Sei un avvocato e hai ricevuto un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate?
Il settore legale è spesso oggetto di controlli fiscali mirati, con verifiche su parcelle, compensi dichiarati, incassi e flussi bancari. Se il Fisco contesta redditi non dichiarati, incongruenze IVA o altre irregolarità, è fondamentale agire subito per proteggere la tua attività e il tuo patrimonio.
Quando un avvocato può ricevere un avviso di accertamento
– Quando il reddito dichiarato è ritenuto incoerente rispetto ai volumi di parcelle emesse e incassi registrati
– Quando emergono movimenti bancari non giustificati o compensi incassati senza regolare fatturazione
– Quando ci sono differenze tra le dichiarazioni IVA e le comunicazioni periodiche
– Quando vengono contestati costi professionali ritenuti non deducibili o spese non documentate
– Quando i compensi dichiarati risultano inferiori ai parametri di riferimento per il settore
Cosa può accadere dopo un avviso di accertamento
– Richiesta di pagamento di maggiori imposte (IRPEF, IVA, addizionali)
– Applicazione di sanzioni e interessi che aumentano l’importo complessivo
– Iscrizione a ruolo e notifica di cartelle esattoriali
– Possibili segnalazioni per violazioni penali tributarie nei casi più gravi
– Maggiori controlli negli anni successivi
Cosa fare per difendersi
– Far analizzare l’avviso di accertamento da un avvocato tributarista o da un commercialista esperto nel settore professionale
– Richiedere copia della documentazione e dei calcoli su cui si basa la pretesa fiscale
– Dimostrare con fatture, estratti conto, contratti e ricevute la correttezza delle dichiarazioni
– Contestare eventuali presunzioni induttive non supportate da prove concrete
– Partecipare al contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate per chiarire la propria posizione
– Valutare l’accertamento con adesione per ridurre sanzioni e interessi, se la pretesa è solo parzialmente fondata
Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della pretesa tributaria
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi
– La sospensione di cartelle e procedure esecutive
– La tutela del patrimonio personale e professionale
– La possibilità di proseguire l’attività senza blocchi finanziari
Attenzione: gli accertamenti fiscali agli avvocati possono basarsi su presunzioni di reddito e parametri standardizzati che non sempre rispecchiano la realtà dell’attività. Una difesa documentata e tempestiva è la chiave per evitare di pagare somme non dovute.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e difesa dei professionisti – ti spiega cosa fare se ricevi un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate e come impostare la tua strategia di difesa.
Hai ricevuto un avviso di accertamento e vuoi difenderti subito?
Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo l’atto, individueremo i punti deboli della pretesa fiscale e ti assisteremo in ogni fase della difesa.
Introduzione
Ricevere un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate è un evento che può generare forte preoccupazione, specialmente per un professionista come un avvocato. Si tratta di un atto formale con cui l’Amministrazione Finanziaria contesta al contribuente – in questo caso un avvocato, ma la procedura vale per qualunque soggetto (privato, imprenditore o altro professionista) – una maggiore imposta dovuta, spesso accompagnata da sanzioni e interessi. In altre parole, l’Erario ritiene che il contribuente non abbia dichiarato correttamente il proprio reddito o abbia commesso altre irregolarità fiscali, e formalizza questa pretesa tramite un avviso notificato al destinatario.
Questa guida – aggiornata a luglio 2025 con le ultime novità normative e giurisprudenziali – fornisce un quadro avanzato, dal punto di vista del contribuente (debitore), su cosa fare in caso di notifica di un avviso di accertamento. Adotteremo un linguaggio giuridico accurato ma divulgativo, adatto sia a professionisti legali (avvocati, praticanti, consulenti) sia a contribuenti privati e imprenditori interessati a capire i propri diritti e obblighi.
Nel corso della trattazione illustreremo innanzitutto cos’è e come funziona un avviso di accertamento, per poi esaminare i motivi tipici che possono portare un avvocato (o altro lavoratore autonomo) a subire un accertamento fiscale – ad esempio omissioni relative a IRPEF, IVA o IRAP, verifiche su conti bancari e redditometro. Verranno descritti i controlli e le presunzioni su cui si basano questi atti, i profili normativi rilevanti e le sentenze più aggiornate che fissano principi utili per la difesa. Saranno poi illustrate in dettaglio le possibili strategie di reazione: dagli strumenti deflativi del contenzioso (come l’adesione all’accertamento e l’acquiescenza) al ricorso in giudizio davanti alle Corti di Giustizia Tributaria (ex Commissioni Tributarie), senza tralasciare eventuali definizioni agevolate previste dal legislatore. Indicheremo anche gli effetti della recente riforma della giustizia tributaria (in vigore dal 2023-2024) – ad esempio l’abolizione dell’obbligo di reclamo-mediazione per le liti minori – e le opportunità offerte dalle ultime “pacificazioni fiscali” (come la definizione agevolata con sanzioni ridotte a 1/18 introdotta dalla legge di Bilancio 2023).
La guida include tabelle riepilogative, esempi e simulazioni pratiche riferite al contesto italiano, per chiarire i punti chiave. Una sezione finale di Domande e Risposte (FAQ) affronterà i dubbi più frequenti: ad esempio i termini per il ricorso, la rateizzazione, le differenze tra avviso bonario e avviso di accertamento, le conseguenze penali eventuali, ecc. L’obiettivo è fornire una visione completa e aggiornata, affinché chi riceve un avviso di accertamento possa comprendere la situazione e valutare con cognizione di causa cosa fare per tutelare al meglio i propri interessi.
Cos’è un avviso di accertamento fiscale
L’avviso di accertamento è l’atto con cui l’ufficio finanziario notifica formalmente la pretesa tributaria al contribuente, a seguito di attività di controllo sostanziale. In altre parole, è un provvedimento dell’Agenzia delle Entrate (o, per alcuni tributi locali, dell’ente impositore competente) che rettifica la dichiarazione dei redditi (o IVA, o altri tributi) presentata dal contribuente, ricalcolando maggiori imposte dovute. Nel caso di un avvocato, l’avviso di accertamento può riguardare ad esempio l’IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche) sui compensi professionali, l’IVA non versata sulle fatture emesse, e anche l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) se l’attività del professionista è organizzata in forma autonoma. Per i titolari di studi associati o società tra professionisti potrebbe interessare anche l’IRES (imposta sul reddito delle società), ma generalmente l’avvocato esercita come persona fisica o associazione professionale, soggetti ad IRPEF e IRAP.
Dal punto di vista normativo, l’emissione degli avvisi di accertamento segue le regole del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (per le imposte dirette, come IRPEF e IRES) e del D.P.R. 633/1972 (per l’IVA), nonché le garanzie procedimentali dello Statuto del Contribuente (Legge 212/2000). L’art. 42 del DPR 600/73 dispone, ad esempio, che l’avviso sia sottoscritto dal capo dell’ufficio o da un suo delegato autorizzato, a pena di nullità. L’atto deve indicare in modo chiaro le maggiori imposte accertate, le sanzioni applicate e gli interessi maturati, oltre alla motivazione (ossia i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la rettifica). Spesso l’avviso comprende in un unico provvedimento sia la rideterminazione dell’imponibile per più tributi (ad esempio IRPEF e IVA) sia l’atto di contestazione delle sanzioni amministrative relative: in tal senso si parla di avviso di accertamento “unificato”, soprattutto dopo le riforme del 2011 che ne hanno reso direttamente esecutiva la riscossione.
Differenza con l’“avviso bonario”: da notare che l’avviso di accertamento non va confuso con la “comunicazione di irregolarità” (il cosiddetto avviso bonario). Quest’ultima è un semplice invito a regolarizzare errori formali o versamenti carenti, emesso automaticamente dopo controlli superficiali (liquidazione ex art. 36-bis DPR 600/73), con sanzioni ridotte al 10%. L’avviso di accertamento, invece, è un vero e proprio atto impositivo autoritativo, emanato a seguito di controlli approfonditi (controllo sostanziale) e contenente una pretesa tributaria ben definita. Ricevere un avviso di accertamento significa che l’Agenzia contesta evasione o infedeltà dichiarativa, applicando normalmente sanzioni piene (in genere il 90% o 100% della maggiore imposta evasa, salvo riduzioni) e dando avvio formale ad un procedimento contenzioso se il contribuente non è d’accordo. In sintesi, l’avviso bonario precede l’eventuale accertamento ed è volto a favorire la correzione spontanea degli errori; l’avviso di accertamento, invece, è l’atto finale con cui il Fisco accerta coattivamente maggiori imposte e può successivamente riscuoterle forzatamente se il contribuente non paga o non ottiene l’annullamento in sede di ricorso.
Carattere esecutivo dell’avviso: per gli avvisi emessi a partire dal 1° ottobre 2011 (riguardanti periodi d’imposta dal 2007 in poi), la legge ha attribuito agli avvisi di accertamento anche efficacia di titolo esecutivo per la riscossione. In pratica l’avviso contiene già un’intimazione di pagamento rivolta al contribuente (generalmente da effettuarsi entro 60 giorni dalla notifica), e se il contribuente non paga né impugna, l’importo accertato verrà iscritto a ruolo e affidato all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) senza bisogno di ulteriore atto formale (come la cartella di pagamento). Questa trasformazione (accertamento esecutivo, introdotto dall’art. 29 DL 78/2010) ha lo scopo di snellire la procedura: l’avviso di accertamento odierno vale già anche come “cartella” se diviene definitivo, riducendo i tempi di incasso per l’Erario. Vedremo più avanti le implicazioni di ciò sui tempi di riscossione e sulle azioni di tutela (ad esempio la necessità di pagare una parte durante il ricorso).
In definitiva, un avviso di accertamento è un atto complesso e formale, fondato su precise norme tributarie, che contesta un debito tributario aggiuntivo. Esso deve rispettare determinati requisiti legali (termine di notifica, sottoscrizione autorizzata, motivazione adeguata, indicazione dell’autorità competente e del termine per il ricorso, ecc.), pena la sua nullità. Nel prossimo paragrafo analizziamo le ragioni più frequenti per cui un avvocato potrebbe ricevere un avviso del genere.
Perché un avvocato può subire un accertamento fiscale: cause tipiche
Anche i professionisti, inclusi gli avvocati, sono soggetti ai controlli fiscali. Negli ultimi anni l’Amministrazione finanziaria ha spesso concentrato l’attenzione su alcune categorie professionali dove è percepito un maggiore rischio di evasione, e gli avvocati rientrano tra queste categorie. Vediamo alcune delle cause e situazioni tipiche che possono portare alla notifica di un avviso di accertamento ad un avvocato:
- Compensi professionali non dichiarati (evasione di IRPEF e IVA): è il caso classico. L’Agenzia delle Entrate potrebbe ritenere che l’avvocato abbia omesso di dichiarare una parte dei redditi percepiti dalla clientela, riducendo così l’IRPEF dovuta e non versando l’IVA relativa. Ciò può emergere, ad esempio, dal confronto tra i movimenti finanziari sui conti correnti e i compensi fatturati. La normativa prevede infatti una presunzione importante: per i lavoratori autonomi, tutti i versamenti bancari non giustificati si presumono compensi tassabili non dichiarati. Se l’Agenzia scopre entrate sui conti dell’avvocato che non trovano corrispondenza nelle fatture emesse o nelle dichiarazioni presentate, può scattare l’accertamento delle relative imposte evase. Ad esempio, una serie di bonifici ricevuti da vari clienti senza emissione di fattura costituirebbe la classica base per un avviso di accertamento IRPEF/IVA.
- Prelievi e movimenti finanziari anomali: per chi svolge attività d’impresa, la legge (art. 32 DPR 600/1973) presumeva reddito non dichiarato anche dai prelievi ingiustificati in conto corrente, ipotizzando che servissero a pagare costi “in nero” produttivi di ricavi occulti. Tuttavia, grazie a un intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 228/2014), questa presunzione non si applica ai lavoratori autonomi: un avvocato non è tenuto a giustificare i prelievi dal proprio conto personale, e un accertamento basato solo su prelievi bancari sarebbe infondato. Diverso è, come visto, per i versamenti: quelli sì, se non spiegati, restano una “presunzione legale di evasione” a favore del Fisco. In pratica, gli importi versati sul conto di un professionista, se questi non prova la loro estraneità al reddito (es. donazione di un familiare, trasferimento da altro proprio conto, somme già tassate, ecc.), vengono imputati a ricavi professionali non dichiarati. Questa regola è confermata da numerose pronunce di Cassazione (es. ord. Cass. 18801/2017 e 19806/2017 citate in ), ed è frequentemente alla base di accertamenti verso avvocati e altri professionisti.
- Scostamento dal tenore di vita – “redditometro” (accertamento sintetico): l’Agenzia può utilizzare l’accertamento sintetico del reddito (detto redditometrico) quando il tenore di vita o le spese sostenute dal contribuente risultano sproporzionate rispetto al reddito dichiarato. Ad esempio, se un avvocato dichiara un reddito molto modesto ma risulta proprietario di case di lusso, auto di grossa cilindrata e sostiene spese elevate, il Fisco può presumere che disponga in realtà di un reddito più alto di quello denunciato. La disciplina del “redditometro” introduce una presunzione legale relativa: determinati beni e consumi indice di capacità contributiva (immobili, auto, barche, polizze, spese per figli a scuola privata, etc.) vengono associati statisticamente a un certo reddito, che l’Ufficio può presumere come reddito effettivo del contribuente. Ad esempio, il possesso di un’automobile di grossa cilindrata, di un immobile signorile e spese per viaggi all’estero potrebbe generare, secondo il redditometro, un reddito presunto ben superiore a quello dichiarato dall’avvocato. Se lo scostamento supera determinate soglie (attualmente, dopo le modifiche del 2024, il reddito accertabile deve eccedere di almeno il 20% quello dichiarato e comunque di almeno 10 volte l’assegno sociale annuo), l’Ufficio può emettere avviso di accertamento sintetico. Va sottolineato che si tratta di una presunzione relativa: il contribuente ha sempre facoltà di dimostrare prova contraria, ad esempio che le spese sono state finanziate con redditi di altri periodi d’imposta già tassati, con redditi esenti o con altre entrate lecite non imponibili (eredità, donazioni, vincite, ecc.), oppure che l’entità delle spese è inferiore a quella stimata. La Cassazione ha ribadito che il redditometro è lecito purché il giudice tributario, accertata la disponibilità effettiva di quei beni/servizi, ne riconosca il valore presuntivo salvo controprova del contribuente sulla provenienza non reddituale delle somme spese. Dunque un avvocato che riceva un accertamento sintetico basato sul redditometro dovrà organizzare le prove per giustificare il gap (esibendo documenti su disinvestimenti, aiuti familiari, utilizzo di risparmi pregressi, ecc.). Segnaliamo che il “nuovo redditometro” è stato oggetto di recente revisione normativa: il Decreto correttivo 2024 (D.Lgs. 5 agosto 2024 n. 114) ha confermato la soglia del 20% ed enfatizzato le tutele per il contribuente, limitando l’applicazione del metodo sintetico a casi mirati di contribuenti a rischio fiscale, anziché in modo massivo.
- Incongruenze rispetto ad indicatori e parametri: storicamente l’Agenzia delle Entrate utilizzava gli Studi di Settore (fino al 2017) e ora gli Indici Sintetici di Affidabilità (ISA) per valutare la congruità dei ricavi dichiarati da professionisti e imprese. Un avvocato che per più anni dichiari compensi molto inferiori alla media del settore (specie se l’ISA gli attribuisce un punteggio di bassa affidabilità) può essere selezionato per un controllo. Anche se oggi l’ISA non genera più accertamenti automatici, un punteggio basso è un “campanello d’allarme” che può indurre verifiche. In passato, con gli studi di settore, c’era la possibilità di accertamento induttivo se il professionista risultava gravemente incongruo e non giustificava la differenza. Oggi l’approccio è più orientato al compliance (inviti a ravvedersi), ma grosse anomalie restano un motivo di accertamento. Ad esempio, un avvocato che dichiara €10.000 di reddito annuo a fronte di spese fisse elevate (studio, personale, etc.) difficilmente sfuggirà all’attenzione del Fisco.
- Segnalazioni e controlli incrociati: gli accertamenti possono scaturire da segnalazioni specifiche. Ad esempio, un processo verbale di constatazione (PVC) della Guardia di Finanza in uno studio legale associato che rileva compensi non fatturati potrebbe portare a successivi avvisi di accertamento per i singoli avvocati coinvolti. Oppure, se in un controllo presso un cliente emerge il pagamento “in nero” di parcelle legali, l’ufficio potrebbe avviare un accertamento nei confronti dell’avvocato che ha ricevuto tali somme non dichiarate. Anche le segnalazioni di operazioni sospette (es. versamenti di assegni elevati senza causale) o le denunce di privati (si pensi a un ex cliente o ex collaboratore che denunciano evasione) possono innescare verifiche. Le “linee guida” dell’Agenzia indicano di considerare tutte le informazioni qualificate disponibili – inclusi archivi informatici, database immobiliari, registri come il Sistema Tessera Sanitaria (per spese mediche detraibili: un avvocato non c’entra, ma per medici sì), ecc. Nel caso di professionisti, spesso si incrociano i dati dei Modelli 770 dei clienti (certificazioni di ritenute d’acconto versate): ad esempio, se emergono ritenute operate da società a favore dell’avvocato ma quest’ultimo non ha dichiarato i relativi compensi, scatta facilmente l’accertamento.
- Errori od omissioni formali che incidono sul tributo: a volte un avviso di accertamento può derivare non da evasione intenzionale, ma da errori. Ad esempio, un avvocato potrebbe aver detratto indebitamente costi personali come spese di lavoro, oppure aver applicato in modo errato l’IVA (es. operazioni esenti trattate come imponibili o viceversa). Se dal controllo emerge imposta in meno versata, l’Agenzia procede al recupero con atto di accertamento (spesso trattasi di avvisi di liquidazione per imposta di registro o IVA su atti, ma può capitare anche su IRPEF se errori di calcolo). In ambito IVA, frequenti sono i rilievi su violazioni formali con effetti sostanziali, come detrazione IVA su fatture irregolari o utilizzo di crediti inesistenti: queste situazioni generano avvisi con richiesta dell’imposta non spettante più sanzione (solitamente pari al 90% dell’imposta indebita). Un avvocato potrebbe incorrere in ciò, ad esempio, se utilizzasse in compensazione crediti d’imposta non realmente maturati.
- Mancata presentazione della dichiarazione dei redditi (omessa dichiarazione): se l’avvocato non presenta affatto la dichiarazione in un anno in cui ha percepito compensi, l’Agenzia può emettere un avviso d’accertamento d’ufficio stimando il reddito. In caso di omessa dichiarazione, le sanzioni sono più gravi (dal 120% al 240% dell’imposta evasa) e i termini di accertamento più lunghi (vedi oltre). È una situazione estrema ma non rara: per esempio, un giovane avvocato che avesse iniziato l’attività e, per inesperienza o difficoltà economiche, avesse saltato la dichiarazione, sarebbe destinatario di un avviso con IRPEF, IVA e IRAP determinate induttivamente.
Riassumendo, un avviso di accertamento può scaturire da varie circostanze, ma in generale segnala che il Fisco ritiene di aver trovato basi oggettive (movimenti bancari, beni posseduti, incongruenze dichiarative, segnalazioni, verifiche dirette) per sostenere che l’avvocato abbia pagato meno tasse del dovuto. Nel prossimo capitolo esamineremo come l’Ufficio costruisce la pretesa (controlli effettuati, presunzioni utilizzate) e quali sono i riferimenti normativi e le garanzie procedurali di cui tener conto.
Controlli fiscali e presunzioni alla base dell’accertamento
Prima di capire cosa fare in risposta a un avviso di accertamento, è utile comprendere come l’Agenzia delle Entrate sia arrivata a determinare quei maggiori importi. I metodi di controllo utilizzati e le presunzioni legali previste dall’ordinamento influenzano infatti le possibilità di difesa del contribuente. Di seguito elenchiamo i principali strumenti di accertamento che l’Amministrazione può aver impiegato nel caso di un avvocato:
- Indagini finanziarie (art. 32 DPR 600/1973): come accennato, è uno strumento principe per ricostruire ricavi occulti. L’Agenzia, previa autorizzazione centrale, ha facoltà di chiedere alle banche e intermediari finanziari tutti i movimenti sui conti intestati al contribuente (e, in certe indagini complesse, anche conti intestati a familiari o soggetti terzi, se vi sono elementi che li collegano all’attività del contribuente). Dai conti correnti e depositi bancari emergono così versamenti e prelievi. La legge stabilisce che tutte le operazioni bancarie non giustificate concorrono a formare reddito: i versamenti sono presunti ricavi e compensi non dichiarati, i prelevamenti (dopo la sentenza della Consulta 228/2014) solo per i titolari di reddito d’impresa (non per i professionisti). In pratica, per un avvocato ogni somma accreditata sui propri conti si presume guadagno professionale salvo prova contraria, mentre i prelievi non costituiscono più presunzione di spesa in nero (per i professionisti). La giurisprudenza è estremamente rigorosa nell’applicare tali presunzioni: il contribuente deve fornire prova analitica per ogni singola movimentazione bancaria contestata, dimostrandone la natura non reddituale o il fatto che sia già contabilizzata. Ad esempio, se l’accertamento individua 50 bonifici sul conto corrente per un totale di €100.000, spetterà all’avvocato provare, per ciascun bonifico, che si trattava magari di restituzione di un prestito, di trasferimento da un suo conto personale ad un altro, di una donazione dei genitori, etc. Tale prova deve essere rigorosa e documentale; affermazioni generiche o non supportate da pezze giustificative non bastano. La Cassazione nel 2024 ha confermato che se il contribuente non giustifica analiticamente ogni movimentazione, l’Ufficio può legittimamente imputare l’intero importo a ricavi non dichiarati. Le indagini finanziarie sono dunque uno strumento potentissimo e frequentemente utilizzato nei confronti di professionisti a rischio evasione: è fondamentale esserne consapevoli e tenere traccia dei propri movimenti bancari fin dall’inizio, per potersi difendere in caso di accertamento.
- Verifiche fiscali sul campo (PVC della Guardia di Finanza): un’altra modalità di accertamento è la verifica “fisica” presso lo studio o la sede del contribuente, tipicamente condotta dalla Guardia di Finanza. Nel caso di un avvocato, le Fiamme Gialle potrebbero eseguire accessi e controlli per riscontrare se tutte le pratiche hanno corrispettivo fatturato, esaminare la contabilità, agenda appuntamenti, fascicoli dei clienti, ecc. Al termine della verifica redigono un Processo Verbale di Constatazione (PVC) che elenca eventuali violazioni (compensi non registrati, fatture false, costi personali dedotti, etc.). L’Agenzia delle Entrate, ricevuto il PVC, emette l’avviso di accertamento sulla base delle risultanze. In tal caso, per legge (art. 12 co.7 L.212/2000) deve attendere 60 giorni prima di emettere l’atto, per consentire al contribuente di presentare osservazioni difensive sul PVC. Questo contraddittorio endo-procedimentale è un diritto del contribuente, e la sua omissione rende nullo l’avviso se riguarda verifiche in loco (nel caso di tributi non “armonizzati” come IRPEF, la Cassazione ha però stabilito che la mancata attesa dei 60 giorni non comporta nullità assoluta se non c’è specifico pregiudizio, ma è sempre buona prassi invocarla). Se dunque l’avviso arriva a ridosso della chiusura della verifica, l’avvocato può controllare la data del PVC e quella di notifica dell’accertamento: se l’Ufficio non ha rispettato i 60 giorni, si può eccepire la nullità relativa dell’atto. Durante quel periodo, il contribuente può inviare memorie e documenti per chiarire la propria posizione; è importante sfruttare questa opportunità, perché l’Ufficio è tenuto a esaminare le osservazioni prima di decidere (anche se, in assenza di obblighi stringenti, spesso prosegue comunque nell’accertamento).
- Contraddittorio e “inviti a comparire”: in alcuni casi, prima di emettere l’avviso, l’Agenzia può inviare al contribuente un invito al contraddittorio o a fornire documenti (ai sensi dell’art. 5-ter D.Lgs. 218/1997, introdotto dal 2015, per alcuni accertamenti sui redditi d’impresa e autonomi). Questo avviene specialmente negli accertamenti da redditometro o basati su presunzioni, per dare modo di spiegare discrepanze. Se l’avvocato riceve un invito simile, deve partecipare alla convocazione o fornire per iscritto le spiegazioni richieste: è un momento in cui si può potenzialmente convincere l’Ufficio a non emettere l’atto impositivo o a ridurne la portata. Va detto che il contraddittorio “preventivo” non è obbligatorio per legge in ogni caso (lo è espressamente solo per alcuni tributi armonizzati, come l’IVA, in forza dei principi UE). La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con una famosa sentenza del 2015, ha stabilito che per le imposte non armonizzate (IRPEF, IRAP, etc.) la mancata convocazione del contribuente non determina nullità dell’atto, salvo specifiche previsioni normative. Invece per l’IVA, alla luce dei principi comunitari, il contraddittorio va garantito pena l’invalidità dell’accertamento, salvo che l’assenza di confronto non abbia concretamente inciso sul diritto di difesa. Pertanto, se l’avviso include rettifiche IVA senza che sia mai stato offerto al contribuente un confronto, può esserci margine per eccepire la violazione del diritto al contraddittorio (ad esempio richiamando la giurisprudenza della Corte UE e la Cassazione che la recepisce). In pratica, la difesa valuterà caso per caso se evidenziare questo aspetto, soprattutto in ambito IVA.
- Metodi di accertamento “analitico” vs “induttivo”: la legge prevede diversi metodi di accertamento. L’accertamento analitico (art. 39 c.1 DPR 600/73) consiste nel rettificare singoli elementi della dichiarazione (ricavi, costi, ecc.) sulla base di prove specifiche: è tipico quando i libri contabili sono formalmente regolari ma emergono elementi certi di evasione (es: un compenso non fatturato individuato). L’accertamento induttivo puro (art. 39 c.2) invece è ammesso quando il contribuente ha tenuto una contabilità inattendibile o non l’ha tenuta affatto: in tal caso l’Ufficio può prescindere dalle risultanze ufficiali e determinare il reddito in via presuntiva utilizzando qualsiasi elemento a disposizione. Per un avvocato in contabilità semplificata o nel regime forfettario (dove non c’è una vera contabilità formalizzata), se l’Ufficio riscontra gravi irregolarità potrebbe procedere in modo induttivo, ad esempio applicando percentuali di ricarico, medie di settore, o valorizzando in maniera globale i flussi finanziari. Esiste anche l’accertamento parziale (art. 41-bis DPR 600/73), che permette di emettere un avviso limitato a uno specifico rilievo senza attendere la fine di eventuali altre verifiche: di solito è usato per recuperare subito un’evasione palese emersa (es. un conto estero non dichiarato) senza bisogno di rettificare tutto il reddito. Per il contribuente, sapere quale metodo è stato usato è utile: se è analitico, può controbattere voce per voce; se è induttivo, occorre attaccare la ragionevolezza delle presunzioni e magari evidenziare che la contabilità era invece regolare (se del caso) per invalidare l’uso dell’induttivo. Le presunzioni usate in ambito induttivo devono essere comunque gravi, precise e concordanti se non qualificate da legge; oppure, se legali (come quelle bancarie o redditometriche), possono essere vinte solo con prova contraria specifica.
- Fonti informative e banche dati: L’Agenzia delle Entrate dispone di un immenso patrimonio di dati incrociati. Ad esempio, il sistema informativo dell’Anagrafe Tributaria raccoglie: dichiarazioni dei redditi, informazioni catastali su immobili (acquisti, vendite, rendite), atti del Registro, saldi dei conti correnti (l’Archivio dei rapporti finanziari fornisce per ogni CF il totale annuale di movimenti e giacenze medie), compensi comunicati da sostituti d’imposta, spese detraibili comunicate (es. assicurazioni, contributi previdenziali, bonifici per ristrutturazioni e bonus vari), ecc. Ci sono poi segnalazioni da SOSE per gli ISA, liste selettive generate centralmente (es. liste di contribuenti a basso ISA e alta sproporzione investimenti/reddito), e scambi di informazioni internazionali (se un avvocato percepisce redditi dall’estero o detiene attività estere non dichiarate – si pensi ai conti svizzeri emersi con lo scambio automatico CRS/FATCA). Tutto ciò per dire che l’accertamento raramente è frutto di un “lampo nel buio”: di solito l’atto si basa su elementi concreti raccolti tramite questi canali. Nella motivazione dell’avviso dovrebbero essere richiamati gli elementi essenziali (es: “visto l’esito di indagine finanziaria prot. XYZ…”, “considerato lo scostamento rilevato dall’applicazione del metodo sintetico ex art 38 DPR 600/73…”, “preso atto del PVC della GdF n…”). È importante leggere attentamente la motivazione per identificare le fonti e le metodologie utilizzate, così da preparare la difesa mirata su ciascuna (contestare interpretazioni errate, fornire spiegazioni alternative ai dati grezzi, eccepire vizi procedurali se presenti).
In sintesi, l’avviso di accertamento poggia su controlli sostanziali e presunzioni che il legislatore mette a disposizione del Fisco. Il contribuente deve conoscergli per sapere dove intervenire: ad esempio, se l’atto sfrutta la presunzione bancaria, la battaglia sarà sul produrre prove per ogni versamento (o contestare eventuali errori di persona, doppi conteggi, ecc.); se sfrutta il redditometro, si punterà a dimostrare che il maggior reddito presunto non esiste o è giustificato da redditi esenti; se deriva da un PVC, si verificherà se il contraddittorio è stato rispettato e se le prove raccolte dalla GdF sono solide o contestabili. Spesso la posizione dell’avvocato “accertato” potrà essere delicata, ma non è detto che l’Ufficio abbia sempre ragione: i giudici tributari, specie negli ultimi anni, hanno emesso sentenze importanti a tutela dei contribuenti quando gli accertamenti erano basati su mere congetture o metodi induttivi troppo sbrigativi (ad es., Cass. n. 31568/2023 ha ribadito che nell’accertamento sintetico il fisco deve comunque fondarsi su indici concreti e consentire la prova contraria). Conoscere queste sfumature aiuta il difensore a impostare una strategia efficace.
Passiamo ora ad esaminare come reagire all’avviso di accertamento: dalla verifica della legittimità formale dell’atto, alle varie opzioni (pagamento, adesione, ricorso) a disposizione dell’avvocato contribuente.
Verifiche preliminari: controllare termini, vizi formali e motivazione
La prima cosa da fare quando si riceve un avviso di accertamento è eseguire alcune verifiche preliminari sull’atto, per individuare eventuali vizi che possano costituire motivi di annullamento o comunque per conoscere esattamente i margini temporali e procedurali per reagire. Ecco gli aspetti principali da controllare immediatamente:
1. Termine di notifica (decadenza dell’accertamento) – Ogni avviso di accertamento deve essere emesso (e spedito per la notifica) entro precisi termini stabiliti dalla legge. Se l’atto arriva oltre questi termini, è nullo per decadenza del potere accertativo. Bisogna quindi verificare l’anno d’imposta cui si riferisce l’accertamento e confrontarlo con la data in cui l’atto è stato notificato. Per le imposte sui redditi e l’IVA, le regole generali sono:
- Per annualità fino al 2015: l’accertamento andava notificato entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ad esempio, per il 2015 entro il 31/12/2019), oppure, in caso di omessa dichiarazione, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.
- Per annualità dal 2016 in poi: a seguito della riforma del 2016 (DL 193/2016), i termini sono stati estesi di un anno: l’avviso va notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo (se dichiarazione presentata) o del settimo anno successivo (se dichiarazione omessa). Ad esempio, per l’anno d’imposta 2016 il termine ordinario era il 31/12/2022 (dichiarazione presentata) o 31/12/2024 (se omessa).
Questi termini possono subire sospensioni o proroghe in casi particolari: ad esempio, durante l’emergenza Covid il Legislatore ha disposto una sospensione dei termini accertativi di 85 giorni per gli atti in scadenza nel 2020 (quindi di fatto gli accertamenti 2015-2018 hanno “sforato” di 85 giorni arrivando a fine marzo dell’anno seguente rispetto alla scadenza normale). Altra causa di proroga è l’eventuale raddoppio dei termini in caso di violazioni che comportano obbligo di denuncia penale tributaria: in passato esisteva il raddoppio automatico, oggi è condizionato all’effettivo invio della notizia di reato entro il termine ordinario.
Un avvocato che riceva un avviso nel 2025 per l’anno d’imposta 2017, ad esempio, dovrà subito verificare se l’atto è tardivo: per il 2017 (dichiarazione presentata nel 2018) il termine “normale” era il 31/12/2023, ma siccome c’era la sospensione Covid, in realtà era prorogato a circa metà marzo 2024. Un’avviso notificato nel 2025 su 2017 sarebbe quindi oltre termine e da annullare. Se l’avviso riguarda invece il 2018, il termine sarebbe fine 2024 (più qualche giorno forse per Covid, ma comunque entro marzo 2025), dunque uno notificato ad agosto 2025 su 2018 sarebbe decaduto. È fondamentale controllare questi calcoli (anche mediante un esperto, se necessario). Se l’atto è effettivamente tardivo, basta questo per farlo annullare: la decadenza è un vizio insanabile che va fatto valere in sede di ricorso (l’Ufficio difficilmente annulla in autotutela per decadenza, a meno di casi eclatanti, perciò sarà il giudice a riconoscerla su eccezione del contribuente).
Un’attenzione: la data da considerare è quella di spedizione o consegna all’ufficiale notificatore, non quella in cui il contribuente lo riceve. Quindi se l’atto è spedito con raccomandata il 30/12 e arriva a gennaio, è comunque tempestivo. Solitamente l’avviso stesso riporta la data di firma ed emissione; anche la busta o PEC con cui è notificato può recare il timestamp. Conviene conservare busta e documento di notifica proprio per questo controllo.
(Nota: esistono cause eccezionali di sospensione dei termini – es. adesione, istanze del contribuente – ma di solito saranno menzionate nell’avviso. Ad esempio, se l’avviso deriva da un PVC su cui il contribuente ha chiesto adesione, i termini slittano di 1 anno ex lege 212/2000 art. 10. Ma sono situazioni particolari).
2. Soggetto firmatario e validità della sottoscrizione – Un elemento formale cruciale è la firma in calce all’avviso. La legge richiede che l’atto sia sottoscritto, a pena di nullità, dal direttore dell’ufficio o da altro funzionario di carriera direttiva con delega di firma. In pratica, non può firmare chiunque: dev’essere il capo ufficio (es. il Direttore Provinciale delle Entrate) oppure un funzionario delegato dallo stesso. Bisogna quindi controllare:
- Chi ha firmato l’avviso? Solitamente in fondo all’atto c’è il nominativo e la qualifica (es. “Il Capo Area Controlli, Dott. XYZ, su delega del Direttore provinciale…”). Se la firma è illeggibile, l’atto dovrebbe comunque indicare il nome a stampa e la qualifica del firmatario. Se manca del tutto la firma o il nome, l’atto può essere considerato nullo.
- Delega di firma: se non è il Direttore a firmare, la validità dell’atto dipende dall’esistenza di una regolare delega interna. La delega non deve necessariamente essere allegata all’atto, ma nell’avviso si trova spesso un riferimento tipo “Delegato dal Direttore con provvedimento n. XYZ”. In caso di contestazione in giudizio, spetta all’Agenzia provare che la delega esisteva ed era valida. La Cassazione ha chiarito che in caso di eccezione del contribuente, l’Ufficio deve esibire la delega, anche in appello, perché attiene alla validità dell’atto e non è un nuovo documento probatorio tardivo. Ad esempio, una recente ordinanza del 2025 (Cass. n. 8009/27.3.2025) ha confermato che se il contribuente contesta la legittimazione di chi ha firmato, l’onere di dimostrare la delega incombe sull’Amministrazione. Inoltre, la suprema Corte ha ribadito che l’avviso è nullo se non è firmato dal capo ufficio o da un delegato valido.
- Vizi comuni sulla delega: in passato, molti ricorsi hanno riguardato deleghe generalizzate o carenze nella loro predisposizione. Oggi la giurisprudenza è un po’ più flessibile: ha detto ad esempio che la delega non deve necessariamente indicare il nome del delegato né un termine di durata, bastando che il delegato abbia qualifica dirigenziale o di funzionario direttivo. Tuttavia, rimane fermo che se il contribuente chiede copia della delega e questa non viene esibita, l’atto è illegittimo. Dunque, un avvocato che voglia contestare l’avviso su questo piano, dovrebbe chiedere formalmente in giudizio la prova della delega (spesso la si chiede già con l’istanza di accesso agli atti all’Ufficio, e in mancanza la si eccepisce nel ricorso).
- Altra cosa da verificare: la firma digitale o a stampa. Oggi molti avvisi sono notificati via PEC con firma digitale del funzionario. Questo è valido a tutti gli effetti. Se la copia cartacea presenta una firma a stampa, non significa di per sé nullità: purché vi sia traccia informatica della firma digitale o comunque l’indicazione del responsabile, la firma “meccanografica” è stata ritenuta legittima. Ad esempio, Cass. ord. 31928/2024 ha escluso la nullità di una delega di firma rilasciata in forma meccanografica, ribadendo che conta la riferibilità dell’atto all’organo competente. Quindi non ci si deve far fuorviare da una firma non autografa visibile: l’importante è che l’atto provenga dall’ufficio giusto e rechi gli estremi della delega.
- Firma illeggibile? Se la firma è talmente illeggibile da non capire chi abbia firmato e non c’è indicazione a stampa, in passato la giurisprudenza ha talora annullato atti perché non era identificabile l’autorità emanante. È un’ipotesi limite, ma se capitasse che l’avviso non indichi chiaramente il firmatario (nome e qualifica), anche questo potrebbe essere motivo di contestazione (violazione art. 7 L.212/2000 che richiede l’indicazione del funzionario responsabile).
In definitiva: controllare chi firma. Se è un delegato, accertarsi che sia indicata la delega. In sede di ricorso, sollevare la questione e chiedere che l’Ufficio provi l’esistenza della delega (cosa che di norma faranno producendo l’atto interno di delega). Se non lo fanno, la Corte di Giustizia Tributaria potrebbe annullare l’avviso per difetto di sottoscrizione legittima.
3. Motivazione e allegati – La motivazione dell’avviso è il cuore dell’atto: spiega perché vi stanno chiedendo soldi in più. Deve contenere, ai sensi dell’art. 7 della L.212/2000 e dell’art. 3 L.241/1990, i fatti accertati, gli elementi su cui si basa la rettifica e le norme applicate. È importante leggerla con attenzione. Alcune cose da verificare:
- Indicazione dei fatti e calcoli: la motivazione deve far capire quali compensi sono stati aggiunti, quali costi disconosciuti, quali crediti IVA eliminati, etc. Se ad esempio l’Ufficio ha sommato versamenti bancari per €100.000 e li ha considerati ricavi, ciò dovrebbe essere esplicitato (magari in un prospetto allegato). Se la determinazione non è chiara o i conteggi non tornano, va subito notato e potrà costituire un argomento difensivo (ambiguità = vizio di motivazione). Tuttavia, ricordiamo che la motivazione può essere anche “per relationem”, ossia tramite rimando ad altri atti: ad esempio molti avvisi dicono “visti i rilievi del PVC della Guardia di Finanza che si intendono qui richiamati”. La legge consente questo rinvio, a patto che il PVC (o l’atto richiamato) sia conosciuto dal contribuente o allegato all’avviso. Infatti l’art.7 dello Statuto del Contribuente obbliga l’Ufficio ad allegare all’avviso gli atti di altri enti richiamati nella motivazione e non già posseduti dal contribuente. Nel caso di PVC della GdF, in genere il contribuente ne ha copia perché gliel’hanno consegnato a fine verifica: quindi non serve allegarlo di nuovo, ma nell’avviso si farà riferimento a tale PVC (che deve essere citato con gli estremi). Se invece l’accertamento si basa su un rapporto di qualche altro ufficio o ente che il contribuente non conosce, la mancata allegazione può costituire motivo di nullità. Ad esempio, se l’Agenzia delle Entrate emette avviso basandosi su dati ricevuti dall’Agenzia delle Dogane (poniamo, consumi di energia elettrica per presumere ricavi), dovrebbe allegare la comunicazione della Dogane o comunque renderla disponibile, altrimenti viola l’obbligo di allegazione. Nel caso tipico dell’avvocato, spesso le basi sono interne (movimenti bancari, ecc.) e non c’è un documento terzo da allegare oltre a eventuali PVC o inviti, però è un check da fare.
- Completezza della motivazione: se un avviso fosse completamente immotivato, sarebbe nullo. Nella pratica odierna, è difficile trovare avvisi privi di motivazione; semmai, il problema può essere l’eccessiva genericità. Ad esempio, un accertamento sintetico redditometrico deve indicare quali beni-indice e spese sono contestate; se dicesse solo “il reddito dichiarato è incongruo e si determina sinteticamente un maggior reddito di €X” senza spiegare da cosa deriva X, la motivazione sarebbe inadeguata. Così come un accertamento bancario deve indicare almeno l’elenco (o un allegato) dei movimenti non giustificati e su quali conti. La difesa in sede di ricorso potrebbe lamentare insufficienza di motivazione se mancano questi dettagli. Tuttavia, la carenza di motivazione è spesso sanabile se l’Ufficio fornisce chiarimenti durante il processo, quindi è un motivo di annullamento che i giudici accolgono solo quando effettivamente il contribuente è stato impedito di capire le ragioni dell’addebito.
- Errori materiali o duplicazioni: leggendo la motivazione e gli allegati, può capitare di scovare errori. Esempio: un versamento bancario elencato due volte erroneamente, oppure un importo trascritto con uno zero in più. Se tali errori incidono sul quantum, conviene farlo presente subito all’Ufficio (anche tramite istanza di autotutela) e sicuramente poi nel ricorso, perché potrebbero portare all’annullamento parziale dell’atto (per errore di fatto).
- Violazioni di norme tributarie nella motivazione: a volte l’Ufficio applica in modo errato la legge – es: calcola una sanzione con aliquota sbagliata, oppure liquida interessi oltre il tasso legale, o ancora pretende IRAP da un professionista senza autonoma organizzazione (tema su cui torneremo). Queste cose emergono esaminando l’atto e confrontandolo con le norme: se si notano incongruenze (tipo: “mi chiedono una sanzione del 150%, ma il minimo edittale per infedele dichiarazione sarebbe 90%”), vuol dire che qualcosa non torna e va approfondito. Possono diventare argomenti del ricorso o richieste di correzione.
In breve, la motivazione è il “racconto” dell’accertamento: va letto riga per riga e vanno annotate tutte le criticità. Per un avvocato, abituato alla logica delle argomentazioni, sarà naturale sezionare il testo dell’avviso come fosse un atto processuale avversario, cercando lacune o punti deboli.
4. Importi richiesti e calcolo delle sanzioni – Bisogna infine capire esattamente quanto viene richiesto e a che titolo. L’avviso contiene tipicamente un prospetto con: maggiore imposta, interessi, sanzione, totale. Controllare:
- Il tasso di interesse applicato (spesso è indicato un importo complessivo fino a una certa data). I tassi di interesse legale cambiano di anno in anno, ma l’importo dovrebbe essere di entità ragionevole. Se appare abnorme, potrebbe includere interessi di mora per tardivo pagamento post notifica (non dovuti in questa sede). Comunque, di solito sugli accertamenti l’interesse è calcolato dall’anno d’imposta fino alla notifica.
- Sanzioni: le sanzioni amministrative tributarie, per omessa o infedele dichiarazione, hanno forchette edittali previste dal D.Lgs. 471/1997. Ad esempio, dichiarazione infedele comporta sanzione dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta (aliquota ridotta a 90% dopo il 2015, prima era 100-200%). Omessa dichiarazione va dal 120% al 240% dell’imposta. Errori IVA specifici possono avere sanzioni diverse. Nel nostro avviso, la sanzione irrogata di solito è al minimo edittale se il contribuente non ha precedenti o circostanze aggravanti. Spesso l’Ufficio indica “sanzione 90%” per infedele. Se così non fosse (es. mettono 135%), bisogna capire perché (magari contestano anche l’aggravante di frode, o hanno negato la dichiarazione integrativa). È raro però: di norma gli accertamenti standard applicano il minimo, sapendo anche che in caso di adesione o acquiescenza quel minimo verrà ulteriormente ridotto di 1/3.
- Verificare se è stata concessa qualche riduzione immediata: talvolta, in accertamenti “parziali” o su alcuni tributi, l’Ufficio potrebbe aver già applicato riduzioni. Ad esempio, in caso di definizione agevolata in corso (vedi paragrafo sulle paci fiscali), potrebbero aver proposto un calcolo con sanzioni ridotte 1/18. Ma ciò sarebbe indicato chiaramente (circostanza particolare, generalmente l’avviso “normale” non include queste riduzioni se non su istanza).
- IRAP: se viene richiesto IRAP, attenzione al tema “autonoma organizzazione”. Un avvocato che eserciti da solo, senza dipendenti né significativa struttura, secondo ormai consolidata giurisprudenza NON è soggetto ad IRAP perché manca il presupposto (attività autonomamente organizzata). Le Sezioni Unite della Cassazione (sent. 9451/2016) hanno fissato criteri chiari: il professionista paga IRAP solo se è il responsabile di un’organizzazione autonoma che amplifica la sua capacità produttiva, ad esempio se impiega personale non occasionale o beni strumentali eccedenti il minimo necessario per l’attività. Un singolo avvocato con solo un computer e magari una segretaria part-time non raggiunge questa soglia e quindi non deve IRAP. Se l’avviso pretende IRAP in situazioni simili, c’è un forte argomento per contestarlo, citando tali principi. Ad esempio Cassazione 2024, ord. n. 27261, ha ribadito che i compensi percepiti in una struttura organizzata da terzi (uno studio associato altrui, o un network) non configurano autonoma organizzazione per il singolo, quindi niente IRAP. Anche Cass. n. 26338/2024 ha richiamato che l’uso non occasionale di lavoro altrui può indicare autonoma organizzazione, ma dev’esserci un’organizzazione che faccia capo al professionista stesso. Quindi, l’avvocato destinatario deve valutare se nel proprio caso l’IRAP sia dovuta: se lavorava in proprio senza una struttura significativa, può contestare quell’aspetto dell’accertamento. Ovviamente l’Ufficio talvolta richiede IRAP in via prudenziale e lascia che sia il contribuente, se ne ha diritto, a chiederne lo stralcio in autotutela o a farlo annullare in giudizio.
5. Notifica regolare – Da ultimo, verificare che la notifica dell’atto sia stata eseguita correttamente (via PEC, oppure tramite raccomandata AR o ufficiale giudiziario). Se via PEC, controllare che l’indirizzo PEC usato sia quello risultante dai registri ufficiali (INI-PEC per professionisti). Se cartacea, controllare eventuali vizi (ad esempio consegnato a persona non autorizzata, ecc.). Di solito questo aspetto è meno problematico oggigiorno, specie con la PEC. Ma se emergesse un vizio di notifica, potrebbe essere un ulteriore motivo di nullità (da far valere con cautela, perché in genere poi sanano con la ripetizione se i termini non sono scaduti).
Dopo queste verifiche preliminari, il contribuente-avvocato avrà un’idea più chiara del terreno su cui si muove: saprà se l’avviso è stato notificato nei termini, se formalmente regolare, e quali punti sostanziali contesta. A questo punto occorre decidere il da farsi entro la scadenza dei fatidici 60 giorni dalla notifica. Nel capitolo seguente esploriamo tutte le opzioni a disposizione: dagli strumenti deflattivi (richiesta di adesione, acquiescenza) al ricorso in senso stretto, con i rispettivi pro e contro, e anche cosa accade se non si fa nulla.
Cosa fare entro i primi 60 giorni: valutare le opzioni (pagamento, adesione, ricorso)
Dal momento in cui l’avviso di accertamento viene notificato (sia che arrivi via PEC o in cartaceo), inizia a decorrere un termine di 60 giorni entro il quale il contribuente può reagire. Questo termine è stabilito dall’art. 15 del D.Lgs. 218/1997 per il pagamento con riduzione sanzioni (acquiescenza) e dall’art. 21 del D.Lgs. 546/1992 per il ricorso. Durante questi 60 giorni il contribuente deve decidere la strategia: pagare, cercare un accordo, o presentare ricorso (o ancora, fare alcune mosse interlocutorie come l’adesione che sospende i termini). Vediamo in dettaglio le possibili opzioni e cosa comportano:
Opzione A – Acquiescenza (pagamento integrale con sanzioni ridotte): L’“acquiescenza” consiste nell’accettare integralmente l’accertamento e pagarne gli importi entro 60 giorni, beneficiando di una riduzione delle sanzioni. Più precisamente, ai sensi dell’art. 15 D.Lgs. 218/97, se il contribuente non presenta ricorso e paga entro il termine, le sanzioni irrogate sono ridotte ad 1/3 del loro ammontare. Ad esempio, se l’avviso reca una sanzione da infedele dichiarazione di €9.000 (che è il 90% di un’imposta evasa di €10.000), pagando in acquiescenza la sanzione si riduce a €3.000 (ossia un terzo di 9.000). Il vantaggio è evidente: si risparmiano i due terzi della penalità amministrativa. Bisogna però pagare per intero anche le maggiori imposte accertate e gli interessi. Non è ammessa rateazione in questa fase – occorre versare il dovuto in unica soluzione (salvo eventualmente attivare una rateazione con l’Agente della Riscossione dopo l’iscrizione a ruolo, ma ciò vanificherebbe l’acquiescenza perché non è più entro 60 giorni). Dunque, l’acquiescenza è percorribile se si hanno le risorse per farvi fronte o se l’importo non è troppo gravoso.
- Quando conviene l’acquiescenza? Conviene se il contribuente riconosce che l’accertamento è fondato (o almeno che non ha chance di vittoria in giudizio) e vuole chiudere subito la pendenza, limitando i danni sulle sanzioni. Tipico caso: l’avvocato sa di aver effettivamente omesso dei redditi e le prove del Fisco sono schiaccianti (es. movimentazioni non giustificabili). In tal situazione, fare ricorso servirebbe solo a rinviare l’inevitabile e accumulare interessi e spese. Pagando subito, invece, si chiude la questione e si ottiene uno “sconto” sulle sanzioni del 66%.
- Un altro scenario: l’importo accertato è modesto. Se, ad esempio, l’avviso chiede 3.000 € tra imposte e sanzioni, fare causa potrebbe costarne di più tra parcelle e tempo; tanto vale pagare, specie se la posizione non è chiara. Inoltre, per importi piccoli, a maggior ragione il dimezzamento della sanzione (che magari era il 90% di una somma piccola) potrebbe valere poco in assoluto, ma si evita di protrarre la pendenza.
- Come si perfeziona: per effettuare l’acquiescenza il contribuente deve pagare entro 60 giorni dalla notifica tutto quanto richiesto (salvo appunto la riduzione automatica della sanzione a 1/3, che va calcolata correttamente). In pratica, spesso l’atto stesso indica l’importo da pagare per acquiescenza. In mancanza, bisogna calcolarlo: (imposte + interessi) + (sanzioni/3). Il pagamento va fatto con modello F24 utilizzando i codici tributo appositi (l’Agenzia sul sito fornisce istruzioni, e spesso li indica nell’avviso). Se l’ufficio riceve il pagamento integrale ridotto entro 60 giorni e nessun ricorso, l’accertamento si intende definito, e non si potrà più impugnare.
- Effetti: definendo in acquiescenza, l’atto non è impugnabile e il rapporto tributario si chiude. Non si pagheranno le sanzioni accessorie eventualmente previste (spesso non ci sono per IRPEF, ma ad esempio per IVA alcune violazioni gravi potrebbero comportare sospensione licenza ecc.; con la definizione, tali sanzioni accessorie non si applicano). Si evita l’iscrizione a ruolo e relative addizioni (diritto di riscossione, interessi di mora). In sostanza, si paga meno e si ha certezza.
- Controindicazioni: ovviamente l’acquiescenza implica rinuncia definitiva a contestare. Se poi emergessero elementi a favore, non si potrebbe tornare indietro. Quindi bisogna essere abbastanza sicuri che non vi fossero chance difensive. Inoltre, bisogna disporre della liquidità necessaria in tempi brevi.
- Strategie ibride – definizione agevolata delle sole sanzioni: Esiste anche la possibilità di pagare solo le sanzioni ridotte a 1/3 entro 60 giorni, e impugnare solo le imposte. Questo perché l’art. 17 comma 2 D.Lgs. 472/97 consente la definizione agevolata delle sole sanzioni indipendentemente dal tributo. In pratica, il contribuente può accettare di pagare una sanzione pari a un terzo di quella contestata, per chiudere il capitolo “punizioni”, ma continuare a sostenere di non dover le imposte. Tale scelta ha senso se si vuole ridurre il rischio: anche perdendo poi sul merito, almeno le sanzioni saranno state già fissate al minimo. È un po’ tecnica come opzione ed è tipica di grandi aziende; per un singolo avvocato raramente si fa, anche perché se uno è convinto di non dover pagare neppure le imposte, in genere contesta anche le sanzioni nel ricorso (le quali, se cade il tributo, cadono anch’esse). Comunque è bene sapere che c’è questa facoltà: pagare 1/3 sanzioni entro 60 gg definisce le sanzioni (non più impugnabili né aumentabili), lasciando litigioso solo il tributo. Ad esempio, in un accertamento che contesta €10.000 di imposte e €9.000 di sanzioni, un avvocato potrebbe decidere di pagare €3.000 (cioè 1/3 di 9.000) per togliere di mezzo le sanzioni e poi fare ricorso sulle imposte da 10.000. Se vincerà, quei 3.000 € di sanzioni purtroppo non gli verranno restituiti (perché la definizione è comunque perfezionata senza clausola di restituzione), ma se perderà avrà risparmiato 6.000 € di sanzioni. È dunque un’opzione di gestione del rischio. Attenzione: se si presenta istanza di adesione (che sospende il termine per il ricorso), c’è un dubbio se la sospensione valga anche per i 60 gg della definizione sanzioni; la circolare AE 25/E 2012 ha chiarito di sì, i 90 gg di sospensione per adesione si sommano al termine per definire le sanzioni.
Opzione B – Accertamento con adesione (tentativo di accordo con l’Ufficio): L’adesione all’accertamento è uno strumento deflativo previsto dal D.Lgs. 218/1997 che consente al contribuente e all’ufficio di negoziare una soluzione prima del contenzioso. In pratica, il contribuente presenta un’istanza di accertamento con adesione entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso, chiedendo un incontro all’Agenzia per discutere il merito delle contestazioni.
- Effetto sui termini: la presentazione dell’istanza di adesione sospende automaticamente il termine per fare ricorso per 90 giorni (decorrenti dalla data di presentazione dell’istanza). Ciò significa che quei 60 giorni iniziali vengono “congelati”: il contribuente guadagna tempo (60 + 90 giorni) per provare a definire. Durante questi 90 giorni l’Ufficio ci inviterà per il contraddittorio (solitamente convocano con 10-15 giorni di anticipo). Se la trattativa non va a buon fine, si avrà comunque un residuo periodo per presentare ricorso (i 60 gg ripartono dal punto in cui si erano fermati). Dunque l’adesione è spesso usata anche solo per prendere tempo – e legittimamente, è un diritto. Ad esempio, se l’avviso arriva prima delle ferie d’agosto e non si fa in tempo a preparare difese, presentando istanza di adesione si evita la scadenza in pieno agosto (che comunque è sospeso feriale, ma ad esempio per atti notificati a settembre, l’adesione porta a dicembre-gennaio).
- Svolgimento: all’incontro l’avvocato (da solo o col proprio commercialista/consulente) si siede con i funzionari dell’Agenzia per discutere i rilievi. È un confronto informale: si possono portare nuovi documenti, spiegare le proprie ragioni e anche arrivare a compromessi. L’ufficio dal canto suo può “limare” la pretesa: ad esempio potrebbe riconoscere parzialmente alcune giustificazioni e ridurre il maggior reddito, oppure concordare l’applicazione di un’aliquota favorevole su certe voci, ecc. Non c’è un obbligo di accordo: se le posizioni restano distanti, semplicemente non si perfeziona nulla e dopo 90 giorni ciascuno per la sua strada (il contribuente farà ricorso). Se invece si trova un accordo, viene redatto un atto di adesione che contiene i nuovi importi d’imposta concordati e le sanzioni ricalcolate.
- Vantaggi dell’adesione:
- Innanzitutto, come detto, riduce le sanzioni: in caso di accordo, le sanzioni vengono ridotte ad 1/3 del minimo edittale (o di quello che sarebbe applicabile). È analogo all’acquiescenza come effetto sanzionatorio, ma con in più la possibilità di ridurre anche la base imponibile contestata. Quindi un duplice beneficio: meno imposte (perché si media sul quantum) e sanzioni ridotte. Ad esempio, se l’avviso chiedeva €50.000 di redditi non dichiarati con 90% di sanzioni (=45.000), in adesione si potrebbe concordare che i redditi non dichiarati in realtà erano €30.000 e applicare sanzione al 90% ridotta ad 1/3, quindi 30.000 di imposta e 9.000 di sanzioni invece di 50.000 e 45.000 originari. Non male.
- Nessuna lite giudiziaria: si evita il contenzioso, con risparmio di tempi e costi e la certezza dell’esito. Per un avvocato, evitare di essere parte in causa (anche se in Commissione) può essere preferibile per immagine e tempo.
- Rateizzazione agevolata: le somme dovute in adesione si possono pagare anche a rate trimestrali (fino a 8 rate se l’importo è sotto €50.000, fino a 16 rate se supera €50.000). Questo consente di diluire l’esborso fino a 2-4 anni. La prima rata (o l’unica soluzione) va versata entro 20 giorni dalla firma dell’accordo. Le rate successive portano un leggero interesse (tasso legale). Se il contribuente poi salta una rata, attenzione: la definizione si considera decaduta e si torna a dover pagare tutto subito con aggiunta del 45% di sanzioni (il doppio di 1/3? Questo dipende, in realtà la norma prevede decadenza e iscrizione a ruolo del residuo con sanzione intera meno quanto versato – scenario da evitare). C’è stata una recente disposizione (DL 50/2022) che consente, per chi decade, di chiedere una riammissione pagando tutto: comunque meglio non decadere.
- Nessun pagamento provvisorio immediato: se si intraprende la via dell’adesione, non è necessario pagare quel famoso “un terzo” entro 60 giorni per evitare riscossione (come nel ricorso). La presentazione dell’istanza sospende ogni azione. Quindi il contribuente non subisce atti esecutivi in quei 90 giorni e non deve anticipare somme (diverso scenario rispetto al ricorso, dove in assenza di sospensione giudiziale deve pagare un terzo, vedi oltre).
- Svantaggi / quando è sconsigliata:
- Se l’avvocato è convinto di avere ragione al 100% e ritiene di poter vincere in giudizio, l’adesione comporta comunque un compromesso verso l’alto (difficile che l’ufficio annulli totalmente in adesione; se volesse farlo potrebbe già annullare in autotutela). Quindi in casi di certezza dell’erroneità dell’accertamento, si potrebbe preferire il ricorso per ottenere annullamento totale, piuttosto che adesione su una cifra ridotta ma pur sempre dovuta.
- L’adesione richiede anche una certa preparazione tecnica al tavolo: conviene farsi assistere da un tributarista esperto, perché è una negoziazione dove l’ufficio ha esperienza e sa fin dove spingersi. Un professionista inesperto potrebbe ottenere poco sconto. Inoltre, tutto ciò che si dichiara in adesione (es. ammettere in parte gli addebiti) non potrà essere usato in giudizio se poi l’accordo salta (coperto da riservatezza), ma comunque si rischia di “scoprire le carte” senza concludere nulla se l’intesa non arriva.
- Tempi ristretti: sebbene l’adesione dia 90 giorni in più, questi possono volare via. Bisogna predisporre memorie, calcoli alternativi e così via, in poco tempo. L’ufficio potrebbe convocare una sola volta a ridosso della scadenza e fare una proposta “prendere o lasciare”. Dunque non sempre si riesce ad approfondire come si farebbe in un processo con perizie ecc.
- Come procedere: se si opta per l’adesione, entro 60 giorni dal ricevimento dell’avviso occorre presentare all’ufficio dell’Agenzia (quello che ha emesso l’atto) un’istanza in carta libera, indicando di voler definire in adesione l’avviso protocollo X. Si può già chiedere la sospensione di eventuali misure cautelari, ma in genere non ce ne sono in questa fase. L’ufficio vi contatterà (PEC o raccomandata) per fissare l’incontro. Se per caso l’ufficio non vi convoca affatto entro 90 giorni, l’adesione si considera negativa e i termini per ricorrere riprendono a decorrere dallo scadere del 90° giorno.
- Esito: se accordo raggiunto, si firma il verbale di adesione e l’accertamento è definito. Non è impugnabile e dovrete pagare secondo gli importi concordati (con le eventuali rate). Se non si raggiunge accordo, verrà redatto un verbale di mancato accordo o anche nulla, e il contribuente potrà proporre ricorso entro i termini residui (i 60 gg iniziali più 90 gg sospensione).
In generale, l’adesione è spesso consigliabile quando il Fisco ha elementi validi ma non inoppugnabili, e c’è margine per discutere. Ad esempio: contestazione di ricavi non dichiarati per €100k basata su presunzioni: il contribuente sa di avere difficoltà a giustificare tutto, ma magari alcuni elementi li può chiarire; in adesione potrebbe strappare una riduzione a €50k. Oppure casi di valuations (valori immobiliari, componenti di reddito incerti) dove una via di mezzo conviene a entrambi. Se invece l’atto è totalmente sbagliato (es. ha preso per reddito un movimento che era un prestito documentato), l’adesione non dovrebbe neppure servire: si potrebbe chiedere un annullamento in autotutela immediato (o in subordine fare ricorso con ottime chance di vittoria).
Opzione C – Impugnazione (Ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria): Se non si vuole o non si riesce a definire in via amministrativa, la strada è presentare un ricorso in sede giurisdizionale, ossia adire la giustizia tributaria per far annullare (in tutto o in parte) l’avviso di accertamento. Il termine è, come detto, 60 giorni dalla notifica (se è stata presentata istanza di adesione, il termine è sospeso per 90 giorni e riprende poi per la parte residua; se c’è stato un tentativo di mediazione – fino al 2023 obbligatorio per importi entro 50.000 € – quel termine era di 90 gg, ma vedremo che dal 2024 la mediazione è stata abrogata). Il ricorso va presentato presso la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente (prima si chiamava Commissione Tributaria Provinciale): generalmente è quella nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio che ha emesso l’avviso. Nel caso di un avvocato di Firenze con accertamento emesso dalla DP Firenze, la competenza è della Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Firenze.
Ecco gli aspetti da conoscere se si opta per il ricorso:
- Assistenza tecnica: per controversie di valore superiore a €3.000 (importo del tributo al netto di interessi e sanzioni), il contribuente deve essere assistito da un difensore abilitato (avvocato, dottore commercialista, esperto contabile o consulente del lavoro, o anche il praticante abilitato nei limiti di legge). Nel caso di un avvocato che fa ricorso per sé, si pone un tema deontologico se può difendersi da solo: in teoria nelle liti personali tributarie sopra soglia anch’egli dovrebbe nominare un collega (è controverso, ma il D.Lgs. 546/92 non esenta gli avvocati dal patrocinio altrui se sono parti in causa in proprio – per prudenza molti si fanno rappresentare da un collega). Comunque, l’esperienza insegna che “chi si difende da solo ha un matto per cliente” – dunque anche se si è avvocati, è saggio farsi assistere da un tributarista specializzato per avere più oggettività.
- Forma e notifica del ricorso: il ricorso va redatto in conformità all’art. 18 del D.Lgs. 546/92, indicando l’atto impugnato, i motivi, le prove, ecc. Dal 1° luglio 2019 il processo tributario è telematico obbligatorio: significa che il ricorso si notifica via PEC all’ufficio che ha emesso l’atto (utilizzando la loro PEC ufficiale – per l’Agenzia delle Entrate c’è un elenco di PEC degli uffici legali), e poi lo si deposita sul Portale Sigillo – Giustizia Tributaria entro 30 giorni dalla notifica. Il deposito del ricorso e dei documenti avviene tutto online sul sistema informatico (PTT). Bisogna anche pagare un contributo unificato tributario il cui importo dipende dal valore della causa: ad esempio, per cause fino a €5.000 di valore il contributo è €30; tra 5.000 e 25.000 è €60; tra 25k e 75k è €120; oltre 200k arriva a €1.500 (ci sono vari scaglioni). Ci si munisce della marca digitale e si allega al ricorso. Un avvocato che segue il proprio caso dovrà rispettare questi passaggi formali; se ha delegato un collega, sarà quest’ultimo a farlo.
- Pagamento provvisorio di 1/3: regola importante da ricordare: il fatto di presentare ricorso non sospende automaticamente la riscossione dell’accertamento. Per legge, decorsi 60 giorni dalla notifica, l’avviso diventa esecutivo. Tuttavia, se il contribuente fa ricorso entro i 60 giorni, l’Agenzia non può riscuotere l’intero importo finché pende il giudizio, ma può iscrivere a ruolo provvisoriamente 1/3 delle imposte accertate (più interessi). In pratica, l’avviso di accertamento esecutivo, in pendenza di ricorso, è sospeso per i 2/3 del dovuto fino alla sentenza di primo grado, mentre per 1/3 può andare avanti. Ciò significa che, trascorsi 60 giorni dalla notifica, e se risulta che avete presentato ricorso (lo vedono dal sistema), l’Agente della Riscossione potrebbe dopo ulteriori 30 giorni iniziare a notificarvi una cartella o intimazione per quel primo terzo. In realtà la norma prevede anche un periodo di sospensione “automatica” di 180 giorni prima della riscossione forzata, quindi i tempi non sono immediatissimi: di solito succede questo – 60 giorni per il ricorso, poi l’ufficio aspetta l’affidamento in carico al riscossore dopo 30 gg (quindi 90 gg totali), poi c’è in genere un’ulteriore sospensione di 180 gg introdotta nel 2011 per dare respiro; in sintesi circa 270 giorni dalla notifica prima che l’agente della riscossione invii effettivamente la richiesta di pagamento. Se avete fatto ricorso, quell’importo richiesto dovrebbe essere il primo terzo dell’imposta contestata (le sanzioni e l’altro due terzi restano sospesi fino a sentenza di primo grado). Tuttavia, se temete comunque l’aggressione di quel terzo (magari è una cifra alta e non volete pagarla finché non c’è giudizio), potete chiedere al giudice tributario una sospensione dell’esecuzione.
- Istanza di sospensione giudiziale: insieme (o dopo) al ricorso, è possibile presentare un’istanza al Presidente della sezione tributaria perché sospenda l’esecutività dell’atto impugnato (anche oltre quel terzo). I requisiti per ottenere la sospensione sono: fumus boni iuris (motivi del ricorso non pretestuosi, c’è parvenza di fondatezza) e periculum in mora (rischio di danno grave e irreparabile se si dovesse pagare subito). Un avvocato potrebbe ad esempio argomentare che il pagamento di quel terzo gli causerebbe difficoltà finanziarie tali da compromettere l’attività, ecc., e che il ricorso presenta seri profili di fondatezza (tipo: l’atto è palesemente decaduto, oppure richiede IRAP non dovuta, ecc.). La sospensiva viene decisa di solito entro un paio di mesi in una camera di consiglio ad hoc, e se concessa blocca la riscossione fino alla sentenza di merito. Se negata, quell’1/3 andrà presumibilmente pagato o arriverà a ruolo. In assenza di sospensiva, comunque, vale la regola summenzionata: l’agente della riscossione attenderà circa 9 mesi e poi potrà agire sul terzo.
- Svolgimento del processo di primo grado: una volta depositato il ricorso (e la costituzione del resistente ufficio con le controdeduzioni), la Corte Tributaria fissa l’udienza o la trattazione in camera di consiglio. Il processo tributario è in buona parte documentale e scritto. L’avvocato ricorrente può depositare documenti a corredo già con il ricorso o entro i termini pre-udienza (di solito fino a 20 giorni prima memorie integrative, 10 giorni prima memorie di replica). In udienza, se prevista, si discutono oralmente le ragioni (spesso per lotti di cause simili, ma in casi complessi si può chiedere discussione specifica). Al termine, i giudici emettono la sentenza, che viene poi depositata. I tempi medi variano: possono essere pochi mesi in alcune regioni, oltre un anno in altre.
- Sentenza di primo grado – effetti sulla riscossione:
- Se la sentenza accoglie in toto il ricorso (annulla l’atto), il contribuente non deve pagare nulla e ha diritto al rimborso di quanto eventualmente versato (es: quel terzo pagato in corso di causa) maggiorato di interessi.
- Se accoglie parzialmente (ridetermina ad esempio un imponibile minore), si dovrà pagare quanto stabilito in sentenza. In genere la commissione in tal caso compensa le spese legali o le divide. L’Ufficio ricalcolerà imposte e sanzioni secondo la decisione e iscriverà a ruolo l’importo (dedotto ciò che già incassato).
- Se respinge il ricorso (quindi conferma per intero l’accertamento), a questo punto cade la sospensione per i 2/3 residui: l’ufficio potrà riscuotere tutto il resto. Il contribuente potrà appellare, ma l’appello non sospende l’esecutività della sentenza di primo grado (bisogna eventualmente chiedere sospensione alla Corte di secondo grado, non facile). Quindi, in caso di soccombenza in primo grado, di solito bisogna pagare 2/3 delle imposte a questo punto (dato che 1/3 era già esigibile prima). Resterà sospesa solo la sanzione fino al giudizio definitivo (credo che la sanzione venga riscossa solo dopo sentenza definitiva, se non erro, a meno che l’appello non venga definito). Di fatto, dopo la CTR di primo grado, l’Ufficio invia a ruolo il residuo.
- Appello (secondo grado): la riforma del 2022 ha rinominato le Commissioni Regionali in Corti di Giustizia Tributaria di Secondo Grado. L’appello va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado (o 6 mesi dal deposito se non notificata, ma in genere se vince il contribuente l’Agenzia gliela notifica subito per far decorrere i 60 gg per eventuale ricorso suo). L’appello è un giudizio di merito pieno, ma con alcune novità – ad esempio, dal 2023 sono ammessi giudici monocratici per le liti sotto €3.000 (ora €5.000 dal 2023), e i nuovi giudici tributari dovrebbero essere professionalizzati. In appello si può richiedere di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado (come detto). Se l’appello riguarda solo sanzioni o aspetti secondari, spesso l’Ufficio o il contribuente pagano intanto il principale. Nel nostro contesto, se l’avvocato ha perso in primo, è probabile che debba pagare gran parte e discutere poi eventualmente il rimborso in caso di vittoria in appello.
- Ricorso per Cassazione: dopo la sentenza di secondo grado, la parte soccombente può ricorrere in Cassazione (entro 60 gg dalla notifica). La Cassazione giudica solo su motivi di diritto (violazioni di legge o vizi di motivazione entro certi limiti). Qui serve obbligatoriamente un avvocato iscritto in Cassazione. La pendenza di un ricorso in Cassazione non sospende l’esecutività della sentenza di secondo grado: quindi se il contribuente ha perso in appello, deve pagare tutto e poi sperare di riavere indietro se la Cassazione gli darà ragione. Il legislatore, con la “Tregua fiscale” del 2023, ha introdotto una misura di definizione agevolata dei giudizi di Cassazione pendenti: il contribuente che aveva una causa in Cassazione poteva chiuderla pagando il 5% del valore (se l’Agenzia soccombente nei gradi precedenti) o il 20% (se contribuente soccombente finora). Ma erano misure una tantum. In generale la Cassazione è lunga (anche 2-3 anni) e costosa, quindi si arriva solo per questioni di principio importanti o somme ingenti, oppure se c’è un chiaro errore di diritto della CTR.
- Costi del processo: Oltre al contributo unificato, la parte che vince può chiedere la rifusione delle spese legali. Nelle liti tributarie spesso le spese vengono compensate (ogni parte le sue) dal giudice, specie se la questione era controversa. Ma se il contribuente vince per palese errore del fisco, può ottenere la liquidazione delle spese a suo favore (raramente coprono tutto, spesso sono somme forfettarie). Anche l’Agenzia, se vince, di norma chiede spese, e i giudici qualche volta ne accordano una parte (ultimamente la tendenza è far pagare un po’ di spese ai ricorrenti temerari, per disincentivare ricorsi infondati). Tuttavia, per importi modesti, spesso le spese sono irrisorie. Un avvocato valuterà queste cose anche in termini di convenienza economica.
Opzione D – Inerzia (non fare nulla): Tecnicamente c’è anche l’opzione di non reagire affatto all’avviso, lasciando che decada il termine di 60 giorni senza né pagare né ricorrere. Questa scelta è fortemente sconsigliata, se non in scenari particolari (ad esempio se si è completamente insolvibili e si preferisce attendere la riscossione coattiva per poi magari fare un saldo e stralcio, ma è un approccio rischioso). Se il contribuente rimane inerte:
- L’avviso di accertamento diventa definitivo trascorsi i 60 giorni. Ciò significa che l’importo contestato è iscritto a ruolo per intero (non solo 1/3) e l’Agente della riscossione potrà avviare le procedure per riscuoterlo.
- Come visto sopra, l’Agente ha comunque dei tempi tecnici e legali: dopo i 60 giorni, l’Ufficio deve attendere 30 giorni prima di affidare il carico all’Agente. Poi l’Agente della Riscossione aspetta ulteriori 180 giorni prima di iniziare esecuzioni (salvo che il Fisco temi fuga dei beni, casi di urgenza). Quindi c’è uno stato di quiete di circa 8-9 mesi anche per l’inerte, passato il quale ci si può aspettare l’arrivo di una “cartella di pagamento” o di una “intimazione di pagamento” (oggi, con l’avviso esecutivo, spesso salta la cartella e arriva direttamente un intimazione a pagare entro 180 giorni).
- Se ancora non si paga, si può andare incontro a misure di riscossione forzata: fermo amministrativo dell’auto, ipoteca su immobili, pignoramenti su conti correnti o stipendio, ecc. I rischi per un professionista sono seri: un fermo auto, ad esempio, gli impedirebbe di esercitare agevolmente; un pignoramento del conto può bloccare la gestione dello studio. Inoltre, un debito fiscale iscritto a ruolo genera interessi di mora (circa il 2% annuo attualmente) e aggi di riscossione (circa il 3%~6% a seconda se si paga entro 60 gg dalla cartella o dopo). Insomma, costi aggiuntivi.
- L’unico vantaggio dell’inerzia potrebbe essere sfruttare eventuali future sanatorie o rottamazioni: in Italia spesso chi non paga subito poi beneficia di condoni. Ad esempio, cartelle esattoriali derivanti da avvisi non impugnati possono essere “rottamate” (pagando solo il capitale senza sanzioni né interessi) se rientrano in certi periodi; nel 2023 c’è stata la Rottamazione-quater per ruoli fino al 2017, chissà in futuro altre. Oppure, se si ha nulla da perdere (insolvibilità totale), uno può lasciar correre tanto non potrebbero recuperare nulla, attendendo magari la prescrizione (che per i tributi è decennale). Ma sono situazioni limite.
- Per completezza, se uno è rimasto inerte per i 60 giorni ma poi volesse rimediare, non c’è praticamente rimedio legale: l’atto è definitivo e non impugnabile. L’unica speranza è l’autotutela: il contribuente può sempre chiedere all’ufficio, anche dopo i termini, di annullare l’atto se riconosce errori evidenti. L’autotutela è discrezionale: l’Ufficio potrebbe accogliere se l’errore è lampante (es. doppia imposizione, scambio di persona), ma se era materia opinabile e il contribuente ha lasciato scadere i termini, difficilmente l’Agenzia rinuncerà alle somme ormai “consolidate”. C’è giurisprudenza (Cass. 30051/2024) che ha ritenuto legittimo anche l’annullamento in autotutela in malam partem (cioè a sfavore del contribuente) finché non scadono i termini di decadenza, ma qui parliamo di consolidato a favore del fisco, caso opposto.
In generale, ignorare l’avviso è l’errore peggiore: si perde la chance di difesa e si subiscono tutte le conseguenze, senza neanche aver ridotto sanzioni o altro. Pertanto, salvo casi eccezionali, entro i 60 giorni dall’avviso occorre scegliere una delle vie attive (pagare, negoziare o impugnare).
Riassumiamo le opzioni e le loro conseguenze in una tabella:
Come si evince, nella maggior parte dei casi il contribuente opterà per adesione o ricorso, a seconda della valutazione sul merito dell’accertamento. L’acquiescenza (pagare e basta) è più rara ma può avere senso in casi di importi piccoli o di totale mancanza di difesa. L’inerzia è praticamente da evitare.
Nelle prossime sezioni approfondiremo ulteriormente alcuni di questi scenari, in particolare fornendo consigli su come affrontare il procedimento di adesione e il contenzioso, e citeremo sentenze recenti che possono essere invocate a favore della difesa. Illustreremo anche un esempio pratico che simula il caso di un avvocato con un avviso di accertamento, per capire meglio l’applicazione concreta di queste opzioni.
Simulazione pratica: il caso dell’Avvocato Rossi
Per rendere più concreti i concetti esposti, presentiamo una breve simulazione pratica ispirata a un caso reale semplificato. Supponiamo che l’Avv. Mario Rossi, con studio individuale, riceva a luglio 2025 un avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2019. Ecco i dati essenziali del caso ipotetico:
- Scenario: L’Agenzia delle Entrate contesta all’avvocato Rossi di aver dichiarato nel 2019 un reddito imponibile troppo basso rispetto ai movimenti finanziari riscontrati. In particolare, a fronte di un reddito dichiarato di €30.000, l’ufficio ha rilevato versamenti sui conti correnti di Rossi per complessivi €80.000 non giustificati. Inoltre, emerge l’acquisto di un appartamento e un’auto nel 2019, ritenuti incompatibili col reddito dichiarato (profilo da redditometro). L’atto accertativo assume dunque che il reddito effettivo fosse maggiore.
- Contenuto dell’avviso: Maggior reddito professionale IRPEF accertato: €50.000 (in più rispetto ai 30.000 dichiarati, portando il reddito totale a 80.000). Su questo, IRPEF aggiuntiva (aliquota media ~38% calcolata dal Fisco) circa €19.000. Maggior IVA evasa su ricavi non fatturati: €11.000 (applicando 22% su una parte imponibile di ~50.000 euro di compensi non documentati). Totale imposte accertate: €30.000. Sanzione per infedele dichiarazione IRPEF: 90% di €19.000 = €17.100. Sanzione infedele dichiarazione IVA: 90% di €11.000 = €9.900. Totale sanzioni: €27.000. Interessi sul dovuto dal 2020 al 2025: €2.500 circa. Totale complessivo richiesto: €59.500 circa.
Nel dettaglio, la motivazione dell’avviso spiega che:
- Sono stati analizzati i conti bancari dell’avv. Rossi (art. 32 DPR 600/73) da cui risultano numerosi versamenti per i quali Rossi non ha fornito giustificazione, presumendosi quindi che siano compensi non dichiarati. Ad esempio un bonifico di €10.000 da Tizio e uno di €5.000 da Caio, ecc., fino a €80.000.
- Rossi, invitato a fornire chiarimenti con questionario (che lui però non ha risposto compiutamente), ha solo giustificato €30.000 come provenienti da risparmi pregressi e un aiuto familiare. L’Ufficio ha ritenuto non documentate le restanti somme per €50.000 che vengono imputate a ricavi professionali 2019 non dichiarati.
- Inoltre, viene evidenziato che nel 2019 Rossi ha acquistato un appartamento da €150.000 e un’auto nuova da €25.000, operazioni che secondo il redditometro denoterebbero una capacità contributiva non coerente con €30.000 di reddito annuale. Pur non quantificando un maggior reddito sintetico a parte, l’Ufficio cita questo dato a supporto della fondatezza dell’accertamento.
- In assenza di controprove, dunque, l’avviso ridetermina il reddito di Rossi in €80.000, con IRPEF dovuta di circa €30.000 (anziché €11.000 pagati) e IVA evasa su compensi non fatturati di €11.000. Sanzioni al minimo (90%) sia su IRPEF che IVA.
- Si invita Rossi a pagare entro 60 giorni beneficiando della riduzione delle sanzioni a 1/3 in caso di acquiescenza, oppure a presentare istanza di adesione per evitare il giudizio.
Ora, l’Avv. Rossi deve decidere come muoversi. Analizziamo le sue possibili azioni alla luce di quanto spiegato:
Verifiche iniziali: Rossi controlla la data dell’atto e l’anno. L’accertamento 2019 dev’essere notificato entro il 31/12/2024 (5° anno) – qui siamo a luglio 2025, quindi sembra tardivo! Rossi se ne accorge e, approfondendo, nota che in effetti il termine era 31/12/2024: l’atto è stato spedito il 15/07/2025. Non c’erano sospensioni Covid applicabili al 2019 (la normativa emergenziale non ha prorogato i termini per annualità dal 2019 in poi). Dunque l’avviso appare emesso fuori termine. Questo è un punto di difesa fortissimo: la decadenza. Rossi quindi sa che, se fa ricorso, potrà chiedere l’annullamento totale perché il potere accertativo era decaduto.
Verifica anche la firma: nota che è firmato dal “Capo team accertamento Dr. Bianchi su delega del Direttore provinciale prot. 1234”. La firma è digitale (PEC). Non ravvisa vizi evidenti, ma potrebbe successivamente, nel ricorso, chiedere di vedere la delega (un asso nella manica in più). La motivazione è dettagliata e allega estratti conto bancari e prospetti spese.
A questo punto Rossi valuta le opzioni:
- Adesione? Potrebbe depositare istanza di adesione e andare a discutere. Tuttavia, se l’avviso è decaduto, l’ufficio non potrebbe comunque sanare questo vizio in adesione: la decadenza è termine perentorio per loro, non negoziabile. In adesione, l’ufficio non può far rivivere un potere scaduto. Quindi Rossi ha la vittoria in tasca su questo fronte davanti a un giudice, ma teme che magari l’ufficio in fase di adesione neghi la decadenza (magari sostenendo che c’era una proroga, anche se infondata) e gli offra solo un taglio sul merito. Non conviene.
- Acquiescenza? No di certo: pagare quasi 60 mila euro quando c’è un vizio fatale non ha senso.
- Ricorso? Sì, appare l’opzione migliore: Rossi, da avvocato, intravede la possibilità di far annullare l’intero atto in giudizio per decorso termini. Inoltre, anche sul merito, sa di poter giustificare una parte dei versamenti (ad esempio €10.000 provenivano dalla vendita di un titolo in Borsa, tassato alla fonte, cosa che allegherà) e contestare l’uso generico del redditometro (dirà: ho usato risparmi per l’auto e mutuo per la casa, non redditi 2019). Ma quasi non servirà, perché punterà prima di tutto sul difetto di tempestività.
Rossi quindi, entro 60 giorni, prepara ricorso alla Corte Tributaria competente. Nei motivi, in primis eccepisce la decadenza dell’azione accertativa (art. 43 DPR 600/73, atti 2019 notificati oltre 5 anni) e chiede l’annullamento totale. In subordine, argomenta che comunque l’accertamento è infondato: molti versamenti contestati erano trasferimenti da conto cointestato con la moglie (quindi non compensi, ma mera movimentazione interna), uno era un prestito restituito, etc., allegando documenti bancari a supporto; inoltre evidenzia che la macchina è stata acquistata con un leasing (quindi non evidenza di reddito disponibile immediato) e la casa con un mutuo (redditometro meno significativo). Porta anche due massime di Cassazione: una che dice che i prelievi non contano per autonomi (per smontare eventuale confusione dell’ufficio sui movimenti), e una sul redditometro (per ricordare che i beni indice danno solo presunzioni relative confutabili). Chiede infine la sospensione dell’atto, motivando che pagare ~60k gli creerebbe gravi problemi economici, e sottolineando che il ricorso ha fumus evidente data la decadenza.
L’Agenzia molto probabilmente, vedendo il ricorso, rinuncerà a difendere l’atto sulla decadenza (magari prima dell’udienza annulleranno in autotutela per evitare una sconfitta in giudizio). Se non lo fa, il giudice con ogni probabilità annullerà per il vizio del termine, senza neppure addentrarsi nel merito (economia processuale). Rossi otterrà così ragione e non dovrà pagare nulla. Sarà una vittoria netta.
Esito: Avvocato Rossi 1 – Fisco 0. Inoltre, Rossi potrebbe chiedere le spese: data la situazione, il giudice potrebbe condannare l’Ufficio a rifondere, poniamo, €2.000 di spese legali.
Variante: se invece l’avviso fosse stato nei termini (diciamo notificato a ottobre 2024), la situazione per Rossi si complicava. Avrebbe dovuto combattere sul merito in giudizio oppure cercare un accordo: ad esempio, in adesione avrebbe potuto far riconoscere come non tassabili €30k di quei versamenti e concordare un imponibile aggiuntivo di €20k (invece di 50k). L’ufficio avrebbe magari offerto sanzioni ridotte 1/3 e fine. Rossi avrebbe pagato qualche migliaio di euro ma senza contenzioso. Oppure in giudizio avrebbe rischiato: magari i giudici gli avrebbero dato ragione su alcune voci ma non su tutte, con risultato di una riduzione parziale (ad es. imponibile 30k non dichiarato). In quel caso, l’adesione conveniva per chiudere con minor danno. Questo per dire che ogni caso concreto va valutato: nel nostro scenario originale, un vizio formale macroscopico spinge al ricorso immediato; in altri, l’adesione può essere preferibile per spuntare un compromesso vantaggioso.
Insegnamenti dalla simulazione:
- Controllare sempre i termini di decadenza: è la prima linea di difesa e può far cadere l’accertamento senza neanche discutere del merito.
- Mantenere documentazione di ogni flusso finanziario: l’Avv. Rossi, se avesse conservato prove chiare, avrebbe potuto evitare l’accertamento o facilmente vincerlo sul merito. Purtroppo molti professionisti non annotano i movimenti non reddituali e poi a posteriori è arduo ricostruire. La regola d’oro è: per ogni bonifico in entrata che non sia fattura, conservare giustificativo (causale, scrittura privata per prestiti, etc.), perché l’onere della prova spetterà a voi.
- Valutare costi/benefici di adesione vs ricorso: nel caso di Rossi reale (senza decadenza), magari 20k di redditi non dichiarati c’erano davvero; un accordo per pagare il giusto su 20k invece che su 50k, con sanzioni ridotte, poteva essere la soluzione più razionale. Il contenzioso si riserva a quando si hanno solide basi normative o probatorie per vincere, o quando le somme in gioco e i principi sono tali da giustificare la battaglia legale.
- La sospensione in giudizio può evitare il pagamento provvisorio: nel nostro caso Rossi l’avrebbe chiesta e con un vizio evidente come la decadenza gliel’avrebbero concessa di sicuro, evitando che pagasse 1/3.
- La riforma 2023 del contenzioso, con la scomparsa della mediazione, semplifica un po’ le cose: in passato per liti sotto 50k Rossi avrebbe dovuto proporre reclamo-mediazione obbligatoria, attendere 90 gg, etc. Dal 2024 questo passaggio è abolito, quindi ha potuto ricorrere subito. Quindi, nel 2025, un avvocato con accertamento minore non deve più fare quell’atto formale di reclamo, risparmiando tempo.
Con la simulazione abbiamo visto come applicare i concetti a un caso concreto. Passiamo ora a una sezione finale di Domande e Risposte, che consolida molte delle questioni pratiche che possono sorgere in queste situazioni, fornendo risposte puntuali e riferimenti rapidi.
Domande frequenti (FAQ) su avviso di accertamento e tutela del contribuente
D: Quanto tempo ho per presentare ricorso contro un avviso di accertamento?
R: Il termine ordinario è 60 giorni dalla data in cui l’atto è stato notificato (non dalla data che porta sull’atto). Se il 60° giorno cade di sabato, domenica o festivo, slitta al primo giorno lavorativo successivo. Attenzione: dal 1° agosto al 31 agosto i termini processuali sono sospesi (ferie tribunali), quindi un termine che cade in agosto si estende a settembre. Inoltre, se presenti istanza di accertamento con adesione entro 60 giorni, il termine per il ricorso si sospende per 90 giorni e poi riprende. (Nota: fino al 2023, per le liti fino a 50.000 € c’era anche la sospensione per reclamo-mediazione di 90 gg, ma dal 2024 la mediazione tributaria è stata abrogata). In pratica, hai sempre almeno 60 giorni utili, estensibili chiedendo l’adesione. Se non rispetti questi termini, il ricorso sarà tardivo e inammissibile.
D: Posso ottenere una proroga del termine di 60 giorni?
R: Direttamente no, non esiste una proroga concessa dall’ufficio. L’unico modo per “estendere” il termine è, come detto, presentare un’istanza di adesione che ti dà automaticamente +90 giorni di sospensione. Ciò viene spesso usato proprio per avere più tempo di preparare la difesa o reperire fondi. Attenzione però: se presenti l’adesione l’ultimo giorno utile, i 90 giorni partono da lì. Se decidi di non accordarti, dovrai comunque ricordarti di presentare poi il ricorso allo scadere di quei 90 gg. Non c’è altra proroga, a meno di eventi eccezionali (es. cause di forza maggiore riconosciute, come calamità con sospensione termini disposta per legge).
D: L’avviso di accertamento che ho ricevuto riguarda IRPEF, IVA e IRAP insieme: devo fare ricorsi separati?
R: No, se le contestazioni sono contenute in un unico atto, farai un ricorso unico impugnando quell’atto, anche se riguarda più tributi. Sarà il giudice a trattarli congiuntamente. Pagherai un unico contributo unificato commisurato al valore più alto in contestazione (tipicamente la somma delle imposte). Solo se fossero atti separati (es. un avviso IRPEF e una cartella IVA) dovresti fare ricorsi separati, ma se è un avviso unitario (IRPEF-IVA-IRAP) è un atto unico.
D: Ho ricevuto una “comunicazione di irregolarità” per una differenza IRPEF e un “avviso di accertamento” per un’altra questione IVA: qual è la differenza e come comportarmi?
R: La comunicazione di irregolarità (avviso bonario) non è un provvedimento impugnabile: è un invito a sistemare spontaneamente un errore formale o liquidatorio (tipo un calcolo sbagliato in dichiarazione). Se riconosci l’errore, pagando entro 30 giorni ottieni sanzioni ridotte al 10%. Se non paghi o contesti, dopo arriverà una cartella. Non c’è contraddittorio con giudici su quell’avviso bonario (puoi solo segnalare all’Agenzia eventuali dati corretti). L’avviso di accertamento invece è un atto impositivo vero e proprio, come visto, impugnabile entro 60 gg. Spesso l’avviso bonario precede l’accertamento su questioni “minori” (es: liquidazione automatica). In sintesi: avviso bonario → paga e chiudi con mini-sanzione o segnala l’errore se non dovuto; avviso accertamento → valuta se pagare con 1/3 sanzioni o ricorrere/aderire, come spiegato. Sono due procedure differenti.
D: Se faccio ricorso, devo versare qualcosa immediatamente?
R: Come regola generale, presentare ricorso non sospende l’obbligo di pagamento. Però, per legge, in pendenza di primo grado, l’Agenzia delle Entrate riscuote solo un terzo delle imposte accertate (oltre interessi). Dunque potresti ricevere richiesta di pagamento per circa 1/3 dell’importo. Non devi invece pagare nell’immediato gli altri 2/3 né le sanzioni (quelle restano in stand-by fino all’esito). Puoi anche chiedere al giudice tributario una sospensione totale dell’atto, dimostrando un grave danno da quel pagamento. Se te la concedono, non pagherai nulla finché non esce la sentenza di primo grado. Se non chiedi o non ottieni la sospensione, preparati a pagare almeno quel terzo entro alcuni mesi (indicativamente 9 mesi dopo notifica, come spiegato) per evitare azioni esecutive.
D: Posso evitare che l’Agenzia Entrate Riscossione mi blocchi il conto o l’auto se sto facendo causa?
R: Sì, presentando il ricorso ed eventualmente ottenendo la sospensione giudiziale, come detto sopra. In genere l’Agenzia delle Entrate Riscossione, quando c’è un ricorso pendente, attende la fine del primo grado per procedere oltre il terzo. Tuttavia potrebbe iscrivere ipoteca a garanzia su immobili o fermo amministrativo su veicoli anche durante la pendenza, se il debito supera certe soglie (€20.000 per ipoteca, €5.000 per fermo) e non è sospeso. Per evitare ciò, la strada è sempre l’istanza di sospensione al giudice – se viene concessa, sospende non solo il pagamento ma anche le misure cautelari (il provvedimento di sospensione deve essere rispettato dall’ADER). Inoltre, dopo la riforma 2022, il contribuente può chiedere alla Corte anche la sospensione dell’esecutività della sentenza in appello (cosa prima non prevista chiaramente). Quindi ci sono strumenti, ma vanno attivati.
D: L’avviso mi è arrivato via PEC: è valido così? Cosa devo conservare?
R: La notifica via PEC (posta elettronica certificata) è assolutamente valida per gli atti tributari. Devi conservare sia il messaggio PEC con le relative ricevute (accettazione e consegna) sia l’atto allegato (in PDF/P7M). Ti consigliamo di stampare l’atto e le ricevute e conservarle, oppure archiviare digitalmente in luogo sicuro. In caso di ricorso, dovrai produrre l’attestazione di conformità della copia analogica se depositi cartaceo, ma ormai col processo telematico puoi depositare direttamente il file originale .p7m come prova di notifica. La PEC rende più rapida la notifica: occhio alla casella PEC, perché i 60 giorni decorrono dalla consegna lì (non dal momento in cui leggi). Se la PEC non viene ricevuta (casella piena o malfunzionante), l’Ufficio esegue una notifica per deposito su sito internet e anche questo è considerato valido (doppia notifica).
D: Ho dimenticato di indicare alcuni motivi nel ricorso: posso aggiungerli dopo?
R: Nel processo tributario, non sono ammessi motivi nuovi in appello che amplino il thema decidendum rispetto al ricorso introduttivo (principio devolutivo limitato ai motivi originari, salvo eccezioni di jus superveniens o rilevabilità ufficio). Quindi è fondamentale inserire tutti i motivi di contestazione sin dal ricorso introduttivo. Puoi semmai svilupparli meglio nelle memorie successive, ma non introdurne di completamente nuovi (es: non puoi in appello aggiungere la doglianza sulla delega di firma se in primo grado non ne hai parlato e la circostanza era conosciuta). Fanno eccezione i motivi derivanti da fatti sopravvenuti (ad esempio un giudizio della Corte Costituzionale arrivato dopo). Quindi, cura il ricorso iniziale con molta attenzione, includendo tutti i vizi formali e sostanziali che hai rilevato. In caso di dubbio, meglio abbondare.
D: L’Agenzia può emettere un nuovo accertamento per lo stesso anno mentre ho già un ricorso pendente?
R: In teoria no, per lo stesso anno e stesso tributo l’Ufficio non può emettere un secondo avviso “gemello” sugli stessi elementi. Potrebbe farlo solo se emergessero nuovi elementi non conosciuti prima (accertamento integrativo). Ma i nuovi elementi devono essere davvero tali e l’Agenzia dovrebbe anche attendere l’esito del primo, generalmente. In ogni caso, se lo facesse, probabilmente i due atti verrebbero riuniti in giudizio. Diverso è se parliamo di tributi diversi: esempio, potresti avere un accertamento IRPEF in contenzioso e separatamente ricevere un avviso IMU dal Comune per lo stesso immobile – quello è altro tributo, altro ente. Ma due accertamenti IRPEF per il 2019 sul medesimo reddito no, non si può duplicare il procedimento (sarebbe violazione del ne bis in idem amministrativo). Tieni anche presente che se in adesione non concludi e vai in causa, l’Ufficio potrebbe, prima della sentenza, emettere un “accertamento integrativo” se ti ha concesso uno sgravio in adesione come proposta ma poi non firmata – pratica rarissima e controversa. Diciamo che nella stragrande maggioranza dei casi, hai un avviso per anno per imposta, e quello resta.
D: Se perdo il ricorso in primo grado, devo pagare tutto subito?
R: Dopo la sentenza di primo grado, se sfavorevole in tutto o in parte, l’Agenzia può esigere il dovuto. La regola tecnica è: dopo la sentenza di CTR primo grado, è dovuto il residuo 2/3 delle imposte ancora eventualmente sospeso più gli interessi e le sanzioni ridotte al 50%. Dopo la sentenza d’appello, è dovuto tutto il restante (sanzioni piene). In pratica:
- se perdi in primo grado totalmente, ti chiederanno di pagare il resto delle imposte (perché 1/3 l’avevi già potuto riscuotere l’AdE, ora aggiunge i 2/3) e il 50% delle sanzioni credo (perché in genere dopo primo grado diventano esigibili le sanzioni in misura ridotta del 50%). Se appelli, per non versare anche il resto dovresti chiedere sospensiva in appello (non facile da ottenere a questo punto, a meno che la sentenza di primo grado abbia evidenti errori).
- se perdi in appello, praticamente devi pagare tutto (quello che ancora non avevi pagato, incluso il restante 50% sanzioni). Il ricorso in Cassazione non sospende nulla normalmente.
Ricorda che eventuali definizioni agevolate possono intervenire: ad esempio, nel 2023 il legislatore ha permesso di definire le liti pendenti in Cassazione pagando il 5% o 20% a seconda dei casi, e di definire le liti di primo e secondo grado con conciliazioni agevolate (sanzioni ridotte a 1/18) entro giugno 2023. Se perdi e hai da pagare, tieni d’occhio se escono norme di “pace fiscale”: potrebbero consentirti di chiudere con sconti ulteriori (in passato è avvenuto). Ma non c’è garanzia politica ovviamente.
D: Il mio avviso di accertamento si basa su una legge che secondo me è incostituzionale: cosa posso fare?
R: In sede di ricorso puoi eccepire l’illegittimità costituzionale di una norma e chiedere alla Corte Tributaria di sollevare la questione davanti alla Consulta. Ad esempio, in passato avvocati hanno contestato la norma che equiparava i prelievi ai ricavi, e alcune Commissioni sollevarono la questione, portando alla storica sentenza della Corte Cost. 228/2014 che ha dichiarato incostituzionale quella presunzione per i professionisti. Quindi sì, puoi sollevare la questione. La Commissione valuterà la rilevanza e non manifesta infondatezza; se la ritiene meritevole, sospenderà la causa e invierà gli atti alla Corte Costituzionale. È un percorso lungo e incerto: prima tenta strade interpretative conformi. Solo se non c’è modo di “salvare” la norma se ne investe la Consulta. Esempio: oggi come oggi non vi sono palesi incostituzionalità segnalate nel sistema accertativo (quella dei prelievi è stata risolta). Forse si discute sul redditometro, sul contraddittorio obbligatorio anche per IRPEF (la dottrina vorrebbe obbligatorio per tutti i tributi – ma la Consulta nel 2017 ha evitato di dichiararlo necessario universalmente). Puoi comunque porre la questione, male non fa se argomentata, e chissà.
D: L’accertamento fiscale può avere conseguenze penali per evasione fiscale?
R: L’avviso di per sé è un atto amministrativo, ma se riguarda importi elevati potrebbe segnalare un’evasione rilevante che integra reato. In Italia scatta il reato di dichiarazione infedele se l’imposta evasa supera €100.000 (IRPEF o IVA separatamente) e l’omessa dichiarazione se non hai presentato proprio la dichiarazione ed evadevi più di €50.000 di imposta. Anche l’utilizzo di fatture false è reato oltre soglie di €1000. Quindi, se il tuo accertamento contesta, ad esempio, €200.000 di IVA evasa, è molto probabile che l’Agenzia delle Entrate abbia già inviato una notizia di reato alla Procura della Repubblica (lo fanno obbligatoriamente se vedono i parametri penali). Ciò significa che in parallelo al procedimento tributario potresti essere indagato penalmente. Gli esiti dei due procedimenti sono indipendenti ma comunicanti: spesso il processo penale resta sospeso in attesa di quello tributario, o viceversa. Se ti trovi in questa situazione, è fondamentale coordinare la difesa tributaria con quella penale. Nota che pagare il dovuto prima del dibattimento penale (o adesione) può estinguere taluni reati tributari o attenuarne le pene, secondo il D.Lgs. 74/2000 (riformato nel 2019). Ad esempio, la dichiarazione infedele (art. 4) se paghi tutto il debito prima del giudizio penale ti evita la pena. Quindi, a volte, anche se contesti in tribunale, potresti decidere di definire o pagare per risolvere il penale. La soglia di punibilità penal-tributaria, ripeto, è alta: un singolo avvocato difficilmente evade oltre 100k € di imposte in un anno, ma se hai più anni accumulati o casi di IVA non versata importante, attento. In generale, se nell’avviso c’è scritto “si procede a denuncia ex art 331 c.p.p.” o simili, vuol dire che hanno ravvisato reato. Non ignorarlo: consulta un penalista.
D: Posso chiedere la rateizzazione dopo che l’avviso è diventato cartella esattoriale?
R: Sì. Se non hai definito prima e ormai il debito è passato all’Agente della Riscossione (Ader, ex Equitalia) come cartella o intimazione, puoi chiedere a lui la rateizzazione secondo le regole ordinarie: fino a €120.000 di debito, 72 rate mensili concedibili con semplice richiesta (6 anni); oltre €120k devi dimostrare temporanea difficoltà, e possono darti fino a 10 anni (120 rate mensili). Nel 2023 la soglia è stata alzata a €120k per piani ordinari (prima era 60k). Quindi sì, anche se non hai fatto in tempo prima, con l’agente riscossione puoi rateizzare e blocchi azioni esecutive purché rispetti i pagamenti. Chiaramente a quel punto paghi anche le sanzioni intere e gli aggi di riscossione. Meglio sarebbe stato definire prima con sanzioni ridotte. Ma se non l’hai fatto, questa è la via per gestire il debito.
D: Cosa significa “definizione agevolata degli avvisi di accertamento” di cui ho sentito parlare nella legge di bilancio 2023?
R: È stata una misura straordinaria (detta anche “pace fiscale” o “tregua fiscale”) prevista dalla Legge n. 197/2022 (Bilancio 2023), commi 179-185. In sostanza, permetteva di definire gli avvisi di accertamento (non ancora impugnati e ancora impugnabili al 1/1/2023, o notificati entro il 31/3/2023) con il pagamento integrale delle imposte dovute e degli interessi, ma con sanzioni ridotte a 1/18 (circa il 5.5%) del minimo. Un super sconto sulle sanzioni, molto più conveniente di quel 1/3 ordinario. Era riservata a chi non avesse già fatto ricorso e volesse chiudere subito. Ad esempio, per un avviso con imposta €10.000 e sanzione minima €9.000, si poteva definire pagando €10.000 + interessi + €500 (che è 1/18 di 9.000). Un affare. Questa definizione agevolata andava perfezionata pagando (o prima rata) entro il 31/3/2023, poi prorogata al 30/9/2023. Quindi oggi (agosto 2025) non è più disponibile. Ma sappi che nel 2023 c’era questa opportunità. In futuro, mai dire mai: se lo Stato avrà bisogno di fare cassa, potrebbe riaprire misure analoghe. Ma sono eccezioni legislative: in generale, la regola resta 1/3 sanzioni con acquiescenza/adesione. La definizione agevolata 2023 era un unicum con 1/18 sanzioni, nata insieme ad altre: “rottamazione-quater” delle cartelle, conciliazione agevolata in giudizio, etc. Va seguita la legge di Bilancio ogni anno per vedere se offrono nuove definizioni.
D: L’Agenzia può annullare in autotutela un avviso di accertamento se scopre di aver sbagliato?
R: Sì, l’autotutela è il potere/dovere della PA di correggere i propri atti quando sono palesemente illegittimi o errati. Un contribuente può presentare istanza di autotutela in qualsiasi momento, esponendo gli errori e chiedendo l’annullamento (totale o parziale) dell’avviso. L’Ufficio valuterà: se riconosce un errore evidente, può emettere provvedimento di annullamento. Spesso succede per errori di persona (accertato il Mario Rossi sbagliato), duplicazioni, errore di calcolo macroscopico. Se invece la questione è dubbia o di interpretazione, difficilmente annullano: rinviano la decisione al giudice. Da notare: l’autotutela non sospende i termini di ricorso. Quindi se presenti istanza di autotutela, comunque per sicurezza presenta anche ricorso nei 60 giorni, perché se l’ufficio non accoglie (o non risponde in tempo), perdi il diritto se non hai impugnato. Unica eccezione: se l’ufficio annulla integralmente l’atto prima della scadenza del ricorso, allora non serve più ricorrere. Ma non contare su quello. In sintesi, provaci pure con l’autotutela se c’è un punto a tuo favore (magari allegando giurisprudenza forte), ma non fare affidamento: prepara comunque la difesa formale.
D: Mi hanno notificato sia un avviso di accertamento sia un provvedimento di irrogazione sanzioni a parte: devo impugnare entrambi?
R: Sì, a volte succede: l’Agenzia emette l’accertamento per le imposte e, separatamente, un atto con sole sanzioni (perché magari sono sanzioni per violazioni non collegate al tributo accertato, o c’è stata acquiescenza sul tributo ma non sulle sanzioni). In tal caso, quegli atti sono entrambi impugnabili e di solito vanno contestati insieme (puoi farlo con un ricorso unico se c’è connessione, chiedendo la riunione). Se ti notificano l’atto di soli irrogazione sanzioni, spesso è perché prima hai definito le imposte ma non le sanzioni. Anche quell’atto ha 60 giorni per il ricorso. In generale, ogni atto impositivo o sanzionatorio autonomo segue le sue regole. Nella nostra trattazione ci siamo focalizzati sull’avviso “unico” comprensivo di sanzioni.
D: In sede di adesione, l’ufficio mi ha trattato male o non ha voluto ascoltare le mie ragioni. Posso fare qualcosa?
R: Purtroppo l’adesione è un procedimento amministrativo “negoziale” e l’ufficio non è obbligato a concludere un accordo. Se il funzionario è stato scortese o chiuso al dialogo, non c’è un vero rimedio giuridico (se non eventualmente fare un esposto sul comportamento scorretto, ma sul piano pratico serve a poco). L’unica arma che hai è il contenzioso: in giudizio potrai far valere quelle ragioni che non hanno voluto ascoltare. Il comportamento dell’ufficio in adesione non influenza il giudice (che valuta ex novo). Quindi se l’adesione non porta frutto, conservalo come tentativo ma poi prepara un bel ricorso dove farai valere tutto. Ricorda che l’adesione sospende i termini di ricorso, quindi quell’esperienza non è stata vana – hai preso tempo. Certo, spiace quando dall’altra parte non c’è apertura: a volte conviene in adesione farsi assistere da un professionista esperto, che magari riesce a farsi ascoltare meglio e a trovare un compromesso dove il contribuente da solo non riesce.
D: Cos’è la conciliazione giudiziale e in cosa differisce dall’adesione?
R: La conciliazione giudiziale è la possibilità di accordarsi con l’ufficio anche dopo aver fatto ricorso, davanti al giudice (art. 48 D.Lgs. 546/92). Può avvenire in primo grado (con sanzioni ridotte al 40%) o in appello (sanzioni al 50%). In pratica, anche se non hai aderito prima, puoi sempre in udienza dire: “troviamo un accordo, riconosco tot, l’ufficio riduce sanzioni a 40% ecc.”. Se si concilia, il giudice ratifica con decreto/sentenza la conciliazione. Nel 2023 c’era la conciliazione agevolata speciale con sanzioni 1/18 per le cause pendenti, ma era una tantum. Normalmente, i vantaggi sono minori rispetto all’adesione (40% invece di 33% di sanzioni), però a volte la conciliazione avviene quando emergono nuovi elementi in giudizio e conviene chiudere. Ad esempio: porti una prova in ricorso, l’ufficio comprende che perderà e ti offre di conciliare con sanzione ridotta a 40% per evitare la soccombenza. Tu accetti magari perché hai comunque un rischio o vuoi evitare l’incertezza e allungare. Quindi la conciliazione è un’ulteriore chance di chiudere la lite in corso di causa. Per l’avvocato contribuente, se non sei riuscito a fare adesione prima, nulla vieta di fare pace dopo. Ovviamente, come l’adesione, è volontaria e bilaterale: serve accordo su cifra. Se la causa è già in fase avanzata, dipende dalla volontà delle parti.
Con queste FAQ speriamo di aver chiarito i dubbi più comuni. In conclusione, affrontare un avviso di accertamento richiede freddezza, analisi accurata e una strategia ben ponderata. Dal punto di vista del contribuente (debitore), è fondamentale conoscere i propri diritti (termini, contraddittorio, prove ammissibili) e sfruttare gli strumenti offerti dall’ordinamento (adesione, reclamo – finché c’era, ricorso, ecc.). Le norme tributarie e le sentenze evolvono: un avvocato alle prese con il Fisco deve aggiornarsi costantemente. Abbiamo visto come recenti sentenze della Cassazione possano offrire spunti difensivi (es. sui versamenti bancari, sul redditometro, sulla delega di firma, sull’IRAP).
L’augurio è naturalmente di non dover mai arrivare al contenzioso, grazie a una corretta gestione fiscale preventiva. Ma se accade, questa guida fornisce un quadro avanzato per muoversi con consapevolezza.
Fonti e riferimenti normativi (aggiornati a luglio 2025)
- D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi (in particolare art. 32 poteri degli uffici e indagini finanziarie; art. 38 accertamento sintetico; art. 39 metodi di accertamento; art. 42 forma dell’avviso di accertamento e obbligo di sottoscrizione; art. 43 termini per l’accertamento).
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – IVA (art. 51 poteri di controllo, simile ad art. 32 cit.).
- D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 – Sanzioni tributarie (art. 1 omissione dichiarazione; art. 5 infedele dichiarazione).
- D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 – Accertamento con adesione e conciliazione (disciplina completa dell’adesione e degli effetti sui termini e sanzioni).
- L. 27 luglio 2000, n. 212 – Statuto del Contribuente (art. 6 motivazione per relationem e obbligo di allegazione atti; art. 7 diritto al contraddittorio e 60 giorni dopo PVC; art. 10 istituti deflattivi come adesione sospendono termini; art. 12 diritti del verificato in ispezioni).
- D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – Processo Tributario (artt. 2-16 giurisdizione e competenza; art. 17-bis [abrogato dal 2024] reclamo-mediazione; art. 18 contenuto ricorso; art. 22 contributo unificato; art. 45-48 conciliazione; art. 47 sospensione; art. 49 esecutorietà delle sentenze).
- D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 29 convertito L. 111/2011 – Accertamento esecutivo (ha inserito nel DPR 600/73 art. 29 l’intimazione a pagare entro 60 gg e la riscossione senza cartella).
- Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022), commi 179-185 – Definizione agevolata degli atti del procedimento di accertamento (sanzioni 1/18).
- Decreto Lgs. 30 marzo 2023, n. 39 (riforma giustizia tributaria, attuativo L.130/2022) – Ha abolito il reclamo-mediazione dal 2024, introdotto il giudice monocratico fino a €5.000, e altre modifiche processuali.
- Cass., Sez. Un., 18/12/2015 n. 24823 – Contraddittorio: non obbligatorio per tributi non armonizzati se non previsto da legge (principio richiamato in ).
- Cass., Sez. Un., 10/05/2016 n. 9451 – IRAP professionisti: criteri autonoma organizzazione (responsabilità propria, beni eccedenti minimo, personale non occasionale).
- Cass., Sez. VI, 24/07/2017 n. 18801 – Versamenti bancari non giustificati = presunzione legale di compensi evasi per autonomi.
- Cass., Sez. V, 05/10/2018 n. 228/5/2018 – (Sezioni Unite) Vizi delega firma: sufficiente qualifica senza nome specifico, ma onere prova delega in giudizio se contestata.
- Corte Costituzionale, 6/10/2014 n. 228 – Illegittimità presunzione su prelievi per lavoratori autonomi (dichiarati incostituzionali “o compensi” in art. 32 c.1 n.2 DPR 600/73).
- Cass., ord. 18/09/2024 n. 25043 – Indagini finanziarie: onere analitico del contribuente di provare riferibilità delle movimentazioni a ricavi dichiarati o estraneità, altrimenti legittimo considerarle ricavi evasi.
- Cass., ord. 15/11/2023 n. 31844 – Redditometro: conferma presunzione legale relativa collegata ai beni-indice e onere contribuente di provare fonte non reddituale delle spese.
- Cass., ord. 27/03/2025 n. 8009 – Delega di firma: ribadisce nullità avviso se non firmato da dirigente o delegato; onere ufficio provare delega su contestazione (v. caso in ).
- Cass., ord. 21/10/2024 n. 27261 – IRAP: professionista inserito in organizzazione altrui non è soggetto a IRAP; autonoma organizzazione richiede che la struttura faccia capo al professionista stesso.
- Cass., ord. 04/11/2024 n. 28321 – Redditometro (anni pre-2010): descrive funzionamento presunzione e contraddittorio non obbligatorio per IRPEF, ribadisce valore presuntivo beni indice.
- Circ. Agenzia Entrate n. 25/E del 19/06/2012 – Chiarimenti su cumulo termini adesione e definizione sanzioni (conferma aggiunta 90 gg).
- Circ. Agenzia Entrate n. 2/E del 27/01/2023 – Chiarimenti “tregua fiscale” 2023, incl. definizione atti del procedimento di accertamento (sanzioni 1/18).
- MEF, Comunicato stampa 22/01/2024 – Applicazione abrogazione reclamo-mediazione dal 4/1/24 (ricorsi fino 3/1/24 con vecchie regole, dopo no).
Hai ricevuto un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate per la tua attività di avvocato? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate per la tua attività di avvocato?
Ti contestano compensi non dichiarati, IVA non versata o spese ritenute non deducibili?
Gli studi legali sono frequentemente oggetto di controlli fiscali, con verifiche incrociate su fatture elettroniche, movimenti bancari e dichiarazioni dei redditi. L’Agenzia delle Entrate può basarsi anche su presunzioni relative agli incassi medi di settore o all’analisi dei rapporti con i clienti. Un accertamento di questo tipo può comportare imposte, sanzioni e interessi rilevanti, ma è possibile difendersi dimostrando la correttezza della propria contabilità o contestando gli errori dell’Ufficio.
🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo
📂 Analizza l’avviso di accertamento e la documentazione contabile e fiscale dello studio legale
📌 Individua eventuali vizi di forma, errori nei calcoli o presunzioni infondate
✍️ Predispone ricorsi e memorie difensive per ridurre o annullare le somme richieste
⚖️ Ti assiste nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e nelle trattative per definizioni agevolate o piani di pagamento
🔁 Valuta soluzioni di rateizzazione o procedure di sovraindebitamento in caso di importi elevati
🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e difesa di liberi professionisti
✔️ Specializzato in accertamenti fiscali nel settore legale e nelle professioni regolamentate
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia
Conclusione
Un avviso di accertamento a un avvocato non è una condanna certa: con una strategia difensiva mirata è possibile ridurre o annullare le somme richieste.
Con il giusto supporto legale puoi tutelare la tua attività e proteggere il tuo reddito professionale.
📞 Contatta subito l’Avvocato Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa fiscale comincia da qui.