Ricorso Contro Avviso Di Accertamento Tarsu E Cartella Tarsu: Come Si Fa

Hai ricevuto un avviso di accertamento TARSU o una cartella TARSU e vuoi sapere come impugnarli?
La TARSU (Tassa per lo Smaltimento dei Rifiuti Solidi Urbani) era il tributo comunale che, fino all’introduzione di TARES, TARI e altre forme di prelievo, si pagava per la gestione dei rifiuti urbani. Anche se formalmente sostituita, il Comune può ancora notificare accertamenti e cartelle per annualità pregresse. In molti casi, però, tali atti possono essere contestati per vizi di merito o di forma.

Quando è possibile fare ricorso contro avviso o cartella TARSU
– Quando l’atto è notificato oltre i termini di decadenza previsti dalla legge
– Quando la superficie tassata non corrisponde a quella reale o contiene aree esenti (es. magazzini, locali inagibili)
– Quando manca o è errata la delibera comunale che determina tariffe e modalità di calcolo
– Quando il tributo è stato già pagato o prescritto
– Quando la notifica presenta vizi formali (destinatario errato, modalità irregolare, mancata relata di notifica)
– Quando non vi è stato contraddittorio preventivo o il Comune non ha tenuto conto di osservazioni e documenti presentati

Come fare ricorso contro un avviso di accertamento TARSU
– Verificare attentamente i dati dell’atto: anno di riferimento, superficie, importo e modalità di calcolo
– Richiedere al Comune o al concessionario copia degli atti e dei documenti utilizzati per determinare l’imposta
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado entro 60 giorni dalla notifica
– Indicare in modo preciso i motivi di contestazione (prescrizione, calcolo errato, superficie non tassabile, vizi di notifica)
– Allegare prove documentali: planimetrie, certificati di inagibilità, ricevute di pagamento, fotografie
– Valutare la richiesta di sospensione cautelare se sono in corso azioni esecutive

Come impugnare una cartella TARSU
– Se deriva da un avviso di accertamento mai ricevuto, contestare l’inesistenza o nullità della notifica dell’atto presupposto
– Se il credito è prescritto, eccepire la prescrizione quinquennale
– Se l’importo è errato, contestare il calcolo e richiedere rettifica
– Se vi sono vizi formali nella notifica, eccepirne la nullità in ricorso
– Presentare il ricorso sempre entro 60 giorni dalla notifica, con eventuale istanza di sospensione

Cosa si può ottenere con un ricorso ben impostato
– L’annullamento totale o parziale dell’avviso di accertamento o della cartella
– La riduzione dell’importo dovuto
– La sospensione delle procedure di riscossione
– La tutela del patrimonio personale da ipoteche, fermi e pignoramenti
– La chiusura definitiva della posizione per l’annualità contestata

Attenzione: molti avvisi e cartelle TARSU vengono emessi in violazione dei termini o senza calcoli corretti. Un controllo puntuale dell’atto può rivelare motivi validi di ricorso che evitano di pagare somme non dovute.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in tributi locali e contenzioso tributario – ti spiega come impugnare un avviso di accertamento TARSU o una cartella TARSU e quali documenti servono per difenderti.

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Introduzione

TARSU e TARI: La TARSU (Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) era il tributo comunale dovuto per la raccolta rifiuti fino al 2013, mentre dal 2014 è subentrata la TARI (Tassa sui rifiuti) nell’ambito dell’Imposta Unica Comunale. Si tratta di prelievi tributari, non di mere tariffe, dovuti da chi occupa locali suscettibili di produrre rifiuti sul territorio comunale. In altre parole, chiunque possegga o detenga un immobile (proprietario, inquilino, usufruttuario, ecc.) è tenuto a pagare il tributo rifiuti per quel luogo, salvo esenzioni o riduzioni specifiche. Ad esempio, se l’occupazione è temporanea e non supera 6 mesi in un anno, la legge prevede che il tributo sia dovuto solo dal possessore dell’immobile (tipicamente il proprietario), esonerando l’occupante di breve durata.

Avviso di accertamento e cartella esattoriale: Nel sistema previgente al 2020, la procedura di riscossione della tassa rifiuti avveniva in due fasi: prima il Comune notificava un avviso di accertamento (atto “prodromico” che accertava l’omesso o insufficiente pagamento della TARSU/TARI); poi, se il contribuente non pagava né impugnava quell’accertamento, si iscriveva a ruolo il debito e veniva notificata una cartella esattoriale (cartella di pagamento) da parte dell’Agente della Riscossione. L’avviso di accertamento è l’atto impositivo con cui l’ente locale liquida il tributo dovuto per uno o più anni, applica sanzioni (di regola il 30% per omesso pagamento) e interessi, e intima il pagamento entro un certo termine oppure consente al contribuente di presentare ricorso. La cartella di pagamento, invece, è l’atto successivo (emesso da Agenzia Entrate–Riscossione, ex Equitalia) che intima il pagamento delle somme risultanti a ruolo: essa costituisce un titolo esecutivo per avviare pignoramenti, fermi amministrativi e altre azioni di recupero forzoso se il contribuente ancora non adempie.

Novità dal 2020: Dal 1° gennaio 2020 gli avvisi di accertamento dei tributi locali hanno acquisito efficacia esecutiva (come previsto dalla Legge 160/2019, art. 1 comma 792). Ciò significa che l’atto di accertamento emesso dal Comune sostituisce la cartella: contiene già un’intimazione a pagare entro 60 giorni e, trascorso tale termine senza pagamento né ricorso, diventa automaticamente un titolo esecutivo per la riscossione coattiva. In pratica oggi un avviso TARI “esecutivo” unisce in un solo provvedimento sia la funzione di accertamento del tributo sia quella di precetto esecutivo, permettendo all’ente di saltare la fase della cartella ed accelerare i tempi di recupero. Tuttavia, continuano ad essere notificate cartelle per annualità pregresse non ancora riscosse o in alcuni casi particolari (es. enti locali che ancora utilizzano l’ingiunzione fiscale in luogo dell’agente nazionale). Pertanto, un contribuente nel 2025 può trovarsi dinanzi sia a un avviso di accertamento TARI immediatamente esecutivo sia a una cartella TARSU/TARI per vecchi periodi non pagati.

Perché è importante il ricorso: Dal punto di vista del debitore (contribuente), ricevere un avviso di accertamento o una cartella di pagamento in materia di rifiuti comporta l’avvio di un “conto alla rovescia” per reagire. Se non si presenta ricorso nei termini di legge, l’atto diventa definitivo e l’ente impositore (o il concessionario della riscossione) potrà procedere rapidamente con azioni di recupero sul patrimonio del contribuente – ad esempio pignorando conti correnti, stipendi, immobili – senza ulteriore preavviso. Questa guida, rivolta ad avvocati, privati cittadini e imprenditori, illustra come fare ricorso contro un avviso di accertamento TARSU/TARI o una cartella esattoriale TARSU, alla luce della normativa italiana aggiornata a luglio 2025. Verranno esaminati i riferimenti normativi chiave, le fasi del processo tributario di impugnazione, le strategie difensive più efficaci dal punto di vista del contribuente, e le ultime sentenze rilevanti dei tribunali tributari (Corte di Cassazione e Corti di Giustizia Tributaria), il tutto con un linguaggio giuridico ma accessibile. In coda sono presenti tabelle riepilogative, domande e risposte frequenti, nonché casi pratici simulati per contestualizzare gli istituti in situazioni reali. L’obiettivo è fornire un quadro avanzato e completo, ma chiaro, di come muoversi per difendersi da un’accertamento TARI/TARSU o da una cartella esattoriale relativa a tale tributo.

1. Quadro normativo e termini fondamentali

Prima di addentrarci nella procedura di ricorso, è utile delineare il quadro normativo essenziale in materia di tributi sui rifiuti e dei relativi atti:

  • Norme istitutive del tributo: La TARSU era disciplinata dal D.Lgs. 15 novembre 1993 n. 507 e dai regolamenti comunali attuativi. La TARI, introdotta dalla Legge 27 dicembre 2013 n. 147 (comma 639 e ss.), è oggi regolata sia da disposizioni statali (L. 147/2013; D.Lgs. 116/2020 in tema di tariffazione puntuale, ecc.) sia dai regolamenti di ciascun Comune. Entrambi i tributi hanno natura di tassa legata al servizio di smaltimento rifiuti, e non di corrispettivo volontario: ciò implica che le controversie relative alla TARSU/TARI rientrano nella giurisdizione tributaria e vanno trattate avanti al giudice tributario (non dal giudice ordinario), come chiarito dalla Cassazione già da tempo. Eventuali denominazioni come “tariffa” non devono trarre in inganno: anche la cd. “TIA” (Tariffa di Igiene Ambientale) è stata qualificata come tributo ai fini del contenzioso.
  • Obbligati e presupposto: Il presupposto della tassa rifiuti è il possesso o la detenzione, a qualsiasi titolo, di locali o aree suscettibili di produrre rifiuti urbani. Sono tenuti al pagamento tutti i coobbligati (vi è solidarietà tra più possessori/detentori dello stesso immobile). L’obbligo decorre dall’inizio dell’occupazione fino alla cessazione, che va comunicata con apposita dichiarazione TARI al Comune. La mancata presentazione della dichiarazione (ad esempio in caso di nuova proprietà o inizio di occupazione) può comportare accertamenti per omessa denuncia, con applicazione di sanzioni. Le esenzioni o riduzioni (ad es. per locali che non producono rifiuti perché inutilizzati, o per nuclei familiari a basso reddito, ecc.) sono previste dai regolamenti comunali e spesso richiedono esplicita richiesta del contribuente. In ogni caso, chi invoca un’esenzione (anche parziale) ha l’onere di provarne i presupposti: la Cassazione ha di recente ribadito che, pur spettando in generale all’ente impositore provare i fatti costitutivi del tributo, quando si tratta di ottenere una riduzione della superficie tassabile (es. aree scoperte non operative), l’onere probatorio ricade sul contribuente che chiede l’esclusione.
  • Termini di accertamento (“decadenza”): Il Comune deve attivarsi entro termini precisi per richiedere il tributo evaso. La legge finanziaria 2007 ha fissato un termine di 5 anni per notificare gli avvisi di accertamento dei tributi locali: in particolare l’art. 1 comma 161 della L. 296/2006 stabilisce che l’avviso dev’essere notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui il pagamento avrebbe dovuto essere effettuato. Ad esempio, per la TARI 2020 (dovuta nel 2020), l’ente locale ha sino al 31 dicembre 2025 per emettere e notificare un eventuale accertamento. Trascorso questo termine quinquennale, il potere di accertamento decade: il tributo per quell’anno non è più esigibile. Questa decadenza tutela il contribuente da pretese tardive a distanza di troppi anni. Va notato che la notifica si considera tempestiva anche se effettuata tramite servizio postale oltre il 31 dicembre, purché il plico sia stato consegnato alle poste entro fine anno (principio di spedizione).
  • Termini di riscossione coattiva: Nella disciplina previgente, dopo che un avviso di accertamento fosse diventato definitivo (per mancato ricorso nei 60 giorni o dopo sentenza passata in giudicato), il Comune aveva 3 anni di tempo per iscrivere il debito a ruolo e notificare la cartella esattoriale (o emettere un’ingiunzione). Questo termine triennale, fissato dall’art. 1 comma 163 L.296/2006, decorreva dall’anno successivo a quello in cui l’accertamento era divenuto definitivo. Ad esempio, se un avviso TARI 2017 veniva notificato nel 2022 e non impugnato, il Comune poteva notificare la cartella entro il 31 dicembre 2025. Oggi, con l’introduzione dell’avviso esecutivo, la fase della cartella è saltata per gli accertamenti emessi dal 2020 in avanti; pertanto il termine di decadenza triennale per la cartella riguarda solo i ruoli relativi ad accertamenti ante 2020. In pratica, per gli avvisi esecutivi recenti, notificati nei 5 anni dalla scadenza del tributo, l’ente può procedere alla riscossione appena scaduti i 60+30 giorni dall’avviso, e l’unico limite temporale residuo sarà quello della prescrizione (vedi oltre).
  • Prescrizione del diritto di riscossione: La prescrizione è l’estinzione del diritto a riscuotere il tributo per il decorso del tempo. A differenza della decadenza (che riguarda il potere dell’ente di formare l’atto impositivo nei termini), la prescrizione attiene al diritto sostanziale di credito e opera dopo la notifica dell’atto. Per i tributi locali come TARI/TARSU si applica il termine quinquennale previsto dall’art. 2948, n.4 del codice civile (prestazioni periodiche). La Corte di Cassazione ha più volte confermato che i crediti tributari locali si prescrivono in 5 anni, non essendo applicabile il termine ordinario decennale salvo che intervenga un titolo giudiziale definitivo. In particolare, le Sezioni Unite della Cassazione n. 23397/2016 hanno stabilito che il mancato ricorso contro un atto di riscossione (es. una cartella) lo rende “irretrattabile” ma non trasforma il termine di prescrizione breve in decennale (non operando l’art. 2953 c.c. in assenza di sentenza). Questo principio generale è stato da ultimo ribadito dalle Sezioni Unite 15/02/2024 n. 11676, che hanno fatto definitiva chiarezza: i tributi erariali (es. IRPEF, IVA) seguono la prescrizione decennale, mentre i tributi locali (IMU, TARI, TARSU, ecc.) restano soggetti alla prescrizione quinquennale, salvo che vi sia un giudicato. Dunque, ad esempio, una cartella TARSU non pagata si estingue dopo 5 anni dall’ultima notifica utile se nel frattempo l’ente non ha compiuto atti interruttivi. È importante sottolineare che, per costante giurisprudenza, il termine di prescrizione dei tributi locali inizia a decorrere dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello di riferimento del tributo (salvo eventi interruttivi successivi). Ogni notifica di un nuovo atto (avviso, cartella, sollecito formale, intimazione ex art.50 DPR 602/73, pignoramento, ecc.) interrompe la prescrizione, che ricomincia da capo dal giorno dell’atto interruttivo. Inoltre, eventuali periodi di sospensione legale (es. sospensione Covid, richieste di rateizzazione o rottamazione) non vengono conteggiati nel termine.

Tabella riepilogativa – Termini principali: Di seguito una tabella riassuntiva dei termini chiave relativi ad accertamento e riscossione TARSU/TARI:

AspettoTermineRiferimento
Decadenza avviso di accertamento5 anni (notifica entro 31/12 del 5° anno successivo all’anno d’imposta)Art. 1, c.161, L. 296/2006
Decadenza cartella (ante 2020)3 anni (notifica entro 31/12 del 3° anno dopo definizione avviso)Art. 1, c.163, L. 296/2006
Prescrizione tributo locale5 anni dal fatto generatore (rinnovabile con atti interruttivi)Art. 2948 n.4 c.c.; Cass. 17667/2024
Prescrizione tributo erariale10 anni (salvo eccezioni di legge)Art. 2946 c.c.; Cass. SU 11676/2024
Atto interruttivo tipicoNotifica di avviso, cartella, intimazione, atto di pignoramento, ecc.Art. 2943 c.c.; Cass. SU 23397/2016

(Legenda: “decadenza” = termine per emettere l’atto; “prescrizione” = termine per riscuotere il credito; “trib. erariali” = es. imposte statali; “trib. locali” = es. IMU, TARI, etc.)

2. Avviso di accertamento TARSU/TARI: caratteristiche e impugnazione

Un avviso di accertamento TARSU/TARI è l’atto formale con cui il Comune (o il soggetto da esso incaricato) contesta al contribuente un’omissione o insufficienza nel pagamento della tassa rifiuti per una certa annualità, determinando l’importo dovuto a titolo di tributo, sanzioni e interessi. L’avviso deve essere motivato in modo chiaro, indicando i presupposti di fatto (es. metri quadri rilevati, periodo non pagato, omessa dichiarazione) e le norme applicate. Inoltre, deve recare l’indicazione dell’autorità a cui ricorrere e del termine per il ricorso (60 giorni), come previsto dallo Statuto del contribuente e dal D.Lgs. 546/1992. Un’avviso carente di motivazione o privo degli elementi essenziali può essere dichiarato nullo, poiché lede il diritto di difesa del contribuente. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto che l’amministrazione finanziaria debba esplicitare anche le ragioni per cui non concede eventuali esenzioni astrattamente applicabili, fermo restando che sarà il contribuente a doverle documentare in giudizio. In ogni caso, un avviso di accertamento rifiuti deve sempre contenere: intestazione al contribuente (o agli eredi, se il soggetto è deceduto), l’ente impositore e tributo di riferimento, l’anno d’imposta contestato, il dettaglio degli importi (tributo evaso, sanzione, interessi, spese di notifica), una motivazione dettagliata e l’indicazione delle scadenze per il pagamento o il ricorso.

Dal 2020, come detto, l’avviso di accertamento TARI ha assunto anche efficacia di titolo esecutivo. Pertanto oggi sull’atto troveremo esplicitato che, decorsi 60 giorni dalla notifica senza pagamento, l’avviso “acquisterà efficacia esecutiva” e, trascorsi ulteriori 30 giorni, si potrà procedere ad esecuzione forzata. In sostanza, l’avviso invita il contribuente a pagare entro 60 giorni (o a proporre ricorso), avvertendo che in difetto il Comune potrà attivare direttamente il pignoramento, l’iscrizione di ipoteca o il fermo amministrativo, senza dover prima notificare una cartella. Queste nuove clausole, introdotte dalla L.160/2019, hanno trasformato l’avviso in un provvedimento ben più incisivo che in passato.

Come reagire a un avviso di accertamento: Dal momento della notifica dell’avviso TARI, il contribuente ha 60 giorni di tempo per esercitare la propria difesa. Le opzioni principali sono:

  • Pagamento o definizione agevolata: Se il contribuente riconosce la fondatezza dell’accertamento (in tutto o in parte) e vuole evitare il contenzioso, può pagare le somme richieste entro 60 giorni. In tal caso può beneficiare della riduzione delle sanzioni ad 1/3 del minimo, ai sensi dell’istituto dell’“acquiescenza” (art. 15 D.Lgs. 218/1997): in pratica, versando entro il termine di ricorso, le sanzioni vengono ridotte al 30% (in luogo del 100% normalmente applicato). L’avviso spesso indica già l’importo ridotto da pagare per chi voglia definire la lite. Alternativamente, il contribuente può chiedere una rateizzazione al Comune: molte amministrazioni, in base ai propri regolamenti, concedono il pagamento dilazionato dell’importo accertato (tipicamente fino a 6-12 rate mensili) se l’istanza è presentata entro i 60 giorni. Attenzione: il pagamento (o la rateizzazione) non interrompe automaticamente i termini di ricorso, salvo il caso in cui si formalizzi un’accettazione dell’accertamento (acquiescenza). Dunque, se si sta trattando col Comune per una definizione bonaria, è prudente richiedere espressamente una sospensione dei termini o presentare comunque un ricorso cautelativo.
  • Ricorso alla giustizia tributaria: È il mezzo ordinario di tutela. Consente di far esaminare l’atto da un giudice terzo e, se vi sono vizi (errori di fatto, di diritto, vizi di notifica, ecc.), di ottenerne l’annullamento totale o parziale. Il ricorso sospende la possibilità di riscossione solo se si ottiene una sospensiva dal giudice (vedi infra), altrimenti l’ente può comunque iniziare l’esecuzione per la parte consentita dalla legge. In sede di giudizio il contribuente può far valere tutte le eccezioni di merito e procedurali sull’atto (ad es. contestare il calcolo dei metri quadri, l’applicazione di sanzioni, la tardività dell’accertamento, la carenza di motivazione…). N.B.: Se il contribuente è deceduto, l’avviso va notificato agli eredi nominativamente. Una notifica effettuata soltanto al “defunto” presso il vecchio indirizzo è nulla: in caso di decesso comunicato agli uffici, l’ente deve intestare e notificare l’atto a ciascun erede nel proprio domicilio fiscale. Un avviso notificato invalidamente (ad es. al contribuente sbagliato, o con gravi vizi di forma) è impugnabile per chiederne l’annullamento. Più oltre esamineremo in dettaglio i motivi di ricorso tipici avverso un avviso.
  • Inazione (nessuna impugnazione): Se il contribuente lascia decorrere i 60 giorni senza pagare né ricorrere, l’avviso di accertamento diventa definitivo al 61° giorno. Ciò significa che l’importo contestato viene “cristallizzato” come debito certo ed esigibile. A quel punto, nel nuovo regime, l’avviso stesso acquista piena efficacia esecutiva e dopo ulteriori 30 giorni il Comune può affidare il carico all’Agente della riscossione per procedere con pignoramenti, fermi o ipoteche, senza ulteriore preavviso. Nel vecchio regime, invece, l’ente doveva iscrivere a ruolo le somme e notificare una cartella esattoriale entro i successivi 3 anni (come visto sopra). In entrambi i casi, l’inerzia preclude al contribuente la possibilità di contestare nel merito il tributo: egli potrà solo, eventualmente, opporsi alle successive azioni esecutive per vizi formali o sopravvenuti (ad es. chiedendo l’annullamento di un pignoramento perché il debito si è prescritto). Riassumendo: non impugnare un avviso nei termini comporta che il debito diviene definitivo e difficilmente evitabile.

3. Cartella di pagamento TARSU/TARI: cos’è e quando si impugna

La cartella di pagamento è l’atto tramite il quale l’Agente della Riscossione (oggi Agenzia delle Entrate–Riscossione) richiede formalmente al contribuente il pagamento di somme iscritte a ruolo dall’ente creditore. Nel caso della tassa rifiuti, la cartella (spesso chiamata “cartella TARSU” o “cartella TARI”) viene emessa su incarico del Comune quando un tributo locale risulta dovuto e non pagato, ed è basata su un ruolo formato dallo stesso ente impositore.

Quando si riceve una cartella TARI? Tipicamente in scenari come: (a) il contribuente non ha versato una bolletta TARI o un importo dovuto spontaneamente, e il Comune, senza emettere un avviso di accertamento, ha direttamente iscritto a ruolo la somma dovuta; (b) il contribuente ha ricevuto un avviso di accertamento, non lo ha impugnato né pagato, e trascorsi i 60 giorni il debito è diventato definitivo, portando all’emissione della cartella dopo l’iscrizione a ruolo (questo però vale per accertamenti antecedenti il 2020); (c) il Comune utilizza la ingiunzione fiscale ex R.D. 639/1910 anziché la cartella: in tal caso l’ingiunzione svolge la stessa funzione e anch’essa è impugnabile davanti al giudice tributario. Dal 2020 in poi, come detto, gli avvisi esecutivi hanno in gran parte soppiantato le cartelle, ma queste ultime possono ancora arrivare per il recupero di anni passati. Ad esempio, molti comuni nel 2020-2021 hanno inviato cartelle tramite AeR per TARI 2015-2016 non pagate, sfruttando i termini di decadenza ancora aperti.

Struttura della cartella: La cartella esattoriale si compone generalmente di un frontespizio con l’elenco degli enti creditori e delle causali (es. “Comune di X – TARI anno Y – omesso pagamento”), l’importo totale dovuto (comprensivo di tributo, interessi, sanzioni e aggi di riscossione) e le istruzioni per il pagamento (conto corrente, sito web, etc.). Inoltre contiene l’avvertenza che, in mancanza di pagamento entro 60 giorni dalla notifica, la cartella costituisce titolo esecutivo per attivare misure cautelari o esecutive (fermo, ipoteca, pignoramento) senza bisogno di ulteriori atti, fatto salvo l’eventuale invio di un’intimazione di pagamento ex art. 50 DPR 602/73. In pratica, la cartella ha già forza precettiva: è sia un atto amministrativo sia un precetto ai sensi di legge, che impone al debitore di adempiere entro un termine per evitare l’esecuzione.

Rapporto tra cartella e avviso di accertamento: È fondamentale capire che la cartella non crea un nuovo tributo, ma si basa su un credito già accertato a monte. Se la cartella si riferisce a una tassa rifiuti evasa, in teoria dovrebbe essere stata preceduta da un avviso di accertamento ritualmente notificato al contribuente (il cosiddetto atto “prodromico”). Se manca il previo avviso, la cartella viene emessa sine titulo, cioè senza un atto impositivo valido a monte: in tal caso, la cartella è illegittima e i giudici tributari la annullano per difetto del presupposto. La giurisprudenza, infatti, è unanime nel ritenere che “la cartella TARI è nulla se non preceduta dall’avviso di accertamento”, perché il contribuente va prima messo a conoscenza dell’imposizione e solo dopo, se inadempiente, coattivamente riscossso. Ad esempio, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Catanzaro (sent. n. 1189/2023) ha annullato una cartella TARI proprio perché il Comune non aveva dimostrato la notifica di alcun avviso precedente, ribadendo che in assenza di un atto impositivo notificato la cartella non ha titolo giuridico.

Detto ciò, fino al 2019 lo schema procedurale standard era: avviso di accertamento non esecutivo → mancato pagamento/ricorso → iscrizione a ruolo → cartella entro 3 anni. Col nuovo sistema invece: avviso esecutivo → mancato pagamento/ricorso → nessuna cartella, si passa direttamente all’esecuzione (salvo un possibile sollecito bonario o l’intimazione di pagamento prevista dall’art. 50 DPR 602/73 se trascorre più di un anno). L’intimazione di pagamento ex art.50 DPR 602/73 non è un nuovo atto impositivo, ma un semplice ultimo avviso: la legge impone che, se è passato oltre un anno dalla notifica della cartella senza che sia iniziata l’esecuzione forzata, prima di pignorare l’Agente della riscossione debba notificare al debitore un’intimazione a pagare entro 5 giorni. Tale intimazione, che ha natura di atto amministrativo dovuto, è impugnabile solo per vizi propri o per far valere fatti estintivi sopravvenuti (ad esempio la prescrizione maturata dopo la cartella, o il pagamento effettuato altrove). Non riapre invece i termini per contestare vizi originari già presenti nella cartella non impugnata.

Quando e come impugnare la cartella: Ricevere una cartella di pagamento TARSU/TARI offre al contribuente la possibilità di impugnarla davanti al giudice tributario entro 60 giorni dalla notifica, al pari di qualsiasi avviso di accertamento. Il ricorso tributario contro la cartella segue infatti le stesse regole (stessi termini e modalità) del ricorso contro un avviso, perché la cartella rientra negli atti impugnabili elencati dall’art.19 D.Lgs.546/92. Tuttavia, i motivi di ricorso esperibili contro una cartella possono differire da quelli contro un avviso, in quanto la cartella è spesso un atto consequenziale. In linea generale, si possono distinguere due situazioni:

  • Se la cartella è il primo atto con cui il contribuente viene a conoscenza del debito TARI (nessun accertamento notificato prima), allora qualsiasi motivo sostanziale relativo al tributo può essere fatto valere in sede di ricorso contro la cartella. Ad esempio, si potrà eccepire che il tributo non era dovuto, che è già stato pagato, che è prescritto, che vi è un errore nel calcolo dei metri quadri, ecc., analogamente a come si farebbe contro un avviso. Questo perché la cartella in tal caso tiene luogo dell’avviso non notificato: il contribuente non può essere privato del diritto di difesa sul merito della pretesa tributaria solo perché il Comune ha saltato la fase dell’accertamento.
  • Se la cartella è invece successiva a un avviso di accertamento definitivo (mai impugnato nei termini), il merito della pretesa tributaria non può più essere rimesso in discussione. In questo scenario, eventuali ricorsi contro la cartella potranno far valere soltanto vizi propri della cartella o del procedimento di riscossione. Ad esempio: la cartella potrebbe essere nulla perché notificata oltre il termine di 3 anni dalla definitività dell’avviso (violazione dei termini di decadenza della riscossione); oppure si potrà eccepire che nel frattempo il debito si è prescritto perché sono passati oltre 5 anni senza solleciti (eccezione di prescrizione quinquennale, sempre proponibile); o ancora si potrà contestare un vizio di notifica della cartella stessa (es. cartella notificata a soggetto o indirizzo errato). Invece, questioni di merito come l’erronea quantificazione del tributo o l’errata applicazione di un’esenzione non potranno essere riesaminate, essendo coperte dalla definitività dell’atto precedente. Si comprende dunque quanto sia importante impugnare tempestivamente l’avviso: trascorso il termine, gli spazi difensivi si restringono.

Va ricordato che la cartella, in quanto atto autonomo, può essere impugnata anche se il contribuente eccepisce di non aver mai ricevuto l’avviso presupposto. Anzi, questo è uno dei motivi più frequenti di ricorso: se il destinatario afferma che l’accertamento non gli fu notificato, sarà onere del Comune provare il contrario in giudizio (esibendo la relazione di notifica). In mancanza di tale prova, la cartella verrà annullata perché il tributo non risulta validamente accertato.

4. Fasi del ricorso tributario (come presentare il ricorso)

Vediamo ora come si propone in concreto il ricorso contro un avviso di accertamento TARSU/TARI o una cartella di pagamento, passo per passo, tenendo conto delle novità normative fino al 2025.

4.1 Termine per proporre ricorso (60 giorni)

Il termine per impugnare un atto tributario dinanzi alle Commissioni (ora Corti) Tributarie è, in generale, di 60 giorni dalla data di notificazione dell’atto. Questo termine, previsto dall’art. 21 del D.Lgs. 546/1992, è perentorio: il ricorso proposto oltre i 60 giorni è dichiarato inammissibile, salvo che il contribuente provi un’irregolarità nella notifica tale da aver fatto decorrere il termine in ritardo. Ad esempio, se la cartella è stata notificata via PEC, il termine decorre dalla data di consegna della PEC all’indirizzo del destinatario; se è stata notificata a mezzo posta, dal ricevimento dell’atto (o dalla compiuta giacenza). È importante distinguere: presentare ricorso significa attivare il procedimento giurisdizionale, non semplicemente inviare una lettera al Comune. Dunque entro 60 giorni bisogna aver notificato il ricorso all’ente creditore (o all’Agente della Riscossione, se si contesta solo quest’ultimo) secondo le modalità previste (PEC, ufficiale giudiziario, messo notificatore – vedi oltre).

Effetti della scadenza: decorso inutilmente il termine di 60 giorni, l’atto diviene definitivo e non più contestabile nel merito. In termini sostanziali, ciò comporta l’“irretrattabilità” del credito: il Comune può procedere con la riscossione e il contribuente, anche se rilevasse in ritardo un errore nell’atto, non potrebbe più farlo valere con un ricorso. Ecco perché è fondamentale calcolare bene la scadenza e attivarsi per tempo.

Sospensione feriale dei termini: Si rammenti che dal 1° gennaio 2016 i termini processuali tributari sono sospesi dal 1° al 31 agosto di ogni anno (art. 1 L. 742/1969 come modificata). Quindi un ricorso il cui termine cade in quel periodo gode del prolungamento. Ad esempio, per un avviso notificato il 10 luglio, i 60 giorni scadrebbero il 8 settembre, ma i giorni dal 1 al 31 agosto non si contano, spostando la scadenza ai primi di ottobre. Questa sospensione si applica sia al termine per ricorrere sia ai termini per depositare atti in corso di causa.

4.2 Reclamo e mediazione (abolizione dal 2024)

In passato (dal 2012 in poi) le controversie di valore fino a una certa soglia erano soggette a un procedimento preliminare di reclamo/mediazione tributaria: il contribuente doveva notificare il ricorso che fungeva anche da reclamo all’ente impositore e attendere 90 giorni prima di depositarlo, periodo durante il quale si poteva trovare un accordo (con riduzione delle sanzioni al 35%). Questo era obbligatorio, ad esempio, per cause fino a €50.000 nel 2023. Dal 2024 questa fase è stata abolita: l’art. 17-bis del D.Lgs. 546/92 (che disciplinava reclamo e mediazione) è stato abrogato dal 4 gennaio 2024 per effetto del D.Lgs. 30 dicembre 2023 n. 220. Il MEF ha chiarito che l’abrogazione si applica ai ricorsi notificati dal 4 gennaio 2024 in poi; per quelli notificati fino al 3 gennaio 2024 resta applicabile la vecchia procedura. In pratica, oggi tutti i ricorsi tributari possono essere depositati subito dopo la notifica, senza dover attendere i 90 giorni di mediazione. Conseguentemente, sono cambiati i termini di deposito del ricorso: prima, in caso di reclamo, il ricorso doveva essere depositato entro 30 giorni dallo spirare dei 90 giorni (quindi entro 120 giorni dalla notifica del ricorso); ora invece il ricorrente deve depositare entro 30 giorni dalla notifica del ricorso stesso. Questa modifica mira ad accelerare il processo. Facciamo un esempio concreto:

  • Ricorso notificato il 10 marzo 2025 contro un avviso TARI di €40.000: non essendoci più mediazione obbligatoria, il contribuente dovrà depositare il ricorso presso la segreteria della Corte di Giustizia Tributaria entro il 9 aprile 2025 (30 giorni dalla notifica). Se depositasse oltre tale data, il ricorso sarebbe inammissibile. In passato, invece, avrebbe notificato il ricorso/reclamo il 10 marzo e potuto attendere fino al 8 luglio per depositarlo (90+30 giorni).
  • Ricorso notificato il 20 dicembre 2023 (quando ancora la mediazione era in vigore) per €30.000: in tal caso si sarebbe dovuto aspettare 90 giorni (fino circa al 20 marzo 2024) prima di poter depositare, applicando le vecchie regole.

Alla luce di ciò, dal 2024 in poi non occorre più redigere l’istanza di reclamo né inserire la proposta di mediazione: il ricorso introduttivo sarà strutturato direttamente come atto giurisdizionale (vedi oltre) e seguirà l’iter ordinario.

4.3 Modalità di notifica del ricorso

Il ricorso va innanzitutto notificato alla controparte, entro i 60 giorni, a cura del contribuente (o del suo difensore). La notifica può avvenire con diverse modalità consentite dal D.Lgs. 546/92, art. 16:

  • PEC (Posta Elettronica Certificata): È ormai la modalità preferibile. Si invia il ricorso in formato PDF sottoscritto digitalmente, tramite PEC, all’indirizzo PEC istituzionale dell’ente impositore (Comune) o del concessionario della riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione) se la causa riguarda solo la cartella. Gli indirizzi PEC degli enti locali sono reperibili sull’IPA (Indice PA) o sui siti istituzionali. La notifica via PEC è valida e perfezionata quando il mittente riceve la ricevuta di consegna. Attenzione: il ricorso notificato via PEC deve essere firmato digitalmente oppure contenere firma autografa scansita con attestazione di conformità, secondo le regole tecniche del PTT (Processo Tributario Telematico).
  • Ufficiale giudiziario (notifica in cartaceo): In alternativa, è possibile far notificare il ricorso tramite l’UNEP (ufficiale giudiziario), soprattutto se non si dispone di PEC. Si deposita l’atto e l’ufficiale provvede alla notifica a mezzo posta o tramite messo comunale. La data di notifica sarà quella di spedizione (se a mezzo posta) o di consegna.
  • Notifica diretta a mezzo posta raccomandata: In ambito tributario è ammessa la notifica diretta del difensore tramite raccomandata con avviso di ricevimento. Il ricorso cartaceo, sottoscritto in originale, può essere spedito all’ente creditore: la notifica si considera perfezionata alla data di ricezione risultante dall’AR. Questa modalità sta cadendo in disuso con l’avvento della PEC, ma rimane una possibilità.
  • Messo comunale o agente della riscossione: Talvolta i Comuni consentono che il ricorso venga notificato tramite il proprio messo notificatore. Ad esempio, il contribuente può depositare il ricorso presso l’Ufficio Tributi che rilascia ricevuta protocollata – ciò può valere come notifica se previsto dal regolamento. L’Agente della riscossione (AER) ha anch’esso messi notificatori per atti interni, ma il ricorso va indirizzato alla sua Direzione affari legali tramite PEC.

Quando si notifica, è essenziale allegare tutta la documentazione: il ricorso firmato, la copia dell’atto impugnato (avviso/cartella) e gli eventuali documenti di prova principali. Inoltre, in calce al ricorso, se il valore supera €3.000, va indicato il valore della controversia (in euro), perché da ciò dipende il contributo unificato dovuto (se non lo si indica, per legge la causa si presume di valore oltre €200.000, con conseguente contributo massimo).

Una volta notificato il ricorso, il contribuente (ora formalmente “ricorrente”) deve passare alla fase del deposito presso la segreteria del giudice tributario.

4.4 Iscrizione a ruolo e contributo unificato

L’iscrizione a ruolo del ricorso – oggi da effettuarsi telematicamente – consiste nel depositare il ricorso notificato, con gli allegati, sulla piattaforma SIGIT (Sistema Informativo della Giustizia Tributaria) accessibile dal Portale della Giustizia Tributaria. Questo deposito va fatto entro 30 giorni dall’avvenuta notifica del ricorso. In pratica, dopo aver notificato via PEC o posta, si prepara il fascicolo informatico e lo si invia telematicamente (dal 2023 il deposito telematico è obbligatorio, non è più ammesso il cartaceo salvo blackout).

Tra i documenti da depositare c’è la prova dell’avvenuta notifica del ricorso all’ente convenuto: ad esempio, la ricevuta di PEC con consegna, oppure la cartolina AR firmata, oppure la relazione dell’UNEP. Inoltre, bisogna allegare la copia dell’atto impugnato e degli eventuali documenti a supporto (es. ricevute di pagamento, dichiarazioni TARI presentate, delibere tariffarie, ecc.).

Contestualmente al deposito, il ricorrente deve versare il Contributo Unificato Tributario (C.U.T.), una tassa di iscrizione a ruolo il cui importo dipende dal valore della controversia (art. 13 D.P.R. 115/2002, come modificato). Il valore si calcola sul tributo richiesto (esclusi interessi e sanzioni); se si impugnano solo sanzioni, vale la somma di queste; se ci sono più annualità cumulate, il valore è dato dalla somma dei tributi per anno. In caso di valore indeterminabile, si paga un importo fisso di €120. Il pagamento del contributo può farsi tramite modello F23 (codice 171T) o altre modalità indicate dal Portale. La ricevuta di versamento va inserita tra gli allegati nel deposito telematico, pena la segnalazione di irregolarità (normalmente sanabile, ma è obbligo del ricorrente provvedere).

Ecco una tabella con gli scaglioni del contributo unificato tributario in primo grado (invariati fino al 2025):

Valore della liteContributo unificato
Fino a € 2.582,28€ 30,00
Oltre € 2.582,28 e fino a € 5.000,00€ 60,00
Oltre € 5.000,00 e fino a € 25.000,00€ 120,00
Oltre € 25.000,00 e fino a € 75.000,00€ 250,00
Oltre € 75.000,00 e fino a € 200.000,00€ 500,00
Oltre € 200.000,00€ 1.500,00

(Dati ex art. 13, c.6-quater, D.P.R. 115/2002 – Nota: se il ricorrente non indica il valore in atti, si presume >€200.000 e il contributo dovuto è €1.500. Importi raddoppiati in appello e aumentati del 50% in Cassazione.)

Va anche segnalato che, in base all’art. 12, c. 5 del D.Lgs. 546/92, se il ricorrente (o il suo difensore) omette di indicare nel ricorso il proprio indirizzo PEC oppure il proprio codice fiscale, il contributo unificato è aumentato della metà. Questo per incentivare la comunicazione telematica e l’identificazione univoca delle parti.

4.5 Assistenza tecnica (necessità di un difensore)

Nel processo tributario il contribuente può agire da solo (senza assistenza tecnica) solo per le controversie di modesto valore, ossia di importo fino a €3.000 (valore del tributo, al netto di interessi e sanzioni) – art. 12, c. 5 D.Lgs. 546/92. Oltre tale soglia, è necessario farsi assistere da un difensore abilitato. I difensori abilitati nel contenzioso tributario sono: avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili, consulenti del lavoro, nonché (per le cause di loro competenza) i funzionari dell’ente impositore o della riscossione. In materia di TARI/TARSU, trattandosi di tributo locale, il Comune di solito è rappresentato in giudizio da un proprio funzionario o da legali esterni, mentre il contribuente può scegliere un avvocato tributarista o un commercialista. È altamente consigliabile, anche nelle liti di valore inferiore a €3.000, farsi assistere da un professionista, data la complessità tecnico-giuridica delle questioni (basti pensare alla distinzione decadenza/prescrizione, alle norme locali, ecc.). Il difensore deve essere munito di procura rilasciata dal contribuente (solitamente a margine o in calce al ricorso) e, se avvocato, dev’essere iscritto almeno nell’elenco speciale degli abilitati al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni tributarie. Per il ricorso in Cassazione è necessaria l’ulteriore abilitazione al patrocinio in Cassazione (avvocato cassazionista).

4.6 Richiesta di sospensione dell’esecuzione

Proporre ricorso non sospende automaticamente gli effetti esecutivi dell’atto impugnato. Ciò significa che, ad esempio, l’avviso di accertamento TARI – trascorsi i 60 giorni – potrebbe diventare esecutivo anche se è stato impugnato, a meno che il contribuente non ottenga un provvedimento di sospensione. Per evitare che l’ente proceda al recupero forzoso durante il giudizio, il contribuente può presentare un’istanza di sospensione (sospensiva) al giudice tributario, ai sensi dell’art. 47 D.Lgs. 546/92. Tale istanza può essere inserita nel ricorso stesso (di solito in calce, con una apposita sezione “istanza cautelare”) oppure presentata con atto separato finché la causa è pendente. Deve indicare le ragioni di grave e irreparabile danno che deriverebbero dall’esecuzione dell’atto (es. il rischio di dover subire un pignoramento o di fallire) e il fumus boni iuris, ossia gli elementi che fanno apparire fondato il ricorso.

La Corte di Giustizia Tributaria (prima Commissione) decide sull’istanza cautelare in tempi relativamente brevi (teoricamente entro 180 giorni dalla richiesta, ma spesso molto prima, specialmente se c’è pericolo imminente). Se accoglie l’istanza, sospende l’esecutività dell’atto fino alla decisione di merito. In tal caso, il Comune o l’Agenzia delle Entrate-Riscossione non potranno procedere ad azioni esecutive nelle more del giudizio di primo grado. Se invece la sospensione viene negata, l’ente può proseguire la riscossione nonostante il ricorso pendente. Ad ogni modo, quando il merito verrà deciso, l’eventuale pagamento forzato effettuato verrà poi restituito se il contribuente avrà successo nel giudizio.

Nel nuovo contesto degli avvisi esecutivi, ottenere la sospensione è particolarmente importante: senza di essa, decorso il termine, l’Agente della riscossione può iniziare il pignoramento di 1/3 dello stipendio o bloccare il conto corrente anche se il ricorso non è ancora deciso. Viceversa, con la sospensiva concessa, nessuna azione coattiva può partire nel frattempo. Dunque è buona pratica, contestualmente al ricorso, chiedere sempre la sospensione quando l’importo è rilevante o quando si ravvisa un concreto rischio per il patrimonio del ricorrente.

4.7 Svolgimento del giudizio e decisione in primo grado

Una volta depositato il ricorso (e pagato il contributo unificato), la segreteria della Corte di Giustizia Tributaria lo iscrive a ruolo e assegna un numero di RG (registro generale). L’ente resistente (Comune o concessionario) viene avvisato dell’instaurazione del giudizio e potrà depositare entro 60 giorni dal ricevimento del ricorso la propria memoria di costituzione (comparsa di risposta) con le controdeduzioni. Nel processo tributario, i termini per depositare memorie successive sono: 30 giorni prima dell’udienza per memorie illustrative del ricorrente, 20 giorni prima per repliche del resistente, 10 giorni prima per eventuali controrepliche del ricorrente (art. 32, D.Lgs.546/92). Questi scambi scritti servono a mettere in evidenza fatti e giurisprudenza rilevanti.

La trattazione della causa avviene di regola in camera di consiglio non pubblica, salvo richiesta di pubblica udienza o decisione della Corte in tal senso. Le Corti di Giustizia Tributaria di primo grado, istituite nel 2023 in sostituzione delle Commissioni Tributarie Provinciali, decidono in composizione collegiale (3 giudici) oppure monocratica per le controversie di valore inferiore a €3.000 (novità introdotta dalla riforma della giustizia tributaria del 2022). Nelle cause TARI, spesso di valore più elevato, sarà usualmente un collegio a decidere. All’udienza (o camera di consiglio) il giudice relatore espone la causa, le parti possono discutere brevemente se presente l’eventuale difensore, dopodiché il collegio si ritira e delibera la decisione.

La decisione viene emessa in forma di sentenza, depositata entro 30 giorni (in teoria) e successivamente comunicata alle parti. La sentenza può: accogliere il ricorso (annullando in tutto o in parte l’atto impugnato), respingerlo (confermando la legittimità dell’atto) oppure dichiarare il ricorso inammissibile/improcedibile per vizi procedurali. In caso di accoglimento totale, l’avviso o la cartella vengono annullati: ciò significa che il tributo non è dovuto, o è dovuto in misura minore se l’annullamento è parziale (es. riconosciuta prescrizione per alcuni anni soltanto). Se invece il ricorso è respinto, l’atto impugnato rimane valido ed efficace: l’ente potrà quindi riscuotere le somme. Generalmente, la sentenza che respinge il ricorso fa venir meno l’eventuale sospensione provvisoria concessa; tuttavia la legge prevede che l’esecuzione forzata non possa iniziare prima che siano decorsi 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado (art. 68 D.Lgs. 546/92), così da dare il tempo al soccombente di appellare. Nel caso di avvisi TARI esecutivi, la norma stabilisce anche che, se il contribuente perde in primo grado, deve versare provvisoriamente una percentuale delle imposte contestate: in particolare, è tenuto a pagare 2/3 dell’importo se non l’aveva già versato prima (tenendo conto di quanto eventualmente versato dopo l’avviso) – art. 68 cit. Questo importo è dovuto a titolo provvisorio in pendenza di appello.

La sentenza di primo grado decide anche sulle spese di giudizio. Di regola chi perde viene condannato a rifondere le spese legali alla controparte vincitrice (tariffate secondo parametri ministeriali). Tuttavia, nelle liti tributarie minori è frequente che le spese vengano “compensate” (ciascuno le sopporta per sé) specie se la materia era controversa. Il contribuente vittorioso, se gli vengono liquidate le spese, potrà chiederne il rimborso al Comune; se invece è condannato alle spese, dovrà pagare l’importo stabilito in sentenza all’ente (o all’Agenzia) entro 30 giorni, altrimenti diventa esso stesso un nuovo debito iscrivibile a ruolo.

4.8 Impugnazioni di secondo grado e in Cassazione

La parte soccombente in primo grado (contribuente o ente) può proporre appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale) entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. L’appello si propone con atto da notificare alla controparte e da depositare, analogamente al ricorso di primo grado. Il giudizio di appello ricalca quello di primo grado quanto a modalità (memorie, udienza, sentenza), ma si svolge davanti a un collegio di secondo grado. In appello sono dovuti nuovi contributi unificati (stesse misure del primo grado, ma raddoppiate se l’appellante è il soccombente totale). La sentenza d’appello potrà confermare o riformare la decisione di primo grado. Dopo la riforma del 2022, in secondo grado sono possibili anche figure di giudice monocratico per le cause minori, ma per materia di tributi locali di solito l’importo in gioco porta alla composizione collegiale.

Avverso la sentenza di secondo grado è ammesso il ricorso per Cassazione (giudice di legittimità) per motivi di diritto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza d’appello (o 6 mesi dalla pubblicazione, se non notificata). Il ricorso per Cassazione in materia tributaria richiede il ministero di un avvocato cassazionista iscritto all’albo speciale. In Cassazione non si rianalizzano i fatti, ma solo le questioni di legittimità (errori di diritto, vizi di motivazione entro limiti stringenti). La Cassazione può respingere il ricorso (rendendo definitiva la decisione di merito impugnata) oppure accoglierlo, cassando la sentenza e rinviando ad altra Corte di merito per un nuovo esame, o ancora decidendo direttamente la causa nei rari casi in cui non servono ulteriori accertamenti di fatto. Il giudizio in Cassazione comporta il pagamento di un contributo unificato aumentato (circa 1,5 volte l’importo base, fino a migliaia di euro per valori alti) e le spese legali seguono la soccombenza.

Va sottolineato che, dopo la sentenza di secondo grado, l’esecuzione riprende: l’ente impositore può riscuotere l’intero importo (salvo quanto già versato) anche in pendenza di ricorso in Cassazione, poiché l’appello non sospende di diritto l’esecutività. Il contribuente può solo chiedere alla Cassazione stessa una sospensione dell’esecutività della sentenza d’appello per evitare il pagamento nel frattempo (istanza non frequente, decisa dalle Sezioni Unite in caso di “gravissimo danno”).

Riassumendo: il ricorso tributario contro avvisi TARI o cartelle TARSU è un procedimento che si articola su più possibili gradi (primo grado, appello, Cassazione), ma i tempi e i costi aumentano man mano che si sale di grado. È dunque importante impostare al meglio la difesa sin dal primo ricorso e, se possibile, risolvere la questione nei primi due gradi.

Prima di passare ad esaminare nel dettaglio i motivi di ricorso più frequenti e le ultime sentenze in materia, presentiamo un quadro comparativo tra il ricorso tributario e altri mezzi di tutela, giacché talvolta il contribuente si chiede se rivolgersi al giudice civile ordinario.

Differenza tra ricorso tributario e opposizione all’esecuzione civile: Il ricorso di cui abbiamo parlato è quello tributario, davanti al giudice tributario, volto a contestare la pretesa fiscale (esistenza del debito, vizi dell’atto impositivo, ecc.). Esiste però anche la possibilità di agire davanti al giudice ordinario con un’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., ma ciò è limitato ai casi in cui si vogliano far valere vizi della fase esecutiva (es. illegittimità di un pignoramento) e non più contestare il tributo in sé. La tabella seguente sintetizza le differenze:

CaratteristicaRicorso tributario (Corte Giust. Trib.)Opposizione all’esecuzione (Giudice civile)
Atto impugnatoAtto impositivo: es. avviso di accertamento, cartella (contenuto del debito).Atto esecutivo: es. precetto, pignoramento (modalità dell’esecuzione).
Termine per agire60 giorni dalla notifica dell’atto impugnato.40 giorni dall’atto esecutivo (pignoramento/precetto) ex art. 615 c.p.c.
Oggetto della contestazioneMerito del tributo/atto: errori di calcolo, illegittimità dell’avviso, prescrizione del tributo, difetti di notifica dell’atto impositivo, ecc..Vizi della procedura esecutiva: es. pignoramento notificato irregolarmente, incompetenza del giudice dell’esecuzione, errori nell’atto di precetto. Non rivede il merito del tributo sottostante.
Effetto sul titoloSe accolto, l’atto impugnato viene annullato (in tutto o in parte). L’obbligo tributario viene meno o si riduce, e con esso il titolo esecutivo.Se accolta, l’azione esecutiva viene bloccata (annullamento del pignoramento o altro). Ma l’atto impositivo originario resta valido: il debito tributario rimane, solo che non si possono aggredire quei beni.
Giudice competenteGiudice tributario (Corte Giustizia Trib. primo grado o secondo grado).Giudice ordinario: Tribunale civile (sez. esecuzioni) competente per materia/valore.

Come si vede, il ricorso tributario è lo strumento da usare finché si discute della legittimità del tributo o dell’atto impositivo. L’opposizione civile all’esecuzione resta marginale, da utilizzarsi se il contribuente non ha impugnato in tempo e vuole far valere magari una prescrizione sopravvenuta o un vizio del pignoramento. Ma attenzione: le Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 34447/2019) hanno chiarito che anche le eccezioni di prescrizione del credito tributario sollevate dopo la notifica della cartella rientrano nella giurisdizione del giudice tributario, purché proposte con ricorso contro la cartella stessa. Solo se la prescrizione matura dopo la cartella non impugnata, allora l’eccezione potrà farsi valere in sede di opposizione all’esecuzione (poiché a quel punto il merito è definito, ma il diritto di procedere si sarebbe estinto).

5. Motivi di ricorso frequenti contro avvisi e cartelle TARSU/TARI

Passiamo ora in rassegna i principali motivi di impugnazione che un contribuente-debitore può far valere nel ricorso contro un avviso di accertamento TARSU/TARI o contro una cartella di pagamento relativa a tali tributi. Si tratta delle casistiche più comuni emerse nella pratica e nella giurisprudenza.

  • Errore sull’identificazione del soggetto passivo: può accadere che l’ente impositore individui erroneamente il destinatario della tassa. Ad esempio, viene emesso un avviso TARI nei confronti del proprietario quando invece il soggetto tenuto al pagamento era l’inquilino (o viceversa), oppure nei confronti di un soggetto non più titolare dell’immobile nell’anno in contestazione. In tali casi si eccepisce il difetto di legittimazione passiva: se il contribuente prova di non essere stato occupante/proprietario nell’anno oggetto di tassa (ad es. producendo atti di vendita o di locazione), l’accertamento sarà annullato nella parte in cui lo riguarda. Altro esempio: avvisi intestati cumulativamente a più coobbligati senza distinguere le posizioni – ogni coobbligato risponde per intero verso il Comune, ma può contestare errori sulla propria posizione (es. comproprietario che ha diritto a esenzione per la sua quota).
  • Vizi di notificazione dell’atto impugnato: la notifica degli avvisi/cartelle deve rispettare le forme di legge (L. 890/1982 per posta, o PEC valida, o messo notificatore autorizzato). Se la notifica è inesistente o nulla, l’atto non è giuridicamente “conoscibile” per il contribuente. Un caso peculiare è la notifica a persona deceduta: come già detto, l’atto va notificato agli eredi (nominativamente) se l’ufficio è a conoscenza del decesso. La Cassazione di recente (ord. n. 11097/2025) ha confermato che l’avviso intestato al contribuente defunto e spedito al vecchio indirizzo è inesistente, se gli eredi avevano comunicato i propri dati: l’atto così notificato è inidoneo e va annullato. Anche la notifica a mezzo PEC può presentare vizi: ad esempio, se l’ente invia l’avviso ad un indirizzo PEC non risultante dai pubblici elenchi (INI-PEC) ma ad una PEC comunicata in passato dal contribuente che però non è più valida, la notifica è nulla. Oppure, se la cartella via PEC viene inviata con un allegato non integro o privo di firma digitale, si può eccepire la nullità. I vizi di notifica, se provati, comportano l’annullamento dell’atto salvo che l’ente riesca a dimostrare che il contribuente ne ha comunque avuto conoscenza in altro modo e in tempo utile (principio del raggiungimento dello scopo, a volte invocato).
  • Difetto di motivazione o motivazione insufficiente: come previsto dallo Statuto del Contribuente (art. 7 L. 212/2000), ogni atto impositivo deve essere motivado, ossia devono esservi esposti i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo fondano. Un motivo frequente di ricorso è la contestazione dell’omessa o carente motivazione dell’avviso. Ad esempio, se nell’avviso TARI il Comune si limita a intimare un importo senza spiegare come è stato calcolato (metri quadri, tariffa, periodo) o senza indicare perché richiede l’importo (omessa dichiarazione? versamenti non trovati?), l’atto è annullabile perché non mette il contribuente in grado di difendersi. La Cassazione ha chiarito che la motivazione dell’accertamento del tributo deve delimitare le ragioni dell’ufficio e indicare i fatti a supporto; inoltre, se l’Ufficio non riconosce una possibile esenzione, dovrebbe indicarne le ragioni in motivazione. Ad esempio, se esiste una categoria di immobili esenti (come aree scoperte non operative) e il contribuente ne aveva fatto menzione, l’avviso dovrebbe spiegare perché quell’esenzione non è applicata. Un caso concreto: Cass. n. 3860/2025 ha annullato un avviso TOSAP perché l’ente non aveva allegato all’atto gli elementi (delibera tariffaria) richiamati solo per relationem e non conosciuti dal contribuente, violando l’obbligo di allegazione in caso di motivazione per relatione. Dunque, motivazione assente o incompleta = vizio dell’atto impugnabile.
  • Errata determinazione della superficie tassabile o della tariffa: moltissimi ricorsi TARSU/TARI riguardano contestazioni di errore nel calcolo. Esempi: il Comune accerta la tassa su una superficie maggiore di quella reale (magari per un errore catastale) oppure applica una tariffa sbagliata (es. considera l’immobile come “attività commerciale” con tariffa più alta, mentre era un’abitazione). In questi casi il contribuente deve provare l’errore, allegando planimetrie e visure per la metratura corretta, o documenti sull’uso dell’immobile. Se il contribuente dimostra che la superficie assoggettata a tassa è inferiore a quella indicata, la tassa va ricalcolata e l’atto parzialmente annullato. Un altro esempio: se l’avviso TARSU applica tariffa piena a un fabbricato rurale che per regolamento doveva avere tariffa agevolata, si eccepisce la violazione del regolamento e l’atto è illegittimo in parte qua. Ancora: alcuni Comuni in passato hanno commesso errori nel calcolo della quota variabile TARI sulle pertinenze (famoso caso della “TARI gonfiata” su garage e cantine): tali errori aritmetici, se comprovati, portano all’annullamento parziale con rideterminazione del dovuto. In sintesi, ogni difformità nei numeri (metri quadri, numero occupanti, tariffa €/mq) può essere motivo di ricorso. È onere del Comune dimostrare la base di calcolo utilizzata, ma spesso in giudizio la differenza la fanno le prove portate dal contribuente (fotografie che mostrano locali inagibili, certificati di fine occupazione, ecc.).
  • Inesistenza del presupposto (immobile non tassabile): Un motivo collegato al precedente è l’asserzione che il presupposto impositivo manca. Ad esempio, il contribuente sostiene che l’area indicata dal Comune non è in realtà suscettibile di produrre rifiuti (es. locale inagibile, area scoperta inutilizzata, edificio crollato, immobile privo di utenze e vuoto). In tal caso si chiede l’annullamento perché il tributo non è dovuto. Naturalmente occorrono prove solide: foto, certificati di inagibilità, attestazioni ASL sull’assenza di allacci, ecc. La legge e i regolamenti comunali spesso prevedono esenzioni per fabbricati collabenti, aree impraticabili, unità immobiliari disabitate ma occorre che il contribuente abbia presentato dichiarazione in tal senso entro certi termini. Se l’esenzione non fu richiesta a suo tempo, in giudizio si può comunque far valere la non debenza ab origine (specie se la situazione di fatto era oggettiva), ma sarà una valutazione caso per caso. Un particolare rilievo hanno le aree scoperte pertinenziali: per legge sono escluse da tassazione solo se non operative e non produttive di rifiuti. La Cassazione (sent. 9655/2024) ha chiarito che per escludere un’area scoperta pertinenziale il contribuente deve averla dichiarata e provare che non viene svolta attività suscettibile di produrre rifiuti in essa (es. cortile inutilizzato). Quindi in ricorso si può eccepire che quei mq di area esterna non dovevano essere tassati perché privi di rifiuti, ma bisogna anche fornire elementi concreti (dichiarazioni, foto, etc.), altrimenti prevale la presunzione di tassabilità.
  • Omessa considerazione di riduzioni tariffarie: In molti regolamenti TARI sono previste riduzioni del tributo in determinate circostanze (ad es. riduzione fino al 30% per zone non servite dal porta a porta, o riduzione per chi pratica il compostaggio domestico, o per abitazioni tenute a disposizione). Se il contribuente rientrava in una categoria agevolata ma il Comune non gli ha applicato la riduzione, nell’eventuale ricorso va evidenziato questo aspetto, chiedendo l’annullamento parziale dell’avviso. Spesso tali riduzioni richiedono un’istanza preventiva del contribuente: se però l’agevolazione era automaticamente dovuta per legge/regolamento e l’ente non l’ha concessa, il contribuente può farla valere anche in sede contenziosa.
  • Errata applicazione delle sanzioni e interessi: L’avviso di accertamento TARI include di solito una sanzione del 30% sul tributo non pagato (ai sensi dell’art. 13 D.Lgs. 471/1997) e interessi moratori calcolati al tasso legale (o diverso tasso stabilito dal regolamento comunale, es. 0,5% mensile). Si possono impugnare sia le sanzioni che gli interessi. Esempi di motivi: sanzione non dovuta per obiettiva incertezza normativa (art. 6, co.2, L.212/2000) – in alcuni casi controversi i giudici annullano le sanzioni; oppure sanzione calcolata male – ad es. avvisi che applicavano il 100% anziché il 30% per omesso pagamento, o che duplicano le sanzioni su più anni; oppure interessi calcolati in eccesso – magari il Comune ha applicato un tasso non previsto o ha calcolato interessi anatocistici. Se nel ricorso principale ci si oppone anche solo alle sanzioni, il giudice può annullare quelle mantenendo il tributo. Inoltre, se il contribuente aveva versato il tributo seppur in ritardo prima dell’accertamento, può sostenere che non sono dovute sanzioni (perché l’art.13 Dlgs 471/97 punisce l’omesso versamento se non viene fatto proprio fino all’accertamento; un pagamento spontaneo tardivo ridurrebbe la sanzione al 15% se avvenuto entro 90 giorni). In sintesi, l’ambito sanzionatorio e interessi offre vari possibili vizi da eccepire.
  • Prescrizione del tributo o decadenza dell’azione: Come già spiegato nella sezione normativa, uno dei motivi più incisivi è l’eccezione di prescrizione o di decadenza. Se l’avviso è stato notificato oltre i 5 anni dall’anno di riferimento, il ricorrente deve eccepire la decadenza quinquennale ex L.296/2006: l’atto è nullo perché emesso fuori termine. Allo stesso modo, se la cartella è stata notificata oltre i 3 anni dalla definitività dell’accertamento, va eccepita la decadenza triennale: la Cassazione ha riconosciuto che notificare la cartella oltre il termine di legge comporta la decadenza dal potere di riscossione. Invece, la prescrizione quinquennale si fa valere quando tra un atto e l’altro sono passati più di 5 anni. Tipicamente, nel ricorso contro una cartella notificata nel 2025 per TARSU 2010 non riscossa, si eccepirà che il diritto alla riscossione è prescritto in quanto sono trascorsi oltre 5 anni dal 1/1/2011 senza atti interruttivi validi. La Cassazione – da ultimo con ord. 26/06/2024 n. 17667 – ha accolto casi del genere, dichiarando estinti per prescrizione i crediti TARSU quando il Comune o il riscossore hanno atteso troppo a notificare atti. Nella decisione 17667/2024, riferita a cartelle TARSU e IRES, la Corte ha ribadito che la tassa rifiuti è soggetta a prescrizione quinquennale e che l’inerzia dell’ente per oltre 5 anni dal titolo fa estinguere il credito, senza che il termine breve si “converti” in decennale solo perché la cartella non fu impugnata. Dunque, l’eccezione di prescrizione – se fondata sui tempi – porta all’annullamento integrale della cartella (o dell’intimazione) per sopravvenuta estinzione del debito. È un’eccezione tecnica, ma di enorme importanza pratica: molti contribuenti riescono a far annullare cartelle TARI datate proprio sollevando la prescrizione quinquennale (magari con decorrenza interrotta da rottamazioni o sospensioni da valutare caso per caso). Anche la mancata notifica di atti interruttivi è un argomento: se il Comune sostiene di aver inviato solleciti, deve provarlo; se non ci sono atti, la prescrizione corre libera.
  • Cartella già annullata o sgravata in autotutela: Talvolta il contribuente ricorre perché riceve una cartella che in realtà il Comune aveva promesso di sgravare o che è frutto di un errore riconosciuto. Se si ha prova di un provvedimento di sgravio o annullamento in autotutela (ad es. una delibera comunale che annulla un lotto di avvisi), quello costituisce un valido motivo: la cartella non avrebbe dovuto essere emessa perché l’ente stesso ha annullato il debito. Il giudice a fronte di ciò dichiarerà la cartella nulla per difetto di presupposto (debito inesistente).
  • Violazione del contraddittorio o errori procedimentali: Raramente sollevato in TARI, ma possibile: ad esempio, mancato invio di un avviso bonario quando previsto, oppure violazione del diritto di difesa se il contribuente aveva presentato un’istanza di autotutela e il Comune è rimasto silente procedendo con iscrizione a ruolo senza rispondere. La giurisprudenza tributaria non ha generalizzato l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per tributi come la TARI (diversamente dalle imposte erariali in alcuni casi), però se esiste una norma regolamentare locale violata, la si può invocare.
  • Problemi di legittimità delle delibere tariffarie: In rarissimi casi, i ricorrenti hanno contestato la legittimità delle tariffe TARI approvate dal Comune (es. delibera viziata, o PEF rifiuti annullato). Se ad esempio una sentenza TAR ha annullato la delibera tariffe di un certo anno, un contribuente potrebbe eccepire che l’avviso TARI basato su quella delibera è illegittimo. Però la giurisdizione su tali delibere è amministrativa, quindi non sempre il giudice tributario accoglie l’eccezione, a meno che l’annullamento sia ormai definitivo e il tributo perda base normativa. È un terreno scivoloso e molto tecnico, poco comune nei ricorsi individuali.

Va infine ricordato che nel processo tributario vige il principio dispositivo con libero convincimento del giudice: ciascuna parte deve allegare e provare i fatti che porta a sostegno. Il Comune dovrà provare di aver notificato l’atto nei termini, di aver misurato correttamente le superfici, di aver iscritto a ruolo nei tempi, ecc. Il contribuente dovrà provare i fatti che dichiara: ad esempio che ha inviato la dichiarazione TARI (esibendo ricevute), che ha pagato una parte del dovuto (esibendo bollettini pagati), che l’immobile era inagibile (producendo certificati), che un’area era esente (foto, autodichiarazioni, ecc.). Onere della prova: In generale, l’ente impositore deve provare i fatti costitutivi della pretesa (esistenza dell’obbligo, quantificazione) e il contribuente gli eventuali fatti esimenti o estintivi (pagamento, prescrizione, esenzione). Ciò significa che il ricorrente non può limitarsi a generiche contestazioni ma deve, ove possibile, supportare le proprie doglianze con elementi concreti.

6. Domande e risposte frequenti (FAQ)

Di seguito una sezione domande & risposte che riassume in forma colloquiale alcuni dei dubbi più comuni dei contribuenti di fronte a un avviso TARSU/TARI o a una cartella esattoriale sui rifiuti, con risposte basate sulla normativa e prassi esaminate sinora.

D. Cos’è un avviso di accertamento TARSU/TARI?
R. È un atto tributario ufficiale con cui il Comune (o il suo concessionario) accerta che non hai pagato, o hai pagato meno del dovuto, per la tassa rifiuti di uno o più anni. Nell’avviso vengono indicati gli importi richiesti (tributo evaso, sanzione del 30%, interessi) e una motivazione del perché devi quelle somme (es.: “omesso pagamento della TARI anno 2021 per 100 mq di utenza domestica”). Inoltre, l’avviso intima il pagamento entro 60 giorni e ti avverte che, se non paghi né fai ricorso in tale termine, l’atto diverrà definitivo ed esecutivo, permettendo al Comune di procedere con la riscossione forzata. In sintesi, è il provvedimento con cui l’ente locale ti contesta ufficialmente un debito fiscale sui rifiuti e ti invita a pagare o a impugnarlo.

D. Cos’è una cartella TARSU/TARI?
R. La cartella di pagamento (detta anche cartella esattoriale) è l’atto emesso dall’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione) per conto del Comune, con cui ti viene intimato il pagamento di uno o più tributi non pagati in precedenza. Se ricevi una cartella TARSU/TARI, significa che il Comune ha iscritto a ruolo un importo per tassa rifiuti non versata e l’Agente te ne chiede conto. La cartella contiene un elenco del debito (es. “TARSU 2012 impagata, importo X, interessi Y, sanzioni Z, oneri di riscossione… totale € W”) e ti dà 60 giorni per pagare. Se non paghi entro 60 giorni, la cartella diventa esecutiva e il riscossore può procedere con pignoramenti, fermi amministrativi, ecc., eventualmente dopo averti notificato un ultimo sollecito (intimazione) se è passato oltre un anno. La cartella è di solito successiva a un avviso di accertamento non pagato, ma a volte arriva senza che tu abbia mai visto un avviso prima (cosa illegittima, come spiegato, ma possibile in pratica se la notifica dell’avviso era andata fallita o se il Comune ha omesso di farla).

D. Qual è la differenza tra un avviso di accertamento “esecutivo” e la vecchia cartella esattoriale?
R. La differenza sta nel fatto che l’avviso di accertamento esecutivo sostituisce la cartella. In passato, la procedura era in due tempi: prima ricevevi un avviso “semplice” (non immediatamente esecutivo) e, solo se non ottemperavi, ti arrivava la cartella esattoriale, che era il titolo esecutivo vero e proprio. Ora invece per i tributi locali l’avviso stesso contiene già la “minaccia” dell’esecuzione e diventa esso titolo esecutivo trascorsi 60+30 giorni. Quindi non ti verrà notificata alcuna cartella per gli atti dal 2020 in poi: l’avviso che hai ricevuto è già sufficiente ad avviare pignoramenti se ignori la richiesta. Questo ovviamente accelera i tempi di riscossione per il Comune, ma riduce il numero di atti (prima due, ora uno). Se però l’avviso riguarda anni passati (es. TARSU 2010) o il Comune non ha adottato avvisi esecutivi, potresti ancora ricevere cartella. In sintesi: oggi avviso e cartella svolgono la medesima funzione coattiva, ma l’avviso esecutivo la svolge anticipatamente.

D. Quanto tempo ho per presentare ricorso?
R. Dal giorno in cui ti è stato notificato l’avviso di accertamento (o la cartella) hai 60 giorni di tempo per proporre ricorso al giudice tributario. Il calcolo esclude il giorno iniziale e include l’ultimo; se il 60° giorno cade di sabato, domenica o festivo, slitta al primo giorno lavorativo successivo. Inoltre, dal 1° al 31 agosto i termini sono sospesi (quindi agosto non conta nei 60 giorni). Ad esempio, se un avviso TARI ti è notificato il 10 luglio, il termine ordinario sarebbe il 8 settembre, ma con la sospensione di agosto hai tempo fino circa all’8 ottobre. È essenziale rispettare tale scadenza: un ricorso notificato anche un solo giorno in ritardo può essere dichiarato inammissibile, salvo casi eccezionali.

D. Dove e come si presenta il ricorso?
R. Il ricorso si presenta alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente per territorio, che corrisponde alla vecchia Commissione Tributaria Provinciale. La competenza territoriale per TARI/TARSU è in genere quella del luogo dove ha sede l’ente impositore (Comune) – quindi la Commissione della provincia del Comune. Ad esempio, per un avviso TARI emesso dal Comune di Milano, la competenza è della Corte Giustizia Tributi di Milano (Lombardia I). Il ricorso va notificato all’ente che ha emesso l’atto (Comune o Agenzia Entrate-Riscossione) e poi depositato telematicamente presso la segreteria della Corte. Ormai tutto avviene online: tramite il Portale Giustizia Tributaria si caricano ricorso e allegati in PDF firmato digitalmente. Nel ricorso devi indicare: i tuoi dati, quelli del difensore se c’è, l’atto impugnato (tipo di atto, numero, data, importi), l’ente che lo ha emanato, i motivi per cui ritieni l’atto illegittimo (es. “violazione di legge X, perché…; errore di fatto su…; prescrizione…”), e le conclusioni (ciò che chiedi al giudice, es. annullamento dell’atto, con vittoria di spese). Devi anche dichiarare il valore della lite (importo del tributo controverso) e allegare copia dell’atto impugnato. La notifica può avvenire via PEC (metodo consigliato) all’indirizzo ufficiale del Comune/AeR, o tramite consegna a un ufficiale giudiziario/poste. Dopo aver notificato, hai 30 giorni per depositare il ricorso al tribunale tributario. È importante versare il contributo unificato dovuto (una sorta di “tassa” sul ricorso, variabile in base al valore – vedi tabella sopra) e allegarne ricevuta al momento del deposito.

D. Serve un avvocato per fare ricorso?
R. Dipende dal valore della controversia. Per importi fino a €3.000 puoi stare in giudizio personalmente come contribuente (quindi puoi firmare e presentare il ricorso da solo) – questa soglia esclude interessi e sanzioni, conta solo il tributo. Per importi superiori, è obbligatorio un difensore abilitato, che può essere un avvocato, un commercialista o altro professionista iscritto negli albi previsti. In ogni caso, data la tecnicalità della materia tributaria, è fortemente consigliabile farsi assistere da un esperto (meglio se avvocato tributarista) anche per importi modesti, per evitare errori procedurali o argomentativi. Il difensore dovrà essere munito di procura speciale (anche a margine del ricorso). Nota: in Cassazione serve necessariamente un avvocato abilitato al patrocinio in Cassazione (avvocato “cassazionista”).

D. Il ricorso sospende l’obbligo di pagare?
R. No, non automaticamente. La presentazione del ricorso di per sé non blocca la riscossione dell’avviso/cartella impugnati. Per sospendere le azioni di recupero, occorre fare un’istanza di sospensione al giudice tributario (la Commissione) e ottenere un provvedimento favorevole. Se il giudice concede la sospensione, allora l’ente non potrà procedere all’esecuzione finché non decide il merito. Se invece (o finché) la sospensione non è accordata, l’ente può richiedere il pagamento parziale: ad esempio, per gli avvisi di accertamento esecutivi lo Stato prevede che, in pendenza di ricorso, sia comunque dovuto provvisoriamente un terzo del tributo accertato (art. 68 D.Lgs. 546/92). Molti enti, in attesa della sentenza, non avviano misure aggressive se vedono che hai fatto ricorso, ma giuridicamente ne avrebbero facoltà – soprattutto per la parte non coperta da eventuale sospensiva. Quindi è bene, insieme al ricorso, chiedere la sospensione cautelare dell’atto, motivandola col fatto che il pagamento immediato creerebbe un danno grave e che il ricorso ha fondamento. Solo una volta ottenuto il decreto di sospensione, sei al riparo fino alla sentenza.

D. Cosa succede se vinco il ricorso? E se lo perdo?
R. Se vinci – cioè il giudice accoglie il ricorso – l’atto impugnato viene annullato (in tutto o in parte a seconda della decisione). In caso di annullamento totale, non dovrai pagare nulla di quanto richiesto e, se avevi già versato qualcosa (magari per ottenere la sospensione, o un terzo provvisoriamente), hai diritto al rimborso. Se l’annullamento è parziale (es. riconoscono prescritta solo una annualità su più, oppure eliminano le sanzioni ma confermano il tributo), pagherai solo la parte rimasta valida. Inoltre, il giudice può condannare il Comune a rimborsarti le spese legali. Se invece perdi – ricorso respinto – l’atto rimane valido ed efficace. Ciò significa che dovrai pagare il dovuto (salvo decidere di appellare, ma intanto l’ente può esigere). Quando la sentenza di primo grado ti viene notificata, hai 60 giorni per fare appello; trascorso tale termine senza appello, la sconfitta diventa definitiva e non avrai più strumenti contro quel debito. In caso di soccombenza, inoltre, il giudice può averti condannato a pagare le spese di giudizio al Comune (onorari di difesa). Da notare: se perdi in primo grado, la legge prevede che tu debba versare 2/3 delle imposte accertate (al netto di quanto eventualmente già pagato) come condizione per poter andare avanti – è una riscossione provvisoria in pendenza di appello (art. 68 cit.). Se poi in appello vincerai, ti verranno restituiti; se perderai anche lì, dovrai pagare anche l’ultima quota residua.

D. Quali costi comporta fare un ricorso?
R. I costi da considerare sono principalmente: il contributo unificato (visto sopra, da €30 a €1.500 a seconda del valore, in primo grado) e l’eventuale onorario del professionista che ti segue (variabile, spesso proporzionale al valore e all’impegno, da concordare col difensore). Non ci sono più marche da bollo né altri tributi particolari (una volta c’era l’imposta di bollo, ora assorbita dal contributo unificato). Se perdi la causa, potresti dover pagare anche le spese di controparte quantificate dal giudice (che per liti di valore medio possono essere qualche centinaio di euro, oltre magari a compenso perizio se c’era CTU, evenienza però rara nelle cause TARI). Viceversa, se vinci, normalmente ottieni un rimborso spese. Quindi il “costo” netto dipende dall’esito: indicativamente, affrontare un primo grado per una cartella TARI da €5.000 potrebbe costarti €60 di contributo + parcella del difensore (ipotizziamo €1.000-1.500), mentre se vinci potresti recuperare 800€ di spese dal Comune; se perdi, invece, oltre a quei costi, rischi 500-800€ di spese a favore del Comune. È sempre opportuno fare con l’avvocato una valutazione costi-benefici prima di procedere.

D. Posso contestare la cartella di pagamento se non ho mai ricevuto l’avviso di accertamento?
R. Sì. Se ti arriva una cartella TARI ma tu non hai mai visto un avviso per quell’anno, hai diritto di impugnare la cartella eccependo che manca l’atto presupposto. Come spiegato, la cartella è valida solo se c’è stato un accertamento precedente regolarmente notificato. Nel ricorso dovrai dichiarare che non ti è stato notificato alcun avviso e quindi la cartella è nulla. Sarà il Comune a dover dimostrare il contrario (esibendo la relata di notifica di un avviso a te indirizzato). Se il Comune non ci riesce, i giudici tributari annulleranno la cartella per difetto di presupposto. Questo è un motivo molto comune e vincente nei ricorsi contro cartelle. Fai attenzione: talvolta l’avviso c’è stato ma magari è stato notificato ad un indirizzo vecchio o con errore – anche questo gioca a tuo favore perché sarebbe comunque una notifica nulla. Quindi in pratica sì, contesta la cartella se non hai ricevuto l’atto prima, perché quello è un vizio grave.

D. È vero che la tassa rifiuti va in prescrizione dopo 5 anni?
R. Sì. La TARSU/TARI essendo un tributo locale annuale si prescrive in 5 anni (art. 2948 c.c.). Significa che il Comune può chiedertela (mediante atti interruttivi validi) solo entro 5 anni dal momento in cui è dovuta. Se lascia passare più di cinque anni senza farsi vivo, il debito si estingue. E se ti notifica un atto dopo i 5 anni, tu puoi far valere la prescrizione nel ricorso. La Corte di Cassazione ha confermato definitivamente questo principio, chiarendo che non si applica la prescrizione decennale ai tributi locali – a meno che nel frattempo tu non abbia subito una sentenza di condanna, che farebbe diventare definitivo il credito. In pratica: IMU, TARI, TARSU, TOSAP… = 5 anni, IRPEF, IVA… = 10 anni. Attenzione però: la prescrizione può essere interrotta da una notifica. Quindi se, poniamo, non paghi la TARI 2017, il Comune ha 5 anni per atti: se nel 2021 ti manda un sollecito, la prescrizione si interrompe e riparte da capo dal 2021 per altri 5 anni, e così via. In assenza totale di atti per oltre 5 anni, invece, sei salvo (ma devi eccepirlo, la prescrizione non è mai rilevata d’ufficio). Nel dubbio, fatti assistere: spesso occorre esaminare la cronologia delle notifiche per capire se un debito è prescritto o no.

D. Posso rivolgermi al giudice ordinario invece che alla Commissione Tributaria?
R. Per questioni di merito del tributo, no: la competenza è del giudice tributario. Ad esempio, per far annullare un avviso TARI perché non dovevi pagare o una cartella perché prescritta, devi necessariamente fare ricorso in Commissione Tributaria (ora Corte Giustizia Trib.). Il giudice civile ordinario (tribunale) entra in gioco solo in alcune ipotesi particolari, ad esempio se contesti aspetti della procedura esecutiva già in corso. Poniamo che non hai fatto ricorso tributario e ti arriva un pignoramento sul conto: a quel punto puoi fare opposizione all’esecuzione davanti al tribunale civile, ma potrai far valere solo cose come la prescrizione sopravvenuta post-cartella o vizi del pignoramento (non certo rimettere in discussione se dovevi pagare la TARI o meno, quello è precluso). Quindi, finché sei nei tempi per ricorrere, usa sempre il giudice tributario. Il giudice civile resta un rimedio estremo per fermare l’esecuzione quando il merito è ormai coperto da definitività. Va aggiunto che su alcune sanzioni accessorie non tributarie (es. fermo amministrativo imposto illegittimamente) può avere competenza il giudice ordinario; ma per il nucleo della tassa rifiuti no. In sintesi: il ricorso tributario è la via maestra per contestare avvisi e cartelle TARI, il giudice ordinario serve solo per dettagli dell’esecuzione forzata (precetti, pignoramenti) e comunque in casi limitati.

D. In cosa consiste l’autotutela e l’accertamento con adesione? Posso evitare il ricorso tramite questi strumenti?
R. L’autotutela è il potere dell’ente impositore di annullare o rettificare di propria iniziativa un atto risultato errato o infondato, anche senza bisogno di sentenza. In pratica, puoi presentare un’istanza di autotutela al Comune (o all’Agenzia) spiegando l’errore nell’avviso/cartella e chiedendo che venga annullato o aggiustato. Ad esempio: “Ho ricevuto questo avviso TARI, ma ho già pagato, vi allego ricevuta, vi chiedo di annullarlo”. L’ente non è obbligato ad accogliere l’autotutela, è una facoltà discrezionale. Se l’errore è palese (come un pagamento dimostrato), spesso correggono o sospendono. Ma attenzione: l’autotutela non sospende i termini di ricorso né quelli di pagamento, a meno che l’ente stesso non sospenda l’atto in attesa di esito. Dunque conviene usarla solo per questioni immediate, e comunque senza far scadere i termini del ricorso. L’accertamento con adesione, invece, è uno strumento “deflattivo” del contenzioso (D.Lgs. 218/1997) che consente al contribuente e all’ente di concordare una rideterminazione dell’imposta dovuta prima di andare in giudizio. È applicabile anche ai tributi locali come la TARI se il Comune lo prevede o vi aderisce. In pratica presenti istanza di adesione dopo aver ricevuto l’avviso (entro 60 giorni): ciò sospende per 90 giorni i termini del ricorso. Poi ti presenti all’ufficio tributi per discutere: se trovate un accordo (magari riconoscono un errore e riducono l’importo, tu accetti di pagare una certa cifra), viene redatto un atto di adesione e dovrai pagare quanto concordato (con sanzioni ridotte a 1/3). Se invece non c’è accordo, potrai comunque fare ricorso entro il nuovo termine prorogato. L’adesione è utile se effettivamente vi è margine per una transazione: ad esempio su questioni di fatto (metri quadri contestati si può trovare un compromesso a metà strada). Molti Comuni però non usano molto questo istituto per la TARI, preferendo far decidere al giudice. In ogni caso, autoprotezione e adesione sono strumenti da valutare parallelamente al ricorso: non sono alternativi in senso stretto, perché se falliscono devi ricorrere. Usali se hai elementi evidenti per convincere il Comune, o se vuoi guadagnare tempo (adesione sospende termine ricorso) o ridurre sanzioni con accordo.

D. Quali pronunce recenti dei tribunali potrebbero aiutarmi nel mio caso?
R. Le questioni frequenti in materia di tassa rifiuti hanno prodotto diversa giurisprudenza. Eccone alcune di rilievo aggiornate:

  • La Cassazione 26 giugno 2024 n. 17667 ha confermato senza equivoci che la TARI (e la vecchia TARSU) si prescrive in 5 anni, non in 10, e che l’errore della CTR nel considerare 10 anni (magari applicando art. 2953 c.c. a cartella non impugnata) va censurato. Ha richiamato il principio delle Sezioni Unite 2016 sulla non conversione e dichiarato estinta per prescrizione una cartella TARSU 2005 notificata nel 2014 oltre i termini. Questa sentenza aiuta tutti i contribuenti nel sollevare l’eccezione di prescrizione quinquennale.
  • La Cassazione 10 aprile 2024 n. 9655 ha affrontato il tema delle aree scoperte ai fini TARI. Ha stabilito che le aree pertinenziali scoperte non operative non sono tassabili (perché non producono rifiuti), mentre le aree scoperte operative (ad es. cortili di attività commerciali dove si producono rifiuti) sono soggette a tassa. Ma soprattutto, ha chiarito che spetta al contribuente dimostrare la reale destinazione dell’area per ottenere l’esclusione: l’ente non può sapere se un’area recintata non produce rifiuti, dev’essere l’utente a dichiararlo e provarlo. Questo orientamento impatta chi adduce esenzioni su spazi esterni: se fai ricorso dicendo “quell’area non andava tassata perché non usata”, preparati a fornire prove, altrimenti la perderai.
  • La Cassazione 28 aprile 2025 n. 11097 (Sez. V) ha trattato il caso di una notifica di avviso a contribuente defunto. Ha ribadito un principio importante: se gli eredi hanno comunicato il decesso e i loro domicili fiscali, l’ente deve notificare singolarmente a ciascun erede; notificare genericamente “agli Eredi di …” all’ultimo indirizzo del defunto è una facoltà dell’ente solo se non conosce le generalità/domicili degli eredi. In pratica la notifica impersonale collettiva (art. 65 DPR 600/73) è ammessa solo se gli eredi non hanno fatto la comunicazione; altrimenti va notificato a ognuno. Nel caso in questione (IMU, ma vale come principio generale) l’avviso a nome del deceduto è stato annullato. Dunque, per i ricorsi presentati dagli eredi, questo è un appiglio utile: verifica se l’atto è stato notificato correttamente secondo queste regole.
  • La Cassazione 15 febbraio 2025 n. 3860 (Sez. V) si è soffermata sulla motivazione degli atti tributari e sull’autotutela “in malam partem”. Oltre a questioni di TOSAP, la sentenza richiama principi generali: la motivazione dell’avviso deve delimitare il perimetro del contendere e, se fa riferimento a altri atti (es. un PVC o delibera), questi devono essere allegati o conosciuti dal contribuente, altrimenti l’atto è annullabile. Inoltre, ha affrontato il tema del potere di autotutela del Comune, affermando che emettere un secondo avviso per correggere il primo viziato senza nuovi elementi equivale a un illegittimo doppio accertamento (violazione unicità accertamento) – il che può riguardare, ad esempio, Comuni che annullano un avviso e ne emettono un altro identico con importi diversi senza nuovi fatti. In poche parole, la Cassazione ha ricordato che se un Comune vuole correggere un avviso già emesso, può farlo in autotutela solo se emergono nuovi elementi o se è nei termini per un avviso integrativo (art. 43 DPR 600/73), altrimenti il secondo avviso è nullo. Questo può capitare in TARI se, ad esempio, il Comune annulla un avviso per un vizio formale e ne fa uno nuovo aumentando anche l’importo: quel nuovo atto potrebbe essere impugnabile per violazione del principio di unicità dell’accertamento.
  • Le Sezioni Unite 17 novembre 2016 n. 23397 e la SU 15 febbraio 2024 n. 11676 le abbiamo già citate: sono i pilastri sui termini di prescrizione (nessuna conversione automatica in decennale se non impugni) e sulla distinzione locale/erariali in tema di prescrizione. Le SU 2024 inoltre hanno risolto residui contrasti su chi fosse il giudice competente in talune fasi: confermando che le eccezioni di prescrizione rientrano nel potere del giudice tributario anche dopo la notifica della cartella (purché fatte in quel contesto).

In generale, negli ultimi anni la giurisprudenza è stata abbastanza favorevole ai contribuenti sul tema tassa rifiuti: pensiamo alla questione “prescrizione 5 anni” ormai univoca a favore del contribuente, o alla risoluzione del caso “TARI gonfiata pertinenze” dove i Comuni hanno dovuto rimborsare. Tuttavia resta rigorosa sull’onere di attivarsi: chi riceve un atto deve darsi da fare (ricorrere, provare gli errori, ecc.), perché l’inerzia lo pregiudica.

D. Dopo aver vinto il ricorso in Commissione, il Comune continua a non stornare il debito o mi manda un nuovo avviso: cosa posso fare?
R. Se hai ottenuto una sentenza favorevole definitiva (passata in giudicato) che annulla l’atto, il Comune deve conformarsi. Se ciò non avviene, hai due strumenti: in sede tributaria puoi attivare il procedimento di ottemperanza (art. 70 D.Lgs. 546/92) davanti alla stessa Commissione, chiedendo che venga ordinato all’ente di eseguire la sentenza (es. sgravare il ruolo, rimborsare somme); in sede amministrativa/contabile potresti segnalare la cosa alla Corte dei Conti come comportamento omissivo, ma di solito l’ottemperanza basta. Se invece il Comune ti notifica un nuovo avviso per lo stesso periodo già annullato in giudizio, lo impugnerai di nuovo eccependo il giudicato (res iudicata) e chiedendo magari il risarcimento danni per lite temeraria se è palese la violazione della sentenza. Comunque sono casi rari: di solito dopo una sentenza i Comuni si adeguano (magari con ritardo burocratico, ma lo fanno).

D. Se faccio ricorso, posso nel frattempo evitare il pignoramento?
R. Solo ottenendo la sospensione dal giudice tributario (vedi sopra). Il fatto di aver depositato un ricorso non impedisce all’Agente di Riscossione di procedere oltre, specialmente se non hai chiesto o ottenuto la sospensiva. Tuttavia, in molti casi pratici, l’Agente aspetta almeno la decisione sull’istanza cautelare prima di pignorare, per non incorrere poi in revoche di atti. Un altro modo per evitare il pignoramento nel frattempo è eventualmente chiedere una rateizzazione della cartella (se stiamo parlando di cartella) – la domanda di rate di solito sospende le azioni esecutive. Ma se hai impugnato la cartella, difficilmente chiederai rateazione perché sarebbe in contraddizione (ammetteresti il debito). Un trucco a volte usato è: fai ricorso, e anche domanda di rateazione “in via gradata” per congelare le azioni, e poi non paghi le rate in attesa della sentenza – rischioso però, perché se perdi ti trovi decaduto dalla rateazione con aggravio di interessi. Insomma, la via maestra resta ottenere dal giudice la sospensione. Ricorda anche che l’intimazione di pagamento ex art.50 DPR 602/73 (se il pignoramento arriva oltre 1 anno dopo la cartella) ti dà comunque 5 giorni per saldare prima del pignoramento effettivo.

7. Esempi pratici (casi simulati)

Per dare un’idea concreta di come si applicano questi concetti, esaminiamo qualche scenario pratico tipico, dal punto di vista del contribuente che riceve l’atto.

Caso 1: Cartella TARSU notificata dopo 6 anni (prescrizione)

Scenario: Il Sig. Alberto riceve il 10 luglio 2025 una cartella di pagamento da Agenzia Entrate-Riscossione per conto di Roma Capitale, con cui gli viene intimato di pagare €800 per TARSU 2018 non versata, più sanzioni e interessi, totale €1.200. Alberto ricordava di aver ricevuto nel 2019 un avviso di accertamento TARSU 2018, che però non ha pagato né impugnato. Da allora non ha più sentito nulla fino alla cartella del 2025.

Analisi: Alberto, avendo lasciato decorrere i 60 giorni, sa che l’accertamento 2018 è definitivo. Tuttavia, si chiede se il Comune abbia rispettato i termini per riscuotere. Dalla data di definitività dell’avviso (2019) alla cartella (2025) sono passati ben 6 anni. La legge prevedeva un termine di 3 anni (entro fine 2022) per emettere la cartella. Inoltre, a livello di prescrizione, dal 2019 al 2025 sono trascorsi più di 5 anni senza atti interruttivi noti. Dunque Alberto ha due motivi forti: decadenza triennale e prescrizione quinquennale. Presenta ricorso alla CGT Lazio eccependo entrambi. Il Comune in risposta sostiene di aver inviato un sollecito nel 2021 (ma non ne esibisce la prova convincente).

Esito: La Corte accoglie il ricorso di Alberto, riconoscendo in primis che la cartella è stata notificata oltre il termine di legge (31/12/2022) e quindi è decaduta. In aggiunta, rileva che comunque il credito TARSU 2018 era già prescritto al 1° gennaio 2024 (5 anni dopo il 2018) e che nessuna prova di atti interruttivi è stata fornita. Pertanto annulla totalmente la cartella per intervenuta prescrizione. Alberto non dovrà pagare nulla e potrà recuperare il contributo unificato e le spese dal Comune. Questo caso dimostra l’importanza di far valere i termini di legge: benché Alberto avesse “perso” la chance sul merito (non aveva contestato l’avviso), ha comunque potuto far leva sui limiti temporali a tutela del contribuente e vincere.

Caso 2: Accertamento TARI notificato a un soggetto deceduto

Scenario: Il Signor Rossi, contribuente di Napoli, muore nel 2023. Gli eredi (due figlie) comunicano formalmente al Comune di Napoli il decesso e i propri domicili fiscali, chiedendo l’intestazione futura della TARI a loro nome per l’immobile ereditato (come previsto dall’art. 65 DPR 600/73). Nel maggio 2025, però, il Comune invia un avviso di accertamento TARI per l’anno 2021 intestato ancora al “Sig. Mario Rossi (c.f…)”, notificandolo presso l’ultimo domicilio del defunto. Le figlie trovano casualmente l’atto nella cassetta postale della vecchia casa.

Analisi: Le figlie, in qualità di eredi, si ritrovano un avviso non intestato a loro ma al padre morto. Avendo espletato l’onere di comunicazione, sanno che il Comune avrebbe dovuto notificare a ciascuna di loro personalmente l’avviso. Quell’avviso invece è nullo per notifica viziata. Presentano ricorso congiunto alla CGT Campania eccependo la nullità della notifica e quindi dell’atto, richiamando anche la Cassazione 11097/2025 che ha statuito ciò.

Esito: La Corte Tributaria accoglie il ricorso e annulla l’avviso TARI 2021. Osserva che, essendo stato il decesso comunicato e noto, il Comune doveva indirizzare l’atto agli eredi singolarmente; la notifica impersonale collettiva “agli eredi di…” non è un loro diritto ma una facoltà per l’ufficio solo se ignora i nominativi degli eredi. In questo caso, l’avviso spedito al defunto è considerato giuridicamente inesistente, perciò insanabile. Conseguenza: l’accertamento è nullo e il Comune dovrà eventualmente emetterne uno nuovo a nome delle figlie (se ancora nei termini, altrimenti perderà il tributo). Le figlie hanno così evitato un debito di alcune centinaia di euro grazie alla corretta comprensione delle regole sulla notifica agli eredi e all’onere di comunicazione a carico loro (che avevano assolto). Questo caso evidenzia come punti procedurali (notifiche) possano salvare il contribuente, e l’importanza per gli eredi di segnalare sempre all’ente il subentro, per non ricevere atti viziati.

Caso 3: Cartella TARI per più annualità, con alcune prescritte

Scenario: La società Beta S.r.l. di Milano riceve nel 2025 una cartella da AeR contenente tre voci: TARI 2016 per €5.000, TARI 2017 per €5.200, TARI 2018 per €5.400 (importi comprensivi di sanzioni/ interessi). Totale circa €15.600. La società verifica la sua contabilità: effettivamente per quegli anni non risultano pagamenti di TARI. Tuttavia, nota che non le era pervenuto alcun avviso di accertamento prima di questa cartella cumulativa. Inoltre, trattandosi di anni 2016-2018, ipotizza possano essere in parte decaduti/prescritti al 2025.

Analisi: Beta impugna la cartella davanti alla CGT Lombardia. Motivi: (a) mancata notifica di avvisi di accertamento per quegli anni (la cartella è il primo atto ricevuto) – quindi cartella emessa sine titulo; (b) decadenza: l’ente avrebbe dovuto notificare avvisi entro il 31/12/2021 per il 2016, entro 31/12/2022 per il 2017, etc., cosa non fatta; (c) prescrizione: al 2025 sono trascorsi più di 5 anni dal termine di ogni anno (2016, 2017) senza atti, quindi i crediti 2016-17 almeno sarebbero estinti. In subordine, chiede l’annullamento parziale della cartella per gli anni prescritti e nulli, e la rideterminazione per eventuali anni ancora dovuti.

Esito: La Corte esamina la cartella: constata che il Comune non prova alcuna notifica di accertamenti per 2016-17-18 (per il 2018 era ancora nei 5 anni, ma non risulta avviso nemmeno per quello). Pertanto dichiara la cartella illegittima in relazione a tutte e tre le annualità per difetto dell’atto presupposto. In aggiunta, rileva che per 2016 e 2017 il Comune sarebbe comunque decaduto dai termini di accertamento e che, addirittura, il 2016 appare prescritto (5 anni decorso senza atti). In sentenza viene annullata la cartella integralmente, ma si precisa che il Comune potrà ancora emettere (se non decaduto) un avviso per il 2018, unico anno per cui il termine di decadenza (31/12/2023) non era scaduto – sempre che non sia anch’esso prescritto per mancanza di atti interruttivi, valutazione che comunque il Comune dovrà fare. Beta S.r.l. ottiene così ragione: la cartella unica per più anni si è rivelata un boomerang per l’ente perché, non avendo seguito la corretta procedura anno per anno, ha perso almeno i crediti più vecchi. Il caso conferma che nelle cartelle cumulative spesso si annidano annualità prescritte che il contribuente può “liberare” impugnando.

Ogni caso pratico ovviamente presenta specificità, ma questi esempi aiutano a capire come applicare concretamente termini e vizi a situazioni reali e con quali risultati.

Conclusioni

Affrontare un accertamento o una cartella sulla tassa rifiuti richiede un mix di conoscenza delle regole fiscali e di prontezza nell’azione difensiva. Dal 2020 il legislatore ha potenziato gli strumenti degli enti locali (avvisi immediatamente esecutivi, niente più cartella), ma al contempo la giurisprudenza ha chiarito alcuni importanti paletti a tutela del contribuente, come la natura quinquennale della prescrizione e l’obbligo di motivazione accurata degli atti. Abbiamo visto che un ricorso tributario ben fondato può fare leva su molti aspetti: errori di fatto nel quantum, vizi formali (notifica, motivazione), violazioni di legge (termini decadenziali, prescrizione), ottenendo l’annullamento di pretese infondate.

Dal punto di vista del debitore, è fondamentale non procrastinare: alla notifica di un avviso TARI o cartella TARSU occorre reagire entro i termini, valutando con un professionista i pro e i contro delle diverse opzioni (ricorrere, aderire, pagare con sanzioni ridotte). Ogni avviso va letto con attenzione: contiene già un “ultimatum” – 60 giorni per decidere se pagare o contestare. Ignorarlo significa ritrovarsi al 61° giorno con un debito definitivo e pronto per il riscossore.

La materia, come abbiamo affrontato, intreccia norme tributarie sostanziali (soggetti, tariffe, esenzioni) e norme processuali (ricorso, termini, giudici competenti). È un terreno insidioso, ma con le giuste conoscenze il contribuente può far valere efficacemente i propri diritti. Le ultime riforme (processo tributario telematico obbligatorio, abolizione del reclamo mediativo, giudici tributari professionalizzati) mirano a rendere il contenzioso più rapido e specialistico. D’altro canto, restano centrali principi immutati: il diritto alla difesa giurisdizionale (art. 24 Cost.) e il divieto di pretese tributarie tardive o arbitrarie. Le pronunce dei giudici tributari, specie della Corte di Cassazione, hanno negli anni costruito un quadro di garanzie: ad esempio confermando l’obbligo di motivazione “rafforzata” per gli avvisi che sono primo e unico atto prima della riscossione, e ribadendo l’applicabilità anche ai tributi locali delle regole generali su notifiche ed eredi.

In definitiva, che si tratti di un privato cittadino, un professionista o un imprenditore, di fronte a un atto TARSU/TARI contestato occorre agire in modo tempestivo e informato. Questa guida ha fornito un livello di approfondimento avanzato sui riferimenti normativi e giurisprudenziali sino al 2025, con un linguaggio comprensibile ma rigoroso. Affrontare un ricorso tributario richiede metodo: verificare i termini, esaminare i possibili vizi, quantificare i rischi e costi, scegliere se definire bonariamente (quando conviene) o intraprendere la via giudiziaria. Nei casi giusti, il ricorso tributario è uno strumento efficace che può annullare richieste non dovute e affermare concretamente i diritti del contribuente.

In conclusione: “Come si fa” un ricorso contro un avviso TARSU o una cartella TARI lo si fa con conoscenza delle regole, attenzione ai dettagli, e – di norma – con l’assistenza di un buon consulente. La voce del debitore può farsi valere in Commissione Tributaria, trasformando anche un semplice errore del Comune (una notifica sbagliata, un calcolo frettoloso) in una vittoria che tutela le proprie finanze.

Fonti

  • Normativa: D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 (artt. 19, 21, 22, 47 e 68 – processo tributario); L. 27 dicembre 2006 n. 296, commi 161-163 (termini accertamento e riscossione tributi locali); L. 27 dicembre 2019 n. 160, art. 1 c. 792 (introduzione avvisi esecutivi locali); D.Lgs. 30 dicembre 2023 n. 220, art. 2 c.3 lett. a (abrogazione reclamo/mediazione dal 2024); art. 2948 n.4 c.c. (prescrizione quinquennale per prestazioni periodiche); DPR 29 settembre 1973 n. 600, art. 65 (oneri comunicazione eredi); Statuto del Contribuente L. 212/2000 (obbligo motivazione atti, tutela affidamento, ecc.).
  • Giurisprudenza di legittimità: Cass. Civ. Sez. Unite 17/11/2016 n. 23397 (no conversione termine prescrizione breve in decennale se manca giudicato); Cass. Civ. Sez. Unite 25/11/2019 n. 34447 (competenza giurisdizionale su eccezioni di prescrizione post-cartella); Cass. Civ. Sez. V 08/07/2020 n. 13683 (prescrizione quinquennale tributi locali); Cass. Civ. Sez. V 17/06/2021 n. 17363 (TARSU/TARI prescrizione 5 anni, art. 2948 c.c.); Cass. Civ. Sez. Unite 15/02/2024 n. 11676 (distinzione definitiva: tributi erariali 10 anni, locali 5 anni); Cass. Civ. Sez. V 26/06/2024 n. 17667 (TARSU/TARI prescrizione quinquennale, irrilevanza sospensione 2014, conferma principi SU 2016); Cass. Civ. Sez. V 10/04/2024 n. 9655 (TARI aree scoperte: operative tassabili, non operative escluse; onere al contribuente di provare diritto a esclusione); Cass. Civ. Sez. V 28/04/2025 n. 11097 (notifica avviso a defunto: obbligo notifica nominativa agli eredi se noti, nullità atto altrimenti); Cass. Civ. Sez. V 15/02/2025 n. 3860 (motivazione atti tributari: obbligo allegazione atti richiamati; autotutela e limiti accertamento integrativo).
  • Giurisprudenza di merito: CGT I grado Catanzaro 2023 n. 1189 (cartella TARI nulla se manca prova notifica avviso prodromico); CGT II grado Lombardia 2021 (conferma prescrizione quinquennale TARI, Cass. 20956/2019 cit.); varie Commissioni Prov. e Reg. 2020-2022 allineate su 5 anni per IMU/TARI (es. CTP Napoli 645/2020, CTR Piemonte 959/2021, etc.).
  • Circolari e prassi: Direzione Giustizia Tributaria – linee guida PTT e abolizione mediazione (Comunicato MEF 22/01/2024); Agenzia Entrate circ. n. 2/2014 (prescrizioni tributi locali); circolare AdE-Riscossione su sospensione COVID (2020).

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Conclusione
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