udienza. Inoltre, potrà valutare con competenza le offerte di conciliazione, l’opportunità di adesione, etc. Consideri che le spese legali, se Lei vince, vengono in buona parte rifuse dall’Agenzia soccombente. Se perde, spesso nei piccoli casi le spese vengono compensate (cioè ciascuno le sue). Quindi il costo del difensore è in parte ammortizzabile. Agire da soli, a meno che si abbia competenze giuridiche, è rischioso: basta sbagliare una notifica o un termine e si perde in partenza.

D: In sintesi, quali consigli dareste ad un tassista per evitare grane col Fisco?
R: Dal punto di vista preventivo:

  • Tenere traccia di tutto. Anche se non è obbligato a emettere scontrino per ogni corsa (di solito i taxi hanno tariffa amministrata e ricevuta su richiesta), Le conviene tenere un registro giornaliero dei corrispettivi, magari annotando corse effettuate e incasso. Questo l’aiuta in caso di controllo ad avere pezze giustificative.
  • Dichiarare redditi realistici, evitando di dichiarare sempre lo stesso importo o importi irrisori rispetto ai costi. Meglio dichiarare qualcosa in più e pagare un po’ di tasse, che risultare “antieconomico” e subire accertamenti lunghi.
  • Se un anno va male per cause particolari, conservare la documentazione (es. malattia, incidente, lavori stradali) e magari evidenziarlo già in sede di dichiarazione allegando una nota o utilizzando le annotazioni ISA (ci sono campi per spiegare cause di anomalia).
  • Raggiungere un buon punteggio ISA: se riesce, dichiari i dati esatti per far risultare un affidabilità buona. Gli ISA premiano anche la regolarità nei versamenti e altri comportamenti: quindi versare l’IVA puntuale, evitare incongruenze. Un punteggio >=8 la mette quasi al riparo da verifiche.
  • Mantenere contabilità formalmente corretta: evitare errori banali (non registrare qualche fattura di spesa, ecc.) che danno pretesto all’ufficio di dire che la contabilità è inattendibile.
  • Usare strumenti tracciabili: oggi molti pagano con carta; se Lei incassa anche in contanti, sarebbe utile depositarli sul conto tracciando che derivano dall’attività (es. versamenti periodici di importi coerenti con i corrispettivi dichiarati). Questo evita che le imputino versamenti bancari come ricavi in nero se Lei li ha già dichiarati.
  • Confrontarsi con un consulente: faccia fare ogni tanto una simulazione a un commercialista, per vedere come i Suoi dati si pongono rispetto a medie di settore (esistono banche dati). Così può aggiustare il tiro prima che arrivi un avviso.

Dal punto di vista difensivo (se malauguratamente riceve un accertamento):

  • Non farsi prendere dal panico: analizzare lucidamente l’atto, magari con un esperto. Spesso ci sono margini di riduzione o contestazione.
  • Rispondere entro i termini: non ignorare mai comunicazioni o inviti. Se La convocano, vada con i documenti e spieghi. La collaborazione può convincere l’ufficio a chiudere con minor danno.
  • Valutare soluzioni deflative: come detto, l’adesione può risparmiare soldi e tempo; la conciliazione pure. Fare causa fino in fondo è ultima risorsa se si è convinti di avere ragione forte o se le proposte sono inaccettabili.
  • Documentare tutto in ricorso: non affidarsi a “io dico che…”. Il giudice vuole vedere prove.
  • Chiedere la sospensione se necessario per non rischiare il fermo dell’auto (lo ribadisco: se c’è pericolo, la sospensione cautelare salva temporaneamente).
  • Tenere d’occhio norme nuove: come quelle del 2023/2024 su autotutela e definizioni, perché potrebbero aprire spiragli per risolvere la questione in modi nuovi (ad esempio, se passa una definizione agevolata liti pendenti – allora magari conviene aderire pagando il 90% delle imposte senza sanzioni, piuttosto che rischiare in Cassazione, a volte l’hanno fatto).

Infine, pianificare la fiscalità: so che da lavoratore autonomo non è piacevole pagare tasse alte, ma incorrere in accertamenti può costare molto di più in stress, sanzioni e interessi. Meglio dichiarare redditi un po’ più alti ma dormire tranquilli, che cercare di ridurre troppo e poi trovarsi con il fisco alla porta. Un buon commercialista può aiutarla a dedurre tutte le spese possibili (per abbassare il reddito lecitamente) e a stare nelle “zone di sicurezza” degli indicatori fiscali.

D: Quanto può durare in tutto questo contenzioso?
R: Dall’avviso iniziale alla sentenza definitiva possono passare diversi anni. Per dare un’idea: 60gg per ricorso, 6-12 mesi per la sentenza di primo grado (spesso 12+), altri 12-24 mesi per l’appello, e se c’è Cassazione altri 2-3 anni. In totale, anche 5-6 anni non sono inusuali. È un impegno lungo. Durante questo periodo, come visto, potrebbero chiederle acconti (un terzo, poi due terzi). Quindi durare a lungo non è sempre un vantaggio (a meno di considerare l’inflazione e il fatto che intanto ha la disponibilità dei soldi pagando parzialmente). Alcuni preferiscono definire prima proprio per non avere la spada di Damocle per anni.

Questo conclude la sezione Domande&Risposte. Abbiamo toccato gli aspetti più pratici e generali.

Per ricapitolare visivamente, ecco due schemi riassuntivi utili:

Tabella – Fasi del procedimento e scadenze chiave:

FaseCosa accadeTempi e ScadenzeNote
Notifica Avviso di AccertamentoConsegna atto al contribuente (via PEC o ufficiale giudiziario o raccomandata).Entro 5° anno successivo a dichiarazione (ordinario). Poi, 60 giorni per reagire.Da qui decorrono i 60 giorni per pagamento, adesione o ricorso. Se PEC, attenzione alla data di lettura.
Istanza di Accertamento con Adesione (facoltativa)Il contribuente chiede di discutere con l’ufficio.Entro 60 gg dalla notifica avviso.Sospende termine ricorso 90 gg. Ufficio convoca di solito entro 30 gg.
Adesione raggiunta (eventuale)Si firma l’accordo e si paga quanto concordato.Pagamento entro 20 gg dalla firma.Se pagamento regolare, fine del procedimento (atto definito). Se salta pagamento, atto torna esecutivo.
Ricorso in CTPSe niente accordo, il contribuente impugna l’avviso davanti alla Commissione.Entro 60 gg (o 150 se adesione) dalla notifica avviso.Notifica all’AE, deposito in Commissione entro 30 gg notifica con CU versato.
Sospensione (cautelare)Su istanza del ricorrente, la CTP può sospendere l’efficacia esecutiva dell’atto.Istanza contestuale al ricorso (o separata). Decisione entro ~180 gg.Serve fumus e danno grave. Se concessa, blocca riscossione fino a sentenza CTP.
CTP – SentenzaDecisione di primo grado.Tempistiche medie 12 mesi (variano).Sentenza notificata alle parti. Esecutiva (può portare a riscossione 2° terzo se prosegue).
Conciliazione in corso di causaPossibile accordo tra le parti in 1° grado (o 2°).Fino a che il giudice non decide. Spesso proposta prima dell’udienza finale.Sanzioni ridotte (40% o 50%). Verbale di conciliazione = chiusura lite.
Appello in CTRLa parte soccombente (AE o contribuente) impugna la sentenza di CTP.Entro 60 gg da notifica sentenza di 1° grado.Procedura simile al primo grado (ricorso in appello). Contributo unificato raddoppiato rispetto a primo grado.
Sospensione in appelloRichiesta di sospendere esecuzione sentenza 1° grado (se contribuente deve pagare 2/3).Istanza all’atto di appello o con separata.Criteri analoghi: fondatezza appello + danno grave.
Sentenza CTRDecisione di secondo grado.Tempo variabile 12-24 mesi.Esecutiva subito (saldo importi). Può essere definitiva se non si ricorre oltre.
Ricorso per CassazioneImpugnazione per motivi di diritto in Corte di Cassazione.Entro 60 gg da notifica sentenza CTR (o 6 mesi da deposito).Necessario avvocato cassazionista. Non sospende esecuzione (salvo rara istanza).
Sentenza CassazioneDecisione definitiva (salvo rinvio).2-3 anni medi.Se accoglie, rinvia a CTR bis o decide; se rigetta, fine contenzioso.
Riscossione coattivaSe importi dovuti restano non pagati (dopo esiti o per mancato ricorso).Cartella entro 1-2 anni da evento, poi misure cautelari/esecutive (fermo dopo 90 gg da cartella, pignoramenti dopo 60 gg ecc.).Possibile rateizzare cartella (fino 72 rate standard) per evitare esecuzione. Rottamazioni straordinarie possibili a tratti.

Schema di difesa – dall’accertamento al giudizio (caso tassista):

  1. Ricezione avviso –> Analisi con consulente: verificare motivazioni (km? ricavi piatti? ecc.), importi, eventuali vizi formali (date, firma, motivazione).
  2. Raccolta documenti: chilometraggi, registri corse, ricevute carburante, estratti conto, giustificativi particolari (malattie, convenzioni).
  3. Scelta percorso:
    • Se l’atto ha errori palesi: chiedere autotutela subito.
    • Se l’importo è in parte condivisibile e vuole evitare causa: presentare istanza di adesione (sospende termini).
    • Se atto completamente infondato: preparare ricorso (comunque valutando adesione per guadagnare tempo e capire posizione ufficio).
  4. Adesione (se fatta): partecipare al contraddittorio, esporre tesi difensive (meglio anche scritte), valutare eventuale proposta ufficio.
    • Se accordo conveniente: firmare e pagare (fine vicenda con sanzioni ridotte 1/3).
    • Se nulla di fatto: predisporre ricorso entro nuovi termini (150gg).
  5. Ricorso CTP: impostare motivi formali (es. nullità per motivi X) e di merito (contestazione presunzioni, presentazione prove contrarie). Chiedere eventualmente sospensione e vittoria di spese. Depositare tutto nei termini.
  6. Fase processuale: eventualmente depositare memorie aggiuntive per replicare alle difese AE. Prepararsi a discussione in udienza (punti forti: incongruenze metodo ufficio, propria buona fede, risultati studio settore, ecc.).
  7. (Opzionale) Conciliazione: se durante la causa l’AE offre una riduzione accettabile e Lei vuole chiudere, aderire a conciliazione -> verbale, pagamento (sanzioni ridotte 40%).
  8. Sentenza CTP: se favorevole, bene (fine, salvo appello controparte); se sfavorevole o parziale, valutare appello. Intanto, se deve, pagare 1/3 provvisorio (o sospenderlo).
  9. Appello CTR: riesporre motivi dove CTP ha errato. Possibile anche qui cercare conciliazione (sanzioni 50%).
  10. Sentenza CTR: se favorevole totale, ok (spesso l’AE potrebbe fermarsi se somma modesta, oppure Cassazione se teme questione di principio); se sfavorevole, decidere su Cassazione. Nel frattempo, debito esigibile (salvo sospensione Cass.).
  11. Cassazione: solo per errori di diritto/macroscopiche illogicità. Se importo piccolo, spesso sconsigliabile per costi/tempi. Possibile conciliare anche qui (sanzioni 60%).
  12. Fine: esito definitivo. Se vince, ottenere rimborsi e cancellazione pretese. Se perde, organizzare pagamento (rate se serve) o vedere se ci sono opportunità di definizioni agevolate.

Con questo complessivo percorso, si chiude la nostra trattazione. Abbiamo visto come, a fronte di un accertamento fiscale che può apparire inizialmente “mostruoso” e incomprensibile, il contribuente – in particolare il tassista nel nostro caso – ha una serie di strumenti e diritti per far valere le proprie ragioni. La chiave è agire con prontezza, cognizione di causa e magari con il supporto di professionisti, senza farsi schiacciare dall’inerzia burocratica.

In sintesi finale, la miglior difesa è un mix di prevenzione (contabilità regolare e dichiarazioni realistiche), dialogo (adesione quando conviene, autotutela se c’è errore) e, se necessario, fermezza nel far valere i propri diritti in giudizio (senza timore di contestare ricostruzioni arbitrarie). La giurisprudenza recente conferma che i giudici tributari sanno riconoscere quando il Fisco “tira troppo la corda” con presunzioni deboli, specialmente verso contribuenti che, come i tassisti, operano in condizioni spesso difficili (mercato variabile, concorrenza abusiva, costi fissi). Fare emergere la realtà economica effettiva della Sua attività sarà sempre la migliore strategia di difesa.

Si allegano in calce le fonti normative e giurisprudenziali citate, per approfondimento.

Fonti (Normativa, Prassi e Giurisprudenza)

  1. Corte di Cassazione – Sez. Trib. – Ordinanza 13 dicembre 2019, n. 32883. (Accertamento analitico-induttivo a tassista basato su divergenza km percorsi, conferma legittimità: presunzioni gravi anche se contribuente congruo a studi).
  2. Corte di Cassazione – Sez. Trib. – Ordinanza 30 ottobre 2018, n. 27552. (Principio generale: in presenza di contabilità formalmente regolare ma antieconomica, ammesso accertamento induttivo ex art.39 DPR 600/73, presunzioni semplici gravi precise concordanti, onere della prova contraria sul contribuente).
  3. Senato della Repubblica – Servizio Studi, Dossier n. 75 (A.S. 886, DL 119/2018), Schede di lettura – Sezione su Accertamento con adesione. (Descrizione ufficiale dell’istituto: definizione, ambito di applicazione, vantaggi – riduzione sanzioni a 1/3, sospensione termini 90gg – e procedimento di adesione)
  4. Agenzia delle Entrate – Circ. n. 21/E del 07/11/2024, “Istruzioni sul potere di autotutela tributaria”. (Chiarimenti interni AE: attuazione art.10-quater e 10-quinquies Statuto Contribuenti, dovere uffici di esaminare tempestivamente istanze, casi tipici di autotutela, riferimenti alla riforma fiscale legge delega 111/2023).
  5. D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, artt. 2-12. (Normativa primaria sull’accertamento con adesione e conciliazione giudiziale: definizione accordi, effetti su sanzioni – art. 8 c.1 riduzione sanzioni a 1/3, art. 12 sospensione termini ricorso, ecc.).
  6. D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 68. (Disposizioni sul pagamento frazionato in pendenza di giudizio: 1/3 dopo ricorso, 2/3 dopo primo grado, ecc.).
  7. Statuto del Contribuente (L. 212/2000), artt. 7, 10, 10-bis, 10-quater, 10-quinquies. (Art.7: obbligo motivazione e indicazione responsabile; art.10: buona fede; art.10-quater/quinquies introdotti da D.Lgs. 219/2023 su autotutela obbligatoria/facoltativa).
  8. Cassazione – Sez. Trib. – Ordinanza 5 ottobre 2022 n. 30664. (Non citata direttamente sopra, ma rilevante: conferma possibilità accertamento induttivo anche in presenza contabilità regolare, se dubbio su fedeltà dati – cfr. precedenti in materia taxi).

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Il settore taxi è spesso oggetto di controlli fiscali mirati. L’Agenzia delle Entrate può basarsi su studi di settore o ISA, analisi dei chilometri percorsi, consumo di carburante e incassi registrati, confrontandoli con le medie di settore per stimare ricavi presunti superiori a quelli dichiarati. Un accertamento di questo tipo può comportare imposte, sanzioni e interessi rilevanti, ma esistono strategie legali per contestare le pretese fiscali e ridurre l’esposizione debitoria.


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Conclusione
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