Abuso Del Diritto E Abuso Della Libertà Di Stabilimento: Come Difendersi Con L’Avvocato

Sei accusato di abuso del diritto o di abuso della libertà di stabilimento e vuoi capire come difenderti?
In ambito tributario, l’abuso del diritto si verifica quando un contribuente utilizza operazioni formalmente lecite con l’unico o prevalente scopo di ottenere vantaggi fiscali indebiti. L’abuso della libertà di stabilimento riguarda invece l’uso distorto della possibilità di costituire o spostare una società in un altro Stato membro dell’UE per beneficiare di un regime fiscale più favorevole, senza una reale attività economica in quel Paese. Entrambe le contestazioni sono complesse e richiedono una difesa tecnica e ben documentata.

Quando può essere contestato l’abuso del diritto o della libertà di stabilimento
– Quando una società trasferisce formalmente la sede legale all’estero ma mantiene la gestione e l’attività in Italia
– Quando vengono create società “di comodo” in Paesi a fiscalità agevolata senza reali strutture operative
– Quando un’operazione societaria o contrattuale ha come effetto principale la riduzione dell’imposta dovuta
– Quando vengono utilizzati schemi societari complessi senza valide ragioni economiche, ma solo per finalità fiscali
– Quando la libertà di stabilimento viene usata per eludere imposte italiane su utili o plusvalenze

Cosa può comportare una contestazione di questo tipo
– Riqualificazione dell’operazione come elusiva o abusiva, con recupero delle imposte non pagate
– Applicazione di sanzioni e interessi
– Possibile segnalazione per reati tributari, come dichiarazione fraudolenta
– Maggiori controlli su tutte le operazioni future della società o del professionista
– Azioni cautelari come sequestri o pignoramenti sui beni

Come difendersi con l’aiuto di un avvocato
– Analizzare tutti gli atti e le prove raccolte dall’Agenzia delle Entrate
– Dimostrare la reale sostanza economica delle operazioni contestate
– Fornire documenti che provino la presenza di strutture, personale e attività effettiva nello Stato estero
– Contestare le presunzioni del Fisco e le interpretazioni restrittive della normativa europea
– Partecipare attivamente al contraddittorio preventivo per chiarire la posizione e ridurre il rischio di contenzioso
– In caso di accertamento, presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria o, se necessario, attivare rimedi in sede europea

Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della pretesa tributaria
– La riduzione o l’eliminazione di sanzioni e interessi
– La dimostrazione della legittimità delle scelte societarie e fiscali
– La tutela del patrimonio aziendale e personale
– Il ripristino della reputazione professionale e commerciale

Attenzione: l’abuso del diritto e l’abuso della libertà di stabilimento sono spesso contestati dal Fisco sulla base di elementi presuntivi e interpretazioni soggettive. La giurisprudenza, anche europea, riconosce però che la pianificazione fiscale è lecita quando vi sono valide ragioni economiche e operative. La chiave della difesa è dimostrare la sostanza reale delle operazioni.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario nazionale ed europeo – ti spiega cosa fare se ti contestano abuso del diritto o abuso della libertà di stabilimento e come difenderti in modo efficace.

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Introduzione

“Abuso del diritto” e “abuso della libertà di stabilimento” sono concetti giuridici sempre più rilevanti nel diritto italiano, soprattutto in materia tributaria e societaria. Si parla di abuso del diritto quando un soggetto esercita formalmente un proprio diritto in modo distorto o deviato, perseguendo finalità contrarie alla legge o ai principi dell’ordinamento, ottenendo un vantaggio indebito a danno di altri o dell’Erario. L’abuso della libertà di stabilimento, in particolare, indica l’uso strumentale della facoltà (garantita dal diritto UE) di localizzare un’attività in un altro Stato membro al solo scopo di eludere la normativa nazionale, ad esempio per pagare meno tasse, in assenza di una reale attività economica in quello Stato.

Queste fattispecie, pur non violando espressamente una singola norma, rappresentano condotte elusive che l’ordinamento sanziona mediante la disapplicazione dei vantaggi ottenuti e, in certi casi, altre conseguenze (ad es. recupero di imposte evase, sanzioni amministrative e perfino responsabilità penale tributaria se si sconfina nell’evasione). Il confine tra lecito risparmio d’imposta e abuso può essere sottile e di grande importanza pratica: privati, imprenditori e professionisti del diritto devono saper individuare quel confine per pianificare legittimamente le proprie attività e difendersi da eventuali contestazioni del Fisco o di altre controparti.

In questa guida – aggiornata a luglio 2025 con le più recenti novità normative e giurisprudenziali – analizzeremo in dettaglio l’istituto dell’abuso del diritto e il particolare caso dell’abuso della libertà di stabilimento, dal punto di vista del “debitore” (ossia del contribuente o soggetto accusato di abuso).

La guida fornirà strumenti pratici di difesa stragiudiziale (pre-contenzioso) e giudiziale, includerà riferimenti normativi italiani, sentenze aggiornate delle Corti (Corte di Cassazione, Corti UE, ecc.) ed esplicative tabelle riepilogative. Inoltre, attraverso una sezione di Domande e Risposte (FAQ) affronteremo i quesiti più comuni sull’argomento, e proporremo alcune simulazioni pratiche – casi esemplificativi basati su situazioni reali – per comprendere come applicare i principi teorici nella pratica, solo nell’ordinamento italiano. L’obiettivo è offrire un quadro completo e aggiornato di come riconoscere un abuso del diritto o della libertà di stabilimento e, soprattutto, come difendersi con l’aiuto di un avvocato quando si è dalla parte del contribuente o debitore ingiustamente (o eccessivamente) accusato di condotte elusive.

Abuso del diritto: definizione generale e ambiti applicativi

In senso ampio, l’abuso del diritto è un principio di origine dottrinale e giurisprudenziale (non espresso direttamente nel Codice civile) secondo cui nessun diritto soggettivo può essere esercitato in modo antisociale o contrario alla buona fede. In altre parole, un comportamento formalmente conforme a una facoltà riconosciuta dalla legge viene considerato illecito se il suo unico scopo è eludere la ratio delle norme o ledere ingiustamente gli interessi altrui. Questo principio trova fondamento nei valori costituzionali di solidarietà e correttezza (artt. 2, 3 Cost.) e nei principi civilistici di buona fede e correttezza (artt. 1175, 1375 c.c.).

In ambito civilistico, l’abuso del diritto si manifesta ad esempio quando un creditore frammenta artificiosamente un unico credito in più azioni giudiziarie (c.d. abusivo frazionamento del credito) solo per ottenere vantaggi processuali (es. più interessi o costringere il debitore a difendersi su più fronti). La Corte di Cassazione – già con Sez. Unite n. 23726/2007 – ha sancito che tale prassi viola il dovere di buona fede e il principio del giusto processo, potendo portare all’improponibilità delle domande così frazionate. Di recente le Sezioni Unite (sent. n. 7299/2025) hanno confermato questa impostazione: se il creditore non ha un interesse oggettivamente valutabile a spezzettare la pretesa, il giudice può dichiarare improcedibile o inammissibile la domanda per abuso del processo, oppure sanzionare l’abuso attraverso la condanna alle spese. La sanzione per l’abuso civile è dunque atipica e consiste essenzialmente nel rifiuto della tutela giurisdizionale a chi ha agito in modo abusivo (o in altre misure, come risarcimento per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.).

Nella materia contrattuale e societaria si riscontrano ugualmente figure di abuso: ad esempio l’abuso della personalità giuridica (quando si utilizza la forma societaria come schermo per frodare creditori o violare la legge) può condurre i giudici a “disattivare” quello schermo, facendo valere le responsabilità oltre la forma (c.d. piercing the corporate veil). Allo stesso modo, l’abuso di posizione dominante nelle deliberazioni societarie (maggioranza che prende decisioni solo per danneggiare i soci di minoranza) è contrastato dai rimedi di legge (impugnativa per abuso di diritto di voto, ecc.).

Va però sottolineato che il terreno d’elezione del principio dell’abuso del diritto in Italia è stato soprattutto il diritto tributario. Storicamente, il nostro ordinamento distingueva tra evasione fiscale (violazione esplicita di norme tributarie, ad es. omessa dichiarazione o utilizzo di fatture false) ed elusione fiscale (aggiramento lecito delle norme volto a ottenere risparmi d’imposta indebiti). Per lungo tempo, l’elusione fiscale è stata combattuta senza una norma generale unitaria, ma attraverso disposizioni anti-elusive specifiche e tramite l’elaborazione giurisprudenziale del concetto di abuso del diritto in materia tributaria.

La svolta concettuale è avvenuta con l’influenza del diritto comunitario: la Corte di Giustizia UE ha riconosciuto un principio generale anti-abuso valido in materia fiscale (sin da sentenze come Halifax del 2006 in tema IVA), secondo cui «i contribuenti non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme di diritto comunitario» per ottenere vantaggi fiscali contrari alla ratio delle norme. Nel diritto interno italiano, la Corte di Cassazione ha recepito tali principi, arrivando ad affermare – anche prima di una base legislativa espressa – che operazioni prive di sostanza economica effettuate al solo scopo di risparmio d’imposta possono essere disconosciute dall’amministrazione finanziaria in quanto elusive (v. Cass. SS.UU. nn. 30055 e 30056/2008). Queste pronunce pionieristiche hanno di fatto introdotto il divieto di abuso del diritto fiscale nell’ordinamento, colmando un vuoto normativo dell’epoca.

Oggi, come vedremo nel dettaglio, l’abuso del diritto in ambito tributario è disciplinato espressamente dalla legge (art. 10-bis dello Statuto del Contribuente) e coincide con la nozione di elusione fiscale. In sintesi, si ha abuso/elusione quando il contribuente rispetta la lettera della legge tributaria ma ne frustra lo scopo, ottenendo un risparmio d’imposta “indebito” (cioè contrario all’intenzione del legislatore), attraverso operazioni prive di reale sostanza economica. Di contro, non si ha abuso quando il risparmio conseguito è frutto di scelte consentite dall’ordinamento – anche se fiscalmente vantaggiose – e sostenute da valide ragioni economiche. Nel prossimo paragrafo esamineremo la libertà di stabilimento in ambito UE come caso particolare di possibile abuso, prima di addentrarci nella disciplina positiva italiana anti-elusiva.

Libertà di stabilimento: significato e possibili abusi

La libertà di stabilimento è una delle quattro libertà fondamentali garantite dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (artt. 49-54 TFUE). Consiste nel diritto per i cittadini e le società di uno Stato membro di stabilirsi stabilmente nel territorio di un altro Stato membro per esercitarvi attività economiche, costituendo imprese, filiali o succursali alle stesse condizioni previste per i cittadini e le società locali. In pratica, una società italiana ha il diritto di aprire una sede o controllata in Francia, in Irlanda, ecc., e godere del trattamento paritario rispetto alle società nazionali, salvo limitate eccezioni. Questo principio, volto a favorire il mercato unico e la concorrenza, include anche la possibilità di scegliere il Paese UE più conveniente in termini normativi o fiscali in cui collocare la propria attività.

Tuttavia, la stessa Corte di Giustizia UE ha stabilito che la libertà di stabilimento non è assoluta: gli Stati possono adottare misure per prevenirne l’uso abusivo o fraudolento. In particolare, è lecito contrastare quelle che la giurisprudenza comunitaria definisce costruzioni di puro artificio, ossia operazioni prive di sostanza economica reale, create solo per eludere la normativa di uno Stato (ad esempio, per sfuggire al fisco nazionale). Nella celebre sentenza Cadbury Schweppes (C-196/04, 12 settembre 2006), relativa a una società controllata creata in Irlanda da un gruppo britannico per sfruttarne il regime fiscale, la Corte UE ha affermato due principi cardine: (1) costituire una società in un altro Stato membro al fine di beneficiare di una legislazione fiscale più vantaggiosa non costituisce di per sé un abuso della libertà di stabilimento; (2) tuttavia, uno Stato può disconoscere i benefici della libertà di stabilimento quando si trovi di fronte a una costruzione puramente artificiosa, priva di effettività economica, creata al solo scopo di eludere la propria legislazione fiscale. In altre parole, il limite all’esercizio della libertà di stabilimento è l’artificiosità: se l’insediamento all’estero è solo fittizio, l’ordinamento nazionale (e quello UE) lo considera un abuso e ne neutralizza i vantaggi.

Nel diritto interno italiano, il concetto di abuso della libertà di stabilimento si concretizza soprattutto nel fenomeno noto come esterovestizione. L’esterovestizione si verifica quando una società (o anche una persona fisica) dichiara una residenza fiscale estera solo formale, mentre il centro effettivo della direzione o degli interessi resta in Italia. In tal caso, l’Agenzia delle Entrate considera la società come fiscalmente residente in Italia, ignorando la “facciata” estera. L’esterovestizione societaria è dunque un tipico abuso del diritto di stabilimento: si sfrutta la libertà di creare società in altri Stati UE per beneficiare di regimi fiscali più favorevoli, senza però trasferire davvero all’estero l’attività economica. Ad esempio, costituire una società in Slovacchia o in Irlanda con tassazione ridotta ma gestirla interamente dall’Italia e operare sul mercato italiano configura un’esterovestizione.

Le norme italiane forniscono criteri chiari per individuare la residenza fiscale effettiva di società ed enti: l’art. 73, comma 3 del TUIR (DPR 917/1986) stabilisce che un soggetto è considerato residente in Italia se, per la maggior parte del periodo d’imposta, ha nel territorio dello Stato la sede legale, la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale della propria attività. Questi tre criteri sono alternativi: è sufficiente che anche uno solo (ad es. la sede di amministrazione) sia in Italia per radicare la residenza fiscale italiana. In tema di esterovestizione, il criterio decisivo è la sede dell’amministrazione, intesa come sede effettiva della società, cioè il luogo in cui vengono adottate le decisioni amministrative e di gestione in concreto (il “cervello” dell’azienda). Così, una società con sede legale a Londra ma amministrata di fatto da Milano sarà considerata residente in Italia. Numerose sentenze di Cassazione ribadiscono questo approccio sostanzialistico: ciò che conta è dove la società vive realmente la propria vita economica, al di là delle formalità. Anche le Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni adottano un criterio simile (tie-breaker della sede di direzione effettiva).

Esempio pratico: Due stilisti italiani creano nel 2004 una società in Lussemburgo e vi trasferiscono la titolarità dei propri marchi, che vengono poi concessi in licenza a pagamento a una società italiana del gruppo. L’operazione consente di tassare i proventi (royalties) in Lussemburgo a un’aliquota ridotta e senza applicare ritenute in Italia. La società lussemburghese però ha una struttura minima (inizialmente nessun dipendente, solo un ufficio presso uno studio locale) e le decisioni risultano prese dai due stilisti dall’Italia. L’Agenzia delle Entrate contesta l’esterovestizione, ritenendo che la società estera sia un “guscio vuoto” creato al solo scopo di veicolare i redditi verso il Lussemburgo (vantaggio fiscale indebito). Il caso approda in Cassazione: ebbene, con le sentenze nn. 33234 e 33235/2018 (note come caso “Dolce & Gabbana”), la Corte ha negato che si configuri un’esterovestizione illecita. Pur riconoscendo che lo scopo fiscale era rilevante, la Cassazione ha osservato che le società estere avevano comunque una sia pur limitata sostanza economica (una sede, qualche dipendente, gestione reale di attività sui marchi) e non potevano considerarsi completamente fittizie. Inoltre, ha richiamato il principio UE secondo cui cercare un vantaggio fiscale in un altro Stato membro non è di per sé illecito, salvo artificiosità totale. Ne è conseguito l’annullamento dell’accertamento: la libertà di stabilimento è salva perché l’insediamento in Lussemburgo non era meramente simulato.

L’esempio mostra che il confine tra lecito e illecito, in caso di stabilimento all’estero, dipende essenzialmente dalla sostanza: se l’entità estera svolge effettivamente un’attività economica autonoma nel Paese estero (anche minima, ma genuina), allora l’operazione rientra nella libertà di stabilimento garantita dai Trattati. Viceversa, se la società estera è solo una scatola vuota, senza uffici né personale né decisioni proprie, e tutto accade in Italia, l’autorità fiscale italiana (con eventuale avallo della Corte UE) potrà legittimamente ignorarne la veste formale. In sintesi: il diritto di stabilimento include il diritto di scegliere lo Stato con regime fiscale più favorevole, purché l’insediamento sia reale e non fittizio. Questo orientamento è oggi consolidato sia a livello unionale che nazionale. Ad esempio, la Cassazione ha di recente confermato accertamenti di esterovestizione in vari casi di società con struttura meramente formale all’estero e gestione di fatto in Italia, ribadendo però al contempo che costituire società all’estero per pagare meno tasse non è vietato se la società opera davvero in loco. Tale equilibrio interpretativo allinea la nostra giurisprudenza al paradigma europeo del “wholly artificial arrangement” (costruzione artificiosa).

Dal punto di vista normativo, l’Italia ha anche predisposto strumenti anti-esterovestizione specifici: ad esempio, presunzioni legali. Una è contenuta nell’art. 73, comma 5-bis TUIR, che presume residente in Italia (salvo prova contraria) la società estera controllata da soggetti italiani o amministrata da italiani, qualora controlli a sua volta società italiane. Un’altra è la presunzione relativa per le persone fisiche ex art. 2, co. 2-bis TUIR, secondo cui un cittadino italiano trasferito in un Paese a fiscalità privilegiata è considerato ancora residente in Italia, salvo prova contraria (es. dimostrare che la famiglia, l’abitazione e gli interessi vitali sono stabilmente all’estero). Queste presunzioni aiutano il Fisco a invertire l’onere della prova in situazioni a rischio di finti trasferimenti. La giurisprudenza, comunque, tempera l’applicazione rigida di tali presunzioni quando intervengono accordi internazionali: ad esempio, se c’è una Convenzione contro le doppie imposizioni che attribuisce la residenza fiscale all’estero in base a criteri oggettivi, questa può prevalere anche se il Paese è “black list” (lo ha affermato Cass. n. 35284/2023 in un caso di emigrato negli Emirati Arabi).

In conclusione su questo punto, l’abuso della libertà di stabilimento si configura quando la forma dell’insediamento transnazionale non corrisponde alla sostanza economica, risultando un mezzo fittizio per ottenere vantaggi indebiti (tipicamente fiscali). Difendersi da tali contestazioni significa dimostrare l’effettività dell’operazione estera: sede operativa reale, personale, autonomia gestionale, ragioni economiche legittime (espansione su mercati esteri, ricerca di efficienza, ecc.). Nei prossimi paragrafi esamineremo gli strumenti di difesa e le strategie che un contribuente e il suo avvocato possono adottare, ma prima delineiamo il quadro normativo italiano in materia di abuso del diritto tributario, alla luce delle più recenti novità.

Normativa italiana sull’abuso del diritto in materia tributaria

Dal 2015 l’ordinamento italiano dispone di una norma generale anti-abuso fiscale, che ha codificato e sostituito le precedenti disposizioni settoriali. Si tratta dell’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000 n. 212 (lo Statuto dei diritti del contribuente), introdotto dal d.lgs. 128/2015. Questa norma ha unificato la nozione di abuso del diritto con quella di elusione fiscale, ponendo fine all’ambiguità terminologica: oggi si usa ufficialmente il termine “abuso del diritto o elusione fiscale” per indicare qualsiasi operazione volta al risparmio d’imposta indebito pur nel rispetto formale delle regole. La disciplina anti-abuso, essendo inserita nello Statuto del contribuente, ha valore di principio generale nel nostro ordinamento tributario.

Vediamo i punti chiave di art. 10-bis L. 212/2000 (che costituisce la General Anti-Avoidance Rule, GAAR, italiana):

  • Definizione di abuso/elusione (comma 1) – Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano vantaggi fiscali indebiti. Sono quindi tre i concetti rilevanti: (i) operazioni prive di sostanza economica; (ii) conseguimento di un vantaggio fiscale; (iii) vantaggio indebito rispetto alla finalità delle norme. L’art. 10-bis chiarisce che il vantaggio fiscale indebito può consistere in qualsiasi beneficio fiscale (anche non immediato), come ad esempio: riduzioni d’imposta, rimborsi, crediti d’imposta, deduzioni, detrazioni, applicazione di regimi più favorevoli, oppure anche un mero differimento della tassazione se a tempo indeterminato o molto lungo. Si considera priva di sostanza economica un’operazione (o una serie di atti collegati) inidonea a produrre effetti economici significativi diversi dai vantaggi fiscali: la norma fornisce alcuni indici di mancanza di sostanza, ad esempio l’uso anomalo di strumenti giuridici non coerenti con le normali logiche di mercato. Il vantaggio fiscale è definito “indebito” quando contrasta con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario (pur senza violarne la lettera).
  • Elemento intenzionale (finalità fiscale essenziale) – L’abuso richiede che il vantaggio fiscale indebito risulti essenziale nell’operazione, ossia che costituisca la causa principale che ha spinto il contribuente a strutturare l’operazione in quel modo. Se invece l’operazione ha una logica economica apprezzabile e il risparmio d’imposta è solo un effetto collaterale, non si può parlare di abuso. In pratica, occorre dimostrare che, senza il risparmio fiscale, il contribuente non avrebbe avuto motivo di compiere quell’operazione (o l’avrebbe fatta in forma diversa). Ad esempio, la Corte di Cassazione ha ritenuto abusiva una scissione societaria seguita dalla vendita delle partecipazioni (invece che vendita diretta degli asset) solo perché finalizzata a pagare meno imposta di registro: è stata ricostruita come un’unica operazione elusiva priva di valide ragioni economiche (Cass. 9096/2017). Viceversa, se vi era un motivo non fiscale sostanziale (es. riorganizzazione necessaria), la stessa sequenza non sarebbe stata contestabile.
  • Clausola anti-abuso residuale (comma 12) – La norma stabilisce che l’abuso del diritto può essere contestato solo in assenza di violazioni specifiche. In altre parole, il Fisco deve applicare l’art. 10-bis solo se non è possibile disconoscere quei vantaggi contestando la violazione di altre puntuali disposizioni tributarie. Questo ribadisce la natura residuale della clausola anti-elusiva. Ad esempio, se c’è una norma antielusiva ad hoc (come quella sulle società di comodo o sulle CFC – controlled foreign companies), andrà utilizzata quella, senza ricorrere alla clausola generale. Ciò serve a evitare duplicazioni e a confinare l’abuso del diritto ai casi non espressamente previsti altrove.
  • Libertà di scelta del regime (comma 4) – Molto importante, il legislatore ha sancito che resta ferma la libertà del contribuente di scegliere tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge, nonché tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale. Questo significa che optare per il trattamento fiscale meno oneroso, quando l’ordinamento offre più alternative lecite, è un diritto del contribuente e non può essere considerato abuso. Ad esempio, se la legge consente due modi di trasferire un bene (fusione vs liquidazione, donazione vs vendita, ecc.), uno più “neutro” fiscalmente e l’altro più tassato, il contribuente è libero di scegliere quello fiscalmente vantaggioso: non c’è abuso perché la normativa non esprime una preferenza e lascia quella scelta. Un caso classico: la chiusura di una società tramite fusione invece che liquidazione. La fusione è fiscalmente neutra (non genera immediatamente imposte), la liquidazione invece realizza plusvalenze tassabili. Ebbene, l’Agenzia non può definire ex se abusiva la scelta della fusione, perché nessuna norma tributaria “preferisce” la liquidazione: entrambe sono operazioni legittime e alternative. Per configurare abuso occorrerebbe provare che la fusione era utilizzata in una struttura artificiosa volta solo a evitare imposte (cosa difficile, trattandosi di un’operazione reale di riorganizzazione). Questo principio, spesso ribadito anche dalla prassi ministeriale, tutela il legittimo risparmio d’imposta come parte integrante della libertà contrattuale.
  • Esimenti: valide ragioni extrafiscali (comma 3) – Non tutte le operazioni con risparmio d’imposta sono abusive. La legge esclude espressamente che si considerino abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di tipo organizzativo o gestionale, rispondenti a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa (o dell’attività professionale). Questa clausola salva le riorganizzazioni e i comportamenti che, pur comportando un risparmio fiscale, sono principalmente motivati da esigenze economiche genuine: ad es. razionalizzare la struttura societaria, ottenere finanziamenti, entrare su nuovi mercati, tutelare il patrimonio aziendale, ecc. Tali motivazioni devono essere concretamente rilevanti e non meramente pretestuose. Se sussistono, l’operazione non è punibile come abuso. È chiaro però che l’onere di provare le ragioni economiche ricade sul contribuente (vedi infra). Va notato che il MEF, nel recente Atto di indirizzo del 2025, ha sottolineato che queste ragioni extrafiscali vanno valutate in modo sostanziale, e che anche operazioni “propedeutiche” all’ottenimento di un regime di favore non sono di per sé abusive: ad esempio, se un contribuente modifica la forma giuridica o assetto aziendale per soddisfare i requisiti di una norma agevolativa, non lo si può accusare di abuso solo perché ha “cercato” di rientrare nel bonus previsto dalla legge. Sarebbe illogico ritenere che un regime fiscale possa essere fruito solo “ab origine” ma diventi abusivo se ottenuto riorganizzando l’attività: questa interpretazione è stata espressamente esclusa dal MEF.
  • Procedura di contestazione e garanzie difensive – L’art. 10-bis prevede un iter rigoroso per contestare l’abuso. L’amministrazione finanziaria deve notificare al contribuente una richiesta di chiarimenti, indicante i motivi per cui ritiene configurabile un abuso, e assegnare almeno 60 giorni per le controdeduzioni (tutto ciò a pena di nullità dell’eventuale atto impositivo). Il contribuente quindi ha diritto a un contraddittorio anticipato: può difendere l’operazione spiegando le proprie ragioni e fornendo prove della sostanza economica. Solo dopo aver valutato (e specificamente confutato) le giustificazioni fornite, l’Ufficio può emettere l’avviso di accertamento, che deve essere motivato in modo puntuale sulla condotta abusiva, sulle norme eluse, sui vantaggi indebiti ottenuti e sulle risposte del contribuente. In difetto di una motivazione così dettagliata, l’accertamento è nullo per legge. Questa prescrizione – confermata da copiosa giurisprudenza – costituisce una fondamentale tutela per il contribuente, evitando contestazioni arbitrarie o generiche.
  • Onere della prova – La legge attribuisce chiaramente all’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’abuso, cioè di provare, caso per caso, che l’operazione era priva di sostanza economica e mirata a un vantaggio indebito (non è rilevabile d’ufficio dal giudice). Dal canto suo, il contribuente ha l’onere di provare le eventuali ragioni extrafiscali non marginali che giustificano l’operazione. In altre parole, il Fisco deve provare l’elusività, il contribuente può salvarsi provando la business purpose. L’onere a carico dell’Ufficio include la dimostrazione che tutti e tre i presupposti (vantaggio indebito, mancanza di sostanza, essenzialità del vantaggio) sono presenti simultaneamente. L’Agenzia stessa ha riconosciuto questo principio in sue risoluzioni interpretative (ad es. Ris. 93/E e 98/E del 2016), invitando gli uffici a non considerare abusiva un’operazione se non sono integrati e provati congiuntamente tutti i requisiti. Inoltre, per qualificare un comportamento come elusivo, è spesso necessario per l’Ufficio ipotizzare un’operazione alternativa “non elusiva” che il contribuente avrebbe potuto fare per ottenere il medesimo risultato economico senza vantaggi fiscali indebiti. Se manca questa operazione comparativa (il benchmark lineare), la contestazione potrebbe essere debole: la Cassazione (sent. 5155/2016) ha infatti annullato un accertamento osservando che non era stato dimostrato che il contribuente avrebbe ottenuto lo stesso risultato commerciale seguendo la via fiscalmente onerosa invece di quella scelta. Tale necessaria comparazione evidenzia come l’abuso del diritto sia una valutazione relativa: si giudica elusiva una scelta solo rispetto a un’alternativa lecita meno vantaggiosa che il contribuente ha evitato.
  • Effetti e sanzioni – Se un’operazione è dichiarata abusiva, non è valida ai fini fiscali: i vantaggi indebitamente conseguiti vengono disconosciuti e l’amministrazione ricalcola le imposte dovute come se il comportamento abusivo non fosse mai avvenuto, applicando quindi le norme e i principi elusi. Ad esempio, se si è realizzato un guadagno tassabile camuffandolo come operazione esente, il Fisco ricalcola le imposte su quel guadagno come sarebbe avvenuto nell’operazione “lineare”. Restano però ferme – se applicabili – eventuali imposte già pagate dal contribuente per effetto delle forme giuridiche utilizzate: saranno imputate in detrazione. Importante: le operazioni abusive non configurano fattispecie penalmente rilevanti secondo le leggi penali tributarie. Il comma 13 dell’art. 10-bis chiarisce infatti che l’abuso del diritto, in quanto privo di violazioni formali di legge, non dà luogo a reati tributari (come dichiarazione fraudolenta, ecc.). Rimane però ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie: in pratica, se dall’abuso deriva un minor pagamento d’imposta, il contribuente sarà sanzionato per dichiarazione infedele o omissione, secondo il caso, con le relative penalità pecuniarie previste dal d.lgs. 471/1997 (tipicamente una sanzione dal 90% al 180% dell’imposta non pagata, aumentata se l’omissione è totale). Non c’è invece confisca penale né rischio di reclusione in assenza di reato. Questa distinzione tra abuso (illecito amministrativo) ed evasione (anche penale) è fondamentale e costituisce un importante strumento difensivo per il contribuente, come approfondiremo oltre.
  • Interpello preventivo (comma 5) – Il contribuente può anche attivarsi in via preventiva presentando un interpello all’Agenzia delle Entrate per sapere se una certa operazione configura abuso del diritto. L’interpello anti-abuso serve a ottenere una sorta di “benestare” prima di procedere, così da evitare successive contestazioni. Va presentato secondo l’art. 11, c.1, lett. c) L.212/2000. Occorre notare però che l’interpello ordinario non è ammesso per questioni coperte da norme antielusive specifiche (come l’esterovestizione stessa, considerata sanzionata penalmente). In pratica, non si può chiedere “Se trasferisco la sede all’estero, è esterovestizione?”, perché c’è già una norma che la disciplina. Tuttavia, l’Agenzia spesso risponde a quesiti anti-abuso su operazioni societarie complesse (fusioni, scissioni, etc.) fornendo chiarimenti utili. Per i grandi contribuenti esistono anche forme di interlocuzione informale (pre-filing) e regimi di cooperative compliance, in cui è possibile discutere a priori certe operazioni per evitare incomprensioni col Fisco.

Quadro di sintesi normativo: In tabella, riassumiamo le differenze tra evasione fiscale e abuso del diritto (elusione) e i relativi trattamenti sanzionatori:

Evasione fiscale (violazione di legge)Elusione fiscale (Abuso del diritto)
Comporta la violazione diretta di norme tributarie (es. omessa dichiarazione, utilizzo di documenti falsi, operazioni simulate).Si attua senza violare formalmente alcuna singola norma tributaria, ma aggirandone lo spirito o la finalità.
Il vantaggio fiscale è ottenuto tramite un comportamento illecito (illecito “commissivo” o “omissivo” che infrange la legge).Il vantaggio fiscale è ottenuto sfruttando strumenti giuridici leciti in modo improprio (condotta elusiva o “distorsiva” di norme esistenti).
Sanzioni: comporta sia sanzioni amministrative (sovente più gravi) sia, se oltre soglie di punibilità, sanzioni penali (es: reclusione per dichiarazione fraudolenta, omessa dichiarazione > €50k, ecc.).Sanzioni: non costituisce reato tributario in sé (comma 13 art. 10-bis), ma dà luogo a recupero d’imposta, interessi e sanzioni amministrative (es. dichiarazione infedele, sanzione 90-180% dell’imposta).
Il Fisco persegue l’evasione con strumenti repressivi specifici (accertamenti, sequestri, denunce penali, ecc.).L’abuso del diritto è perseguito in via amministrativa, con la riqualificazione dei fatti e la nullità dei vantaggi indebitamente ottenuti (strumento residuale, da usare se non c’è una norma specifica).
Esempi: Mancata dichiarazione di redditi; emissione di fatture false e relativa detrazione indebita; doppia contabilità, ecc. (illeciti materiali)Esempi: Uso di una transazione formalmente esente per evitare una tassata (es. conferimento d’azienda + cessione di quote invece di vendita diretta di beni); trasferimento formale sede all’estero senza attività reale (schemi artificiosi)

Come si vede, la distinzione fondamentale sta nella formalità: l’evasore infrange apertamente la legge, l’elusore rimane formalmente nella legalità ma ne tradisce la ratio. Il legislatore italiano, con l’art. 10-bis, ha inteso temperare l’applicazione anti-elusiva per salvaguardare la libertà di iniziativa economica lecita, fornendo paletti chiari e procedure trasparenti. Ciò è confermato anche dall’Atto di indirizzo emanato dal Ministero dell’Economia e Finanze il 27/2/2025, il quale ha chiarito che l’abuso del diritto rappresenta una clausola residuale, da applicare solo nei casi in cui non ricorre l’evasione e ricorrono tutti gli elementi dell’elusione. Nello stesso documento il MEF ha richiamato con forza che il risparmio d’imposta è di per sé sempre legittimo quando deriva dalla scelta tra opzioni consentite o da operazioni alternative entrambe lecite, tracciando così il confine tra “tax planning” legittimo e abuso. Ha inoltre sciolto alcuni dubbi interpretativi: ad esempio, ha indicato che nella verifica dell’abuso occorre guardare principalmente alla ratio della norma applicata dal contribuente (se è rispettata, non c’è abuso) e non a quella delle norme che avrebbe potuto applicare seguendo un percorso diverso. Questo principio evita di “colpevolizzare” la scelta del contribuente di aver preferito una norma più favorevole ma comunque lecita.

In definitiva, la normativa italiana anti-abuso offre oggi un quadro abbastanza definito e, per molti versi, garantista verso il contribuente onesto: da un lato consente al Fisco di colpire i meri artifici giuridici privi di sostanza, dall’altro tutela chi agisce con trasparenza e con ragioni economiche genuine. Negli ultimi anni, la giurisprudenza ha applicato tale disciplina in numerose pronunce, affinando concetti come “sostanza economica”, “indebito vantaggio” e prova delle intenzioni. Nel prossimo paragrafo vedremo anche i profili penal-tributari connessi all’abuso del diritto (quando cioè un’elusione sconfina in reato) e successivamente ci concentreremo sulle strategie difensive a disposizione del contribuente.

Profili penal-tributari: abuso del diritto ed evasione fiscale

Come chiarito, l’abuso del diritto fiscale in sé non costituisce reato. Questo significa che un’operazione elusiva “pura” – cioè formalmente regolare ma riqualificata dal Fisco come abusiva – non può dar luogo a imputazioni penali specifiche (ad es. non esiste un reato denominato “elusione fiscale”). Si tratta comunque di un illecito tributario, sanzionato in via amministrativa con il pagamento delle maggiori imposte e relative soprattasse. Tuttavia, nella pratica, i confini tra elusione e evasione non sono rigidissimi: la stessa condotta fattuale può configurare abuso agli occhi del Fisco e al contempo integrare gli estremi di un reato tributario previsto dal d.lgs. 74/2000, se il contribuente omette dichiarazioni dovute o fornisce informazioni false per realizzare lo schema.

Vediamo alcune situazioni tipiche:

  • Omessa dichiarazione di redditi derivanti da strutture elusive: ad esempio, nel caso di esterovestizione, l’amministratore italiano potrebbe non dichiarare in Italia i redditi della società formalmente estera. In tal caso, oltre all’accertamento di abuso, scatta il reato di omessa dichiarazione (art. 5 d.lgs. 74/2000) se l’imposta evasa supera €50.000 annui. La pena prevista è fino a 5 anni di reclusione. Lo stesso vale per la persona fisica che finge di trasferirsi a Montecarlo ma continua a vivere e guadagnare in Italia senza dichiarare: al di là dell’abuso contestabile (fittizio espatrio), avrà commesso reati per i redditi non dichiarati oltre soglia. Nel caso Dolce & Gabbana, i due stilisti furono inizialmente imputati per omessa dichiarazione (in quanto i redditi dei marchi veicolati in Lussemburgo non risultavano tassati in Italia), ma poi assolti perché è prevalso il giudizio di mancanza del dolo fraudolento e perché l’operazione era qualificabile come elusione, non come evasione fraudolenta. Questo evidenzia che, in ambito penale, se manca la prova di un intento fraudolento e l’interpretazione delle norme era controversa, può essere riconosciuta l’assenza di reato.
  • Dichiarazione infedele (art. 4 d.lgs. 74/2000): si ha quando nella dichiarazione vengono indicati elementi attivi per importi inferiori al reale (o elementi passivi fittizi), con evasione superiore a €100.000 e redditi non dichiarati oltre il 10% di quelli effettivi (comunque > €2 milioni). Alcune forme di elusione potrebbero ricadere qui: ad esempio, un complesso leveraging contabile che riduce l’imponibile senza violare formalmente le regole, se poi disconosciuto come abuso, evidenzia che il contribuente ha dichiarato meno reddito di quanto avrebbe dovuto secondo l’interpretazione corretta. Superate le soglie, ciò configura infedele dichiarazione (pena fino a 4 anni e 6 mesi). Esempio: una società italiana conferisce un immobile in una newco e vende le quote per pagare registro fisso anziché 9%. Se l’operazione è riqualificata come cessione immobiliare, in dichiarazione risulterà una plusvalenza non tassata che invece era imponibile: potrebbe integrarsi dichiarazione infedele se l’imposta evasa >100k. La giurisprudenza in passato era incerta se punire penalmente simili condotte elusive, ma con la clausola di non punibilità penale dell’art. 10-bis ora è più chiaro: se il comportamento contestato era meramente abusivo (senza false rappresentazioni), l’illecito resta amministrativo. Solo se per attuare l’elusione si è ricorsi anche a falsità o omissioni sostanziali, allora scatta il penale.
  • Dichiarazione fraudolenta: qualora lo schema elusivo incorpori elementi di frode – ad esempio uso di documenti falsi, fatture soggettivamente inesistenti, simulazioni contrattuali con scritture occultate, etc. – allora non si è più nell’ambito dell’abuso “puro” ma nell’evasione fraudolenta (artt. 2 o 3 d.lgs. 74/2000). La soglia di punibilità per la frode documentale (art. 2) è molto più bassa (€30k di imposta) e le pene più alte (fino a 6-8 anni). Fortunatamente, in linea di massima, se c’è frode conclamata non serve neppure ricorrere all’art. 10-bis: l’Ufficio contesterà direttamente la violazione specifica (frode) e il penale seguirà. Un esempio di linea di demarcazione: la creazione di una società estera fittizia può essere pianificata senza falsi, basandosi solo su omissioni (non dichiarare). Questa è elusione tramutata in omissione => omessa dichiarazione. Se invece per far apparire vera l’esterovestizione si falsificano contratti o si creano ad arte fatture e passaggi cartolari, si entra nella sfera del reato di frode fiscale, che va oltre l’abuso concettuale.

In sintesi, il diritto penale tributario interviene quando l’abuso travalica in comportamenti fraudolenti o omissivi penalmente sanzionati. L’art. 10-bis ha voluto assicurare che il ricorso alla clausola anti-abuso non sia strumentalizzato per far scattare il penale in assenza di violazioni materiali. Ciò comporta, ad esempio, che se un contribuente ha pienamente dichiarato un’operazione poi ritenuta elusiva (magari evidenziandola in nota integrativa), non potrà essere incriminato: il suo risparmio indebito sarà recuperato a tassazione, ma nulla di più. Per contro, se il contribuente non dichiara affatto certi redditi confidando in uno schermo elusivo, rischia comunque i reati di omessa o infedele.

Strumenti difensivi sul piano penale: qualora un contribuente si trovi indagato penalmente a seguito di una contestazione fiscale di abuso/evasione, la strategia difensiva dovrà puntare su due fronti. Primo, far valere l’assenza di dolo specifico di evasione: se l’operazione aveva base in consulenze professionali e si muoveva in una zona grigia interpretativa, l’imputato può sostenere di aver agito convinto della liceità (difetto di intenzione fraudolenta). Secondo, utilizzare l’art. 13 d.lgs. 74/2000: questa norma premiale prevede che il pagamento integrale del debito tributario (imposte, sanzioni e interessi) prima del giudizio di primo grado estingue i reati di omessa e infedele dichiarazione. Dunque, l’imprenditore accusato potrà, se ne ha la possibilità, correre ai ripari pagando il dovuto, magari beneficiando anche di istituti deflattivi (vedi “definizione agevolata” delle liti fiscali). Estinto il debito col Fisco, il procedimento penale si chiude con proscioglimento. Nel caso in cui il pagamento non sia immediatamente fattibile, resta comunque la chance di evitare condanne gravi collaborando: ad esempio, patteggiamento con riconoscimento dell’attenuante del ravvedimento operoso (art. 13-bis). In ogni caso, il coordinamento tra difesa tributaria e difesa penale è cruciale: spesso accettare un compromesso nel contenzioso fiscale (pagando parte delle imposte) può essere la scelta più saggia anche per evitare sanzioni penali più pesanti. Lo si è visto in vicende mediatiche: molti preferiscono transare col fisco immediatamente, pur di “voltare pagina” ed evitare l’incertezza e la pubblicità negativa di un processo penale.

Riassumendo, l’abuso del diritto segna in teoria il confine tra lecito e illecito penale: finché si rimane nel campo dell’elusione (aggiramento senza falsi), le conseguenze sono “solo” finanziarie; se si scivola nell’evasione fraudolenta, scattano reati. Dal punto di vista del debitore-contribuente, è fondamentale: (a) evitare in radice comportamenti che possano apparire come occultamenti di materia imponibile; (b) in caso di contestazione, agire prontamente per sanare la propria posizione fiscale e sfruttare gli strumenti di non punibilità penale; (c) impostare la difesa sul fatto che la questione verte su interpretazioni complesse di norme (quindi in dubio pro reo) e non su condotte ingannatorie.

Passiamo ora alle strategie di difesa vera e propria contro una contestazione di abuso del diritto. Distinguere tra fase stragiudiziale (prima e durante l’accertamento) e fase giudiziale (contenzioso tributario e oltre) è utile, perché gli strumenti da usare e gli obiettivi possono differire. Vedremo anche alcuni consigli pratici per prevenire il rischio di contestazioni (compliance preventiva) e, attraverso domande e risposte frequenti, chiariremo ulteriori dubbi comuni.

Difendersi dall’abuso del diritto: strumenti di difesa stragiudiziale

La migliore difesa contro accuse di abuso fiscale è spesso giocare d’anticipo, cioè adottare cautele e strategie prima che la questione diventi un contenzioso. In questa sezione esaminiamo gli strumenti non giudiziari a disposizione del contribuente e del suo consulente legale per prevenire o gestire in via amministrativa le contestazioni di abuso/elusione.

  • Pianificazione fiscale trasparente e documentata: La difesa inizia già in fase di pianificazione dell’operazione. Un contribuente (specie se impresa) dovrebbe, con l’aiuto dell’avvocato tributarista o del commercialista, valutare ex ante il rischio di abuso per ogni operazione straordinaria o schema fiscale aggressivo. È utile predisporre un memorandum difensivo interno che elenchi le ragioni economiche sostanziali dell’operazione e ne analizzi i possibili profili di criticità fiscale. Questa documentazione sarà preziosa in seguito per dimostrare la buona fede e il business purpose genuino. Inoltre, conviene prediligere la sostanza alla forma: se possibile, dare all’operazione una struttura operativa concreta (es.: coinvolgere partner esteri reali, movimentare risorse effettive) piuttosto che affidarsi a meri passaggi cartolari. Un fisco sempre più informatizzato incrocia dati e segnali (movimenti finanziari, IP da cui partono email, bilanci) – per cui investire un po’ di più per creare substance riduce il rischio di contestazione.
  • Interpello anti-abuso o consulenza preventiva con il Fisco: Come accennato, l’interpello ordinario (art. 11 L.212/2000) può essere utilizzato per chiedere all’Agenzia un parere vincolante sulla non abusività di un’operazione. Se l’istanza è ammissibile e viene risposto che non c’è abuso, il contribuente è al riparo (la risposta vincola l’amministrazione per quel caso). Purtroppo non tutti i temi sono interpellabili (non lo sono quelli già oggetto di norme antielusive specifiche). In situazioni non coperte da interpello o per contribuenti di grandi dimensioni, esistono canali informali: ad esempio, incontri di pre-filing con l’ufficio Grandi Contribuenti, dove illustrare preliminarmente una riorganizzazione e “testare” la reazione del Fisco. Non si otterrà magari una risposta scritta, ma spesso indicazioni utili su come impostare l’operazione per non incorrere in abusi (o se è il caso di rinunciarvi). Per investimenti molto rilevanti (oltre 20 milioni €) c’è anche il Ruling per nuovi investimenti (art. 2 DL 147/2015), che consente di concordare col Fisco il trattamento fiscale complessivo di un progetto, compresi profili di residenza di società estere coinvolte. E per le multinazionali vi è il regime di Cooperative Compliance, dove l’azienda e l’Agenzia cooperano in trasparenza continua: in tale contesto, il contribuente può scoprire le carte sulle sue strutture internazionali e ottenere una sorta di comfort letter che certe scelte non saranno attaccate come elusive. Ovviamente, questo richiede un elevato livello di disclosure e governance fiscale.
  • Cura degli adempimenti formali e sostanziali: Un comune denominatore per prevenire guai è: fare le cose per bene, anche formalmente. Ad esempio, nel trasferimento di residenza all’estero di una persona fisica, iscriversi tempestivamente all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti Estero) è obbligatorio e ora sanzionato (dal 2024, multa €200-1000 per chi non lo fa). Restare iscritti all’anagrafe italiana pur vivendo altrove era una presunzione assoluta di residenza in passato; ora è solo relativa, ma comunque è un indizio forte. Quindi conviene regolarizzare ogni formalità (comunicazioni, iscrizioni, contratti) coerentemente con la sostanza che si vuole rappresentare. Analogamente, per le società estere: aprire un conto bancario locale e usarlo per le transazioni della società, avere un numero di telefono e indirizzo all’estero, iscrivere dipendenti alla previdenza locale – tutti dettagli che dimostrano la genuinità dell’operazione. Se invece tutto rimane centrato in Italia (pagamenti, email sempre inviati dall’Italia, contratti firmati in Italia), il castello estero perde credibilità. Si tratta in fondo di coerenza più che di furbizia: far apparire reale ciò che si sostiene.
  • Gestione oculata della fase di verifica fiscale: Se nonostante tutto arriva un controllo (una verifica, un PVC della Guardia di Finanza o un questionario dell’Agenzia su un’operazione sospetta), è cruciale giocare bene la partita in fase pre-accertamento. Quando l’Ufficio invia la comunicazione di avvio del procedimento anti-abuso (la famosa richiesta di chiarimenti ex art. 10-bis, comma 6), il contribuente ha 60 giorni per rispondere in modo dettagliato. Questo scritto difensivo è spesso l’ultima chance di evitare l’accertamento, dunque va predisposto con l’assistenza di un legale esperto. Bisogna: (a) spiegare nel dettaglio le ragioni extrafiscali che hanno motivato l’operazione (allegando magari documenti: verbali CDA, perizie, studi di fattibilità, email commerciali che mostrano gli obiettivi non fiscali); (b) evidenziare la sostanza economica effettiva dell’operazione (es.: elencare attività svolte, flussi finanziari reali, utilità prodotte al di là del risparmio fiscale); (c) contestare eventualmente la rilevanza dell’eventuale vantaggio fiscale (potrebbe non essere “indebito” perché voluto dal legislatore, o non essenziale rispetto a tutto il contesto); (d) sollevare anche argomentazioni giuridiche: ad es. richiamare precedenti risposte a interpello (se esistenti) favorevoli su casi analoghi, o pronunce giurisprudenziali che abbiano escluso l’abuso in fattispecie simili. Questo è il momento di convincere l’ufficio che l’operazione, magari pianificata aggressivamente, non è un abuso bensì un legittimo risparmio. Bisogna essere persuasivi ma al contempo fornire basi solide: ricordiamo che, se l’Agenzia rigetta i chiarimenti e emette accertamento, dovrà motivare specificamente perché non ha accolto le nostre spiegazioni. Dargli filo da torcere su questo punto può eventualmente portare a vizi di motivazione (se l’ufficio liquida superficialmente le nostre ragioni, l’atto sarà nullo). In alcuni casi, se il dialogo scritto non basta, si può anche chiedere un incontro (non formalmente previsto ma spesso concesso) con i funzionari per sostenere oralmente le proprie ragioni. Se dall’altra parte c’è apertura mentale, si potrebbe persino convincerli a lasciar perdere la contestazione o a ridimensionarla.
  • Accordi e soluzioni deflattive: Qualora l’ufficio sembri intenzionato comunque a procedere, il contribuente può valutare strumenti come l’accertamento con adesione. L’adesione permette, una volta ricevuto il verbale o il preavviso di accertamento, di sedersi a tavolino con i funzionari per cercare un accordo sull’entità delle imposte dovute. In materia di abuso del diritto, l’adesione potrebbe portare ad esempio a “riqualificare” parzialmente l’operazione invece che totalmente, con una riduzione delle somme pretese e l’applicazione delle sole sanzioni minime. Se c’è margine interpretativo, spesso gli uffici sono disponibili a compromessi ragionevoli, anche perché sanno che la materia elusiva è incerta in giudizio. Il vantaggio per il contribuente, aderendo, è chiudere la questione in tempi rapidi e con sanzioni ridotte (1/3 delle minime). Inoltre, definire la questione amministrativamente evita l’incremento di sanzioni in caso di soccombenza e, aspetto non trascurabile, dimostra buona volontà anche in ottica penal-tributaria. Un ulteriore strumento è la conciliazione giudiziale (in caso si sia già fatto ricorso in Commissione): durante la causa, si può proporre un accordo col 50% di sanzioni. Spesso l’Agenzia accetta, soprattutto se il giudizio è incerto. Queste soluzioni vanno ponderate: convengono se il rischio di perdere in tribunale è significativo o se l’azienda vuole evitare lungaggini e pubblicità negativa. Va detto che negli ultimi anni il legislatore ha introdotto varie “pacificazioni fiscali” (condoni, rottamazioni, definizioni liti): se ne compare una applicabile al proprio caso, valutarla seriamente fa parte di una buona strategia difensiva. Ad esempio, la definizione delle liti pendenti 2023 permetteva di chiudere i ricorsi pagando solo il tributo, senza sanzioni né interessi: opportunità ghiotta per cause di abuso complesse (in cui, a fronte di tesi fiscali opinabili, si può risolvere tutto versando quanto dovuto, senza punizione ulteriore). Certo, aderire a tali sanatorie implica riconoscere la pretesa fiscale, ma talvolta pragmatismo > orgoglio: il beneficio è togliersi il pensiero, evitare spese legali e soprattutto – come detto – neutralizzare i profili penali (pagando il dovuto prima della sentenza si estinguono i reati di omessa/infedele). Dunque, l’avvocato deve consigliare il cliente tenendo presenti tutti gli scenari: vincere al 100% in tribunale è bellissimo, ma se c’è il 30-40% di probabilità di perdere e dover poi affrontare magari un procedimento penale, valutare un accordo economico può essere l’opzione più saggia.
  • Mosse correttive spontanee (“ravvedimenti” e simili): Nel caso il contribuente stesso si renda conto di aver attuato uno schema al limite (magari alla luce di nuove interpretazioni o dopo aver cambiato consulente), può considerare un ravvedimento operoso. Il ravvedimento (art. 13 d.lgs. 472/97) consente di correggere spontaneamente una dichiarazione pagando il dovuto con sanzioni ridotte. Se si interviene prima di qualsiasi controllo, si evitano guai peggiori e si paga molto meno di sanzione. Certo, “ravvedersi” di un’elusione non è sempre semplice: se formalmente tutto era regolare, bisogna presentare una dichiarazione integrativa e versare la maggiore imposta come se si disconoscesse da soli il beneficio fiscale ottenuto. Ma è fattibile: ad es. la società che aveva fatto conferimento+cessione quote potrebbe rettificare e pagare l’imposta di registro 9% come se avesse ceduto l’immobile direttamente (chiedendo la registrazione integrativa dell’atto). Questo potrebbe evitare contenziosi e dimostrare buona fede. In ambito internazionale, ci sono stati strumenti ad hoc come la Voluntary Disclosure (2015 e 2017) che hanno permesso a molti di dichiarare attività estere e società offshore non dichiarate, pagando il dovuto con sanzioni ridotte e con esclusione della punibilità penale. Oggi non c’è una VD aperta, ma se il legislatore ne varasse un’altra, chi ha situazioni border-line di esterovestizione farebbe bene a coglierla: meglio pagare e regolarizzare prima di essere scoperti, ottenendo anche la fedina penale pulita. In mancanza di misure straordinarie, sciogliere spontaneamente la struttura elusiva è un’altra mossa saggia: se ci si rende conto che la società estera non ha più ragion d’essere economica e serve solo a risparmiare tasse, valutare di liquidarla o trasferirla in Italia può prevenire contestazioni future. Ovviamente, va fatto correttamente (dichiarando eventuali plusvalenze emergenti). Questa scelta a volte è difficile perché implica rinunciare a un beneficio fiscale ancora attivo, ma in alcuni casi “dormire tranquilli” senza la spada di Damocle del Fisco vale più del risparmio ottenuto continuando con l’assetto fittizio.

In conclusione sulla difesa stragiudiziale: il segreto è giocare d’anticipo e giocare pulito. Un avvocato esperto potrà guidare il contribuente attraverso strumenti proattivi (interpelli, compliance) e reattivi (risposte ai chiarimenti, accordi) per evitare che una potenziale contestazione diventi una guerra legale. Non sempre è possibile evitare la lite – ed è qui che passiamo al livello successivo: il contenzioso tributario. Ma come spesso si dice, “un buon accordo è meglio di una causa vinta”, specie in materie complesse come l’abuso del diritto, dove l’esito in giudizio può essere incerto.

Difesa in giudizio: contenzioso tributario e strategie processuali

Se la fase amministrativa non ha risolto la controversia (ad esempio, l’Agenzia delle Entrate ha emesso un avviso di accertamento per abuso del diritto e non si è giunti a conciliazione), al contribuente non resta che affidarsi alla giustizia tributaria per far valere le proprie ragioni. La difesa in giudizio richiede un approccio tecnico rigoroso, sfruttando ogni vizio formale e sostanziale dell’atto impugnato e producendo le prove a supporto della propria posizione. Vediamo i punti essenziali di una strategia difensiva in sede contenziosa:

  • Verifica dei vizi formali e procedurali dell’accertamento: La prima cosa che l’avvocato deve controllare è il rispetto da parte dell’Ufficio delle garanzie procedurali previste dall’art. 10-bis. Come detto, la mancata emissione (o notifica) della richiesta di chiarimenti al contribuente entro i termini di decadenza rende nullo l’accertamento. Parimenti, la carenza di motivazione specifica sull’abuso contestato, sulle norme eluse e sulle risposte fornite dal contribuente comporta nullità insanabile. Questi aspetti vanno sempre dedotti come motivi di ricorso: spesso gli uffici, pressati dai tempi, commettono errori (ad es. notificano l’accertamento troppo a ridosso della scadenza senza attendere 60 giorni pieni dalla richiesta di chiarimenti, oppure rispondono in modo generico alle giustificazioni). La giurisprudenza tributaria è ormai costante nell’annullare gli atti in tali casi, ribadendo che il contraddittorio preventivo e la motivazione rafforzata sono “elementi essenziali” del procedimento anti-abuso. Dunque, il difensore deve porre grande enfasi su queste eccezioni, perché sono win-win: se accolte, fanno cadere l’atto indipendentemente dal merito, e spesso le Commissioni (oggi Corti di Giustizia Tributaria) le privilegiano per risolvere la lite in modo più semplice. Anche eventuali vizi di notifica, incompetenza dell’ufficio, ecc., vanno considerati come in ogni contenzioso.
  • Difesa sul merito – contestazione dei presupposti dell’abuso: Oltre (o in alternativa) ai vizi formali, bisogna contestare nel merito la ricostruzione abusiva operata dal Fisco. In pratica, smontare almeno uno dei tre pilastri: sostanza economica, vantaggio indebito, essenzialità. Ad esempio, dimostrare che l’operazione aveva sostanza economica: qui sono cruciali le prove documentali e testimoniali (ove ammesse) raccolte. Si può produrre contratti, fatture, relazioni tecniche per dimostrare che l’operazione ha “effetti diversi dai vantaggi fiscali” (commi 1-2 art. 10-bis). Se l’Agenzia definisce “priva di sostanza” una certa struttura societaria, il contribuente deve portare evidenze del contrario: esistenza di una organizzazione, anche minima; operazioni commerciali effettive; coerenza economica dell’insieme. Esempio: l’Ufficio sostiene che una scissione societaria seguita da vendita di quote era fatta solo per risparmiare imposta di registro. Il difensore potrà evidenziare che la scissione perseguiva anche uno scopo organizzativo (separare attività diverse per efficientarle) e magari allegare documenti (verbali assembleari, piani industriali) che attestano quell’intento non fiscale.
  • Dimostrare le ragioni extrafiscali (business purpose): Questo punto è spesso decisivo. Se il contribuente riesce a convincere i giudici che aveva un valido motivo economico per agire come ha fatto – e che quel motivo non era trascurabile – il giudizio di abuso cade. Bisogna quindi spiegare bene il contesto e il perché delle scelte. Non basta affermare “scopi organizzativi generici”: servono motivazioni concrete. Ad esempio: «Ho conferito l’immobile in una società e ceduto le quote perché così potevo trasferire il complesso con tutte le sue passività e i contratti annessi in un unico atto, cosa che una vendita dell’immobile non avrebbe consentito agevolmente (avrei dovuto rifare contratti, ecc.). Il vantaggio fiscale c’era, ma l’operazione aveva anche questa logica commerciale». Oppure, per l’esterovestizione: «Ho aperto la società in Slovenia non solo per le tasse minori ma perché là intendevo servire il mercato est-europeo, riducendo i costi logistici; ho assunto personale locale e affittato un magazzino, come provano questi documenti…». Meglio ancora se si trovano riscontri oggettivi: ad esempio, perizie di esperti che attestano l’efficienza economica di una certa struttura. Nel caso di società estere, può essere utile allegare una relazione di un advisor internazionale che confermi che la sede estera aveva sostanza e che, secondo criteri OCSE, la direzione effettiva era davvero lì – insomma, una perizia tecnica sul luogo di gestione. Ciò può influenzare positivamente i giudici tributari, fornendo un’aura di terzietà alle nostre affermazioni.
  • Negare il carattere “indebito” del vantaggio fiscale: Un’altra linea difensiva è sostenere che il risparmio d’imposta ottenuto non era “contrario alla ratio” delle norme, ma anzi previsto o comunque tollerato dall’ordinamento. Questo approccio quasi “ideologico” può avere presa se ben argomentato. Ad esempio, se il contribuente ha sfruttato un incentivo fiscale (un regime opzionale agevolato) e viene accusato di abuso perché ha “artificiosamente” creato le condizioni per l’incentivo, si potrà sostenere che l’incentivo stesso incoraggiava quel comportamento, quindi l’ottenimento del bonus è in linea con la finalità della norma. Un caso citato dal MEF nel 2025 riguarda proprio l’ipotesi di operazioni propedeutiche a regimi di favore: il Ministero ha definito illogico considerarle abusive. Citare questo passaggio ufficiale in un ricorso può essere molto efficace. Analogamente, se la pianificazione fiscale sfruttava lacune normative (tax loopholes) note, si può argomentare che colmare quelle lacune spettava al legislatore, non si può far carico al contribuente di non aver volontariamente pagato più imposte di quanto la legge gli chiedeva. È la vecchia dottrina del “Legittimo risparmio d’imposta”, che oggi per fortuna è stata avallata: «scegliere un regime meno oneroso è sempre legittimo finché non si tradisce lo scopo di una norma». Se si dimostra che la norma non vietava affatto quel comportamento (anzi lo contemplava come opzione), il vantaggio non è indebito. Ad esempio, in passato il Fisco contestava come elusiva la vendita di partecipazioni “di comodo” (con sotto immobili) per pagare registro fisso: oggi, dopo modifica dell’art. 20 TUR, è chiaro che se si cede una quota societaria l’imposta di registro guarda solo alla quota e non può riqualificare in vendita di immobili. Dunque, eventuali contestazioni su conferimenti+cessioni di quote risultano oggi più deboli perché il legislatore ha preso posizione a favore della forma giuridica scelta dal contribuente. Un bravo difensore deve essere aggiornato su queste evoluzioni normative per usarle a proprio vantaggio in giudizio.
  • Mettere in dubbio l’“essenzialità” del fine fiscale: Anche questo può salvarci: se riusciamo a far emergere che magari il contribuente aveva più motivi per l’operazione (non uno solo) e che il risparmio fiscale non era il primario, l’abuso non sussiste. In giudizio si può portare, ad esempio, corrispondenza o email interne da cui risulti che la decisione fu presa per motivi di business e solo incidentalmente si considerò anche l’aspetto fiscale. Certo, non è facile reperire prove del movente, però talvolta documenti aziendali (piani, verbali) parlano chiaro e neppure menzionano il fisco – il che è buon segno. L’obiettivo è far percepire al giudice che il contribuente non ha congegnato un intrigo fiscale, ma ha compiuto una scelta imprenditoriale che aveva senso anche al netto delle tasse. Se ci riusciamo, cade l’immagine del “comportamento abusivo” e l’ufficio appare eccessivamente sospettoso.
  • Contestare l’utilizzo improprio di presunzioni: L’Agenzia spesso costruisce le sue tesi su presunzioni (indizi gravi, precisi e concordanti). In tema di abuso, la Cassazione (Sez. Unite n. 17857/2018) ha richiamato che le presunzioni devono essere usate con rigore: servono indizi solidi su ogni elemento dell’abuso e un ragionamento logico stringente. Il difensore deve quindi attaccare le inferenze dell’ufficio: ad esempio, se l’Agenzia deduce “mancanza di sostanza” dal fatto che la società aveva pochi dipendenti, si può replicare che ciò non è di per sé decisivo (magari l’attività non ne richiedeva molti; oggi molte aziende digitali hanno poche risorse ma non per questo sono fittizie). Se l’ufficio enfatizza che “la società estera fu creata poco prima di un’operazione fiscale vantaggiosa”, si può replicare che correlation is not causation: il timing non prova l’intento elusivo, può esserci coincidenza o necessità temporale. Sottolineare eventuali lacune nella ricostruzione fattuale del Fisco (elementi ignorati, contesto non considerato) aiuta a minare la concordanza dei suoi indizi. Se gli elementi non concordano, la presunzione non regge e scatta il beneficio del dubbio pro contribuente.
  • Giurisprudenza favorevole: Ovviamente, un buon atout è citare precedenti giurisprudenziali analoghi risolti a favore del contribuente. Ormai ci sono parecchie sentenze, sia di merito che di Cassazione, su vari tipi di operazioni: conferimenti+cessioni, scissioni seguite da cessioni, esterovestizioni, etc. Ad esempio, Cass. 1011/2018 negò l’abuso in un caso di conferimento d’immobile con accollo mutuo e successiva cessione quote, riconoscendo che non c’era automatica elusione. Cass. 25698/2019 escluse abuso in una scissione immobiliare seguita da cessione, valorizzando ragioni organizzative. Cass. 23150/2022 (già citata) ha ribadito che la residenza fiscale prescinde dallo schermo formale, ma questo aiuta il Fisco più che il contribuente. Di certo, portare alla Commissione esempi dove altri contribuenti in situazioni analoghe hanno vinto può influenzare positivamente. Va comunque spiegato bene il parallelo, perché ogni caso di abuso ha sue peculiarità. Anche richiamare sentenze UE (Cadbury, Halifax) e sentenze della Corte Costituzionale (es. n. 39/2021 sul retroattivo favorevole di norme anti-elusive) può servire a dare autorevolezza alle nostre tesi.
  • Coordinamento con la difesa penale (se pendenza duale): Non raramente, mentre pende il ricorso tributario, è aperto anche un fascicolo penale (soprattutto in casi di contestazioni milionarie). È importante coordinare le due difese per evitare contraddizioni. Ad esempio, in sede penale si potrebbe preferire sostenere “nessun dolo, al massimo errore interpretativo”, mentre in sede tributaria si può ammettere che l’operazione c’è stata ma non era elusiva. Non sono posizioni in contrasto, ma vanno calibrate. Talvolta può convenire chiedere alla Corte tributaria di sospendere il giudizio in attesa dell’esito penale, o viceversa, a seconda di quale sede appare più promettente. Ad esempio, se in penale si profila un’assoluzione perché il fatto non è reato, questa potrà essere spesa nel tributario per sostenere indirettamente la bontà del comportamento. Di contro, se il giudice penale condanna per frode, sarà difficile poi convincere la Commissione che era tutto lecito… Di qui la necessità di una strategia unitaria. In queste situazioni, transigere il contenzioso fiscale (come detto) può essere una mossa per ottenere magari in sede penale l’estinzione del reato per intervenuto pagamento. Il giudice tributario non è vincolato dall’eventuale sentenza penale (principio di autonomia dei giudizi), ma nella pratica una pronuncia autorevole può influenzare. Si ricordi tuttavia che esiste il divieto di doppia punibilità: se un fatto è contestato come reato e come illecito amministrativo, la sanzione amministrativa definitiva dovrebbe essere scomputata in caso di condanna penale (principio del ne bis in idem, consolidato dalla Corte di Giustizia UE). In Italia ciò è recepito ad es. per il cumulo sanzioni-reati in ambito mercati finanziari, ma per il tributario la questione è stata dibattuta. Oggi, dato che l’abuso in sé non è reato, il problema si pone in termini di omessa/infedele vs soprattassa: se uno paga sanzione amministrativa e poi viene condannato per omessa, c’è un rischio di doppio castigo. La CEDU ha ispirato una mitigazione di questo, ma siamo nel tecnico. Per il difensore, essere consapevole di questi incroci normative consente di fare istanze di esclusione di sanzioni in eccesso.
  • Gradi di giudizio e specializzazione dei giudici: Il contenzioso tributario ora (riforma 2022) è affidato a giudici tributari professionali togati, soprattutto nei gradi d’appello. Ci si attende una maggiore uniformità e attenzione tecnica. In primo grado magari c’è ancora una composizione mista, ma col tempo sarà tutta togata. Questo potrebbe aumentare il peso della giurisprudenza di legittimità nelle decisioni: dunque investire in un buon ricorso in Cassazione in caso di sconfitta in appello è importante. La Cassazione ha una sezione tributaria specializzata che negli ultimi anni ha prodotto molte pronunce in materia di abuso, spesso di legittimità formale (vizi procedurali, oneri probatori). L’avvocato dovrà tenerle presenti sin dall’inizio, perché un errore nel non dedurre un motivo può precluderlo in Cassazione. Ad esempio, se non ho eccepito nullità della motivazione in primo grado, rischio di non poterlo introdurre dopo. Quindi è cruciale che già il ricorso iniziale sia completo di tutti i motivi, formali e sostanziali, per evitare preclusioni.

In definitiva, la difesa in giudizio su abuso del diritto è multidimensionale: giuridica, fattuale, probatoria. Richiede una profonda conoscenza della normativa e delle pronunce di riferimento, ma anche abilità nel presentare ai giudici un racconto credibile e documentato delle scelte del contribuente. Bisogna trasformare quello che l’Agenzia dipinge come un “giochino fiscale” in una normale condotta economica, spogliandola dell’aura di furbizia illegittima. Se ci si riesce, molto probabilmente la Commissione accoglierà (integralmente o parzialmente) il ricorso. E anche un accoglimento parziale può bastare per ridurre la pretesa a un livello accettabile (ricordiamo che se cadono le sanzioni o una parte delle imposte, spesso poi il contenzioso si chiude con un assestamento transattivo sulle restanti somme).

È utile concludere questa sezione con un cenno al punto di vista psicologico del giudizio: nei casi di abuso fiscale spesso c’è un elemento di antipatia verso eventuali abusi troppo smaccati (paradisi fiscali esotici, stratagemmi contorti). L’avvocato deve lavorare anche su questo, mostrando che il proprio assistito non è un evasore incallito ma un soggetto che ha agito entro regole esistenti e che semmai l’eccesso di imposizione preteso dall’Erario è ingiusto. Cambiare la narrativa da “furbo che non vuol pagare le tasse” a “contribuente tartassato che chiede solo di poter scegliere opzioni legali” può fare la differenza nell’esito di una causa.

Di seguito, per fissare le idee, proponiamo alcune tabelle riepilogative e un formato FAQ (Domande e Risposte) che affronta i dubbi più frequenti in materia di abuso del diritto e libertà di stabilimento dal lato del contribuente.

Riepilogo difese stragiudiziali vs giudiziali

Difesa stragiudiziale (fase pre-contenziosa)Difesa giudiziale (contenzioso tributario)
Interpello preventivo: chiedere chiarimenti all’Agenzia prima di agire, per ottenere conferma che una data operazione non è abusiva (ove ammesso). Utile per evitare in radice contestazioni.Ricorso in primo grado (Corte Giust. Trib.): impugnare l’avviso di accertamento sollevando tutti i motivi di nullità (es. mancato contraddittorio, difetto motivazione) e contestando nel merito la ricostruzione abusiva.
Contraddittorio con l’ufficio: rispondere dettagliatamente alla richiesta di chiarimenti art. 10-bis, fornendo prove di sostanza economica e ragioni extrafiscali. L’obiettivo è evitare l’accertamento o porre solide basi difensive.Prova documentale e tecnica: produrre in giudizio contratti, bilanci, perizie, corrispondenza, che dimostrino la realtà economica dell’operazione e la presenza di motivazioni economiche genuine. Eventuale richiesta di CTU o testimonianze se rilevanti (limitatamente ammesse nel rito tributario).
Accertamento con adesione: dopo il p.v.c. o notifica avviso, avviare trattativa con l’ufficio per definire la pretesa in via concordata. Si può ottenere una riduzione di imposta/sanzioni e chiudere velocemente, evitando i rischi del giudizio.Eccezioni preliminari: far valere vizi procedurali (omessa notifica invito, atto emesso prima di 60 giorni, difetto di motivazione puntuale) che portino all’annullamento immediato dell’atto.
Ravvedimento operoso / sanatoria: regolarizzare spontaneamente la posizione prima del contenzioso (presentando dichiarazioni integrative e pagando il dovuto con sanzioni ridotte) per evitare sanzioni maggiori e bloccare eventuali risvolti penali. Ad esempio, aderire a condoni o definizioni agevolate se disponibili.Difesa nel merito: argomentare che uno o più elementi dell’abuso non sussistono (l’operazione aveva sostanza economica, il vantaggio non è indebito, il fine fiscale non era essenziale). Citare giurisprudenza favorevole (Cassazione, CTR, CGUE) a supporto.
Transazione in sede contenziosa: se il ricorso è già avviato, valutare la conciliazione giudiziale con l’Agenzia (pagamento imposte e sanzioni ridotte al 50%). Spesso conveniente per evitare incertezze e costi futuri.Appello e Cassazione: in caso di esito sfavorevole in primo/secondo grado, proseguire con l’impugnazione. La difesa in appello può rafforzare aspetti probatori; in Cassazione ci si concentra su violazioni di legge (es. errata interpretazione art. 10-bis, omesso esame di fatti decisivi, ecc.). Importante aver posto tutte le questioni già in origine per non incorrere in inammissibilità.
Tutela penale (se pende indagine): Collaborare col Fisco (pagando il dovuto) per fruire dell’esimente penale ex art. 13 d.lgs. 74/2000. Coordinare la strategia con i legali penalisti, evitando dichiarazioni contrastanti tra sede tributaria e penale.Focus penal-tributario in giudizio tributario: sottolineare che l’operazione non integra reati (richiamare comma 13 art. 10-bis: condotta non punibile penalmente). Se vi sono stati provvedimenti penali favorevoli (archiviazione, assoluzione), citarli a supporto della propria buona fede.

Indicatori di abuso di libertà di stabilimento vs elementi difensivi (esterovestizione)

Quando si discute di esterovestizione (società fittiziamente localizzate all’estero), l’Agenzia delle Entrate valuta una serie di indicatori per sospettare l’abuso. D’altra parte, il contribuente può opporre elementi che provano la sostanza estera. Ecco un confronto:

Indizi tipici di esterovestizione (abusività)Elementi a favore della reale sostanza estera (difesa)
Gestione e governance italiane: Amministratori, soci decisori e dirigenti della società estera sono in maggioranza residenti in Italia. Le riunioni del CdA e le decisioni operative avvengono di fatto in Italia (verbali, email con IP italiani).Management locale: Presenza di uno o più amministratori residenti all’estero, deleghe operative a persone sul posto. Riunioni societarie svolte nel Paese estero (con verbali a supporto). Utilizzo di sistemi informatici esteri (email, server) per l’operatività.
Struttura economica inconsistente all’estero: Nessun ufficio reale (sede legale presso uno studio di consulenza), nessun dipendente o solo personale fittizio, nessuna attrezzatura o magazzino nel Paese estero. Magari un semplice indirizzo di comodo.Presenza fisica reale: Disponibilità di un ufficio vero all’estero (anche piccolo ma operativo), affitto di locali, utenze intestate alla società. Personale assunto localmente (anche pochi dipendenti, ma reali). Insediamento visibile: iscrizione a registri locali, telefono locale, sito web con sede estera. Contratti di servizio con provider locali (es. contabilità affidata a studio locale, con relative fatture) che provano l’operatività nel contesto giuridico locale.
Attività e affari concentrati in Italia: La società estera realizza il grosso del suo fatturato con clienti/fornitori italiani o possiede beni solo in Italia. Poca o nessuna attività nel Paese dichiarato (es. nessun cliente locale).Operatività economica all’estero: Portfolio clienti o fornitori nel Paese estero o in altri Paesi (non solo italiani). Beni o asset collocati all’estero (es. depositi bancari locali usati per transazioni, magazzini di merci fuori d’Italia). Transazioni commerciali effettive con soggetti esteri. Documentazione di business plan che giustifichi la presenza estera (espansione in mercati vicini, ecc.).
Decisions and assets still in Italy: Contratti chiave della società estera firmati sistematicamente in Italia dal dominus italiano; disponibilità dei conti esteri in mano a soggetti in Italia; immediato rientro in Italia di utili o fondi dalla società estera (flussi finanziari che non restano in loco).Autonomia finanziaria e decisionale estera: Contratti firmati presso la sede estera o da procuratori sul posto. Conti correnti esteri utilizzati per pagare spese e incassare ricavi dell’azienda estera (non semplice transito verso l’Italia). Utili reinvestiti all’estero o comunque non trasferiti integralmente in Italia. Domiciliazione amministrativa reale: la contabilità e i libri sociali tenuti all’estero (magari tramite un commercialista locale), a riprova che la società vive in quel contesto.
Temporalità sospetta e scopo fiscale evidente: La società estera viene costituita poco prima di un’operazione che comporta un forte risparmio fiscale (es. prima di vendere un asset tassabile in Italia). Oppure adotta regimi fiscali ultra-agevolati senza una ragione imprenditoriale (es. holding in paradiso fiscale che però non svolge alcuna funzione se non incassare dividendi).Giustificazione economica del timing e della sede scelta: Spiegazioni concrete sul perché è stato scelto quel Paese e quel momento. Ad esempio: «Abbiamo aperto in Irlanda nel 2023 per avvicinarci ai clienti UE post-Brexit, approfittando anche del regime fiscale stabile ma soprattutto per ragioni commerciali». Se la giurisdizione scelta ha anche vantaggi fiscali, evidenziare altri fattori attrattivi (stabilità politica, servizi finanziari, trattati bilaterali). Dimostrare che non si tratta di un paradiso opaco (se invece lo è, far vedere che l’attività ha comunque sostanza e l’uso di quell’entità rispondeva a necessità specifiche, es. raccolta di investimenti internazionali). In generale, fornire un business case per l’operazione estera, supportato da analisi di mercato o consulenze strategiche ottenute al riguardo.

Questa comparazione aiuta a capire su cosa focalizzarsi: il contribuente che vuole difendersi dall’accusa di esterovestizione dovrà portare evidenze tangibili di radicamento reale all’estero e coerenza del proprio comportamento, controbilanciando gli indizi che il Fisco mette in fila.

Domande frequenti (FAQ) sull’abuso del diritto e la libertà di stabilimento

Di seguito rispondiamo ad alcuni quesiti comuni, per chiarire in forma discorsiva i dubbi più ricorrenti sul tema.

  • Q1: Cos’è esattamente l’“abuso del diritto” in ambito tributario e in cosa si differenzia dall’evasione fiscale?
    A: L’abuso del diritto in ambito fiscale – chiamato anche elusione fiscale – si ha quando un contribuente compie operazioni formalmente lecite ma prive di sostanza economica, al solo scopo di ottenere un risparmio d’imposta indebito (cioè contrario allo spirito delle norme). In pratica, l’abuso è un aggiramento della legge tributaria: non viene violata nessuna singola norma (quindi l’atto è valido civilmente), ma si travisano le finalità delle regole fiscali per pagare meno tasse. L’evasione fiscale, invece, consiste nel violare apertamente la legge tributaria – ad esempio non dichiarando redditi, annotando false fatture, ecc. – ottenendo così un risparmio d’imposta illecito. Dunque, la differenza sta nella formalità: l’evasore infrange la norma (illecito palese), l’elusore rispetta la norma alla lettera ma ne abusa lo scopo (illecito “nascosto”). Dal punto di vista sanzionatorio, l’evasione comporta sanzioni amministrative e può integrare reati penali (es. dichiarazione fraudolenta, omessa dichiarazione oltre soglie). L’abuso del diritto non è di per sé un reato tributario, ma viene sanzionato con il recupero delle imposte e le relative sanzioni civili (per dichiarazione infedele, di solito). In sintesi: l’evasione è un illecito fraudolento o omissivo (es. nascondere base imponibile), l’elusione è un illecito elusivo (es. usare costruzioni artificiose per evitare un tributo senza infrangere formalmente la legge).
  • Q2: Il contribuente può scegliere liberamente un’operazione fiscalmente più vantaggiosa (tra due o più consentite) senza incorrere in abuso del diritto?
    A: Sì, assolutamente. Il principio cardine sancito dalla legge (art. 10-bis, comma 4) è che “resta ferma la libertà di scelta del contribuente” fra regimi opzionali diversi previsti dalla norma o fra operazioni che comportano un differente carico fiscale. Ciò significa che se l’ordinamento offre due strade entrambe legittime – ad esempio un regime ordinario e uno agevolato, oppure due modi di strutturare un affare – il contribuente ha il diritto di preferire quella che gli fa pagare meno tasse. Questa scelta di per sé non costituisce abuso. Un risparmio d’imposta è da considerarsi “sempre legittimo” (parole del MEF) quando deriva: a) dall’adesione a un regime opzionale previsto dalla legge (anche se più favorevole), oppure b) dalla scelta tra due operazioni entrambe lecite che producono effetti giuridici simili ma con diverso carico fiscale. L’abuso scatta solo se il contribuente crea artificiosamente una struttura che, pur rispettando le norme, stravolge la ratio di quelle norme esclusivamente per ottenere un vantaggio fiscale indebito. In altre parole: se la legge mi dà il Bonus X (che riduce le imposte) e io mi organizzo per rientrare nelle condizioni di Bonus X, sto esercitando un mio diritto (non sto abusando, a meno che faccia finta di avere i requisiti). Anche la giurisprudenza ha chiarito che non esiste un obbligo di scegliere la via fiscalmente più onerosa. Per esempio, se posso chiudere una società tramite fusione (neutra) o liquidazione (tassata), scegliere la fusione non è abuso, perché la legge considera quelle operazioni equivalenti e lascia a me la scelta. In sintesi: pianificare le proprie attività in modo da minimizzare legalmente le tasse dovute è lecito (“tax avoidance” lecita), finché si rispettano le condizioni poste dalle norme e non si costruiscono simulazioni artificiose.
  • Q3: Quali elementi deve provare il Fisco per contestare con successo un abuso del diritto?
    A: L’onere della prova dell’abuso spetta interamente all’amministrazione finanziaria. In base all’art. 10-bis, il Fisco deve dimostrare in modo puntuale la presenza concomitante di tre elementi: (1) che il contribuente ha conseguito un vantaggio fiscale indebito (cioè un risparmio d’imposta contrastante con le finalità delle norme, altrimenti non ottenibile in operazioni “normali”); (2) che l’operazione (o la serie di operazioni) era priva di sostanza economica reale (ossia non ha prodotto effetti apprezzabili se non il risparmio fiscale); (3) che il vantaggio fiscale era essenziale e determinante nella scelta di quella struttura (cioè, semplificando, che il fine principale dell’operazione era risparmiare tasse). Se anche uno di questi elementi manca, la contestazione di abuso non regge. Ad esempio, se l’operazione aveva comunque sostanza economica (investimenti, riorganizzazioni con effetti apprezzabili), non la si può bollare come abuso solo perché c’era anche un risparmio d’imposta. Oppure, se il risparmio d’imposta era conforme alla ratio di una norma (quindi non indebito), niente abuso. L’Agenzia deve costruire la prova spesso tramite indizi e presunzioni: tipicamente, prova a mostrare che il medesimo risultato economico poteva essere ottenuto con un percorso più lineare ma fiscalmente sfavorevole, e che il contribuente ha invece scelto un giro più contorto solo per pagare meno tasse. Deve però indicare quale sarebbe stata l’operazione alternativa “normale” e perché quella scelta l’ha elusa. Inoltre, deve confutare le eventuali spiegazioni fornite dal contribuente. In sintesi, al Fisco è richiesta una vera e propria “prova dell’intento elusivo”. Non può limitarsi a dire “avevi un vantaggio fiscale e quindi abuso”: deve provare che quell’vantaggio è indebito e ottenuto tramite mezzi anomali e privi di giustificazione economica, essendo il motivo primario dell’operazione. È un onere probatorio non banale, motivo per cui le contestazioni di abuso devono essere ben costruite per reggere in giudizio.
  • Q4: Cosa si intende per “valide ragioni extrafiscali non marginali” che possono giustificare un’operazione e farla considerare lecita?
    A: Con questa espressione (contenuta nell’art. 10-bis, comma 3) si indicano i motivi economici sostanziali, diversi dal semplice risparmio d’imposta, che possono aver spinto il contribuente a realizzare una certa operazione. Se tali ragioni esistono e non sono meramente irrilevanti o pretestuose, l’operazione non è considerata abusiva anche se comporta un risparmio fiscale. Esempi di “valide ragioni extrafiscali”: esigenze organizzative o gestionali (riorganizzare un gruppo societario per efficienza operativa, separare attività diverse per una migliore amministrazione); finalità di miglioramento strutturale dell’impresa (fusione per aumentare la competitività, scissione per attrarre investitori in un ramo specifico); esigenze finanziarie (concentrare attivi in una società per ottenere un finanziamento bancario); riduzione del rischio d’impresa (isolamento di patrimoni in veicoli separati); ragioni di mercato (accedere a un particolare regime giuridico estero per entrare in nuovi mercati). L’importante è che queste motivazioni non siano marginali: devono avere un peso concreto nell’operazione, non essere solo un paravento. Ad esempio, liquidare una società perché ormai inattiva è una valida ragione (chiudere una scatola vuota), se però la liquidi simulando perdite per recuperare crediti d’imposta magari la ragione non è genuina. In giudizio, spesso la sorte del contribuente si gioca qui: se riesce a convincere che “ha fatto così per motivi di business, non solo per tasse”, vince. Va ricordato che sono considerate valide ragioni anche di ordine organizzativo: quindi non è necessario dimostrare un profitto immediato, può bastare l’ottimizzazione gestionale o l’adeguamento a normative di settore. Inoltre, un recente chiarimento: non è richiesto che le ragioni extrafiscali fossero preponderanti su quella fiscale, basta che non siano marginali, cioè abbiano avuto un ruolo non trascurabile. Quindi, anche se il risparmio d’imposta è stato uno degli scopi, se accanto c’era un genuino scopo economico l’abuso cade. Un caso pratico: Tizio incorpora la sua ditta individuale in una SRL per poi cedere le quote con tassa fissa anziché pagare l’Irpef sulla cessione d’azienda. Se Tizio può mostrare che voleva diventare SRL per ragioni di responsabilità limitata e migliore immagine commerciale (ragioni extrafiscali credibili), l’operazione non sarà considerata abusiva, anche se c’è stato un vantaggio fiscale.
  • Q5: Cos’è l’esterovestizione e perché si parla di abuso della libertà di stabilimento in questo caso?
    A: L’esterovestizione è la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di un soggetto (società o persona fisica) che invece, in realtà, mantiene il suo centro di attività o interessi in Italia. In parole semplici, è il caso di una società che dichiara sede legale in un altro Paese (spesso a fiscalità più bassa) mentre tutta la gestione e il business sono condotti dall’Italia – oppure di un individuo che si trasferisce “sulla carta” a Montecarlo o Dubai ma continua a vivere prevalentemente in Italia. L’esterovestizione viene considerata un abuso della libertà di stabilimento perché il soggetto sfrutta la libertà (garantita a livello UE) di potersi stabilire ovunque nell’Unione o all’estero, ma lo fa in maniera artificiosa, senza una genuina attività nel Paese scelto, al solo fine di sottrarsi alla normativa fiscale italiana. In sostanza, è un uso distorto del diritto di stabilimento: questo diritto esiste per favorire la mobilità e l’integrazione economica, non per creare “schermi” che servano unicamente a pagare meno tasse. Da un punto di vista giuridico, quando l’Agenzia scopre un’esterovestizione, contesta che la residenza fiscale è in realtà in Italia (applicando i criteri dell’art. 73 TUIR per le società, o dell’art. 2 TUIR per le persone fisiche) e quindi recupera tutte le imposte italiane dovute come se la società/persona fosse sempre stata qui residente. È un esempio concreto di come il concetto di abuso del diritto si applichi in ambito internazionale: la Corte di Giustizia UE ha detto che non è illecito sfruttare differenze fiscali fra Stati, ma se la società estera è una costruzione puramente artificiosa, lo Stato di origine può ignorarla. L’esterovestizione incarna proprio la “costruzione artificiosa”: società-schermo all’estero, sostanza in Italia. Quindi l’Italia legittimamente considera violato il limite alla libertà di stabilimento, che è l’artificiosità. In definitiva, l’esterovestizione è un abusivismo internazionale: invece di violare una norma fiscale (che so, non presentare la dichiarazione), il contribuente cerca rifugio in un altro Stato – se lo fa solo sulla carta, questo rifugio non viene riconosciuto valido, perché è visto come frode alla legge nazionale. Da notare che l’esterovestizione non è un reato di per sé (non esiste un reato con quel nome), ma può sfociare in reati tributari come omessa o infedele dichiarazione se i redditi esteri non dichiarati superano certe soglie.
  • Q6: Come determina il Fisco italiano se una società è esterovestita (quindi effettivamente residente in Italia)?
    A: Il Fisco si basa sui criteri di collegamento previsti dalla legge e su vari indizi fattuali. Per le società, la norma chiave è l’art. 73 TUIR: una società si considera fiscalmente residente in Italia se ha sede legale, sede dell’amministrazione o oggetto principale in Italia per la maggior parte dell’anno. Nel caso di esterovestizione, tipicamente la sede legale è all’estero, ma l’Agenzia dimostra che la sede di amministrazione (sede effettiva) è in Italia – cioè che le decisioni direttive e di gestione partono dall’Italia. Come lo dimostra? Attraverso diversi indizi concreti: ad esempio, verifica la composizione del management (se gli amministratori e dirigenti sono italiani e operano dall’Italia); controlla dove si svolgono le riunioni societarie e chi firma i contratti (se tutto avviene in Italia, è un segnale); esamina la struttura estera (c’è un ufficio vero? Ci sono dipendenti? O è solo una casella postale?); analizza i flussi economici (se la società estera fa affari quasi solo con l’Italia, o se i soldi guadagnati tornano subito in Italia su conti di soci italiani). Tutti questi elementi aiutano a dipingere un quadro: più indizi gravi, precisi e concordanti indicano che la realtà operativa è in Italia, più l’ufficio potrà concludere che la società è esterovestita. Inoltre, esistono presunzioni legali: ad esempio, l’art. 73 comma 5-bis TUIR presume residente in Italia (salvo prova contraria) una società estera controllata da soggetti residenti e che controlla a sua volta società italiane. Quindi in certi casi l’onere di provare il contrario è a carico del contribuente. Riassumendo, l’Agenzia cerca coerenza tra la forma e la sostanza: se trova discrepanze (forma estera, sostanza italiana) e riesce a provarle, considererà esterovestita la società. Nella pratica, può servirsi anche della cooperazione internazionale: scambi di informazioni con il Paese estero per sapere quante strutture o personale c’erano davvero; controlli incrociati su email (gli IP di accesso, che rivelano da dove veniva gestita la corrispondenza); esame dei bilanci esteri (se mostrano costi per servizi tutti in Italia, ad esempio). Dal 2021 in poi, l’Agenzia ha avuto anche accesso a molti registri esteri grazie allo scambio automatico (pensiamo al registro dei titolari effettivi, utile per capire chi tirava le fila). In conclusione, il Fisco incrocia una serie di segnali: chi dirige, da dove, con quali mezzi, per fare cosa e con quali risultati. Se la risposta a questi punti punta tutta verso l’Italia, la società formalmente estera viene tassata come italiana.
  • Q7: Quali rischi corre concretamente un’azienda se viene scoperta a fare esterovestizione (ossia se il Fisco la considera residente in Italia retroattivamente)?
    A: I rischi sono elevati, su più fronti: tributario, sanzionatorio e anche d’immagine. In primo luogo, l’azienda dovrà pagare tutte le imposte italiane dovute sui redditi non dichiarati in passato, come se fosse sempre stata residente qui. Tipicamente si tratta dell’IRES (attualmente 24%) su tutti gli utili che la società estera aveva dichiarato all’estero e non in Italia, più eventuale IRAP se applicabile, e IVA se ha fatto operazioni in Italia non fatturate. Oltre alle imposte, ci sono gli interessi per il ritardato pagamento. Poi ci sono le sanzioni amministrative tributarie: per omessa dichiarazione dei redditi (se la società non presentava dichiarazione in Italia) la sanzione è pesante, dal 120% al 240% dell’imposta evasa per ciascun anno; per dichiarazione infedele (se qualcosa dichiarava ma incompleto) è dal 90% al 180%. Spesso, soprattutto se nessun reddito estero era dichiarato, si applica l’omessa: ciò significa che le sanzioni possono addirittura superare l’imposta evasa (es.: evasi 1 milione, sanzioni fino a 2,4 milioni). Se i numeri sono grandi, scattano anche i profili penali: l’omessa dichiarazione è reato sopra €50.000 di imposta evasa l’anno (punita con reclusione fino a 5 anni); la dichiarazione infedele lo è sopra €100.000 evasi (reclusione fino a 4 anni e 6 mesi). Quindi gli amministratori (o chi ha diretto effettivamente la società) possono trovarsi indagati per reati fiscali, con tutti i rischi connessi: possibile sequestro preventivo per equivalente dei beni fino all’ammontare dell’evasione, condanne penali con interdizioni dai pubblici uffici o dagli uffici direttivi in caso di esito sfavorevole. In ambito civile, se la società era iscritta all’estero, doverla considerare italiana può comportare la necessità di regolarizzare posizioni civilistiche (ad es. depositare bilanci in Italia, iscriversi al Registro Imprese retroattivamente). Inoltre, l’azienda potrebbe perdere eventuali benefici goduti all’estero: ad esempio, se in quel Paese aveva agevolazioni o un regime fiscale speciale, decadono retroattivamente perché la società non risulta più fiscalmente localizzata lì – e magari quell’estero potrebbe chiedere anch’esso qualcosa indietro (anche se di solito, se l’Italia tassa, l’estero poi evita doppia imposizione, ma dipende dai casi). Non ultimo, il danno reputazionale: le notizie di grosse esterovestizioni saltano fuori sui giornali, spesso presentate come casi di “evasione internazionale”. Questo associa il nome dell’azienda (e del suo titolare) a un’immagine negativa, con ripercussioni sui rapporti commerciali e sulla fiducia di clienti/fornitori. Pensiamo ai casi eclatanti finiti su media: aziende pizzicate con sede in paradisi fiscali – spesso ciò porta a imbarazzo pubblico, necessità di spiegazioni a partner, ecc. In conclusione, le conseguenze finanziarie, legali e d’immagine possono essere devastanti per un’esterovestizione scoperta: non solo c’è da pagare il pregresso (imposte + multe salatissime + interessi), ma si rischiano procedimenti penali e un colpo alla reputazione che può minare la continuità stessa del business. Per questo è fondamentale, se si hanno strutture estere borderline, valutare seriamente il da farsi (regolarizzarle, chiuderle o darle di sostanza) prima di trovarsi in questa situazione.
  • Q8: Trasferire la sede di una società (o la propria residenza personale) all’estero per pagare meno tasse è considerato un reato?
    A: Di per sé, no. Sia le società che i cittadini hanno il diritto di trasferirsi all’estero, e farlo anche con l’intento di godere di una fiscalità più leggera non è vietato in sé. Fa parte della libertà di stabilimento e di movimento: ognuno è libero di scegliere dove vivere o dove collocare la propria impresa in base anche alla convenienza fiscale. Diventa però un illecito (amministrativo e potenzialmente penale) quando il trasferimento è fittizio, simulato – cioè quando si dichiara di aver spostato la residenza ma in realtà si continua ad essere presenti e operare in Italia. In tal caso, come visto, scattano le contestazioni di esterovestizione e omessa/infedele dichiarazione. Non esiste un reato specifico chiamato “esterovestizione” nel codice penale; i reati scattano se, tramite questo artificio, non vengono presentate dichiarazioni fiscali dovute in Italia (art. 5 d.lgs. 74/2000, omessa dichiarazione) o vengono presentate dichiarazioni infedeli (art. 4) superando le soglie di punibilità. Ad esempio: se un imprenditore finge di trasferire la sua azienda in Slovenia ma di fatto continua a dirigere tutto da qui e non dichiara utili in Italia, sta commettendo reato di omessa dichiarazione se l’imposta evasa > €50k annui (oltre all’illecito amministrativo). Quindi il mero trasferimento all’estero non è reato (è lecito usufruire di tassazioni diverse), ma l’uso fraudolento di un trasferimento finto per non pagare le tasse italiane lo diventa. Come citavamo, nel caso famoso di Dolce & Gabbana, i due stilisti furono processati penalmente per una struttura in Lussemburgo, ma alla fine assolti perché la Cassazione ritenne che non ci fosse stata una costruzione totalmente artificiosa e mancasse il dolo di frode. Ciò illustra che se un’operazione è qualificabile come elusione (abuso) e non come evasione fraudolenta, in sede penale può portare all’assoluzione. In generale, il confine penale sta nell’intento fraudolento e nell’entità dell’evasione: l’autorità procede penalmente solo nei casi più gravi e conclamati, dove c’è chiara volontà di sottrarsi illegalmente al fisco e importi elevati. Quindi, cambiare residenza fiscale realmente e dichiarare tutto regolarmente nel nuovo Stato non è reato (è perfettamente lecito). Ma farlo solo sulla carta e omettere di dichiarare in Italia è assimilato a evasione, con rilevanza penale al superamento delle soglie.
  • Q9: Se mi accorgo di aver forse realizzato un’operazione contestabile come abuso del diritto o esterovestizione, cosa posso fare per rimediare ed evitare le conseguenze peggiori?
    A: Innanzitutto, meglio agire prima che il Fisco avvii accertamenti. Se hai il dubbio che una tua operazione passata possa essere vista come elusiva, puoi valutare di regolarizzarla spontaneamente. Ad esempio, se hai usato uno schema elusivo per pagare meno imposte di registro o IVA, potresti presentare una dichiarazione integrativa o un’istanza all’Agenzia spiegando e pagando la differenza dovuta (con ravvedimento operoso, che comporta sanzioni ridotte). Il ravvedimento operoso è possibile finché non ci sono contestazioni in corso: paghi l’imposta che avresti dovuto e la sanzione è calcolata in misura attenuata (a seconda di quanto anticipi il pagamento). Questo può chiudere la questione sul nascere ed evitare sia sanzioni piene sia problemi futuri. Se parliamo di esterovestizione o attività estere non dichiarate, negli anni scorsi c’è stata la Voluntary Disclosure che permetteva di sanare queste situazioni pagando tutte le imposte ma con sanzioni amministrative ridotte e soprattutto con immunità penale. Oggi (luglio 2025) non c’è una VD attiva, ma se il legislatore ne proponesse un’altra, conviene cogliere l’opportunità: presentandosi spontaneamente prima di essere scoperti, si paga quanto dovuto e si evita il processo penale. In mancanza di condoni o VD, si può adottare un “rimedio estremo”: chiudere la struttura elusiva prima che venga contestata. Ad esempio, se hai una società in un paradiso fiscale che di fatto è gestita dall’Italia, potresti liquidarla e riportare gli asset in Italia, oppure trasferire la sede legale in Italia ufficialmente. Così metti fine all’esterovestizione e mostri buona fede. Certo, dovrai probabilmente pagare delle imposte quando fai questo (ad esempio tassare eventuali plusvalori latenti in sede di liquidazione), ma meglio pagarle spontaneamente che con sanzioni dopo. Inoltre, se temi già un’indagine penale (magari hai ricevuto notizie di verifiche), ricorda che pagare integralmente il debito tributario prima della sentenza di primo grado estingue i reati di omessa e infedele dichiarazione. Quindi, una volta quantificato l’ammontare (ad es. con un accertamento), una strategia è versare tutto il dovuto il prima possibile: l’art. 13 d.lgs. 74/2000 prevede che ciò elimina la punibilità. Anche patteggiare eventualmente, mostrando ravvedimento, aiuta a contenere le pene. In ogni caso, la mossa più importante è non restare inerti: se hai sentore di una posizione irregolare, consulta immediatamente un esperto e studia la strada di regolarizzazione. Spesso, molti contribuenti “borderline” aspettano sperando di non essere scoperti, ma oggi con i controlli incrociati internazionali quel rischio è alto. Meglio anticipare il Fisco: chiudere le posizioni e/o autodenunciarsi fiscalmente (non penalmente, si intende – parliamo di comunicazione spontanea al fisco). Così facendo, oltre a ridurre sanzioni e azzerare il penale, dimostri buona fede e collaborazione, cosa che può mitigare anche eventuali giudizi negativi. Infine, curare l’aspetto reputazionale: se sei un imprenditore noto o un’azienda quotata, affrontare proattivamente la regolarizzazione (magari comunicandolo in modo controllato: “abbiamo deciso di riportare la sede in Italia per trasparenza”) può prevenire il danno d’immagine di uno scandalo futuro. In sintesi: meglio un aggiustamento spontaneo oggi che una sanzione tripla domani. Certo, serve la liquidità per pagare, ma esistono piani rateali e strumenti come la transazione fiscale se l’importo è alto e l’azienda in difficoltà. L’importante è prendere in mano la situazione con l’aiuto di professionisti, anziché subirla sperando nella fortuna.

Fonti e riferimenti

  1. Art. 10-bis, L. 27 luglio 2000 n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) – Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale (introdotta da D.Lgs. 128/2015).
  2. Atto di indirizzo MEF 27 febbraio 2025 – Chiarimenti interpretativi sull’abuso del diritto e legittimo risparmio d’imposta (Dip. Finanze, Min. Economia e Finanze). Ribadita la natura residuale dell’abuso, i suoi elementi costitutivi e la tutela della libertà di scelta del contribuente.
  3. Corte di Cassazione – Sez. Trib. – sent. nn. 5066 e 5075 del 17/02/2023 – Caso di esterovestizione (società con sede legale in Slovacchia ma attività in Italia). Conferma che il diritto di stabilimento trova limite nelle costruzioni artificiose volte al solo vantaggio fiscale.
  4. Corte di Giustizia UE – sent. 12/09/2006, causa C-196/04 (Cadbury Schweppes)La costituzione di una società in un altro Stato membro per fruire di legislazione più vantaggiosa non costituisce di per sé abuso della libertà di stabilimento; il controllo anti-abuso è ammesso solo verso costruzioni di puro artificio.
  5. Corte di Cassazione – Sez. Trib. – sent. n. 33234 del 21/12/2018 (Caso “Dolce & Gabbana”, elusione fiscale internazionale) – Esclusa l’esterovestizione: la costituzione di società in Lussemburgo non era di per sé illecita, solo una società priva di sostanza e totalmente eterodiretta costituirebbe abuso.
  6. Agenzia delle Entrate – Risoluzione n. 93/E del 17/10/2016Chiarimenti sull’abuso del diritto ai sensi dell’art. 10-bis L.212/2000. Conferma che un’operazione è abusiva solo se ricorrono congiuntamente i tre presupposti (assenza sostanza, vantaggio fiscale indebito, causalità fiscale essenziale) e che occorre confrontare l’operazione con alternative non elusive.
  7. Corte di Cassazione – Sez. Unite civ. – sent. n. 7299 del 19/03/2025 – Frazionamento abusivo del credito nel processo civile. Ribadito il divieto di frazionamento artificioso come abuso del processo; sanzione tramite improponibilità della domanda se il frazionamento è senza giustificazione.
  8. Corte di Cassazione – Sez. Trib. – ord. n. 23150 del 22/07/2022Residenza fiscale delle società: prevalenza della sede di direzione effettiva sulla sede legale formale. Confermato che se gestione e affari sono in Italia, la società è considerata residente (in tema di esterovestizione).
  9. Corte di Cassazione – Sez. Trib. – sent. n. 9096 del 07/04/2017Imposta di registro – Operazione elusiva – Conferimento di immobile seguito da cessione di partecipazioni. La Suprema Corte ha ritenuto configurabile l’abuso laddove l’operazione (conferimento + cessione quote) fosse priva di valide ragioni economiche ed effettuata unicamente per evitare imposta di registro, riqualificando in cessione di beni soggetta a imposta proporzionale.
  10. Dipartimento Finanze MEF – “Abuso del diritto: pubblicato l’atto di indirizzo del MEF” (17/03/2025)Comunicato di sintesi (ANCE) sull’Atto di indirizzo 27/2/2025: elenca i tre elementi dell’abuso, chiarisce nozione di vantaggi indebiti (inclusi differimenti “sine die”), criterio della ratio legis applicata vs elusa, e lecità di operazioni preparatorie a regimi agevolati.
  11. Corte di Cassazione – Sez. Unite – sent. n. 30055/2008Principio generale anti-elusivo: affermata l’esistenza del divieto di abuso del diritto fiscale nell’ordinamento anche prima della norma positiva, quale espressione di principi costituzionali di capacità contributiva e buona fede. (Riferimento dottrinale)
  12. Corte di Cassazione – Sez. Unite – sent. n. 17857/2018Onere della prova tramite presunzioni nel contenzioso tributario: ribadito che le presunzioni devono avere requisiti di gravità, precisione e concordanza e che il giudice deve motivare adeguatamente il ragionamento presuntivo (richiamata in materia di contestazioni elusive).
  13. Cassazione penale – Sez. III – sent. n. 43809 del 30/10/2015 (Caso Dolce & Gabbana penale) – Assolve gli imputati dall’accusa di omessa dichiarazione in relazione alla struttura in Lussemburgo, riconoscendo che la condotta rientrava nell’elusione (all’epoca non sanzionata penalmente) e difettava il dolo di evasione fraudolenta. (Riferimento giurisprudenziale combinato con le sentenze tributarie del 2018)
  14. D.Lgs. 74/2000 (reati tributari), art. 5 e art. 4Omessa dichiarazione e dichiarazione infedele: soglie di punibilità (€50.000 imposta evasa per omessa; €100.000 per infedele) e pene (fino a 5 anni reclusione omessa, 4 anni e 6 mesi infedele). Previsione dell’esimente per pagamento integrale debito tributario (art. 13).
  15. Circolare Agenzia Entrate n. 6/E del 30/03/2016Primi chiarimenti sul nuovo art. 10-bis: la circolare sottolinea, tra l’altro, la necessità del contraddittorio endoprocedimentale e l’esclusione di sanzioni penali per l’abuso; contiene esempi applicativi di operazioni abusive vs legittime. (Fonte prassi)
  16. Corte di Cassazione – Sez. Trib. – ord. n. 14485 del 26/05/2024Abuso del diritto e onere probatorio in tema di presunzioni: richiamando SU 17857/2018, ha censurato una sentenza di CTR che aveva desunto l’abuso da presunzioni insufficienti, ribadendo i criteri rigorosi per l’utilizzo delle stesse.
  17. Agenzia Entrate – Risposte a interpello n. 65/2018, 68/2018, 70/2018, 89/2019, 469/2019, ecc.Serie di risposte su casi di operazioni straordinarie (scissioni, conferimenti seguiti da cessioni) valutati ai fini anti-abuso: forniscono indicazioni di prassi su quando certe sequenze sono considerate abusive o meno.
  18. Giurisprudenza di meritoCTR Lombardia sent. n. 1415 del 16/05/2024 (contestazione elusiva di serie di operazioni societarie); CTP/CTR varie su esterovestizione (es. CTR Emilia-Romagna n. 861/2020)Tendenza: valutazione caso per caso, riconoscendo l’abuso solo ove manchi effettività economica. (Casi richiamati in dottrina)

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