Hai ricevuto un accertamento fiscale perché l’Agenzia delle Entrate ha rilevato movimenti su conti correnti intestati a terzi?
Il Fisco può considerare i versamenti e i prelievi effettuati su conti di parenti, soci, collaboratori o altre persone come tuoi redditi occulti, se ritiene che tu ne sia il reale beneficiario. In questi casi, è fondamentale dimostrare la reale titolarità e provenienza delle somme per evitare di pagare imposte non dovute.
Quando scatta l’accertamento su conti intestati a terzi
– Quando i conti risultano formalmente intestati a un’altra persona ma collegati alla tua attività economica
– Quando emergono operazioni finanziarie compatibili con i tuoi guadagni o flussi di cassa
– Quando i terzi intestatari sono familiari, soci o soggetti con legami economici diretti
– Quando l’Agenzia delle Entrate ritiene che il conto sia usato per schermare ricavi non dichiarati
– Quando i movimenti bancari non trovano giustificazione nei redditi dichiarati dal titolare formale del conto
Cosa può contestare il Fisco
– Che le somme versate o prelevate siano redditi imponibili non dichiarati da te
– Che il conto sia solo formalmente intestato a un terzo, ma tu ne abbia la disponibilità effettiva
– Che i movimenti siano parte di un sistema di evasione fiscale o di interposizione fittizia
– Che le operazioni non siano compatibili con i redditi dichiarati
Come difendersi da un accertamento di questo tipo
– Dimostrare, con documenti e prove, che il conto è realmente utilizzato dal titolare formale e non da te
– Fornire giustificativi per ogni versamento o prelievo contestato (bonifici, fatture, contratti, dichiarazioni)
– Documentare l’origine lecita e non imponibile delle somme (donazioni, prestiti, risparmi, rimborsi)
– Contestare l’uso di presunzioni non supportate da prove concrete
– Chiedere l’archiviazione in autotutela allegando la documentazione probatoria
– In caso di avviso di accertamento, presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria nei termini di legge
Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della pretesa fiscale
– L’esclusione delle somme contestate dalla base imponibile
– La riduzione di sanzioni e interessi
– La tutela del patrimonio personale da azioni esecutive
– La chiusura definitiva della controversia con il Fisco
Attenzione: nei casi di conti correnti intestati a terzi, l’Agenzia delle Entrate tende ad applicare presunzioni di disponibilità a tuo carico. Per ribaltare questa presunzione è essenziale fornire prove chiare, puntuali e coerenti.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e difesa del contribuente – ti spiega come affrontare un accertamento basato su conti correnti intestati a terzi e come dimostrare la tua estraneità ai movimenti contestati.
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Introduzione
Un accertamento fiscale basato su indagini bancarie è un procedimento con cui l’Agenzia delle Entrate ridetermina il reddito imponibile di un contribuente partendo dalle movimentazioni rilevate sui conti correnti – anche se intestati a terze persone. Si tratta di controlli molto penetranti che superano il segreto bancario (abolito ai fini fiscali dalla legge antiriciclaggio del 1991) e che sfruttano una presunzione legale a favore dell’Erario: in parole povere, l’Amministrazione presume che ogni versamento non giustificato sul conto sia un ricavo non dichiarato e ogni prelievo non giustificato un costo in nero, salvo prova contraria del contribuente. Questa presunzione (iuris tantum) inverte l’onere della prova, obbligando il contribuente a dimostrare che le somme movimentate non costituiscono redditi imponibili non dichiarati.
Va subito chiarito che un accertamento fondato sui conti bancari non è una “prova schiacciante” definitiva, ma una presunzione che può essere contestata e vinta con una strategia difensiva solida e tempestiva. La legge ammette sempre la prova contraria da parte del contribuente. Questa guida – aggiornata a luglio 2025 – analizza il quadro normativo italiano di riferimento, illustra come funzionano le indagini finanziarie sui conti (anche di terzi) e quali presunzioni ne derivano, richiamando le più recenti e rilevanti pronunce giurisprudenziali (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale, Corti di Giustizia Tributaria) sul tema. Dal punto di vista del contribuente/debitore, vedremo poi come difendersi: diritti da far valere, strategie pratiche (dalla fase pre-contenziosa all’eventuale ricorso in Commissione tributaria), con esempi, tabelle riepilogative e una sezione di domande e risposte frequenti. L’obiettivo è fornire un livello di approfondimento avanzato, con linguaggio giuridico ma chiaro, utile sia ai professionisti (avvocati, consulenti) sia ai privati e imprenditori che si trovino ad affrontare un simile accertamento.
Quadro normativo di riferimento
Le verifiche fiscali basate sulle movimentazioni finanziarie trovano fondamento principalmente in due norme: l’art. 32, co.1, n. 2 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 (in materia di imposte dirette) e l’art. 51, co.2, n. 2 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (in materia IVA). Tali disposizioni autorizzano l’Amministrazione finanziaria a richiedere agli intermediari finanziari “dati e notizie relativi ai rapporti e alle operazioni” del contribuente e ad utilizzarli come base per l’accertamento, a meno che il contribuente non li confuti. Di conseguenza, gli Uffici possono legittimamente analizzare tutti i conti correnti riferibili a un contribuente, anche se formalmente intestati a terzi, traendone elenchi di versamenti, prelievi e saldi da porre a fondamento della rettifica.
Nel tempo il legislatore ha potenziato gli strumenti di indagine finanziaria: dal 2006 è attivo l’Archivio dei Rapporti Finanziari presso l’Anagrafe Tributaria (D.L. 223/2006 conv. L. 248/2006, art. 37), in cui banche, Poste ed altri intermediari comunicano periodicamente i dati essenziali di ogni conto corrente (intestatari, co-intestatari, saldi, movimenti, etc.). Inoltre, la L. 197/1991 ha definitivamente eliminato il segreto bancario a fini fiscali: gli istituti finanziari sono obbligati a fornire all’Erario le informazioni richieste sulle transazioni dei clienti. In pratica, oggi la legge consente al Fisco un accesso esteso all’universo finanziario del contribuente.
Parallelamente, lo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) sancisce alcuni principi procedimentali di garanzia che trovano applicazione anche in questo contesto. Ad esempio, l’art. 7 impone che l’avviso di accertamento sia motivato in modo chiaro e comprensibile (indicando i fatti e le norme su cui si fonda); l’art. 10 riconosce il diritto del contribuente ad un comportamento leale e alla collaborazione con l’Amministrazione, nonché all’accesso agli atti; l’art. 12 prevede il diritto al contraddittorio post-ispezione (60 giorni per presentare osservazioni dopo un accesso della Guardia di Finanza o un controllo in loco). Queste garanzie si riflettono anche negli accertamenti bancari: ad esempio, il contribuente ha diritto di ottenere copia degli estratti conto e dei dati bancari acquisiti dall’Ufficio, e l’avviso finale deve esplicitare quali movimenti sono ritenuti imponibili e perché (pena la nullità per difetto di motivazione).
Un importante intervento normativo recente riguarda i prelievi bancari: recependo un indirizzo della Corte Costituzionale (sent. n. 228/2014), il legislatore ha limitato la presunzione sui prelevamenti di contante. Dal 2017, con l’introduzione dell’art. 32, co.1, lett. b-1 del DPR 600/1973 (per effetto del D.L. 193/2016 conv. L. 225/2016), si presume nero solo il contante prelevato oltre 1.000 € al giorno o 5.000 € al mese. In altri termini, per le imprese resta invariata la presunzione sui versamenti e (oltre tali soglie) sui prelievi, mentre per i lavoratori autonomi e i privati non imprenditori la presunzione relativa ai prelievi è stata eliminata. Ciò significa che il Fisco non può più contestare come ricavi non dichiarati i prelievi di un professionista o individuo privato, tranne il caso in cui superino le soglie predette (indicando movimenti anomali). Resta invece pienamente valida la presunzione sui versamenti in conto, per qualsiasi categoria di contribuente.
Indagini finanziarie e funzionamento dell’accertamento bancario
Come procede in concreto un accertamento bancario? Gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate (o la Guardia di Finanza) attivano innanzitutto una richiesta all’Archivio dei rapporti finanziari ex art. 32 DPR 600/73, di norma specificando il codice fiscale del contribuente e l’anno d’imposta da controllare. Tramite tale canale telematico, tutte le banche, Poste, società di gestione etc. comunicano gli estratti conto e i dati relativi a quel contribuente. La risposta comprende l’elenco dei conti correnti intestati o cointestati al soggetto (nonché eventuali conti su cui risulta delegato ad operare) e per ciascun rapporto i movimenti in entrata e in uscita, i saldi iniziale e finale, la giacenza media, le causali dei movimenti e gli intestatari. In pratica, l’Agenzia ottiene una visione completa e aggregata di tutti i flussi finanziari riguardanti il contribuente.
Una volta acquisiti i dati, l’Ufficio procede ad elaborarli per individuare eventuali ricavi occulti. In genere viene effettuato un semplice riscontro: si sommano tutti i versamenti (accrediti) per i quali il contribuente non ha fornito giustificazione e li si considera ricavi o compensi non dichiarati. Eventuali prelievi ingiustificati, se eccedono le soglie di legge, possono essere considerati costi in nero (cioè uscite di denaro che presumibilmente hanno finanziato acquisti o pagamenti non registrati a fini fiscali). L’art. 32 DPR 600/73, co.1 n. 2, ultimo periodo – introdotto nel 2017 – fissa appunto i limiti sopra richiamati (1.000 € giornalieri o 5.000 € mensili) per tener conto dei prelievi come ricavi da imputare. Per esempio, se una ditta individuale dichiara €100.000 di ricavi ma l’indagine bancaria rivela €30.000 di versamenti inspiegati, l’Ufficio potrà rettificare il reddito a €130.000, salvo prova contraria. Se inoltre vi fossero prelievi ingenti non giustificati (oltre soglia), anch’essi verrebbero sommati come elementi di reddito non dichiarato. Viceversa, per un privato o professionista non imprenditore, dopo la riforma 2017 i prelevamenti sotto soglia non sono più oggetto di presunzione (restano comunque significativi i versamenti).
Contraddittorio e fasi del procedimento
Prima di emettere l’avviso di accertamento, gli Uffici possono attivare un contraddittorio invitando il contribuente a fornire chiarimenti o documentazione sui movimenti bancari emersi. Spesso ciò avviene tramite la notifica di inviti al contraddittorio o processi verbali di contestazione (PVC) contenenti il dettaglio dei versamenti ritenuti non giustificati e un termine (30 o 60 giorni) per presentare memorie difensive. Sebbene la legge non imponga espressamente un contraddittorio “anticipato” per gli accertamenti bancari in materia di imposte dirette (la Cassazione ha chiarito che non costituisce atto obbligatorio vincolante), è prassi sempre più frequente dare al contribuente la possibilità di spiegare le singole operazioni prima dell’emissione dell’atto. In ogni caso, trascorrenti 60 giorni dall’eventuale invito o PVC, l’Ufficio può emettere l’avviso di accertamento definitivo, notificandolo al contribuente.
L’avviso di accertamento basato su indagini finanziarie deve contenere, a pena di invalidità, l’indicazione chiara delle movimentazioni ritenute redditi non dichiarati e dei motivi per cui si considerano tali (art. 7, co.1 L.212/2000). Ad esempio, l’atto indicherà “versamenti per €X sul conto Y non giustificati da fatture o altre cause lecite, pertanto considerati ricavi non dichiarati”. Tale motivazione consente al contribuente di capire l’origine della pretesa fiscale e di preparare la propria difesa. In difetto di una motivazione specifica (ad es. se l’atto si limitasse a dire genericamente “ricavi bancari non giustificati” senza dettagliare quali), l’accertamento sarebbe nullo per violazione dell’obbligo di motivazione.
Una volta notificato l’avviso, il contribuente ha 60 giorni di tempo per eventualmente presentare ricorso alla Commissione Tributaria/Corte di Giustizia Tributaria di primo grado. Prima di arrivare al contenzioso, tuttavia, ci sono strumenti deflattivi (esaminati più avanti) come l’accertamento con adesione o la mediazione tributaria, che possono essere attivati per cercare una definizione bonaria.
Presunzioni sui movimenti bancari e onere della prova
La forza dell’accertamento bancario risiede nella presunzione legale relativa che qualifica le somme transitate sui conti come ricavi occulti, invertendo l’onere della prova. In base agli artt. 32 DPR 600/1973 e 51 DPR 633/1972, infatti, è sufficiente che l’Amministrazione provi l’esistenza di movimenti bancari (tramite gli estratti conto o prospetti riepilogativi) per far scattare la presunzione di maggiori redditi. Si tratta – precisa la giurisprudenza – di una presunzione legale iuris tantum, non di una mera presunzione semplice: ciò significa che non occorre, da parte del Fisco, la dimostrazione di indizi gravi, precisi e concordanti come richiesto dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici. In altri termini, la legge stessa stabilisce che ogni accredito sul conto corrente, se il contribuente non lo giustifica, è considerato ricavo tassabile; specularmente ogni addebito (per le imprese, oltre soglia) può considerarsi un costo non dedotto e quindi correlato a ricavi in nero.
Questa presunzione ha natura relativa (iuris tantum): il contribuente ha la facoltà di provare il contrario, fornendo elementi idonei a dimostrare che i movimenti bancari contestati non sono in realtà materia imponibile. Tuttavia, la soglia probatoria richiesta è molto alta: la difesa deve essere condotta con prova analitica per ogni singola operazione. La Cassazione ha più volte ribadito che non basta una spiegazione generica o globale, ma occorre giustificare puntualmente ogni versamento con documenti precisi. Ad esempio, con la sentenza n. 13112/2020, la Suprema Corte ha affermato che queste presunzioni bancarie possono essere vinte solo con prova analitica puntuale, impegnando il giudice a “verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione”. In pratica, il contribuente deve contro-presumere la liceità di ogni entrata contestata presentando evidenze specifiche (fatture, contratti, quietanze, documenti bancari) tali da ricondurre la somma a cause non tassabili.
È importante comprendere che, una volta attivata, la presunzione alleggerisce il carico probatorio dell’Ufficio e trasferisce interamente sul contribuente l’onere di dimostrare la natura non reddituale delle somme. La Corte di Cassazione conferma che, dato il carattere legale della presunzione, non si richiede al Fisco di provare l’evasione, ma solo di produrre i dati bancari; spetta poi al contribuente “fornire valida giustificazione dei prelievi e versamenti” oppure subire l’accertamento. In tal senso si esprime, ad esempio, Cass. ord. n. 16850/2024: “se il contribuente non fornisce valide giustificazioni dei prelievi e versamenti effettuati su conti correnti a lui riconducibili, è legittimo l’accertamento bancario”. Analogamente, Cass. n. 13112/2020 (cit.) sottolinea che il giudice deve esaminare con rigore le prove fornite per ciascun movimento contestato, evitando valutazioni di mera verosimiglianza: l’idoneità dimostrativa dell’evidenza va verificata analiticamente.
In sintesi, una difesa efficace deve fondarsi su pezze giustificative dettagliate per ogni accredito “sospetto”: ad esempio, se su un conto personale compaiono versamenti per 20.000 € in un anno, il contribuente dovrà spiegare uno per uno da dove provengono (es.: €5.000 da rimborso spese documentato, €8.000 da un prestito familiare con contratto registrato, €7.000 trasferiti da altro proprio conto già tassato, ecc.). Un semplice elenco di causali generiche non basta. Se per talune operazioni non si dispone di documentazione specifica (ad es. prelievi riutilizzati successivamente), conviene indicare almeno elementi precisi (date, importi, beneficiari) che rendano credibile la spiegazione alternativa. In mancanza di giustificazioni specifiche, il rischio concreto è che ogni movimento resti “in sospeso” come reddito imponibile presunto e che tanto l’ufficio quanto il giudice tributario ritengano integrata la presunzione a favore del Fisco.
Da notare: una recente ordinanza “innovativa” (Cass. ord. n. 18273/2025) ha qualificato i risultati delle indagini bancarie come “indizi probatori” in grado di assurgere a presunzioni semplici anziché legali. In tale arresto si legge che spetta comunque al contribuente fornire prova specifica contraria per ogni operazione (anche raggruppando operazioni omogenee in masse). Questa impostazione – se confermata – potrebbe implicare che il giudice valuti anche gravità, precisione e concordanza degli indizi, trattandosi formalmente di presunzioni semplici. Si tratta però di un orientamento ancora isolato e potenzialmente in contrasto con il principio consolidato (presunzione legale relativa). In ogni caso, anche secondo questa visione il contribuente rimane onerato di fornire elementi specifici atti a ribaltare l’inferenza fiscale, documentando le operazioni sospette. In altre parole, non cambia la sostanza: l’onere probatorio gravante sul contribuente resta elevato.
Estensione delle indagini ai conti correnti di terzi
Uno snodo delicato della materia riguarda la possibilità per il Fisco di guardare e utilizzare ai fini dell’accertamento conti correnti formalmente intestati a soggetti terzi (diversi dal contribuente verificato). Si pensi al caso – molto frequente – in cui il titolare di partita IVA utilizzi il conto del coniuge o di un familiare per far transitare parte dei propri redditi non dichiarati, oppure all’imprenditore che intesta a un prestanome un conto dove accumula capitali in nero. È legittimo per l’Amministrazione presumere che quei conti “di terzi” in realtà nascondano redditi del contribuente e tassarli? E in caso affermativo, in quali condizioni?
La normativa citata (art. 32 DPR 600/73 e art. 51 DPR 633/72) non menziona espressamente i conti di terzi, ma la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che le indagini finanziarie possono estendersi a conti non intestati al contribuente quando vi siano elementi che inducano a ritenere quei rapporti “nella disponibilità” effettiva del contribuente stesso. In altre parole, anche i conti formalmente intestati ad altri soggetti possono essere scrutinati e usati come prova, a condizione che l’Ufficio fornisca un quadro indiziario dal quale emerga che di fatto il contribuente li utilizza o ne trae beneficio. Questo principio è stato affermato chiaramente dalla Cassazione: “gli artt. 32 DPR 600/1973 e 51 DPR 633/1972 autorizzano l’Ufficio a procedere ad accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente”. Dunque la legge non pone un veto all’utilizzo di conti altrui; tuttavia – ed è un tuttavia fondamentale – occorre provare (o quanto meno presumere in modo qualificato) che l’intestazione a terzo è solo formale e che la sostanza economica dei movimenti riguarda il contribuente accertato.
Conti intestati a familiari (coniuge, figli, altri congiunti)
La situazione più frequente è quella dei conti bancari intestati a familiari stretti del contribuente, come il coniuge, i figli, i genitori o altri parenti conviventi. In questi casi, la stretta relazione personale e patrimoniale potrebbe far pensare che i movimenti sul conto del familiare siano in realtà riconducibili al contribuente (ad esempio, marito che accredita ricavi sul conto della moglie casalinga, genitore che utilizza il conto del figlio, ecc.). La Cassazione ha affermato che proprio “lo stretto rapporto familiare e la composizione ristretta del gruppo sociale” sono elementi tali da giustificare la riferibilità al contribuente delle operazioni sui conti dei familiari, salvo prova contraria. In particolare, se gli intestatari dei conti non svolgono attività economiche proprie in grado di giustificare quei versamenti/prelievi, e se vi è una collaborazione o un interesse comune con il contribuente, si realizza una presunzione qualificata a sostegno dell’accertamento.
Va però sottolineato che la giurisprudenza esige comunque qualcosa in più del mero vincolo familiare. Il semplice fatto di essere coniuge o parente non basta, da solo, a spostare l’onere della prova sul contribuente: servono ulteriori indizi concreti. La Suprema Corte, con una serie di pronunce recenti e convergenti, ha chiarito che nelle indagini su conti di terzi “non è sufficiente il solo rapporto di parentela”, essendo necessari altri elementi che indichino come probabile l’utilizzo di quei conti per occultare redditi. Così, ad esempio, la Cassazione ha elencato tra gli indizi sintomatici rilevanti: l’ingiustificata capacità reddituale del familiare (ossia quando il parente presenta movimentazioni bancarie incoerenti con i suoi redditi dichiarati o la sua condizione economica); l’infedeltà delle dichiarazioni del contribuente (cioè la circostanza che il contribuente stesso abbia omesso ricavi o tenuto una contabilità inattendibile); lo svolgimento di attività d’impresa o lavoro autonomo da parte del contribuente tali da poter generare extra-profitti in nero poi fatti transitare sui conti dei familiari; e, naturalmente, la ristretta cerchia familiare o societaria (es., impresa a conduzione familiare) che aumenta la probabilità di commistione patrimoniale.
Un esempio giurisprudenziale emblematico è la Cass. ord. n. 24747/2023, la quale ha ribadito che le verifiche sui conti di terzi (familiari) sono legittime solo se l’onere di allegazione degli indizi – a carico dell’Ufficio – è assolto con elementi “non desumibili dal solo vincolo familiare”, richiedendosi “ulteriori elementi idonei a dimostrare in via logico-presuntiva la riferibilità al contribuente delle movimentazioni” sul conto del familiare, specie se quest’ultimo è privo di redditi propri compatibili. Dunque il Fisco deve presentare un quid pluris rispetto alla parentela: ad esempio, evidenziare che il coniuge o il figlio intestatario non aveva entrate lecite sufficienti per giustificare quei versamenti, oppure che lavorava nell’azienda del contribuente, o ancora che parte di quei fondi sono stati poi girati al contribuente stesso.
Se tali elementi sintomatici sono presenti e vengono provati (anche tramite presunzioni multiple, purché gravi e concordanti), allora scatta la presunzione di riferibilità al contribuente e starà a quest’ultimo provare il contrario. L’onere della prova in questa fase iniziale è dunque dell’Ufficio: come ha precisato Cass. ord. n. 5529/2025, spetta al Fisco dimostrare, sebbene anche per presunzioni qualifiche, che il conto intestato al familiare era di fatto nella disponibilità del contribuente. Solo una volta fornita questa dimostrazione (es. conto intestato alla moglie ma movimentato sistematicamente dal marito, parente economicamente a carico con conto milionario, etc.), la presunzione legale dell’art. 32 potrà essere applicata alle operazioni su tale conto, e il contribuente dovrà a sua volta provare la non imponibilità dei singoli movimenti.
In diverse pronunce la Cassazione ha ritenuto soddisfatto questo onere del Fisco in presenza di contesti familiari “sospetti”. Ad esempio, con Cass. ord. n. 20816/2024 è stato ritenuto legittimo l’accertamento che recuperava ricavi non dichiarati su versamenti rinvenuti nei conti della moglie e della madre del contribuente, atteso che vi erano evidenti elementi sintomatici: la madre e la consorte risultavano di fatto collaborare nell’attività del contribuente ed avevano redditi propri estremamente modesti a fronte dei movimenti bancari rilevati. In quel caso la contribuente (una professionista) era delegata a operare sul conto del marito e della madre, e buona parte delle operazioni riguardavano proprio la sua sfera (pagamenti di spese di lavoro, ecc.); la Corte ha quindi giudicato corretta l’imputazione di quei flussi alla contribuente, sottolineando però che ciò vale “quando esistono elementi sintomatici (es. lavoro presso il contribuente, forte sproporzione reddituale, etc.)”.
Al contrario, la Cass. ord. n. 7583/2025 (depositata il 21.3.2025) ha cassato un accertamento in cui l’Amministrazione si era basata unicamente sul vincolo familiare per estendere i controlli al convivente del contribuente. La Suprema Corte, in quell’occasione, ha affermato che la sola relazione affettiva (more uxorio) non costituisce di per sé una presunzione qualificata: occorrono anche qui ulteriori riscontri, come l’esistenza di una stabile comunione di vita e di supporto economico reciproco, spese o acquisti in comune, la sproporzione tra i redditi dichiarati dal convivente e le somme movimentate, o altri indizi di interposizione fittizia. In assenza di tali elementi, le somme sui conti del convivente non possono automaticamente imputarsi al contribuente. In altre parole, per trattare un partner non sposato alla stregua di un coniuge ai fini fiscali, bisogna dimostrare un legame stabile e una gestione economica quasi familiare, altrimenti il conto resta attribuito all’effettivo intestatario. Anche in questo caso la Corte richiama la necessità che il conto sia “di fatto nella disponibilità” del contribuente e che ciò sia provato dall’Ufficio con presunzioni dotate di sufficiente forza (presunzioni “qualificate”).
Dal punto di vista difensivo, se il Fisco tenta di attribuire al contribuente redditi basati su conti di familiari, il contribuente potrà agire su due fronti: (a) contestare la mancanza o debolezza degli indizi addotti dall’Ufficio (ad es. dimostrando che il parente intestatario aveva in realtà adeguate risorse proprie, o che i movimenti contestati si spiegano con eventi estranei al contribuente); (b) fornire comunque la prova contraria analitica su ciascun versamento contestato, indicando ad esempio che quel versamento sul conto del coniuge derivava dalla vendita di un bene di proprietà del coniuge stesso, da un suo reddito personale già tassato, oppure costituiva una donazione da terzi al coniuge, ecc. In tal modo, anche ove gli indizi iniziali fossero significativi, si mirerà a vincere la presunzione legale dimostrando che le somme erano estranee al reddito del contribuente verificato.
Conti correnti cointestati (intestazione congiunta)
Un caso particolare, a metà strada tra i conti propri e quelli di terzi, è il conto corrente cointestato tra il contribuente e un altro soggetto (spesso il coniuge in regime di comunione legale, o un familiare). Civilmente, l’art. 1854 c.c. stabilisce una presunzione di comproprietà paritaria del saldo: salvo prova contraria dei rapporti interni, si presume che i cointestatari abbiano quote uguali sul denaro depositato. In ambito tributario, ciò si traduce nel presupporre che ogni movimentazione attenga per metà a ciascun intestatario. Ad esempio, un versamento di €10.000 su un conto cointestato tra marito e moglie, in assenza di altre indicazioni, verrebbe imputato dal Fisco per €5.000 a ciascuno.
Tuttavia, anche qui operano le logiche probatorie sopra descritte. Se uno dei cointestatari è oggetto di verifica fiscale, sarà suo interesse dimostrare esattamente quale parte del denaro gli appartiene e quale invece è riferibile all’altro cointestatario. La Cassazione ha chiarito che la presunzione civilistica può essere vinta: ad esempio, se un cointestatario riesce a provare che certe somme in entrata erano esclusivamente dell’altro (magari derivanti dal reddito o patrimonio dell’altro), quelle somme non gli verranno imputate. Viceversa, attenzione: se il contribuente non fornisce prova contraria, l’Amministrazione potrebbe arrivare ad attribuire anche l’intero importo al soggetto verificato, specie se l’altro cointestatario risulta avere capacità contributiva elevata o, al contrario, non avere affatto redditi propri. In tal senso si è espressa Cass. ord. n. 18125/2015, affermando che “se il contribuente non prova che i movimenti sul conto cointestato sono riferibili all’altro contitolare ‘benestante’, tutte le operazioni vengono imputate interamente al contribuente”. Ciò significa, ad esempio, che se Tizio ha un conto cointestato con la moglie e viene accusato di ricavi non dichiarati, egli dovrà dimostrare puntualmente quali movimenti erano riconducibili a redditi o disponibilità della moglie; in difetto, l’intera movimentazione potrà essere considerata reddito di Tizio.
Da un punto di vista pratico, chi detiene conti cointestati con familiari farebbe bene a mantenere traccia della provenienza dei fondi e, se possibile, a separare le proprie disponibilità su un conto individuale, in modo da evitare confusioni. In fase di accertamento, comunque, l’interessato dovrà almeno fornire elementi per ripartire correttamente le somme (ad es. mostrando che metà stipendio del coniuge confluiva su quel conto per accordo interno, o che talune entrate provenivano esclusivamente da attività dell’altro). In assenza di tali chiarimenti, il Fisco – come visto – ha buon gioco a presumere che i fondi fossero sostanzialmente gestiti dal contribuente e quindi a lui imputabili. Sul punto specifico, alcune Commissioni Tributarie hanno adottato l’approccio di attribuire pro quota (50%) le somme in mancanza di prove, mentre altre – seguendo Cass. 18125/2015 – imputano tutto al contribuente se costui aveva maggior interesse o coinvolgimento nei movimenti.
In definitiva, per i conti cointestati la regola generale è la divisione a metà (art.1854 c.c.), ma la presunzione può essere modulata: con prova a favore del contribuente, la quota imponibile può ridursi (fino ad azzerarsi se dimostra che nulla era suo); con indizi a favore del Fisco (es. l’altro intestatario è fiscalmente a carico, oppure è benestante ma non si dimostra che abbia contribuito), la quota imponibile può salire fino al 100%.
Conti di soci, amministratori e prestanome (ambito aziendale)
Altro ambito in cui si verifica l’estensione ai conti di terzi è quello delle società a ristretta base (tipicamente società di persone o S.r.l. a conduzione familiare) e, più in generale, dei soci o amministratori di società. Il Fisco può sospettare che una società di piccole dimensioni, per occultare parte dei ricavi, faccia transitare i proventi non dichiarati sui conti personali dei soci o dei familiari degli stessi. In passato era nota (e tuttora valida) la presunzione secondo cui gli utili extra-contabili di una società a ristretta base si considerano distribuiti ai soci in parti proporzionali alle quote, salvo prova contraria – ma quella riguarda l’attribuzione ai soci di redditi già accertati in capo alla società. Qui parliamo invece del processo inverso: utilizzare i conti dei soci per accertare in capo alla società dei ricavi non contabilizzati. Anche ciò è stato ritenuto legittimo dalla giurisprudenza, sempre alle condizioni di cui sopra (indizi solidi).
Un caso illuminante è quello deciso da Cass. ord. n. 35856/2023: un S.r.l. a conduzione familiare era stata accertata recuperando a tassazione ricavi non dichiarati sia in capo alla società sia ai due soci (fratelli), basandosi su indagini bancarie svolte oltre che sui conti sociali, sui conti personali dei due soci. In primo grado la CTP aveva annullato l’atto ritenendo che l’Ufficio non avesse dimostrato la riferibilità di quei movimenti dei soci alla società. La CTR invece diede ragione al Fisco, evidenziando che: i due soci erano fratelli, uno amministratore e l’altro socio minoritario, quindi la compagine era familiare e molto ristretta; inoltre i soci non avevano provato analiticamente l’estraneità a tassazione di ciascuna operazione sui loro conti (limitandosi a dire che la contabilità ufficiale della società era regolare). La Cassazione ha confermato l’impostazione dell’Ufficio e dei giudici d’appello, richiamando il principio secondo cui in contesti del genere “in tema di imposte sui redditi, lo stretto rapporto familiare e la ristretta compagine sociale è sufficiente a giustificare – salva prova contraria – la riferibilità delle operazioni riscontrate sui conti bancari di tali soggetti all’attività economica della società verificata”. Ha aggiunto che se mancano “prove di attività economiche svolte dagli intestatari dei conti, idonee a giustificare i versamenti e prelievi riscontrati”, ed è presente “un contestuale rapporto di collaborazione con la società”, risulta soddisfatta la prova presuntiva a favore del Fisco, con conseguente spostamento dell’onere della prova contraria sul contribuente.
In altre parole, per le società a conduzione familiare o con pochissimi soci legati da vincoli personali, è molto forte la presunzione che i conti personali dei soci possano celare ricavi della società. Se, ad esempio, i parenti dell’amministratore o i soci stessi mostrano tenori di vita o movimentazioni bancarie non giustificate dai loro redditi ufficiali, l’Ufficio è autorizzato a ritenerli frutto dell’attività sociale non dichiarata. Anche qui però non basta la qualifica di socio o il vincolo di parentela: serve dimostrare o allegare che quei soggetti “sono stati utilizzati per occultare operazioni commerciali a scopo di evasione”, attraverso indizi specifici. Cass. ord. n. 7403/2025 (altro caso recente in materia IVA) ha affermato proprio che l’accertamento bancario “non è limitato ai soli conti intestati alla società o al titolare, ma, in presenza di elementi sintomatici (stretta contiguità familiare, ingiustificata capacità reddituale dei prossimi congiunti, infedeltà della dichiarazione, attività d’impresa compatibile con utili non contabilizzati, etc.), può essere esteso ai conti intestati a terzi”. Nel caso concreto, la società verificata era un’impresa familiare e l’Ufficio aveva esteso le indagini ai conti del socio amministratore e di altri familiari, riscontrando versamenti non giustificati poi imputati alla società. La CTR regionale aveva annullato l’atto perché la contabilità ufficiale era corretta e, a suo dire, non c’era prova della fittizietà delle intestazioni. La Cassazione però ha censurato quella decisione, ribadendo che: (a) l’infedeltà della contabilità ufficiale non è requisito necessario per procedere ad accertamento bancario (si può fare un accertamento analitico-induttivo anche in presenza di scritture formalmente regolari se ci sono presunzioni gravi di ulteriori ricavi); e (b) la rilevanza indiziaria dei conti dei terzi non può essere apoditticamente esclusa solo perché non si è provata la fittizia intestazione, dovendosi invece valutare tutto il complesso indiziario fornito dal Fisco. In sintesi, la Cassazione in questo caso ha riconosciuto che l’Ufficio aveva allegato vari indizi (familiarità, redditi dei congiunti incongrui, etc.) tali da far presumere che quei conti di terzi servissero all’evasione della società, e ha cassato la decisione di merito che non li aveva considerati adeguatamente.
Per il contribuente-società o socio che si difende, la strategia è analoga a quella già vista: dimostrare che i movimenti sui conti dei soci/familiari non erano riconducibili alla società ma a fatti personali dei titolari dei conti. Ad esempio, provare che un versamento sul conto del socio era frutto della sua attività individuale (magari il socio ha una seconda attività o altri redditi), oppure che un familiare dell’amministratore aveva proprie fonti (un’eredità, un reddito autonomo) per giustificare quel saldo. Inoltre, è fondamentale contestare eventuali errori metodologici: verificare che l’Ufficio non abbia calcolato due volte lo stesso importo (ad es. prima come ricavo della società e poi come reddito del socio), oppure che abbia tenuto conto di trasferimenti interni (ad es. denaro prelevato dalla società e versato sul conto del socio rischia di essere contato due volte se non si evidenzia che è lo stesso importo). In giudizio, in ogni caso, valgono i principi generali: presunzione iuris tantum che però “consente di considerare ricavi riconducibili all’attività del contribuente anche gli accrediti sui conti dei congiunti, in presenza di chiari elementi sintomatici, con conseguente inversione dell’onere della prova”.
Conti intestati a terzi “estranei” e interposizione fittizia
L’ultimo scenario è quello dei conti intestati a soggetti terzi non legati al contribuente da rapporti di parentela o sociali ristretti – ad esempio conti di amici, collaboratori, società terze – che il Fisco ritiene siano usati come schermo (prestanome). In questo caso l’assenza di un vincolo familiare comporta che gli indizi di collegamento devono essere ancor più stringenti. Spesso si tratta di provare un’interposizione fittizia: ossia che il terzo intestatario funge da mero nome di comodo, mentre la disponibilità sostanziale è del contribuente. Un indicatore classico è se il contribuente risulta delegato ad operare su quel conto o ne è comunque gestore di fatto: ad esempio, quando si scopre che Tizio aveva la delega a firma sul conto intestato all’amico Caio, oppure che Caio prelevava e consegnava contanti a Tizio. In queste situazioni, il collegamento può dirsi provato: come osservato, avere la facoltà di traenza (firma) sul conto altrui è un forte indizio che quel conto fosse “a disposizione” di Tizio. Cass. n. 20816/2024, ad esempio, riguardava proprio un professionista che aveva delega ad operare sul conto del marito: la circostanza è stata considerata, insieme ad altri elementi, sufficiente a confermare la riferibilità delle somme a lei.
Altri indizi di intestazione fittizia possono essere: il terzo intestatario non è in grado di giustificare la provenienza delle somme (non ha attività né redditi compatibili); il terzo ha legami di dipendenza o sudditanza col contribuente (es. un dipendente, un prestanome remunerato); oppure le somme transitano sul conto terzo e poi, in forme diverse, tornano nella disponibilità del contribuente (giri di assegni, pagamenti di spese di quest’ultimo, etc.).
In termini probatori, l’onere iniziale è sempre del Fisco: se vuole tassare redditi basandosi su un conto di un soggetto estraneo, deve fornire al giudice gli elementi che mostrano che quel conto era conducibile al contribuente. Se riesce a farlo (anche mediante presunzioni logiche), allora scatta la presunzione legale di reddito e, come al solito, il contribuente dovrà provare la non imponibilità dei singoli importi. Se invece l’Ufficio non assolve questo onere (ad es. si limita a dire “il conto è dell’amico, quindi presumiamo che i versamenti siano dell’imprenditore” senza altri riscontri), l’accertamento risulterà illegittimo. È quanto avvenuto, ad esempio, nel caso deciso da Cass. 7583/2025 citato prima: si trattava del conto di un convivente more uxorio e l’Ufficio non aveva portato indizi ulteriori oltre al legame affettivo – la Cassazione ha quindi respinto l’accertamento ritenendo carente la prova presuntiva qualificata.
Per difendersi efficacemente in ipotesi di conti intestati a terzi estranei, il contribuente deve anzitutto negare la riferibilità del conto, evidenziando che manca qualunque dimostrazione che egli ne avesse disponibilità. Se possibile, conviene portare elementi sulla sfera patrimoniale del terzo: ad esempio, provare che il titolare del conto aveva un proprio reddito o patrimonio che giustifica i movimenti (magari era un parente benestante, o un socio con capitali propri, etc.). Oppure che quei movimenti si spiegano con vicende del tutto autonome dal contribuente (es. Caio aveva venduto un immobile di famiglia e quei soldi sul suo conto nulla hanno a che vedere con Tizio). Inoltre, si potrà sottolineare eventuali difetti di procedura: il Fisco ha ottenuto i dati di quel conto terzo con regolare autorizzazione? (In genere sì, ma in passato la mancanza di autorizzazione dirigenziale poteva essere eccepita). Ha rispettato l’obbligo di motivazione nell’avviso, spiegando perché considerava quel conto come riconducibile al contribuente? Se l’avviso non indica affatto il nesso, potrebbe essere viziato.
Riassumendo, l’uso di conti intestati a terzi nelle indagini fiscali è consentito, ma le presunzioni che ne derivano vanno maneggiate con cura: si combinano una presunzione semplice iniziale (conto disponibile del contribuente, da provare dal Fisco) e, solo dopo, la presunzione legale di reddito (art. 32). La Cassazione parla esplicitamente di assenza di “doppia presunzione” in senso vietato, proprio perché il primo passaggio (riconducibilità del conto) deve essere supportato da presunzioni semplici dotate di gravità e concretezza, mentre il secondo è la presunzione legale ex lege. Solo se il primo step riesce, si può far gravare sul contribuente l’onere di giustificare ogni movimento contestato su quel conto. Se il primo step fallisce (cioè se in giudizio il collegamento viene meno), l’intero accertamento relativo a quei movimenti cade per mancanza del presupposto logico.
Tabella riepilogativa – Conti intestati a terzi: presunzioni e onere della prova
Tipologia di conto | Presunzione fiscale | Onere della prova | Riferimenti giurisprudenziali |
---|---|---|---|
Conto intestato al contribuente (solo suo) | Ogni versamento non giustificato = ricavo non dichiarato; prelievi > soglia = costi occulti (imponibili indirettamente). Presunzione legale iuris tantum ex art. 32. | Il contribuente deve provare analiticamente che ciascun movimento è di natura non imponibile (es. già tassato, trasferimento tra conti, prestito, donazione, etc.). | Cass. 13112/2020: presunzione vinta solo con prova analitica rigorosa. Cass. 16850/2024: senza valide giustificazioni, legittimo l’accertamento. |
Conto cointestato (coniuge/familiare) | Presunzione pro quota 50% (art.1854 c.c.): in mancanza di altri dati, ogni movimento si attribuisce in parti uguali ai cointestatari. Tuttavia, se l’altro cointestatario è privo di reddito o non prova la propria quota, il Fisco tende ad imputare fino al 100% al soggetto verificato. | Il contribuente deve dimostrare la quota dei movimenti effettivamente a lui non riferibile (es. accrediti provenienti esclusivamente dall’altro intestatario). Se non ci riesce, l’Agenzia può presumere anche l’intera movimentazione come sua. | Cass. 18125/2015: se il contribuente non prova che i movimenti appartengono all’altro contitolare, tutte le operazioni si imputano a lui. |
Conto intestato al coniuge (non cointestato) | Presunzione di riferibilità delle somme al contribuente se vi sono indizi di uso “familiare” del conto. Es: conti di moglie/marito usati per redditi del coniuge verificato. | L’Ufficio deve provare elementi concreti: p.es. delega a operare, movimenti incoerenti coi redditi del coniuge, spese del contribuente pagate su quel conto, ecc.. Provata la disponibilità di fatto, scatta la presunzione art.32 e il contribuente deve giustificare i movimenti. | Cass. 20816/2024: legittimo accertare ricavi su conto del coniuge con elementi sintomatici (sproporzione redditi, delega, collaborazione). Cass. 5529/2025: Ufficio deve provare che conto intestato a terzi era nella disponibilità del contribuente. |
Conto intestato a altri familiari (figli, genitori, ecc.) | Simile al coniuge: presunzione con indizi. Se il familiare intestatario non ha redditi propri adeguati o è a carico, movimenti considerati del contribuente, con onere a suo carico di provare il contrario. | Fisco: mostrare stretti legami familiari + sproporzione reddituale del familiare + eventuale ruolo del familiare nell’attività del contribuente. Contribuente: dimostrare che il familiare aveva proprie risorse o che i movimenti riguardano fatti suoi (es. vendita di un suo bene, eredità, ecc.). | Cass. 24747/2023: il solo vincolo familiare non basta, servono ulteriori indizi per imputare i conti del familiare al contribuente. Cass. 7403/2025: verifiche sui conti dei parenti ammesse con indizi (capacità reddituale ingiustificata, etc.). |
Conto intestato a convivente more uxorio | Possibile estensione solo se il rapporto di convivenza è stabile (affettivo ed economico) e vi sono indizi finanziari (spese comuni, movimenti incoerenti coi redditi del convivente). Se manca tale prova qualificata, niente presunzione automatica. | Fisco: provare legame more uxorio stabile e assistenziale (es. stessa residenza, conto usato per spese di coppia) + altri indizi (convivente senza redditi ma con movimenti elevati, ecc.). Contribuente: in assenza di indizi forti può far valere la mancanza di presupposti; altrimenti deve provare che il convivente aveva mezzi propri o che le somme sono sue (convivente) e non del contribuente. | Cass. 7583/2025: “la sussistenza di uno stretto vincolo affettivo non è di per sé sufficiente a costituire presunzione qualificata”; servono legame stabile di assistenza e ulteriori elementi, altrimenti le somme sui conti del convivente non sono imputabili al contribuente. |
Conto intestato a socio di società (compagine familiare/piccola) | I conti personali di soci e familiari possono essere indagati se c’è ristretta base e legami familiari: movimenti non giustificati sui conti dei soci presumibili come ricavi extra della società. | Fisco: evidenziare compagine ristretta/familiare, soci privi di altre attività che giustifichino i movimenti, rapporto di collaborazione/ruolo nella società. Contribuente (società/socio): provare che i soci intestatari dei conti avevano fonti estranee (attività individuali, risparmi pregressi) o che i movimenti non attengono alla società (es. spese personali dei soci). | Cass. 35856/2023: in società di famiglia, conti dei parenti amministratori considerati della società salvo prova contraria, data l’alta probabilità di commistione. Cass. 7403/2025: conti di soci/familiari investigabili se indizi di evasione (stretta contiguità, infedeltà contabile, ecc.). |
Conto intestato a terzo estraneo (es. prestanome) | Necessaria prova di collegamento: l’Ufficio deve dimostrare che il terzo è un prestanome o comunque che il contribuente dispone di quel conto. In presenza di tale prova, si presume che i movimenti siano redditi del contribuente (salvo sua prova contraria). Senza tale prova, il conto deve restare estraneo all’accertamento. | Fisco: onere di provare la disponibilità di fatto del conto al contribuente (es. deleghe, movimentazione con beneficiario occulto, terzo senza capacità economica propria, etc.). Contribuente: può contestare che il collegamento non è provato (quindi far cadere tutta la presunzione). In subordine, deve comunque giustificare in concreto i movimenti se la riferibilità viene ritenuta provata dal giudice. | Cass. 5529/2025: l’art. 32 si applica ai conti di terzi solo se l’Ufficio prova che, pur senza titolarità formale, il conto era di fatto nella disponibilità del contribuente. Cass. 7403/2025: solo vincolo familiare non basta, servono ulteriori indizi per conti di terzi. Cass. 11350/2024: dati da conti di terzi utilizzabili, non è doppia presunzione se c’è presunzione legale + presunzione semplice qualificata (non si sommano due semplici). |
Nota: nei confronti dei professionisti/lavoratori autonomi, dopo la sentenza Corte Cost. 228/2014 e la modifica legislativa del 2016, non opera più la presunzione sui prelievi (a differenza delle imprese). Per tutti i contribuenti, invece, la presunzione sui versamenti bancari rimane pienamente valida e frequente strumento di accertamento.
Difesa del contribuente: diritti, strategie e strumenti
Di fronte a un accertamento fondato sui conti correnti (propri o di terzi), il contribuente/debitore ha a disposizione diversi strumenti difensivi, da azionare tempestivamente per tutelare i propri diritti e ridurre o annullare le pretese fiscali infondate. Esaminiamo le principali fasi e strategie di difesa, dalla fase amministrativa fino al contenzioso tributario, tenendo presente che una gestione attenta sin dall’inizio può spesso evitare di arrivare al processo.
Accesso agli atti e contraddittorio preventivo
Come primo passo, è fondamentale esercitare il diritto di accesso agli atti e ottenere la completa documentazione bancaria raccolta dall’Ufficio. L’art. 10 dello Statuto del Contribuente garantisce al contribuente il diritto di essere informato e di partecipare attivamente: ciò implica poter visionare i prospetti dei movimenti bancari, le richieste inviate alle banche e le risposte ottenute. Se non è stato già fornito, il contribuente può presentare un’istanza di accesso per ottenere copia degli estratti conto e degli altri elementi probatori in possesso dell’Agenzia. Conoscere esattamente quali versamenti/prelievi sono contestati è cruciale per preparare adeguatamente le giustificazioni. Questo diritto deve essere assicurato: un eventuale diniego potrebbe essere contestato, ma nella pratica generalmente l’Ufficio fornisce tali atti su richiesta.
Parallelamente, se l’Ufficio non ha attivato spontaneamente un contraddittorio, il contribuente può sollecitarlo. Pur non essendo sempre obbligatorio per legge in questi casi, avviare un dialogo prima che l’accertamento diventi definitivo è spesso utile. L’art. 12, c.7 dello Statuto prevede un termine di 60 giorni dopo accessi/verifiche per presentare memorie: nel caso delle indagini bancarie svolte da remoto (senza accesso), tale norma non si applica automaticamente, ma nulla vieta al contribuente di presentare comunque osservazioni e documenti prima che l’atto sia emesso. Anzi, è una prassi consigliabile: inviando una memoria con le proprie spiegazioni (meglio se corredate da prove) si costringe l’Ufficio a valutarle e a prenderle in considerazione in sede di motivazione dell’avviso. La Cassazione ha ritenuto che, nel caso specifico degli accertamenti bancari sulle imposte dirette, il contraddittorio preventivo non sia un obbligo giuridico sanzionato da nullità (Cass. 23823/2020); tuttavia rimane un diritto potenziale del contribuente cercare un confronto. In ambito IVA, viceversa, la giurisprudenza UE e nazionale è più rigorosa sul contraddittorio: per precauzione, quindi, anche in materia IVA l’Ufficio tende a concedere il confronto prima dell’atto.
In sintesi: appena si viene a conoscenza dell’indagine (tramite invito, PVC o altre comunicazioni), conviene attivarsi subito, chiedendo gli atti e predisponendo una memoria difensiva ben documentata. Ciò può portare, in alcuni casi, a far ridurre o annullare l’addebito ancor prima che venga formalizzato, se le prove fornite risultano convincenti per l’Ufficio. Ad esempio, se dimostriamo che su 10 versamenti contestati 8 sono in realtà trasferimenti tra nostri conti (e dunque non nuovi redditi) e forniamo prova di ciò, l’Agenzia potrebbe decidere di stralciarli dall’accertamento già in fase pre-contenziosa.
In questa fase, è bene far valere anche eventuali vizi procedurali: se, ad esempio, l’Ufficio ha utilizzato dati bancari di anni ormai decaduti (oltre i termini di accertamento) per ricostruire il reddito, oppure non ha indicato il provvedimento autorizzativo alle indagini finanziarie (in genere interno, ma talvolta citato), questi punti possono essere sollevati. Anche la mancata attesa di 60 giorni dopo un PVC prima di emettere l’avviso – quando richiesta – può essere eccepita. Sono dettagli tecnici, ma in un confronto con l’ufficio o in giudizio possono tornare utili per invalidare o sminuire l’atto.
Prova contraria: documentazione analitica
Il cuore della difesa, come più volte sottolineato, consiste nel fornire la prova contraria analitica per ciascun movimento contestato. In pratica, bisogna smontare la presunzione articolo 32 documentando la natura non imponibile delle somme transitate sul conto. Ecco le tipologie di giustificazioni più comuni da predisporre, tenendo conto che ogni giustificazione deve essere supportata da pezze d’appoggio oggettive (documenti, evidenze contabili, testi scritti):
- Trasferimenti tra conti dello stesso soggetto: spessissimo il contribuente ha più rapporti finanziari (diversi conti correnti, libretti, depositi titoli) e sposta liquidità dall’uno all’altro. Tali movimenti non rappresentano nuovi redditi, ma semplice movimentazione di denaro proprio. È fondamentale individuarli e provarli, per evitare che vengano erroneamente considerati ricavi. Ad esempio: un versamento di €5.000 sul conto A potrebbe provenire da un prelievo dal conto B effettuato pochi giorni prima. Se si documenta che l’origine è quella (tramite estratti conto di entrambi i conti mostrando prelievo e versamento corrispondenti), l’importo non andrebbe tassato poiché si tratta di patrimonio già esistente che si sposta. Questa prova va fornita con estratti conto allineati nelle date/importi o con documenti interni della banca.
- Entrate fiscalmente irrilevanti o già tassate: alcune somme che affluiscono in conto potrebbero non costituire reddito imponibile per legge. Ad esempio, restituzioni di prestiti precedentemente erogati, rimborsi di spese anticipate, indennizzi assicurativi, oppure somme già tassate alla fonte (come il rimborso di un credito d’imposta, la liquidazione di un investimento su cui si sono pagate imposte). Occorre fornire la documentazione relativa: contratti di mutuo o scritture private per i prestiti (meglio se con data certa, anche successiva, o confermati dalle controparti), quietanze per rimborsi, comunicazioni della compagnia assicurativa per indennizzi, certificazioni fiscali per crediti d’imposta, etc. Se, ad esempio, sul conto appare un bonifico di €10.000 e si dimostra che è il rimborso di cauzione da un ex inquilino (contratto di locazione registrato, quietanza di restituzione), quella somma non è reddito imponibile.
- Prestiti ricevuti: se il contribuente ha ricevuto somme in prestito da terzi (amici o familiari) che poi sono finite sul conto, deve esibire prova del finanziamento. L’ideale è un contratto di mutuo scritto, con data certa anteriore o contestuale ai movimenti. Se non c’è, si possono utilizzare altri elementi: estratto conto del soggetto finanziatore che mostra l’addebito, eventuale bonifico con causale “prestito”, eventuali restituzioni fatte successivamente (che diano coerenza alla tesi del prestito). Spesso tra familiari i prestiti sono informali; almeno una dichiarazione scritta del familiare che conferma di aver prestato quella somma può essere utile (pur non avendo valore documentale forte se non accompagnata da riscontri oggettivi). Ricordiamo che i prestiti tra privati non generano reddito imponibile per chi li riceve, ma vanno provati per non essere confusi con ricavi.
- Donazioni e aiuti familiari: analogamente alle somme prese a prestito, anche le donazioni (regali di denaro da familiari, liberalità) non sono redditi tassabili per il beneficiario. Tuttavia, a differenza dei prestiti, la donazione – se di importo rilevante – potrebbe essere soggetta ad imposta sulle successioni e donazioni (ma con franchigie molto elevate tra parenti stretti). Ai fini dell’Irpef, non è reddito. Bisogna comunque provare che trattasi di donazione: ad esempio, una lettera o dichiarazione del genitore che attesta “ti ho donato €20.000 per l’acquisto della casa” unita magari a una traccia bancaria coerente (bonifico da conto del genitore con causale pertinente). Se la donazione è formalizzata da atto notarile (per grossi importi spesso si fa per motivi civilistici), ancora meglio: l’atto notorio di donazione è una prova certa. Per piccole somme regali, spesso mancano evidenze: occorre affidarsi a testimonianze o alla congruità con la situazione (es. genitore preleva contante e il giorno dopo appare uguale contante sul conto figlio: si può argomentare che glieli ha regalati – anche se il Fisco su questo è scettico senza riscontri).
- Vendite di beni personali: se il contribuente ha venduto beni personali (un’auto usata, gioielli, oggetti vari) e incassato denaro, questo non configura reddito tassabile (a meno che si tratti di attività di commercio abituale, ma qui parliamo di vendite occasionali di patrimonio personale). La prova migliore è il contratto di vendita o una ricevuta/fattura se l’acquirente ha emesso documento. Ad esempio, la vendita di un’autovettura usata può essere provata con passaggio di proprietà (CDP) e pagamento ricevuto, magari un assegno circolare. Se un bene mobile è stato venduto a un privato senza formalità, può essere utile almeno una dichiarazione dell’acquirente o un qualsivoglia riscontro (es. inserzione online stampata, email di accordo sul prezzo, ecc.). Naturalmente queste prove “atipiche” possono convincere o meno; l’importante è mostrare la coerenza: ad esempio, se in banca entra un assegno di €3.000 proprio il giorno X e si dimostra che quell’assegno proveniva da Tizio per l’acquisto del pianoforte del contribuente, l’operazione è giustificata come realizzo di beni personali.
- Redditi già dichiarati o esenti: può accadere che sul conto affluiscano somme che derivano da redditi già tassati oppure esenti. Ad esempio, un TFR o una pensione liquidata e già tassata alla fonte, un provento esente (vincita al gioco entro limiti esenti, borsa di studio esente, ecc.), oppure ancora la restituzione di capitale da un investimento finanziario (solo gli interessi sono reddito, il capitale no). In questi casi, occorre esibire i documenti relativi: il CEDolino del TFR/pensione, la documentazione dell’investimento e del rimborso, o la norma di esenzione applicabile. Se ad esempio entra un bonifico dalla propria compagnia di assicurazioni per €50.000, e si dimostra che è il rimborso di un premio unico investito anni prima in una polizza vita esente (con dichiarazione della compagnia che il capitale non conteneva plusvalori tassabili), quell’importo non va tassato.
- Errori e duplicazioni: nella difesa occorre anche controllare se l’Agenzia ha erroneamente conteggiato due volte lo stesso importo o confuso operazioni. Può succedere, ad esempio, quando c’è un giroconto interno lo considerino sia come prelievo che come versamento su altro conto, oppure quando un assegno versato viene protestato e riaccreditato. Segnalare e provare questi errori può portare all’annullamento parziale o totale dell’accertamento per carenza di materia imponibile.
In ogni caso, tutte le spiegazioni fornite devono essere accompagnate da documentazione. La Cassazione ha usato parole severe: la prova liberatoria non può essere “generica” o basata su ipotesi, ma deve “indicare e dimostrare la provenienza dei singoli accrediti” e il giudice deve verificarla con rigore. Inoltre, il giudice non può discostarsi dalla regola di inferenza stabilita dal legislatore: non può cioè dire “mi sembra irragionevole che Tizio abbia evaso così tanto, forse i conti li aveva il padre” se la prova contraria non è stata data, perché la ragionevolezza dell’inferenza è stabilita ex lege tramite la presunzione (Cass. 13112/2020). Quindi è fondamentale consegnare al giudice tributario un dossier probatorio completo, in modo da metterlo in condizione di accogliere il ricorso.
Strumenti deflattivi: adesione e mediazione
Se, nonostante le difese presentate, l’avviso di accertamento viene comunque notificato (integralmente o parzialmente confermando le pretese iniziali), il contribuente ha ancora alcune possibilità di evitare il contenzioso o di ridurre il danno prima della sentenza:
- Accertamento con adesione: è la procedura di confronto con l’ufficio prevista dal D.Lgs. 218/1997. Consente, entro 30 giorni dalla notifica dell’avviso, di presentare istanza di adesione (sospendendo nel frattempo i termini per il ricorso). Si avvierà un tavolo di trattativa in cui contribuente e Agenzia cercano un accordo sull’ammontare delle imposte dovute. Nel caso di indagini finanziarie, l’adesione può essere opportuna se alcune contestazioni sono fondate e difficili da ribattere, mentre altre magari sono infondate: si può puntare a ottenere uno sconto su sanzioni e una riduzione della base imponibile trovando un compromesso. Ad esempio, su €50.000 contestati, si potrebbe aderire per €20.000 riconoscendo quelli effettivamente non giustificabili, ottenendo la cancellazione dei restanti €30.000 e una sanzione ridotta sui €20.000. Le sanzioni infatti in adesione vengono ridotte a 1/3 del minimo (quindi spesso intorno al 20-30% dell’imposta). L’adesione, se sottoscritta, evita il ricorso e cristallizza quanto concordato, che va poi pagato (anche rateizzabile in breve termine). Se la trattativa fallisce, il contribuente ha 60 giorni dalla redazione del mancato accordo per impugnare.
- Mediazione/reclamo: se l’ammontare in contestazione (valore della causa) non supera una certa soglia (oggi €50.000, aumentata a €100.000 per atti dal 2023), il contribuente che intende proporre ricorso deve prima notificare un reclamo-mediazione all’Ufficio. Si tratta di un atto simile al ricorso in cui però può formulare anche una proposta di mediazione con riduzione delle sanzioni. L’Agenzia, valutati i motivi di ricorso, può accogliere in autotutela, mediare o respingere. In caso di mediazione, le sanzioni sono ridotte al 35% del minimo. Questa è un’ulteriore chance per chiudere la vicenda prima del processo, specie se ci sono evidenti errori nell’atto che l’ufficio stesso potrebbe riconoscere (es. computi sbagliati, duplicazioni, prescrizioni). Se la mediazione non va a buon fine entro 90 giorni, il reclamo si converte in ricorso e la causa prosegue.
- Autotutela: indipendentemente dai procedimenti sopra, il contribuente può sempre presentare un’istanza di autotutela all’ufficio, chiedendo l’annullamento totale o parziale dell’atto per determinati motivi (errori evidenti, mancanza di prova, ecc.). L’autotutela è però discrezionale per l’Amministrazione: essa valuterà se riconoscere l’errore. In presenza di un ricorso pendente, spesso gli uffici preferiscono attendere la pronuncia del giudice a meno che l’errore sia macroscopico. Vale comunque la pena tentarne l’uso se c’è un vizio palese (ad es. contestati versamenti che erano già in dichiarazione – succede di rado, ma non impossibile).
Il contenzioso tributario
Se nessuna soluzione bonaria risolve la vicenda, si passa al ricorso in Commissione tributaria (ora Corte di Giustizia Tributaria di primo grado, dopo la riforma del 2022). Il ricorso va notificato entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso (salvo sospensioni per adesione, reclamo, ecc.). Nella fase di contenzioso, è fondamentale ribadire tutte le eccezioni di legittimità (es. vizi procedurali, violazioni di legge) e produrre tutta la documentazione probatoria che supporta le proprie tesi. Si noti che nel processo tributario vige un principio di libertà dei mezzi di prova: è ammessa anche la prova testimoniale scritta (non orale) e soprattutto è possibile produrre nuovi documenti anche in appello, a condizione che il contribuente motivi perché non li aveva esibiti prima (ad es. li ha reperiti dopo, oppure l’ufficio non aveva sollecitato quel particolare aspetto). Dunque, se per qualche ragione in fase precontenziosa non si era riusciti a presentare un certo documento, lo si può ancora fare in giudizio, spiegando la circostanza.
In giudizio, l’esito dipenderà dalla valutazione del giudice circa l’assolvimento dell’onere della prova da ambo le parti. Il giudice verificherà se l’Ufficio ha effettivamente fornito gli elementi presuntivi necessari (soprattutto per i conti terzi) e, in caso affermativo, se il contribuente ha fornito la prova liberatoria richiesta. Se riterrà che i movimenti restano ingiustificati, confermerà l’accertamento (magari solo in parte, se alcune somme sono state giustificate); viceversa, se giudicherà convincenti le prove del contribuente, annullerà l’atto per la parte corrispondente.
Da segnalare che negli ultimi anni molte Commissioni Tributarie hanno recepito i principi espressi dalla Cassazione sulle indagini bancarie. È dunque comune leggere sentenze di merito che citano ordinanze di legittimità: ad es. “Visto che il contribuente non ha dimostrato analiticamente la natura non imponibile di quei versamenti, l’accertamento è legittimo (Cass. 13112/2020)”, oppure “Considerato che l’Ufficio non ha provato l’utilizzo dei conti del coniuge da parte del contribuente, l’atto è illegittimo (Cass. 7583/2025)”. Perciò, presentare un ricorso ben documentato e argomentato in diritto aumenta le probabilità di successo.
È importante anche considerare gli aspetti sanzionatori e riscossivi: un accertamento bancario comporta non solo il recupero delle imposte evase (IRPEF, IVA, ecc.) ma anche l’applicazione di sanzioni amministrative. Di norma, l’omessa dichiarazione di ricavi è sanzionata con una percentuale che va dal 90% al 180% dell’imposta evasa (in caso di dichiarazione infedele). In situazioni di mancata collaborazione (ad esempio, contribuente che non risponde agli inviti), l’ufficio potrebbe fare un accertamento induttivo puro con margini più ampi e sanzioni più elevate (fino al 240% in casi estremi). In ogni caso, se si instaura il contenzioso, è possibile chiedere al giudice la sospensione della riscossione, motivando il periculum (specie per importi ingenti) e il fumus boni iuris del ricorso. Dal 2023, con la riforma, l’appello in secondo grado non sospende automaticamente l’esecutività: occorre pagare una parte o chiedere specifica sospensione anche in appello. È un dettaglio oltre lo scopo primario di questa guida, ma per un debitore è essenziale pianificare la gestione del debito fiscale eventualmente accertato: rateizzazioni (anche in pendenza di giudizio, pagando 1/3 dopo la sentenza di primo grado se sfavorevole, ecc.), verifica di rottamazioni o definizioni agevolate se il legislatore ne propone, e così via.
Infine, nei casi più gravi (elevati importi evasi), l’emersione di redditi occulti tramite indagini bancarie può avere risvolti penali tributari. In particolare, se l’imposta evasa supera le soglie dell’art. 4 D.Lgs. 74/2000 (attualmente €100.000 di imposta evasa per dichiarazione infedele, o €50.000 per omessa dichiarazione), l’ufficio trasmette rapporto alla Procura e può instaurarsi un procedimento penale per evasione fiscale. È bene sapere che nel processo penale non valgono le presunzioni legali come nel tributario: occorre la prova piena dell’occultamento doloso. Un contribuente potrebbe quindi essere assolto in sede penale (perché non ci sono prove sufficienti del reato) ma comunque soccombere in sede tributaria, dove vige la presunzione non scalfita da prova contraria. L’esito penale e quello tributario sono indipendenti, e il giudice tributario può fondare il proprio convincimento su presunzioni anche se il giudice penale ha assolto per mancanza di prova oltre ogni dubbio. Quindi, una difesa vincente deve considerare entrambi i fronti se in ballo.
Domande frequenti (FAQ)
D: L’Agenzia delle Entrate può controllare i conti correnti intestati a miei familiari (moglie, figli, genitori)?
R: Sì, può farlo solo se ha elementi per ritenere che quei conti siano usati per occultare redditi del contribuente. La legge consente indagini finanziarie “a soggetti terzi” legati al contribuente, ma la Cassazione precisa che il solo vincolo di parentela non basta. Devono emergere indizi come: il familiare non ha redditi propri adeguati, i movimenti sono incompatibili con la sua situazione, oppure il familiare collabora nell’attività del contribuente. In pratica, possono guardare ai conti di coniuge e parenti stretti in presenza di sospetti concreti (es. coniuge casalinga con conto milionario – indizio forte). Se trovano tali elementi, l’Ufficio può richiedere gli estratti conto familiari e, se vi scopre versamenti non giustificati, imputarli al contribuente, salvo che quest’ultimo dimostri che sono effettivamente redditi o somme del familiare.
D: E per i conti cointestati (intestati sia a me che a un familiare)?
R: Anche i conti cointestati sono controllabili. In genere, se un conto è cointestato moglie-marito, si presume metà delle somme a ciascuno. Questa è la regola di partenza (derivante dal codice civile). Tuttavia, nella pratica dell’accertamento, l’Ufficio può contestare al contribuente anche più della metà se ritiene che l’altro intestatario non abbia contribuito. Ad esempio, Cassazione ha deciso che se non provi che i movimenti erano dell’altro contitolare, possono imputarli tutti a te. Quindi sta al contribuente dimostrare quali movimenti erano propri e quali dell’altro. Per difendersi: fornire estratti conto incrociati, evidenziare che magari lo stipendio del coniuge affluiva su quel conto (quindi quella parte è del coniuge), etc. In assenza di prove, il Fisco tende a ripartire al 50% ma, se l’altro è fiscalmente “inesistente”, attribuirà tutto. Il consiglio è di chiarire bene la provenienza delle somme nei conti cointestati fin da subito.
D: Quanto indietro nel tempo può andare il Fisco a guardare i conti?
R: Può chiedere informazioni bancarie per i periodi d’imposta ancora accertabili. I termini di accertamento ordinari per imposte sui redditi e IVA sono il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (o settimo se dichiarazione omessa). Ad esempio, nel 2025 possono accertare fino all’anno d’imposta 2019 (dichiarazione 2020) se omessa, o 2020 (dich. 2021) se presentata. Dunque tipicamente guarderanno i conti di quegli anni. Possono però, nell’ambito di un’indagine, acquisire anche dati di anni precedenti se utili a capire movimenti (per es. saldi di apertura). Ma non possono emettere avvisi per annualità prescritte. Attenzione: se vi sono reati tributari ipotizzati, i termini raddoppiano. Inoltre, per alcuni controlli (es. voluntary disclosure in passato) si arrivava più indietro. In linea generale, aspettatevi verifiche sui 5-6 anni retrospettivi. Oltre, i dati potrebbero emergere ma non portare a tasse (salvo si configuri una frode continuativa, scenario complesso).
D: Devo rispondere per forza all’invito a fornire chiarimenti sui movimenti?
R: Non c’è un obbligo sanzionato da una multa specifica, ma è fortemente nel tuo interesse farlo. Se ignori l’invito o non giustifichi, l’Agenzia procederà in base ai dati che ha, presumendo tutto come reddito, ed emetterà l’accertamento. Inoltre, la mancata collaborazione può condurre a un accertamento induttivo “puro” con sanzioni aggravate fino al 240%. Rispondendo, invece, hai la chance di chiarire malintesi e magari evitare l’atto o ridurne l’importo. Quindi, pur non essendoci obbligo legale di risposta, di fatto conviene sempre fornire spiegazioni (meglio se documentate). In sede penale, tra l’altro, il silenzio non ti protegge comunque perché il materiale bancario parla da sé; in sede tributaria il silenzio è addirittura interpretato contro di te (mancata prova contraria). Quindi sì, rispondi e collabora, magari con l’aiuto di un professionista.
D: Se i soldi versati sul conto erano un regalo/aiuto di famiglia, devo pagare tasse?
R: No, le donazioni o liberalità tra parenti non costituiscono reddito imponibile IRPEF. Tuttavia, devi poterlo dimostrare, altrimenti il Fisco presume che sia un ricavo. Quindi se i tuoi genitori ti hanno dato, poniamo, €10.000 e tu li hai depositati, dovrai provare che trattasi di donazione. Come prova è utile: un documento scritto (anche una dichiarazione firmata dai genitori) che attesti la donazione, magari con indicazione di data e importo; se il passaggio è avvenuto con bonifico, la causale “regalia” o “donazione” aiuta. Se i genitori hanno prelevato contanti e tu hai versato contanti, diventa più difficile provare il nesso (puoi far firmare loro una dichiarazione, ma è meno solida). Esiste un’imposta sulle donazioni, ma è al 4% oltre una franchigia di 1 milione di euro tra genitori e figli – quindi per cifre ordinarie familiari non c’è imposta. Il Fisco in sede di accertamento reddituale non si occupa di quella eventuale imposta, guarda solo al reddito. Quindi, in sintesi: nessuna IRPEF su regali ricevuti, purché tu riesca a far capire all’Agenzia che si trattava di una donazione effettiva. È buona pratica, per grosse cifre, formalizzare con atto notarile o scrittura privata autenticata: ciò dà data certa e mette al riparo da contestazioni future.
D: Ho versato sul conto risparmi che tenevo in casa da anni. Come faccio a giustificarlo?
R: Questa è una situazione comune e insidiosa. Molti contribuenti dicono: “quei contanti li avevo accumulati negli anni precedenti con redditi già tassati (o comunque leciti) e li ho versati in banca ora”. Purtroppo, a meno di poter dimostrare l’esistenza di quel tesoretto prima, è difficile farlo accettare. Se l’importo è rilevante, una strada è mostrare che nei tuoi redditi precedenti avevi un sufficiente “avanzo” che avresti potuto accantonare. Ad esempio, puoi calcolare il reddito disponibile negli ultimi 10 anni, sottrarre le spese di vita presumibili, e far emergere che era plausibile tu avessi risparmiato €50.000 in contanti (magari sostenendo che non ti fidavi delle banche, ecc.). Questa argomentazione, detta prova per masse o per capitali preesistenti, non è formalmente prevista ma a volte i giudici la considerano se ben articolata. Meglio ancora se hai evidenze oggettive: ad esempio, un prelievo bancario anni fa di importo simile, non speso, e poi reimmesso – quello sarebbe ideale, ma raro. In assenza, prova a fornire qualsiasi elemento: se in passato hai venduto casa o altri beni e hai tenuto parte del contante, mostra quei contratti; se hai vinto del denaro lecitamente (scommesse, concorsi) e l’hai messo da parte, mostra le ricevute. Sii consapevole però che “avevo i soldi sotto il materasso” è la difesa meno solida: viene spesso rigettata se non circostanziata, perché altrimenti tutti la userebbero per giustificare contanti di dubbia provenienza. Quindi, cerca di quantificare e storicizzare questi risparmi in modo credibile. Se l’importo non è molto alto e coerente con i tuoi redditi passati (es. hai sempre dichiarato 50k all’anno, e dici di averne risparmiati 10k/anno per 5 anni = 50k che ora versi), hai qualche chance in più, soprattutto se mostri di non avere speso quei soldi in altri modi. È un terreno scivoloso, dove la decisione dipende molto sulla ragionevolezza: starà al giudice valutare la tua spiegazione come attendibile o meno.
D: I prelievi dal conto corrente sono tassati? Devo giustificarli?
R: Dipende dallo status e dal periodo. Per i privati e lavoratori autonomi, oggi no, non c’è presunzione sui prelievi (dopo la riforma del 2016). In passato, prima del 2014, anche i prelievi inspiegati potevano essere contestati come compensi in nero per i professionisti, ma la Corte Costituzionale ha eliminato quella equiparazione. Quindi, se sei un professionista o una persona fisica non imprenditore, non sei tenuto a giustificare i prelievi (a meno che siano importi molto anomali, oltre 1000/5000 €: in tal caso, più che presunzione legale, può scattare un sospetto di ricavi non fatturati che il Fisco cercherà di verificare con altri mezzi). Invece, per le imprese (ditte individuali, società) rimane la presunzione per prelievi sopra soglia: un prelievo elevato dal conto aziendale potrebbe nascondere un pagamento in nero a fornitori e quindi costituire indizio di costi occulti e ricavi occulti. Ad esempio, se un ristoratore preleva €10.000 in contanti dal conto aziendale e non spiega a chi li ha dati, il Fisco può ipotizzare che li abbia usati per acquisti “in nero” di materie prime, quindi per incassi non registrati, e potrebbe rideterminare il reddito. Ma deve superare le soglie e comunque si rientra sempre in una presunzione relativa: l’azienda può difendersi dicendo (con prove) a cosa sono serviti quei soldi. In generale, oggi l’attenzione si concentra sui versamenti, perché rappresentano introiti. I prelievi personali (bancomat, contanti per spese) di un privato non generano presunzione automatica. Attenzione però: se i prelievi sono ingentissimi e non compatibili con le spese dichiarate, il Fisco potrebbe insospettirsi e cercare di capire dove sono finiti, ma formalmente non può più considerarli ricavi a meno che trovi la controparte.
D: Che sanzioni e conseguenze rischio in caso di accertamento bancario?
R: Dal punto di vista fiscale, se l’accertamento viene confermato, dovrai pagare le imposte evase sui redditi non dichiarati, con interessi (circa il 3-4% annuo semplice) e sanzioni amministrative. Le sanzioni, come detto, sono in genere il 90% dell’imposta evasa (dichiarazione infedele) per ciascun anno, ma possono salire se c’è frode o altre violazioni, o scendere a 1/3 se aderisci spontaneamente. Ad esempio, se ti contestano €50.000 di redditi non dichiarati, su cui l’IRPEF dovuta sarebbe poniamo €20.000, la sanzione base sarebbe €18.000 (90%). In adesione potrebbe scendere a ~€6.000. In giudizio, se perdi, sarà il giudice a quantificarla (di solito confermano il 90% salvo chiedere circostanze attenuanti). Sul piano della riscossione, una volta divenuto definitivo l’atto (o parzialmente definitivo per la parte non impugnata), l’importo viene iscritto a ruolo ed eventualmente affidato all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) che può agire con mezzi esecutivi: fermo di veicoli, ipoteca su immobili, pignoramento di conti correnti, stipendi, ecc.. Quindi sì, in prospettiva se non paghi volontariamente, potresti vederti bloccati i conti correnti ma solo dopo che l’accertamento è definitivo e se non hai rateizzato o soddisfatto il debito. Non c’è un blocco preventivo durante l’indagine (a meno di casi penali gravi con sequestro, che è raro in base alle sole presunzioni). Dunque, il “blocco del conto” normalmente avviene in fase di riscossione coattiva – esempio: ricevi una cartella esattoriale dopo il processo, non la paghi, decorsi 60 giorni l’Agente può pignorarti i conti senza passare dal giudice.
Sul piano penale, come accennato, se le somme evase superano certe soglie, rischi una denuncia per dichiarazione infedele od omessa. La soglia è imposta evasa > €100.000 (o ricavi non dichiarati > ~€2 milioni) per la dichiarazione infedele, o imposta > €50.000 per omessa dichiarazione. Se, ad esempio, l’accertamento bancario dimostra che hai sottratto al fisco €200.000 di imponibile per più anni, potresti rientrare nel penale. La pena per dichiarazione infedele va fino a 3 anni, per omessa fino a 4 anni di reclusione, ma ci sono misure alternative e soglie di non punibilità relative. In ogni caso, l’esito penale richiederà prove più solide che non la semplice presunzione non giustificata – di solito si cerca un riscontro extrabancario (documenti falsi, doppia contabilità). Molti procedimenti penali per infedele dichiarazione in realtà finiscono con esito favorevole al contribuente se la prova è solo indiziaria. Però la seccatura e i costi di difesa penale ci sono. Va detto che se aderisci all’accertamento e paghi tutto, in alcuni casi l’adempimento del pagamento estingue il reato (per omessa dichiarazione c’è causa di non punibilità a fronte di pagamento integrale del debito prima del dibattimento).
D: Posso invocare la privacy o il segreto bancario per oppormi a queste indagini?
R: No, non con successo. Il segreto bancario, come detto, non esiste più verso il Fisco dal 1991. L’Agenzia delle Entrate ha diritto di ottenere i dati finanziari e li tratta per fini istituzionali, quindi ciò prevale sulla privacy individuale. Non c’è violazione né si può eccepire invalidità dell’atto per ingerenza nella sfera privata, perché c’è una norma di legge che lo consente. L’unico limite è che devono esserci motivi per chiedere quei dati (non possono farlo per semplice curiosità: di solito aprono le indagini bancarie quando c’è un controllo fiscale già in corso, un’incongruenza, ecc., anche se in teoria potrebbero farlo a campione). In giudizio non hai margini su questo: i giudici tributari da decenni ritengono legittimo l’uso delle risultanze bancarie e la Corte Costituzionale ha respinto varie questioni sulla privacy in ambito fiscale, ritenendo preminente l’interesse pubblico a reprimere l’evasione. Quindi, pur comprensibile l’obiezione, non è una via praticabile per annullare l’accertamento.
D: L’accertamento bancario può essere nullo per vizi formali o procedurali?
R: Sì, come ogni atto, può presentare vizi che ne determinano l’annullabilità. I più frequenti da cercare sono:
- Difetto di motivazione: se l’avviso non spiega quali movimenti specifici sono stati considerati né perché, violando l’art.7 Statuto, il giudice può annullarlo. Di solito oggi gli atti sono motivati con tabelle dettagliate, per cui questo vizio è raro.
- Mancato contraddittorio in materia IVA: per accertamenti IVA relativi a periodi in cui era obbligatorio (dopo Corte Giust. UE 2018), se l’ufficio non ha invitato al contraddittorio e questo avrebbe potuto incidere, si può far valere. Ma è una materia tecnica, dipende dalla data e circostanze.
- Utilizzo di presunzioni non consentite: ad esempio, se (per assurdo) contestassero oggi prelievi di un professionista come redditi, si potrebbe annullare perché la norma non lo permette più. Oppure se considerassero il solo vincolo familiare come prova senza altri indizi (vedi Cass. 7583/2025), si potrebbe contestare difetto di motivazione e carenza probatoria.
- Termini decaduti: se l’atto arriva oltre i termini previsti, è nullo per decadenza (es. avviso emesso l’1/1/2026 per l’anno 2019 senza cause di proroga – sarebbe oltre il termine).
- Autorizzazione mancante: prima, l’accesso ai dati bancari richiedeva un’apposita autorizzazione interna (direttore centrale o regionale). Oggi con la procedura automatizzata è implicita; ma se emergesse che non c’era autorizzazione (caso teorico), i dati sarebbero stati acquisiti illegittimamente. Difficile da rilevare perché l’atto in genere cita “richiesta ex art.32 autorizzata da…”.
- Violazione del diritto di difesa: se ad esempio il contribuente aveva chiesto accesso a documenti e l’Ufficio l’ha negato o ha impedito di controdedurre, si può invocare, ma bisogna provare che ciò ha concretamente leso la difesa (non facile).
- Errore palese: ad esempio, hanno attribuito al contribuente un conto che in realtà è di un omonimo non correlato. Se dimostrato, quell’intera base è errata e l’accertamento salta. Oppure hanno scambiato addebiti per accrediti (può succedere con segni invertiti). Sono aspetti fattuali da verificare con attenzione.
In sintesi, conviene far passare al setaccio l’atto e tutto il procedimento per individuare qualsiasi irregolarità formale: a volte vincere su un vizio procedurale è più semplice che nel merito.
D: In caso di accertamento bancario, mi conviene farmi assistere da un legale/consulente?
R: Assolutamente sì, specie se le somme sono significative. La materia è tecnica e richiede di sapere cosa cercare (sia come giustificativi finanziari sia come eccezioni giuridiche). Un avvocato tributarista o un commercialista esperto può aiutarti a:
- analizzare gli estratti conto e individuare difese efficaci (spesso l’occhio esperto coglie giustificazioni che al profano sfuggono, come compensazioni tra movimenti),
- predisporre memorie con il giusto taglio normativo e giurisprudenziale (citare le sentenze pertinenti, come quelle richiamate in questa guida, dà forza alla difesa),
- trattare con l’ufficio in sede di adesione o contraddittorio parlando “la stessa lingua” dei funzionari,
- gestire il contenzioso in Commissione con cognizione di causa.
Considera che le somme in gioco, tra imposte e sanzioni, possono essere cospicue: l’assistenza professionale può farti risparmiare importi ben maggiori del suo costo, se riesce anche solo parzialmente a ridurre l’accertamento. Inoltre, per questioni emotive: trovarsi da soli davanti a allegazioni di evasione può portare a errori (dichiarazioni avventate, mancate risposte). Un consulente mantiene la necessaria lucidità. Quindi, specie dal momento del PVC o avviso bonario in poi, meglio farsi affiancare da un esperto. In alcuni casi (controversie modeste) si può tentare da soli almeno in prima battuta, ma almeno un consulto iniziale può orientarti su come muoverti.
D: Dopo quanto tempo si “decide” chi ha ragione in queste controversie?
R: I tempi possono essere lunghi. Se presenti memorie e l’ufficio in autotutela le accoglie, potresti risolvere in pochi mesi. Se vai in adesione, tipicamente entro 3-4 mesi dall’istanza la procedura si chiude (con accordo o meno). Se ricorri in Commissione, la tempistica media è 1-2 anni per la sentenza di primo grado. L’appello altri 1-2 anni. La Cassazione, se si arriva fin lì, anche di più (3-5 anni, a volte). Quindi, dalla notifica dell’avviso alla parola fine possono passare dai 6 mesi (caso di definizione breve) fino a 7-8 anni. Nel frattempo, però, ti verrà chiesto di pagare una parte: dopo la sentenza di primo grado, l’importo dovuto (dedotti eventuali sgravamenti) è esecutivo per 1/3 non impugnato, e dopo l’appello per 2/3. Ciò significa che potresti dover versare qualcosa anche se hai fatto appello, salvo sospensioni. Inoltre scorrono gli interessi. Insomma, conviene cercare – se possibile – di chiudere prima (con adesione, transazione, ecc.) se la situazione non è nettamente a tuo favore, per evitare aggravi e incertezze lunghissime. Viceversa, se sei certo di avere ragione e l’ufficio non sente ragioni, armati di pazienza e persevera fino in fondo: la Cassazione in questi anni spesso dà ragione ai contribuenti quando c’è effettiva mancanza di prova da parte del Fisco (o torti evidenti). La strada è lunga ma i principi di diritto sono dalla tua parte, come abbiamo visto con le tante sentenze favorevoli su punti specifici.
Fonti normative e giurisprudenziali
- D.P.R. 29/9/1973 n. 600, art. 32, co.1, n. 2 – Potere dell’Ufficio di procedere ad accertamenti basati su conti bancari e presunzione legale di imponibilità per versamenti e (prima del 2017, per tutti; dopo, solo per imprese) prelevamenti non giustificati.
- D.P.R. 26/10/1972 n. 633, art. 51, co.2, n. 2 – Analoga previsione in ambito IVA; consente accesso ai dati bancari relativi al contribuente.
- Legge 27/7/2000 n. 212 (Statuto del Contribuente) – Artt. 7 (obbligo di motivazione chiara degli atti impositivi), 10 (diritto di informazione e accesso agli atti), 12 (diritto al contraddittorio post-verifica, con 60 giorni prima dell’emissione dell’atto definitivo), applicabili anche agli accertamenti da indagini finanziarie.
- D.L. 4/7/2006 n. 223, art. 37, co.4 (conv. L. 248/2006) – Istituzione dell’Archivio dei Rapporti Finanziari presso l’Anagrafe tributaria: obbligo per banche e intermediari di comunicare periodicamente i dati dei conti (estratto conto annuale).
- Legge 5/7/1991 n. 197 (antiriciclaggio) – Art. 1: abolizione del segreto bancario nei confronti delle Amministrazioni pubbliche per finalità fiscali e antiriciclaggio.
- D.Lgs. 18/12/1997 n. 471, art. 1, co.2 – Sanzione amministrativa per dichiarazione infedele (omessa indicazione di redditi): dal 90% al 180% dell’imposta evasa. Elevazione fino al 240% in caso di accertamento induttivo puro per mancata collaborazione (D.P.R. 600/73, art. 41).
- D.Lgs. 19/6/1997 n. 218 – Disciplina dell’Accertamento con adesione (artt. 2-3: istanza entro 30gg; sospensione termini; art. 7: sanzioni ridotte a 1/3) e della conciliazione giudiziale/mediazione (come modificata da DLgs 156/2015).
- Legge 1/10/2019 n. 130 (Riforma giustizia tributaria 2022) – Introduce la denominazione Corti di Giustizia Tributaria, prevede l’esecutività delle sentenze di primo e secondo grado con pagamento frazionato (art. 7, c.5-bis D.Lgs. 546/92 aggiornato).
Giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione):
- Cass., Sez. Trib., ord. n. 7583 del 21/03/2025 – In tema di conti di terzi (convivente), ha stabilito che “la sussistenza dello stretto vincolo familiare fra contribuente e terzo non è di per sé prova presuntiva qualificata” per imputare le movimentazioni al contribuente, servono ulteriori elementi (stabile convivenza, assistenza economica, spese comuni, sproporzione redditi). Conferma onere del Fisco di provare disponibilità di fatto del conto al contribuente.
- Cass., Sez. Trib., ord. n. 7403 del 20/03/2025 – Riconosce che le indagini bancarie possono legittimamente estendersi ai conti intestati a terzi (soci/familiari) in presenza di elementi sintomatici (contiguità familiare, capacità reddituale dei congiunti non giustificata, infedeltà dichiarativa, impresa familiare, ecc.). Precisa che il solo vincolo parentale non basta: servono ulteriori indizi idonei a dimostrare la riferibilità delle movimentazioni al contribuente. Inoltre ribadisce che la correttezza formale delle scritture contabili non impedisce accertamenti bancari analitico-induttivi se vi sono presunzioni gravi di ricavi non dichiarati.
- Cass., Sez. Trib., ord. n. 5529 del 02/03/2025 – Sancisce che l’art. 32 DPR 600/73 è utilizzabile anche per conti intestati a terzi senza incorrere in doppia presunzione, purché l’Ufficio provi che il conto è nella disponibilità del contribuente (anche tramite presunzioni semplici ma qualificate). Solo dopo tale prova opera la presunzione legale sui movimenti. (Osserva che la presunzione di cui all’art. 32 è legale relativa, mentre il nesso contribuente-conto è presunzione semplice).
- Cass., Sez. Trib., ord. n. 20816 del 25/07/2024 – Riguarda conti intestati a coniuge e madre del contribuente: conferma legittimità dell’accertamento basato su versamenti nei conti dei familiari se risultano elementi sintomatici che quei conti siano usati dal contribuente. Nella specie, il contribuente aveva delega a operare sul conto della moglie e pagamenti della sua attività effettuati tramite quel conto; la Corte ha ritenuto ciò sufficiente, assieme alla sproporzione reddituale dei familiari, a invertire l’onere della prova. (V. anche fonte Ministero Finanze – DEF: “presunzione relativa alla riferibilità al contribuente delle operazioni riscontrate sul conto intestato al coniuge era legittima”).
- Cass., Sez. Trib., ord. n. 32026 del 12/12/2024 – (In sintesi dal massimario) Ha ribadito la possibilità di utilizzare i dati risultanti da conti di terzi per accertare il reddito di una società, escludendo il divieto di doppia presunzione in quanto si combina una presunzione legale (art.32) con una presunzione semplice (riconducibilità dei conti). Evidenzia che il divieto di praesumptio de praesumpto si applica solo tra presunzioni semplici in cascata, non quando una è iuris tantum ex lege.
- Cass., Sez. Trib., sent. n. 11350 del 29/04/2024 – Sottolinea che l’utilizzo dei dati dei conti di terzi non viola il divieto di doppia presunzione, configurandosi un ragionamento presuntivo misto (legale + semplice) e che è legittimo fondare l’accertamento anche su tali conti se ve ne è connessione. (In linea con 5529/2025).
- Cass., Sez. Trib., ord. n. 24747 del 07/12/2023 – Stabilisce che “le indagini bancarie possono riguardare conti intestati a terzi ove si ritenga che siano stati usati per occultare operazioni, in base ad indizi a carico dell’Ufficio, non desumibili dal solo vincolo familiare, ma con ulteriori elementi idonei a dimostrare la riferibilità al contribuente delle movimentazioni”.
- Cass., Sez. Trib., ord. n. 35856 del 22/12/2023 – Caso di società di capitali a conduzione familiare: afferma che in tema d’imposte sui redditi le verifiche presuntive possono indirizzarsi sui conti di coniuge o familiare, potendosi desumere la riferibilità al contribuente da elementi sintomatici quali stretta familiarità, ingiustificata capacità reddituale dei congiunti, infedeltà delle dichiarazioni e esercizio di attività compatibile con maggior reddito occulto. Sottolinea l’orientamento consolidato per cui anche i conti dei congiunti, in mancanza di prova specifica contraria, sono attratti nella sfera del contribuente data l’elevata probabilità che servano a occultare suoi ricavi. Questa pronuncia contiene un’ampia rassegna dei principi: presunzione legale art.32 valida per versamenti su conti di soci e congiunti, inversione onere prova a carico contribuente, necessità di prova analitica per vincerla.
- Cass., Sez. Un., sent. n. 228/2014 (Corte Costituzionale) – Ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 32 DPR 600/73 nella parte in cui estendeva ai lavoratori autonomi la presunzione sui prelevamenti come ricavi non dichiarati. Da tale pronuncia è derivata la riforma legislativa del 2016 che ha eliminato la presunzione prelievi per autonomi e introdotto le soglie quantitative per imprese.
- Cass., Sez. Trib., sent. n. 13112 del 30/06/2020 – Ha rimarcato che le presunzioni ex art.32 sono iuris tantum e superabili solo con prova analitica, imponendo al giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia delle prove fornite per ciascuna operazione. Spiega che il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza è già effettuato dal legislatore istituendo la presunzione legale, quindi il giudice non può disattendere la presunzione se non c’è prova contraria specifica.
- Cass., Sez. Trib., ord. n. 18125 del 31/08/2015 – Riguardo ai conti cointestati, afferma che in assenza di prova della riferibilità all’altro contitolare, tutte le operazioni possono essere imputate al contribuente che fa ricorso. Caso in cui un contribuente aveva conto cointestato con familiare benestante: non avendo provato che i movimenti erano del familiare, gli sono stati attribuiti tutti.
- Cass., Sez. Trib., ord. n. 23823 del 30/10/2020 – Ha statuito che negli accertamenti da indagini finanziarie in materia di imposte dirette il contraddittorio endoprocedimentale non è obbligatorio per legge (diversamente da accertamenti con studi settore), e la sua omissione non comporta invalidità dell’atto. Ciò non toglie che il contraddittorio sia buona prassi e, in materia IVA, vada comunque considerato alla luce del diritto UE.
Hai ricevuto un avviso di accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ha rilevato movimentazioni sospette su conti correnti intestati a terzi? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Il fisco può effettuare controlli anche sui conti correnti non formalmente intestati al contribuente, se ritiene che quest’ultimo ne abbia la disponibilità o ne sia l’effettivo beneficiario. In questi casi, i versamenti e i prelievi possono essere considerati come redditi imponibili, salvo prova contraria. Difendersi è possibile dimostrando la reale titolarità e la natura delle somme movimentate.
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Conclusione
Un accertamento su conti correnti intestati a terzi può essere vinto dimostrando la reale natura e la provenienza delle somme.
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