Interposizione Fittizia In Ambito Tributario: Come Difendersi

Sei accusato di interposizione fittizia in ambito tributario e vuoi capire come difenderti?
L’interposizione fittizia si verifica quando un soggetto (interposto) risulta formalmente titolare di redditi, beni o attività, ma il reale beneficiario (interponente) è un altro. In campo fiscale, questa pratica viene contestata dall’Agenzia delle Entrate quando ritiene che sia stata utilizzata per eludere imposte, nascondere il reale possessore di beni o ottenere indebiti vantaggi fiscali.

Quando può essere contestata l’interposizione fittizia
– Quando un bene, un’azienda o un’attività è intestato a una persona fisica o giuridica diversa dal reale proprietario
– Quando i redditi sono formalmente percepiti da un soggetto ma di fatto incassati da un altro
– Quando si utilizzano prestanome per schermare la reale titolarità di beni o conti correnti
– Quando un’attività commerciale o professionale è gestita di fatto da un soggetto diverso dall’intestatario ufficiale
– Quando società o soggetti esteri vengono usati solo per trasferire redditi senza effettiva operatività

Cosa può comportare una contestazione di interposizione fittizia
– La riqualificazione fiscale dell’operazione con attribuzione dei redditi al reale beneficiario
– Il recupero delle imposte non pagate con applicazione di sanzioni e interessi
– L’apertura di procedimenti penali per dichiarazione fraudolenta o sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte
– La possibilità di azioni cautelari come sequestri e pignoramenti su beni e conti
– Maggiori controlli futuri e difficoltà nei rapporti con banche e fornitori

Come difendersi da una contestazione di interposizione fittizia
– Analizzare con un avvocato tributarista tutti gli atti e le prove raccolte dall’Agenzia delle Entrate
– Dimostrare la reale titolarità e gestione dei beni o dei redditi, con contratti, documenti contabili e prove di operatività
– Spiegare le ragioni economiche e commerciali dell’intestazione, se lecite e documentate
– Contestare eventuali presunzioni non supportate da prove concrete
– Presentare memorie difensive e partecipare attivamente al contraddittorio preventivo
– In caso di avviso di accertamento, presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria nei termini di legge

Cosa si può ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi
– L’archiviazione di eventuali procedimenti penali correlati
– La tutela del patrimonio personale e aziendale
– Il ripristino della corretta posizione fiscale

Attenzione: l’interposizione fittizia viene spesso contestata sulla base di presunzioni e ricostruzioni induttive. Se non vengono fornite prove contrarie solide e tempestive, il rischio è di vedersi attribuire redditi e imposte non dovuti.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario, reati fiscali e difesa del contribuente – ti spiega cosa significa una contestazione per interposizione fittizia, quali sono le conseguenze e come impostare la difesa.

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Introduzione

L’interposizione fittizia in ambito tributario è una pratica elusiva/evasiva con cui un contribuente nasconde i propri redditi o beni dietro l’intestazione formale a un altro soggetto (detto interposto o prestanome), in modo da non apparire come effettivo titolare di fronte al Fisco. In sostanza, l’interponente (il soggetto che ordisce lo schema) si maschera dietro terzi per ottenere indebiti vantaggi: pagare meno imposte, evitare il pignoramento dei propri beni in caso di debiti fiscali, o eludere altri obblighi tributari. Questa pratica rientra nelle simulazioni negoziali vietate dall’ordinamento tributario, poiché altera la realtà economica delle operazioni presentando al Fisco un’apparenza giuridica diversa dalla sostanza effettiva.

Nel diritto tributario italiano vige il principio della prevalenza della sostanza sulla forma: ciò che conta è chi possiede effettivamente redditi e patrimoni, non chi ne è formalmente intestatario. Per questo l’Amministrazione finanziaria, quando scopre un’interposizione fittizia, è legittimata a “tirar via la maschera” al contribuente occulto e a pretendere le imposte da chi realmente detiene capacità contributiva, ignorando lo schermo fittizio. Le conseguenze per il contribuente interponente possono essere devastanti: recupero retroattivo di imposte con pesanti sanzioni amministrative e perfino procedimenti penali nei casi più gravi. È dunque fondamentale conoscere questa materia per difendersi efficacemente qualora il Fisco contesti un’interposizione fittizia e, meglio ancora, per prevenirla, evitando comportamenti al limite della legalità.

In questa guida – aggiornata a luglio 2025 con i più recenti riferimenti normativi e giurisprudenziali – esamineremo in dettaglio che cos’è l’interposizione fittizia in ambito tributario e come difendersi. Ci rivolgeremo a un pubblico di professionisti e contribuenti evoluti (avvocati tributaristi, commercialisti, imprenditori e privati con patrimoni rilevanti), utilizzando un linguaggio giuridico accurato ma con intento divulgativo. Adotteremo il punto di vista del debitore/contribuente, analizzando quali sono i rischi che corre quando utilizza prestanome e quali strategie può mettere in campo per tutelarsi. La trattazione sarà arricchita da sentenze recentissime delle Corti italiane, da riferimenti normativi puntuali, nonché da tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione di domande e risposte frequenti (FAQ).

L’obiettivo è fornire una guida completa (oltre 10.000 parole) sull’argomento, così che il lettore possa orientarsi in questa complessa materia – dalla distinzione tra interposizione fittizia e interposizione reale, alle differenze con l’abuso del diritto, dal regime probatorio in sede tributaria alle possibili implicazioni penali, fino alle tecniche difensive e di prevenzione. Metteremo in luce anche le rispettive responsabilità dell’interponente e dell’interposto in ambito penale, evidenziando come vengono trattati i prestanome dall’autorità giudiziaria. In fondo, raccoglieremo tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate, per consentire approfondimenti mirati.

Iniziamo dalle nozioni fondamentali, definendo l’interposizione fittizia e distinguendola da fenomeni affini.

Definizione di interposizione fittizia e differenze con l’interposizione reale

Interposizione di persona significa, in generale, interporre un soggetto “di mezzo” in un rapporto giuridico o affare economico, celando l’identità del reale interessato. Nel nostro contesto tributario, ciò si traduce in un meccanismo per cui Tizio (interponente) fa figurare Caio (interposto) come titolare di redditi o beni che invece appartengono sostanzialmente a Tizio. In pratica, Caio funge da schermo o testa di legno, permettendo a Tizio di non comparire agli occhi del Fisco. Questa interposizione può presentarsi in due forme principali:

  • Interposizione fittizia – si ha quando l’interposto è un mero prestanome passivo, privo di reale coinvolgimento nell’operazione. È un accordo simulatorio in cui l’interposto appare come contraente o titolare, ma non esercita alcun potere né assume rischi; di fatto, egli firma o presta il nome solo per nascondere il vero titolare. L’interposizione fittizia è una vera e propria simulazione soggettiva: le parti concordano segretamente che il rapporto giuridico apparente (es. proprietà di un bene, amministrazione di una società) non corrisponde alla realtà, poiché il soggetto intestatario è fittizio e il beneficiario effettivo è un altro. Esempio tipico: un imprenditore vuole occultare la proprietà di un immobile di lusso per evitare tassazioni e pignoramenti, così lo intesta al fratello nullatenente; il fratello formalmente risulta proprietario ma non paga nulla né utilizza il bene, che resta a disposizione dell’imprenditore. Siamo di fronte a un prestanome puro.
  • Interposizione reale – qui l’interposto ha un ruolo più attivo: partecipa effettivamente all’operazione, assumendone temporaneamente diritti e obblighi, ma con l’intesa di trasferirne gli effetti all’interponente in un momento successivo. Non c’è una simulazione assoluta, perché l’interposto compie atti reali (es. acquista un bene, gestisce un’attività), tuttavia tutto avviene secondo gli accordi con l’interponente che dirige l’operazione dietro le quinte e infine ottiene i benefici. Si può parlare di fiducia con obbligo di ritrasferimento. Esempio tipico: Tizio vuole acquisire un’altra società ma teme ostacoli normativi o fiscali, quindi fa effettuare l’acquisizione a una società terza di comodo (controllata), con l’accordo che poi le partecipazioni verranno girate a Tizio o a una sua società; in tal caso la società interposta agisce davvero come acquirente, ma in funzione degli interessi di Tizio. Oppure: un imprenditore “fa gestire” la propria attività a un prestanome (che formalmente ne è il titolare) e poi si fa girare “in nero” gli utili generati – qui il prestanome lavora davvero, ma il beneficiario ultimo è l’interponente.

Dal punto di vista fiscale non c’è differenza sostanziale tra interposizione fittizia e reale: in entrambi i casi, l’art. 37, comma 3 del DPR 600/1973 consente al Fisco di “guardare attraverso” l’intestazione apparente e imputare i redditi al loro possessore effettivo. La Cassazione ha chiarito che la norma colpisce qualsiasi dissociazione tra titolarità formale e possesso effettivo del reddito, sia essa attuata con simulazione (interposizione fittizia) sia con intesa fiduciaria (interposizione reale). In altre parole, ogni volta che un soggetto è uti dominus su redditi formalmente di altri, scatta la possibilità di riqualificare la situazione e tassare quel soggetto occulto. Pertanto, pur essendo concettualmente diverse (simulazione pura vs fiduciaria con trasferimento successivo), ai fini tributari le due forme di interposizione hanno lo stesso trattamento: prevale la realtà economica sottostante.

Tabella 1: Confronto tra interposizione fittizia e interposizione reale

CaratteristicaInterposizione fittizia (simulazione)Interposizione reale (fiduciaria)
Coinvolgimento dell’interpostoMeramente formale: presta il nome senza agire né assumere rischi effettiviOperativo ma eterodiretto: partecipa all’operazione con impegni reali, ma su istruzione dell’interponente
Accordo sottostanteSimulazione assoluta: l’interposto finge di essere titolare, ma parti concordano che non lo è in realtàIntesa fiduciaria: l’interposto è temporaneamente titolare/contraente, con obbligo di trasferire benefici/interessi all’interponente
Esempio tipicoIntestare fittiziamente un immobile o un conto a un prestanome che non lo utilizzaFar comprare un bene o gestire un affare a un terzo, che poi ritrasferisce tutto all’effettivo interessato
Rilevanza fiscaleConsiderata evasione simulata: il Fisco disconosce l’intestazione fittizia e imputa redditi al vero titolareConsiderata elusione/abuso se fatta per vantaggi fiscali, o comunque assimilata a interposizione fittizia: il Fisco può tassare l’effettivo beneficiario al netto di passaggi intermedi
Disciplina applicabileArt. 37, co.3 DPR 600/1973 (piena applicazione)Art. 37, co.3 DPR 600/1973 applicabile parimenti anche qui (principio di sostanza su forma); in alcuni casi configurabile come abuso ex art.10-bis L.212/2000 se non c’è simulazione completa

Nota: In passato parte della giurisprudenza distingueva l’ambito di applicazione dell’art.37 DPR 600 tra interposizione fittizia (sì) e interposizione reale (no), ritenendo che quest’ultima fosse solo elusione. Tuttavia l’orientamento attuale della Cassazione è univoco: art.37 si applica ad entrambi i casi, poiché la norma mira a colpire qualsiasi intesa volta a nascondere il possessore effettivo dei redditi.

Interposizione fittizia vs abuso del diritto (elusione fiscale)

È importante inquadrare l’interposizione fittizia rispetto ai concetti di evasione fiscale ed elusione fiscale (abuso del diritto), che hanno confini sottili ma significativi. In generale:

  • Evasione fiscale: consiste nella violazione della legge tributaria per sottrarre materia imponibile. Comprende condotte fraudolente od omissive, ad esempio occultare ricavi, annotare costi fittizi, non presentare dichiarazione. L’interposizione fittizia classica – in cui si occulta il vero percettore di un reddito – rientra tipicamente nell’evasione, perché implica un occultamento volontario di imponibili al Fisco. Di fatto, presentare un prestanome come contribuente al proprio posto significa dichiarare il falso circa il soggetto obbligato al pagamento d’imposta. È un imbroglio che incide sull’obbligazione tributaria, dunque configura violazione.
  • Elusione fiscale (abuso del diritto): attiene a comportamenti formalmente leciti ma privi di sostanza economica, adottati al solo fine di risparmiare imposte. In tal caso il contribuente non trasgredisce una specifica norma, ma abusa di strumenti giuridici leciti (società, fusioni, regimi agevolati) per ottenere vantaggi fiscali indebiti, senza una vera ragione economica sottostante. L’interposizione reale, quando il prestanome agisce davvero ma l’operazione è orchestrata al fine di ridurre il carico fiscale senza sostanza economica nuova, può essere vista come un caso di elusione. Esempio: costituire una società estera realmente funzionante ma controllata da un residente, al solo scopo di usufruire di un’aliquota più bassa, è spesso contestato come abuso del diritto (c.d. esterovestizione). Formalmente non vi è simulazione (la società esiste e opera), ma lo scopo unico di vantaggio fiscale la rende elusiva.

In pratica, interposizione fittizia e abuso del diritto sono concetti affini – entrambi implicano costruzioni artificiose senza sostanza economica – ma differiscono per il profilo soggettivo e la tutela sanzionatoria: l’abuso riguarda operazioni prive di sostanza (es. una riorganizzazione societaria artificiosa), mentre l’interposizione riguarda soggetti usati come schermo. Inoltre, l’abuso (ex art. 10-bis dello Statuto del Contribuente) pur comportando il recupero delle imposte evitate, non implica sanzioni amministrative né penali se il contribuente lo ha posto in essere in modo trasparente (dichiarando nella propria dichiarazione l’esistenza del vantaggio fiscale ottenuto). L’interposizione fittizia invece è considerata una forma di frode/occultamento e come tale comporta sia il recupero delle imposte sia l’irrogazione di sanzioni, potendo integrare estremi di reato. In estrema sintesi: l’abuso del diritto “disconosce” l’operazione elusiva ma non punisce, l’interposizione fittizia invece punisce perché vista come evasione.

Va detto però che spesso le due fattispecie possono sovrapporsi: un’operazione può essere al contempo abusiva e realizzata tramite interposizione. Ad esempio, creare una società estera vuota (nessuna attività effettiva) allo scopo di farle figurare utili che sarebbero di un residente è sia un abuso (perché la società è priva di sostanza economica, puro schermo fiscale), sia un’interposizione (perché la società funge da interposta). In tali casi, l’Amministrazione può contestare l’una o l’altra cosa, e frequentemente opta per la contestazione di interposizione fittizia se riesce a dimostrarne gli estremi, poiché essa consente di applicare sanzioni (l’abuso invece no, se dichiarato in trasparenza). Non di rado, se il Fisco non riesce a provare la simulazione soggettiva necessaria per qualificare interposizione fittizia, ripiega sulla contestazione di abuso del diritto, che richiede uno standard probatorio meno rigoroso (basta dimostrare l’assenza di sostanza economica).

Esempio: Caio sposta la propria residenza a Montecarlo solo sulla carta (continua a vivere in Italia) per beneficiare della tassazione monegasca nulla: questo è abuso del diritto (fittizia esterovestizione, elusione), ma non necessariamente interposizione di persona. Viceversa, Tizio fa figurare la sua società come appartenente a un trust estero ma continua a gestirla e beneficiarne: qui c’è sia un’interposizione (il trust come soggetto interposto) sia un abuso (schema artificioso). In ogni caso, l’Amministrazione finanziaria ha strumenti per intervenire: dall’art. 37, comma 3 DPR 600/73 per tassare il reale possessore, all’art. 10-bis L. 212/2000 per disconoscere i vantaggi fiscali di operazioni elusive. Importante: se il contribuente teme che una sua pianificazione possa essere considerata elusiva, può avvalersi di un interpello preventivo per avere certezza, come spiegato più avanti.

Normativa italiana di riferimento

Esaminiamo ora le principali disposizioni normative italiane che riguardano l’interposizione fittizia in ambito tributario, sia sul piano dell’accertamento amministrativo che su quello sanzionatorio (amministrativo e penale). Queste norme, supportate dalla giurisprudenza, delineano un arsenale normativo completo per contrastare il fenomeno, coprendo sia la fase di accertamento dell’evasione/elusione sia l’eventuale punizione penale dei comportamenti più gravi.

  • Art. 37, comma 3, DPR 29 settembre 1973 n. 600 (Accertamento dei redditi) – È la norma cardine in materia di interposizione fittizia. Stabilisce che, in sede di accertamento tributario, l’Amministrazione finanziaria può imputare al contribuente i redditi di cui risultino titolari altri soggetti, quando sia dimostrato – anche in base a presunzioni gravi, precise e concordantiche egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona. In altre parole, se il Fisco prova che Tizio è il vero possessore (utilizzatore/beneficiario) di redditi formalmente intestati a Caio, può tassare direttamente Tizio, ignorando l’intestazione a Caio. Questa disposizione rende inopponibile al Fisco la simulazione di soggetti: la forma giuridica viene scavalcata per far prevalere la realtà economica. La norma, pur risalente al 1973, è ancora oggi pienamente vigente ed è stata oggetto di costante interpretazione evolutiva da parte dei giudici (come vedremo, Cassazione 2025) per adattarla anche a schemi moderni (trust, società estere, etc.).
  • Art. 10-bis, Legge 27 luglio 2000 n. 212 (Statuto del Contribuente) – Introdotto nel 2015, definisce e disciplina l’abuso del diritto/elusione fiscale. Prevede che le operazioni prive di sostanza economica, realizzate essenzialmente per ottenere vantaggi fiscali indebiti, possano essere disconosciute dall’Amministrazione finanziaria. Pur non riferendosi espressamente alle interposizioni di persona, la norma copre molti casi di intestazioni artificiose e schermi societari finalizzati al risparmio d’imposta, purché non integrino già violazioni specifiche. Importante, come detto, l’art. 10-bis stabilisce che la contestazione di abuso non dà luogo a sanzioni amministrative né penali, a condizione che il contribuente abbia tenuto un comportamento collaborativo (ad esempio, indicando l’operazione potenzialmente elusiva nel quadro apposito della dichiarazione). Questa previsione differenzia l’abuso (che resta illecito solo “formale”) dall’interposizione fittizia vera e propria, che invece implica violazioni sanzionabili. Spesso le due norme (art. 37 e art. 10-bis) vengono utilizzate in via alternativa dal Fisco: se c’è prova sufficiente di interposizione (quindi simulazione, possesso per interposta persona) si applica l’art. 37 con sanzioni; altrimenti si ricorre all’art. 10-bis contestando l’abuso senza sanzione.
  • Art. 73, DPR 22 dicembre 1986 n. 917 (TUIR) – Detta i criteri di residenza fiscale per società ed enti. Stabilisce (comma 3) che sono considerate residenti in Italia le società che hanno qui la sede legale o amministrativa, o l’oggetto principale. Questa norma è rilevante nelle ipotesi di esterovestizione (finta residenza estera): ad esempio, se un soggetto costituisce una società all’estero ma di fatto la gestisce dall’Italia, la società verrà considerata residente in Italia ai fini fiscali, rendendo inefficace l’interposizione internazionale. Inoltre l’art. 73 TUIR include i trust tra i soggetti passivi IRES e prevede criteri per tassarli. La prassi (Agenzia Entrate, circ. 61/E/2010) e la giurisprudenza (Cass. 9782/2020) hanno chiarito che se un trust è interposto (cioè fittizio, con disponente che ne conserva di fatto il controllo), i redditi del trust vanno imputati al disponente stesso, in combinato disposto con l’art. 37, comma 3 DPR 600/73. Questo per evitare che il trust funzioni da schermo: se il disponente manovra tutto, sarà tassato come se il trust non esistesse.
  • D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 (Reati tributari) – È la legge fondamentale sui reati fiscali. Diversi articoli di questo decreto si applicano a condotte legate all’interposizione fittizia, quando ricorrono determinati importi soglia di evasione (vedi sezione penale). In particolare:
    • Art. 2 punisce la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o documenti falsi (tipico nelle frodi IVA, quando si creano false operazioni). Può riguardare l’interposizione se ad esempio la società interposta emette fatture fittizie per fornire giustificazioni contabili all’interponente.
    • Art. 3 punisce la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: norma di chiusura che sanziona qualsiasi condotta artificiosa idonea a ingannare il Fisco e ostacolare l’accertamento, accompagnata da un’evasione > €30.000 di imposta. La Cassazione ha affermato che “qualsiasi comportamento formalmente lecito, ma connotato da inganno o artificio volto a ostacolare l’accertamento, integra il reato di dichiarazione fraudolenta”. Usare un prestanome rientra perfettamente: è un artificio ingannatorio che rende più difficile ricondurre i redditi al vero autore. Dunque, se tramite interposizione il contribuente presenta una dichiarazione infedele (nascondendo sé dietro altri), con imposta evasa > €30k, è configurabile l’art. 3, con pena 4–8 anni.
    • Art. 4 punisce la dichiarazione infedele (evasione > €100.000 imposta, senza artifici particolarmente insidiosi). Un interponente che omette di dichiarare redditi intestandoli a un interposto, superando quella soglia, commette reato ex art.4 (reclusione 2–4 anni circa).
    • Art. 5 punisce l’omessa dichiarazione (se imposta evasa > €50.000). Caso tipico: l’interponente non presenta affatto la propria dichiarazione confidando che i redditi risultino dichiarati dall’interposto (che magari dichiara poco). Esempio: imprenditore che fa figurare la ditta a nome della moglie; la moglie dichiara redditi minimi e lui si astiene dal dichiarare alcunché risultando “nullatenente”. Se l’imposta evasa supera 50k, è reato (2–5 anni).
    • Art. 8 punisce l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (fino a 8 anni). In contesti di interposizione, può capitare che la società interposta emetta fatture false per creare costi fittizi o crediti fittizi a beneficio dell’interponente (soprattutto in frodi IVA con “società cartiere”). Ciò configura reato a carico di chi emette i documenti falsi (spesso l’amministratore di fatto, cioè l’interponente stesso che usa la cartiera).
    • Art. 11 punisce la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: reato che colpisce chi, al fine di rendere inefficace la riscossione di imposte o sanzioni già dovute, compie atti fraudolenti sui propri o altrui beni. Tipicamente, intestare beni a terzi per sottrarli ai pignoramenti del Fisco rientra in questa fattispecie. È punito con reclusione 6 mesi–4 anni (1–6 anni se il debito supera €100k, aggravante introdotta nel 2015). L’interposizione fittizia di beni patrimoniali è un modo classico di commettere questo reato: ad es. vendere fittiziamente la propria casa a un amico compiacente per non farla trovare all’Agente della Riscossione costituisce atto fraudolento ex art.11. Importante: non ogni alienazione a terzi in presenza di debiti fiscali è reato – serve la fraudolenza, cioè un quid pluris di inganno/simulazione. Se uno vende davvero un bene per far cassa, pur pregiudicando i creditori, non è reato (potrà semmai essere oggetto di azione revocatoria civile) a meno che non ci sia un intento fraudolento di occultamento. Esempio: costituire un trust segreto e trasferirvi tutto il patrimonio poco prima di un accertamento tributario può essere considerato fraudolento; costituire un trust palese, noto ai creditori, in tempi non sospetti e prevedendo comunque di pagare i debiti, potrebbe non esserlo. In pratica la linea è sottile e valutata caso per caso, ma la Cassazione penale tende a vedere con severità molti atti di spossessamento in favore di terzi quando c’è di mezzo il Fisco. L’interposizione fittizia in sé (intestazione a prestanome) integra tipicamente la fraudolenza richiesta: intestare i propri beni a un fidato nullatenente per non farli pignorare è “textbook sottrazione fraudolenta”. Ad esempio la Cassazione penale ha affermato che far risultare un terzo come aggiudicatario di un immobile all’asta al posto proprio, onde sottrarlo a Equitalia, configura il reato ex art.11.
    Va segnalato che dal 2019 alcuni reati tributari, tra cui quelli di dichiarazione fraudolenta (art.2 e 3) e di emissione di false fatture (art.8), sono stati inseriti tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti (D.Lgs. 231/2001, art. 25-quinquiesdecies). Ciò significa che, se una società (ente) trae vantaggio dalla commissione di tali reati tributari da parte di suoi apicali, può essere chiamata a rispondere con pesanti sanzioni pecuniarie e interdittive. Tuttavia, questo profilo rileva poco nei casi di società schermo utilizzate per interposizione: la società fittizia spesso non ha un proprio Modello 231 né un’attività reale, e non è un vero soggetto beneficiario (il beneficio è in capo alla persona fisica). Ad ogni modo, le aziende vere dovrebbero adottare cautele per prevenire al loro interno schemi fraudolenti di interposizione che possano far insorgere responsabilità ex D.Lgs.231/2001.
  • Art. 13, D.Lgs. 74/2000 (Causa di non punibilità) – Prevede una importante “via d’uscita” in ambito penale tributario: l’integrale pagamento dei debiti tributari, sanzioni e interessi prima dell’apertura del dibattimento di primo grado estingue i reati di dichiarazione infedele (art.4), omessa dichiarazione (art.5) e – da una riforma del 2019 – anche i reati di dichiarazione fraudolenta (art.2 e 3). Ci sono condizioni stringenti (ad esempio che il pagamento avvenga spontaneamente e non a seguito di sequestri già eseguiti dal PM), ma in sostanza il legislatore ha voluto incentivare il ravvedimento operoso penale. Non è invece causa di non punibilità il pagamento per il reato di sottrazione fraudolenta (art.11), il quale però può beneficiare comunque di una riduzione di pena se il debito è pagato prima della sentenza. In pratica, un contribuente che – colto sul fatto di interposizione fittizia – voglia evitare il carcere, può provare a pagare tutto il dovuto prima del processo: se riesce, per i reati di frode e omessa il procedimento penale viene chiuso senza condanna. Per l’art.11 otterrà almeno un’attenuante. Ciò ovviamente è più facile a dirsi che a farsi, specie se le somme evase sono ingenti; tuttavia questa opportunità ha portato in diversi casi a sanatorie sostanziali. Ad es., durante le voluntary disclosure 2015-2017 molti contribuenti hanno regolarizzato interposizioni di patrimoni all’estero evitando di incorrere in reati (grazie al condono delle sanzioni penali in cambio del pagamento integrale).
  • Art. 7, co.1, DL 269/2003 (Sanzioni amministrative tributarie) – Dispone che “le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società od enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica”. Ciò significa che, di regola, se un’evasione è stata commessa tramite una società di capitali, le relative sanzioni tributarie (multe) colpiscono solo la società, non si trasferiscono alle persone fisiche (soci o amministratori). Tuttavia, la giurisprudenza ha fatto una importante eccezione in caso di società mero schermo. La Cassazione (Sez. Trib.) con sent. n. 1358/2023 ha stabilito che questa regola non si applica quando la società è una mera fictio creata nell’esclusivo interesse personale dell’amministratore/socio. In tal caso, le violazioni (pur formalmente commesse dall’ente) vanno riferite all’attività dell’interponente persona fisica, “ripristinando il principio generale di responsabilità personale”. In pratica, se la società è solo un alter ego del contribuente e viene usata per evadere, le sanzioni amministrative si imputano direttamente a quest’ultimo (oltre a imputargli i redditi ex art.37 DPR 600). Questo principio chiude un potenziale scappatoia: diversamente, un evasore potrebbe lasciare che la sua società di comodo vada in default sulle sanzioni, proteggendo il patrimonio personale. Con Cass. 1358/2023 ciò non è possibile: imposte e sanzioni seguono il dominus quando la società è fittizia.
  • D.Lgs. 21 novembre 2007 n. 231 (Antiriciclaggio) – Titolare effettivo – Pur non essendo norma tributaria, la disciplina antiriciclaggio impone alle banche e intermediari di identificare il titolare effettivo di conti, società, trust, ecc., e verranno istituiti registri dei titolari effettivi accessibili alle autorità. Questo concetto permea ormai anche il diritto tributario: ad esempio, il titolare effettivo di investimenti esteri deve indicarli nel Quadro RW della dichiarazione (monitoraggio fiscale), anche se formalmente schermati da trust o società estere. La crescente attenzione al beneficial owner a livello internazionale (scambio automatico di informazioni CRS, registri antiriciclaggio) rende sempre più arduo mantenere anonimi gli asset occultati tramite interposizioni. Dunque, il contesto normativo attuale fornisce al Fisco un notevole supporto informativo per scoprire prestanome e società schermo.

Onere della prova e meccanismo probatorio nelle contestazioni di interposizione

Uno snodo cruciale nelle liti tributarie su interposizione fittizia è il regime dell’onere della prova: chi deve provare cosa? Dato che si tratta di smascherare una situazione occulta (un soggetto nascosto dietro un altro), il legislatore e i giudici hanno predisposto un meccanismo probatorio “asimmetrico” che favorisca l’accertamento della verità sostanziale. In sintesi:

  • Inizialmente, l’onere è a carico del Fisco: l’Amministrazione finanziaria che contesta l’interposizione deve fornire elementi idonei a dimostrare che la realtà effettiva differisce da quella apparente. Non serve una prova diretta (spesso impossibile, perché gli accordi simulatori sono segreti): è sufficiente che il Fisco costruisca un quadro di indizi gravi, precisi e concordanti da cui risulti che il contribuente accusato è l’effettivo possessore di redditi formalmente altrui. Tipicamente la prova si fonda su presunzioni semplici: fatti noti (emergenti da documenti, controlli bancari, testimonianze) da cui inferire il fatto ignoto (possesso per interposta persona) secondo criteri di ragionevolezza e esperienza. La Cassazione ha esplicitamente chiarito che non occorre un nesso di necessità logica assoluta tra indizio e conclusione: basta che dai fatti noti il fatto ignoto sia ragionevolmente desumibile secondo l’id quod plerumque accidit. Questo significa che il giudice tributario può basarsi su presunzioni robuste anche se non dimostrano al 100% l’interposizione, purché convergano tutte verso quella spiegazione. (In diritto penale invece servirà la prova oltre ogni ragionevole dubbio, come vedremo).
  • Esempi di indizi tipici che il Fisco usa per provare l’interposizione:
    • Sproporzione reddito/tenore di vita: Tizio dichiara redditi modesti ma conduce un tenore di vita molto alto; nel contempo Caio, a lui vicino (familiare, società collegata), dispone di risorse cospicue senza giustificazione apparente. L’ipotesi è che Caio faccia da “cassaforte” occulta per Tizio.
    • Legami finanziari stretti: continui trasferimenti di denaro da/verso il prestanome, conti cointestati, garanzie incrociate, etc. Se il sospetto interponente e l’interposto hanno conti bancari con movimenti intrecciati (bonifici ricorrenti, prelevamenti incrociati), ciò è fortemente indicativo che le finanze fanno capo a uno stesso dominus.
    • Incapacità economica dell’interposto: l’interposto non ha mezzi propri o competenze per giustificare quei redditi/beni, e appare eterodiretto. Ad esempio, un amministratore di società che è mero uomo di paglia, senza poteri reali decisionali, mentre l’interponente (che non figura ufficialmente) prende tutte le decisioni. Oppure un trustee che segue pedissequamente le istruzioni del disponente, segno che il trust è fittizio.
    • Eterodirezione dell’attività economica: l’interponente di fatto gestisce beni o società formalmente altrui – es: firma contratti per la società X pur non avendone cariche, usa i beni aziendali come propri, dispone dei conti correnti della società schermo. Se il soggetto “occulto” agisce come padrone (uti dominus) dell’attività formalmente intestata ad altri, è forte la presunzione che ne sia il vero titolare.
    • Tracce documentali o confessioni: eventuali scritture private, e-mail, dichiarazioni in cui il prestanome ammette di agire per conto dell’altro. Non comune (perché chi simula evita di lasciare tracce scritte), ma se emergono sono prove decisive.
  • Se il Fisco fornisce questi indizi e presunzioni concordanti, il giudice può ritenerli sufficienti a configurare un principio di prova dell’interposizione. A questo punto, scatta un meccanismo di inversione dell’onere della prova a carico del contribuente: spetta infatti all’accusato (presunto interponente) dimostrare il contrario. La Suprema Corte afferma che, una volta delineato dal Fisco un quadro indiziario serio che “sveli la sovrapposizione tra contribuente occulto e soggetto formalmente imponibile”, “spetta al contribuente interponente dimostrare l’assenza di interposizione o la mancata percezione dei redditi in questione”. In pratica, il contribuente deve provare un fatto negativo: che i redditi non erano suoi o che l’interposto era davvero autonomo. È evidente che questo è assai arduo, ed è intenzionale: l’asimmetria probatoria è voluta per evitare che l’interposizione, che per sua natura è occulta, rimanga impunita proprio grazie alla difficoltà di prova. Chi crea un prestanome opera di nascosto, quindi il legislatore ha inteso non consentirgli di farla franca sfruttando l’opacità che lui stesso ha creato.
  • Cosa può fare in pratica il contribuente per difendersi sul merito? Essenzialmente, cercare di smontare gli indizi oppure provare che l’interposto aveva realmente una sua capacità contributiva:
    • Può contestare la gravità/concordanza delle presunzioni, mostrando magari che alcuni fatti hanno spiegazioni alternative lecite. Ad es., se il Fisco deduce l’interposizione da movimenti bancari sospetti, il contribuente può produrre documenti che spieghino quei movimenti (un prestito restuito, una compravendita reale, etc.), così da spezzare la “concordanza” degli indizi.
    • Può provare che l’interposto aveva mezzi propri e che i redditi sono rimasti effettivamente a lui. Ad esempio, documentare che il prestanome (es. un familiare) disponeva di un patrimonio legittimo con cui ha acquistato quei beni, o che i redditi prodotti dalla società interposta sono stati reinvestiti nella società stessa o distribuiti ad altri soci, anziché finire all’interponente. Se riesce a far emergere una genuina autonomia economica dell’interposto, può far vacillare l’accusa.
    • Può evidenziare eventuali vizi procedurali nell’accertamento: ad es., motivazione inadeguata dell’atto (se l’Ufficio non spiega bene perché ritiene interposizione), oppure mancato rispetto del contraddittorio preventivo obbligatorio in alcuni casi (es. in materia di abuso del diritto l’art. 10-bis impone un confronto prima dell’atto). Un vizio procedurale, se riconosciuto dal giudice, può portare all’annullamento dell’atto anche a prescindere dal merito.
    • Nella peggiore delle ipotesi, se la prova contraria della sostanza economica è impossibile, il contribuente può puntare a contestare il quantum: ad esempio dimostrando che l’Ufficio ha ecceduto nella ricostruzione dei redditi occultati (magari usando presunzioni troppo estensive). Oppure può cercare un accordo transattivo (accertamento con adesione) ottenendo una riduzione di sanzioni e una definizione più mite. Questa scelta implica rinunciare a una disputa totale sul merito, ma consente di chiudere la lite con danni limitati e rateizzare il dovuto.
  • Ruolo del giudice tributario: il giudice valuterà se gli indizi del Fisco integrano i requisiti di gravità, precisione e concordanza. Se sì, pretenderà una prova contraria forte dal contribuente. In assenza di tale prova, darà prevalenza allo scenario delineato dall’Ufficio (sostanza economica) rispetto alla forma. Da segnalare che anche la mancanza di tracce di reimpiego del reddito occulto non salva il contribuente: alcuni provano a difendersi dicendo “non c’è traccia che quei soldi siano arrivati a me, dunque non potete tassarmeli”. Ma la Cassazione ha chiarito che non occorre provare la movimentazione finale del denaro verso l’interponente. Se vi sono solidi indizi che l’interposto è un mero schermo e che l’interponente dispone dei redditi come propri, non serve individuare dove siano finiti i soldi: è plausibile che un reddito occultato non transiti sui conti ufficiali del beneficiario (magari resta all’estero o in contanti) e ciò non può vanificare l’accertamento. Questo orientamento, sostenuto in pronunce anche del 2025, sancisce che la prova richiesta al Fisco è il possesso effettivo per interposta persona, non la prova del godimento materiale del denaro.

In conclusione, il quadro probatorio nelle cause da interposizione fittizia prevede:

  • Il Fisco costruisce un puzzle di indizi (spesso reperiti grazie alla Guardia di Finanza, alle indagini bancarie, ai controlli incrociati dello spesometro e delle banche dati).
  • Una volta superata la soglia minima di prova presuntiva (“fumus” di interposizione), l’onere si sposta sul contribuente, che deve fornire prova contraria convincente (cosa non facile, trattandosi di dimostrare un’assenza di benefici).
  • Se il contribuente non smonta il castello indiziario, prevale la sostanza: i redditi vengono attribuiti a lui e le sanzioni pure. L’interposto fittizio viene trattato alla stregua di una fictio, la cui posizione fiscale viene riassorbita in quella dell’interponente. Ad esempio, se una società schermo aveva pagato imposte sui redditi poi imputati al dominus, potrà chiederne rimborso per evitare doppia imposizione, ma le violazioni e relative sanzioni verranno contestate al dominus.

Va infine evidenziato che in sede penale l’onere della prova ritorna in capo all’accusa con standard più elevato (“oltre ogni ragionevole dubbio”). Ciò spiega perché talvolta uno schema che viene fiscalmente sanzionato come interposizione possa non dare luogo a condanne penali: se gli elementi non bastano per superare ogni dubbio, il giudice penale assolverà (mentre in campo tributario bastava la prevalenza di probabilità). Ad esempio, in alcuni casi di trust contestati dal Fisco, i Tribunali penali hanno ritenuto non provato il quid pluris di inganno richiesto per il reato, pur essendoci stata interposizione ai fini fiscali.

Casi tipici di interposizione fittizia: esempi pratici

L’interposizione fittizia può manifestarsi in molte forme. Di seguito analizziamo alcune fattispecie ricorrenti emerse dalla pratica e dalla giurisprudenza, per comprendere come funzionano e come vengono affrontate dal Fisco e dai giudici. Tutti gli esempi riguardano contesti italiani (o con elementi esteri ma soggetti a normativa italiana), e mostrano lo schema base: un soggetto nascosto dietro un soggetto di facciata.

1. Società “schermo” e amministratore di fatto

Schema: L’interponente crea o utilizza una società di capitali (srl, spa) formalmente intestata ad altri prestanome (testa di legno come socio o amministratore), ma la gestisce in prima persona dietro le quinte. La società spesso è sottocapitalizzata, non ha reale autonomia di decisione e serve unicamente a veicolare i redditi dell’interponente a un’aliquota inferiore (es. 24% IRES invece delle aliquote IRPEF personali che per redditi alti superano il 40%), oppure a schermare beni dell’interponente (intestandoli alla società per sottrarli a creditori personali). In tali casi, la società viene definita comunemente società schermo, società di comodo o cartiera (se usata anche per emettere fatture false, tipico nelle frodi IVA). L’interponente agisce come amministratore di fatto: impartisce ordini, firma contratti magari con deleghe informali, utilizza i conti correnti e i beni sociali uti dominus. Il prestanome figura come amministratore legale ma non decide nulla (a volte è un parente, un dipendente compiacente o un nullatenente reclutato allo scopo).

Finalità: Abbassare la tassazione complessiva e/o proteggere beni. Ad esempio, incanalare gli utili nell’srl (tassata al 24%) e poi farli “sparire” attraverso spese fittizie o prelievi non documentati, così che non giungano mai alla persona fisica come dividendi tassabili IRPEF. Oppure evitare accertamenti redditometrici intestando auto di lusso e ville alla società (che magari dichiara redditi minimi). In caso di debiti col Fisco, presentare la società come proprietaria dei beni impedisce (temporaneamente) il pignoramento verso l’interponente.

Come viene scoperto: La Guardia di Finanza in verifica esamina l’operatività reale: riscontra che l’azienda è diretta da persona diversa dall’amministratore ufficiale, che vi sono spese personali dell’interponente pagate dalla società, che il prestanome non ha competenze né indipendenza. Inoltre controlli bancari rivelano movimentazioni fra i conti sociali e personali dell’interponente. Spesso vi sono incongruenze contabili (utili che spariscono, cassa negativa coperta da versamenti anomali, ecc.). Tutti questi elementi portano a concludere che la società è asservita totalmente alla persona fisica.

Conseguenze: L’Agenzia delle Entrate, ex art.37 co.3 DPR 600/73, imputa i redditi sociali alla persona fisica interponente. Ciò può significare ricalcolare l’IRPEF su più anni, con interessi e sanzioni 90%-180% dell’imposta evasa. Contestualmente, non si applica l’art. 7 DL 269/2003: le sanzioni non restano in capo alla srl (che magari è un guscio vuoto senza patrimoni), ma vengono poste a carico diretto dell’interponente persona fisica (Cass. 1358/2023). La società schermo può chiedere il rimborso di eventuali imposte versate per evitare doppia imposizione, ma non è considerata l’unica responsabile: le violazioni tributarie vengono accollate al dominus. Sul piano penale, lo schema può far scattare vari reati: dichiarazione infedele se superate soglie (utile tassato in capo a dominus non dichiarato); dichiarazione fraudolenta art.3 se l’interposizione è ritenuta artificio fraudolento; emissione di fatture false se la cartiera ne ha emesse; sottrazione fraudolenta art.11 se lo scopo primario era sfuggire a riscossione. L’interponente viene di regola indagato come autore principale; il prestanome legale rappresentante può essere indagato in concorso (specie se firmava dichiarazioni mendaci), ma spesso, essendo persona di paglia senza beneficio, non è l’obiettivo principale delle pene.

Riferimenti giurisprudenziali: Cassazione ha affrontato moltissimi casi. Ad es., Cass. Sez. Trib. n. 1358/2023 (caso di frode IVA auto estere) ha sancito che quando una società è creata ad hoc per fini illeciti di una persona, quest’ultima è considerata sia trasgressore sia contribuente effettivo: i redditi societari sono imputati a lei e le sanzioni pure. Cass. n. 5276/2022 ha ribadito che occorre prova rigorosa di un “totale asservimento” della società all’individuo (utili usati come propri, gestione uti dominus), dopodiché scatta l’onere del contribuente di provare il contrario. Cass. n. 939/2025 (ord. 15/1/2025) ha confermato che l’art.37 co.3 si applica anche all’interposizione reale in società, non solo a quella fittizia, proprio per evitare che chi possiede di fatto un reddito societario possa sottrarsi al prelievo nascondendosi dietro persone giuridiche. In ambito penale, Cass. Pen. n. 32507/2022 ha confermato la legittimità di sequestrare beni dell’indagato dominus in un caso di esterovestizione societaria, ritenendo configurati reati ex artt.5 e 11 D.Lgs.74/2000 (omessa dichiarazione e sottrazione).

2. Interposizione fittizia di beni personali (intestazioni a prestanome)

Schema: Un contribuente debitore (es. con cartelle esattoriali in arrivo, o con patrimoni che generano redditi tassabili) decide di intestare i propri beni o investimenti a terze persone di fiducia, per non comparire come proprietario. Può trattarsi di beni immobili, conti bancari, auto di lusso, partecipazioni societarie, ecc. Il prestanome interposto può essere un familiare (coniuge, figlio maggiorenne, genitore), un amico fidato oppure anche un’entità giuridica (es. crea una srl e vi conferisce i beni, facendo figurare come socio/amministratore un prestanome). L’interponente continua ad utilizzare e godere dei beni come fossero suoi, ma formalmente non ne risulta titolare. Questo schema è spesso usato per:

  • Evitare pignoramenti: se Tizio ha debiti o rischia cartelle esattoriali, intesta anticipatamente la casa, l’auto, ecc. alla moglie o ad altri; così quando Equitalia andrà a escutere Tizio, troverà poco o nulla a lui intestato.
  • Evitare imposte su redditi patrimoniali: es. Tizio possiede vari immobili in locazione, e per non cumulare redditi IRPEF al proprio alto scaglione, li intesta ai figli o ai genitori pensionati a basso reddito (così le tasse su quegli affitti sono minori). Oppure intesta conti con investimenti finanziari a un parente in regime fiscale più favorevole (o all’estero).
  • Schermare plusvalenze: es. Tizio vende un terreno edificabile con forte plusvalore: per evitare la plusvalenza IRPEF al 26%, lo vende prima a una società amica interposta che rivende subito all’acquirente finale, imputando la plusvalenza (forse in parte esentasse) alla società – schema visto in Cass. 27982/2020.

Come viene scoperto: L’Agenzia delle Entrate può notare incongruenze tra il tenore di vita di Tizio e i redditi che dichiara. Ad esempio, Tizio dichiara 15.000 € annui ma vive in una villa con piscina intestata al nonno ultraottantenne (privo di redditi), guida un SUV intestato alla moglie casalinga, e così via. Tali situazioni fanno scattare verifiche: controlli incrociati, redditometro, ecc. Frequentemente emergono anche indizi finanziari: magari le rate del mutuo della casa intestata al nonno le paga in realtà Tizio dal suo conto; le utenze, l’assicurazione e la manutenzione sono pagate da lui; i canoni d’affitto percepiti dal nonno vengono girati a lui. Tutto ciò prova che Tizio è il reale proprietario economico. Anche segnalazioni antiriciclaggio possono svelare conti intestati a prestanome con movimentazioni riferibili ad altri (es. soggetti politicamente esposti che usano fiduciarie). Nei casi di intestazioni pre-sospette, il Fisco può agire con misure cautelari: se sospetta una sottrazione fraudolenta (es. donazione ai figli per non far pignorare l’immobile), può chiedere al tribunale un sequestro conservativo o un’azione revocatoria per recuperare il bene.

Conseguenze: Sul piano tributario, l’art.37 co.3 consente di imputare i redditi dei beni all’effettivo possessore. Quindi se i canoni di affitto li percepisce il figlio formalmente ma tutte le prove indicano che ne beneficia il padre, l’Agenzia li tassarà in capo al padre. Se l’intestazione era volta a godere di aliquote agevolate (es. regime forfettario del prestanome), tali benefici vengono disconosciuti e si ricalcola il dovuto come se l’interponente fosse sempre stato il contribuente. Inoltre, i trasferimenti di beni possono essere riqualificati come simulati: ad es. una finta vendita a un amico compiacente verrà considerata nulla ai fini fiscali (quindi l’imposta di registro pagata magari solo su un valore dichiarato basso verrà ri-calcolata sul reale passaggio di ricchezza, se c’è stato). Le annualità accertabili vanno fino a 5 (o 7 se omesse dichiarazioni) indietro. Le sanzioni amministrative per occultamento di redditi sono salatissime (90-180% dell’imposta evasa). Se erano attività estere non dichiarate (es. soldi su conti offshore intestati a prestanome), c’è la sanzione del 3-15% annuo degli importi non monitorati, oltre all’eventuale tassazione dei rendimenti non dichiarati. In sintesi, il conto economico finale può essere rovinoso: imposte arretrate, interessi, sanzioni che spesso raddoppiano l’esborso, e poi cartelle, ipoteche e pignoramenti se non si paga.

Dal punto di vista penale, l’intestazione fittizia di beni per sottrarli al Fisco configura quasi sicuramente il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art.11 D.Lgs.74/2000), se c’è un debito fiscale già iscritto a ruolo o comunque scopi di riscossione in atto. La pena base è fino a 4 anni (6 se debiti >100k). Ad esempio, vendere simulatamente la propria casa al fratello quando si hanno cartelle esattoriali imminenti integra l’art.11. Anche se il debito non è (ancora) iscritto a ruolo, la norma copre chi lo fa “per sottrarsi al pagamento di imposte o interessi o sanzioni relativi”: quindi anche in previsione di futuri accertamenti. Se, invece, l’intestazione è fatta primariamente per evadere imposte sui redditi (non tanto per sottrarsi alla riscossione), potrebbero concorrere i reati dichiarativi visti prima: es., intestare investimenti a terzi e non dichiararne i redditi può portare a dichiarazione infedele od omessa dell’interponente se superate le soglie penali. In ogni caso, interponente e interposto rischiano entrambi: l’interponente come autore principale (colui che ha ideato e beneficiato), l’interposto come concorrente se era consapevole di prestarsi a ciò (basta anche solo prestare il nome con la consapevolezza di aiutare a frodare). Tuttavia, spesso l’interposto è persona vicina e magari inconsapevole della rilevanza penale (es. un genitore anziano che firma per fiducia): può anche sostenere di non aver compreso il fine evasivo. La giurisprudenza punisce comunque chi presta il nome se ci sono elementi che provano la complicità dolosa, ma nella pratica i PM tendono a colpire il beneficiario principale (interponente) e considerare l’interposto alla stregua di un strumento, specie se quest’ultimo non trae alcun profitto e magari è nullatenente.

Esempio concreto: Mario, imprenditore con €500.000 di debiti verso il Fisco, costituisce un trust familiare e vi conferisce la sua villa e il conto bancario, nominando trustee un amico. Continua però a vivere nella villa e a usare il conto. All’arrivo delle cartelle, dichiara che i beni non sono più suoi ma del trust. L’Agente della riscossione segnala la cosa alla Procura. Risultato: Mario viene indagato per sottrazione fraudolenta ex art.11; il trust viene ritenuto schermo fittizio; i beni vengono sequestrati e liquidati per pagare il debito. Il trustee, se complice consapevole, potrebbe essere indagato in concorso. (Se Mario avesse pagato il dovuto prima del dibattimento, la pena sarebbe stata attenuata o il reato forse non contestato affatto; ma non avendo pagato nulla, rischia la reclusione).

3. Trust fittizio e schermatura patrimoniale

Schema: Il trust è uno strumento giuridico di origine anglosassone, introdotto in Italia dal 1992 (ratifica Convenzione Aja), che consente a un soggetto (disponente) di trasferire beni a un altro soggetto (trustee) affinché li amministri nell’interesse di beneficiari secondo le regole di un atto istitutivo. Nella sua funzione genuina, il trust comporta un vero spossessamento da parte del disponente, con creazione di un patrimonio separato gestito dal trustee. Tuttavia, data la flessibilità dell’istituto, in Italia sono proliferati trust “farlocchi” usati per proteggere beni dai creditori o dal Fisco senza reale spossessamento – in pratica trust dove il disponente continua a comportarsi da padrone dei beni. Tipici elementi del trust fittizio:

  • Disponente e trustee coincidono (trust auto-dichiarato): la stessa persona che conferisce i beni ne rimane formalmente il gestore. Questo di per sé non è vietato civilmente, ma fiscalmente è visto con sospetto.
  • Disponente si riserva poteri di controllo: es. può revocare il trustee a piacimento, o è anche beneficiario unico. Di fatto, non rinuncia davvero al controllo né al beneficio.
  • Il trust è istituito in giurisdizioni off-shore o black-list, con scarsa trasparenza, oppure è dichiarato “di scopo” ma senza attività reale.
  • I beni del trust continuano a essere utilizzati dal disponente come prima (case in cui vive, conti da cui opera).
  • Il trustee è spesso un prestnomi o un professionista compiacente che segue le istruzioni segrete del disponente.

Finalità: Questi trust di facciata servono principalmente a schermare il patrimonio personale: il disponente spera che, avendo trasferito legalmente i beni al trustee, i creditori (incluso il Fisco) non possano attaccarli perché non più di sua proprietà. Inoltre, alcuni li usano per aggirare il monitoraggio fiscale (Quadro RW), creando trust esteri in cui far confluire attività estere non dichiarate pensando di evitare le sanzioni per omessa dichiarazione delle stesse.

Come viene scoperto: L’Agenzia delle Entrate e la GdF ormai conoscono bene il fenomeno. Quando vedono un contribuente con elevati debiti fiscali istituire un trust e conferire tutti i suoi beni poco prima di un accertamento, scatta l’allarme. Tramite indagini finanziarie e accertamenti, si raccolgono elementi per sostenere che il trust è mero schermo:

  • Il disponente risulta aver tratto benefici non previsti (es. pagamenti dal trust a favore suoi personali).
  • Il trustee appare privo di indipendenza (magari figura professionale ma tutte le scelte risultano pilotate dal disponente, con prove tipo email, istruzioni scritte – vedi caso Ferraris infra).
  • Se il trust è estero, spesso l’attività economica viene svolta comunque in Italia (sede amministrativa occulta in Italia → trust considerato residente fiscalmente qui).
  • Controlli incrociati con banche dati finanziarie estere (scambio CRS) possono rivelare che l’titolare effettivo del trust è il disponente stesso.

Conseguenze fiscali: Se il trust è considerato interposto, i suoi redditi vengono imputati direttamente al disponente (o eventualmente ai beneficiari, a seconda dei casi). Inoltre, eventuali attività estere detenute tramite il trust dovevano comunque essere dichiarate dal disponente in RW (in qualità di titolare effettivo): la mancata dichiarazione comporta sanzioni 3-15% annue sul valore. In diversi casi, l’Agenzia ha contestato ai disponendi di trust esteri l’omessa dichiarazione di investimenti esteri e applicato sanzioni milionarie. Anche le imposte indirette possono essere ricalcolate: per es., se un conferimento in trust è simulato, lo si considera donazione al disponente stesso e si applicano imposte di donazione/ipotecarie (ci sono stati dibattiti su tassazione trust). Ma soprattutto, se il trust è fittizio, si ignora la separazione patrimoniale: i beni conferiti restano aggredibili come se fossero ancora del disponente. Ad esempio, un pignoramento verso “Tizio disponente” che colpisce beni formalmente del trust può essere considerato valido perché il trust è disregarded (in certi casi l’Agente di riscossione lo fa, ma occorre prudenza: la Cassazione ha però affermato che il pignoramento va fatto al trustee nominativo, anche se poi i beni si considerano di Tizio – v. Cass. 7872/2020).

Conseguenze penali: Due profili:

  • Evasione dichiarativa: se attraverso il trust Tizio ha occultato redditi (es. società controllate dal trust i cui dividendi non ha dichiarato personalmente), si applicano i reati ex art.4, 5, o 3 D.Lgs.74/2000 a seconda dei casi e soglie. Ad esempio, uno schema di esterovestizione con trust estero che incassa utili non dichiarati dal disponente può integrare omessa dichiarazione (art.5) se Tizio non presenta dichiarazione confidando che i redditi emergano solo nel trust. Oppure dichiarazione fraudolenta (art.3) se il trust è considerato un artificio ingannevole che ha ostacolato l’accertamento. Ad esempio, il Tribunale di Roma nel 2018 (caso famoso con trust autodichiarato di un noto imprenditore deceduto) ha valutato se l’uso del trust configurasse art.3: in quel caso ha assolto, ritenendo mancasse l’elemento di inganno fraudolento perché il trust era palese e prevedeva il pagamento dei debiti tributari (quindi non usato per evadere). Ma in generale, se il trust è fasullo, la giurisprudenza considera l’uso dello schermo trust come artificio idoneo a trarre in inganno il Fisco, quindi art.3 è spesso contestato. Va ricordato: per i reati dichiarativi, pagando tutto prima del dibattimento il disponente può beneficiare della causa di non punibilità ex art.13 (come chiunque). Nel caso del Tribunale di Roma 2018 sopra citato, in ogni caso gli eredi pagarono i debiti e già solo questo avrebbe portato probabilmente a esiti indulgenti se anche fosse stato reato.
  • Sottrazione fraudolenta (art.11): se il trust è costituito per non far trovare beni al Fisco, è lo scenario tipico dell’art.11. Molte pronunce hanno considerato il conferimento di tutti i propri beni in trust, magari subito dopo un avviso di accertamento, un atto fraudolento ex art.11. L’esempio del trust post-mortem con 25 milioni di debiti (Trib. Roma 2018) è illuminante: il giudice assolse perché nei documenti il trust prevedeva esplicitamente di pagare i debiti (quindi mancava l’intento di sottrarre). Ma se ad esempio un imprenditore poco prima della verifica trasferisce tutti i contanti a un trust alle Cayman segreto, questo è chiaramente un stratagemma ingannatorio e quindi reato. Cass. Penale ha più volte affermato che “costituire un trust segretamente e trasferirvi tutti i propri soldi poco prima di una verifica può considerarsi fraudolento (c’è un occultamento intenzionale)”, mentre un trust palese, istituito prima di avere debiti e con finalità pianificate e dichiarate potrebbe non esserlo. La differenza è sottile e molto fact-specific. In ogni caso, se scatta l’art.11, come visto non c’è causa di non punibilità pagando (ma solo attenuante). Il trustee che collabora consapevolmente può essere concorrente nel reato. Se il trust è gestito da un professionista compiacente, questi può perfino rispondere di istigazione o concorso nell’evasione (ci sono casi di commercialisti incriminati per aver architettato trust fittizi per i clienti).

Riferimenti giurisprudenziali recenti: La Cassazione nel 2025 ha emesso alcune pronunce cruciali:

  • Cass. Sez. Trib. n. 9445/2025 (26/5/2025): caso di trust estero a Malta con partecipazioni societarie italiane non dichiarate dal disponente. La Corte ha ribadito che conta il possesso sostanziale del reddito e il controllo di fatto, anche se provato per indizi. Ha affermato un principio generale: l’art.37, co.3 DPR 600 codifica un principio ampio per cui “ai fini tributari rileva il possesso del reddito formalmente attribuito a terzi, sia in caso di più soggetti coinvolti che di uno solo”. Ciò significa che anche se il trust è formalmente un soggetto autonomo, se disponente e trustee coincidono o comunque il controllo è in mano al disponente, si considera che in realtà c’è un unico soggetto che possiede redditi propri camuffati da redditi del trust. Nel caso concreto il ricorso del contribuente è stato dichiarato inammissibile (nessuna specifica contestazione) e le sanzioni per omessa dichiarazione di attività estere (quasi 6 milioni di euro) sono rimaste a suo carico.
  • Cass. Sez. Trib. n. 9096/2025 (depositata 7/4/2025): caso di un imprenditore (vedi esempio Ferraris ricostruito da dottrina) che aveva trasferito le sue quote societarie a un trust UK (trust apparentemente irrevocabile) con holding svizzera interposta, ma continuando a dirigere tutto. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso (mancavano elementi per sovvertire i fatti accertati dai giudici di merito). Ha sottolineato che il trust era natura fittizia, in quanto il contribuente residente “esercitava un controllo sostanziale e diretto sull’intero impianto patrimoniale, pilotando di fatto le decisioni del trustee”. Principio affermato: “la residenza fiscale effettiva e la titolarità effettiva dei redditi prevalgono su qualsiasi costruzione artificiosa; se il controllo resta in Italia, i redditi si considerano prodotti in Italia”. Dunque il trust fu ignorato e i redditi (dividendi) imputati al disponente. Questa sentenza segna un monito forte: “Quando il controllo resta in Italia, anche il reddito resta in Italia e il Fisco è legittimato a recuperare quanto dovuto”.
  • Cass. Sez. Penale, ord. n. 32507/2022: (già citata) trattava un caso di trust estero usato per occultare redditi imponibili non dichiarati (esterovestizione). La Corte confermò sequestri per equivalente e sottolineò che configurava reato di omessa dichiarazione e giustificava la confisca del risparmio d’imposta ottenuto.

4. Esterovestizione e società estere di comodo

Schema: Un contribuente italiano costituisce o utilizza società estere (in paesi a fiscalità privilegiata o comunque con tassazione inferiore) per canalizzarvi i propri redditi, pur mantenendo la gestione e il mercato in Italia. Ad esempio, un professionista apre una LTD a Londra dove fattura servizi resi in realtà in Italia, per pagare il 19% inglese invece che le aliquote IRPEF italiane; oppure un’impresa italiana crea una controllata in Svizzera e le fa figurare utili su vendite in Italia (tramite prezzi di trasferimento alterati) lasciando lì gli utili a bassa tassazione. Finché la società estera ha sostanza economica reale, nulla quaestio (es. fabbrica all’estero, uffici e dipendenti sul posto). Il problema è quando l’estero è solo schermo: la sede estera è fittizia (magari solo un indirizzo di comodo), l’amministrazione è condotta dall’Italia, gli affari sono in Italia. In tal caso, l’ordinamento prevede:

  • la società, se amministrata di fatto dall’Italia, è considerata fiscalmente residente in Italia (principio di place of effective management, art.73 TUIR) e dunque tassata qui su utili worldwide;
  • anche indipendentemente dalla residenza, se la società estera è controllata da italiani e ha redditi tassati bassamente, possono applicarsi le norme CFC (Controlled Foreign Companies) che imputano per trasparenza al socio italiano gli utili della controllata estera “privilegiata” (art.167 TUIR, non menzionato sopra tra normative, ma rilevante).

Finalità: Ovvio, risparmio d’imposta (talora legale, se fatto con sostanza; spesso illecito, se società fittizie) e/o occultamento di capitali all’estero. L’interposizione qui è di tipo “societario internazionale”: la società estera funge da interposto per mascherare il fatto che il reddito è prodotto e controllato dall’Italia. Spesso connessa all’esterovestizione è l’expatriation fittizia: individui che trasferiscono la residenza fiscale all’estero (monaco, Svizzera, Dubai) solo sulla carta, mentre continuano a vivere e operare in Italia. Anche questo scenario, se provato, comporta la tassazione in Italia come se non si fossero mai trasferiti.

Come viene scoperto: L’Agenzia scrutina vari indicatori:

  • La società estera non ha dipendenti né uffici propri; magari l’amministratore è un fiduciario locale ma ogni atto mostra che le decisioni vengono prese dal socio italiano (riunioni svolte in Italia, email dalle sedi italiane).
  • I contratti della società estera hanno come riferimento soggetti italiani; i clienti/fornitori in realtà interagiscono sempre con l’azienda italiana.
  • Vi sono continui flussi finanziari di ritorno: l’estera trasferisce fondi al socio italiano tramite prestiti infruttiferi, pagamenti anomali, oppure il socio italiano preleva in contanti dai conti esteri (magari con carte collegate usate in Italia).
  • Le banche dati (scambio info) rivelano che l’italiano è titolare effettivo della società e dei conti (ormai con CRS il Fisco italiano ottiene annualmente info su conti esteri di entità controllate da italiani).
  • Per le persone fisiche: si controllano 100% di giorni in Italia, interessi economici in Italia, famiglia rimasta in Italia, ecc. A volte pedinamenti e accessi GdF provano che la persona sta in Italia nonostante risulti residente altrove.

Conseguenze fiscali: Se accertata l’esterovestizione, la società estera viene considerata residente in Italia: le sue dichiarazioni estere non contano e deve presentare dichiarazioni in Italia con tutti i redditi, con interessi e sanzioni per omessa dichiarazione se non l’ha fatto. Oppure si applica la disciplina CFC: gli utili esteri vengono comunque tassati per trasparenza in capo al socio italiano anno per anno (con credito per eventuale imposta estera). Nel caso di interposizione, di norma l’approccio è quello dell’art.37 co.3: “i redditi di cui appaiono titolari soggetti non residenti si imputano al contribuente residente che ne è l’effettivo possessore”. La Cassazione ha spesso utilizzato questa norma per “riportare in capo al contribuente italiano redditi apparentemente emigrati” tramite società offshore o fiduciarie estere. Un caso del 2025 riguardava dividendi e plusvalenze su partecipazioni transitate in un trust estero: la Cassazione ha detto chiaramente che, provato che il controllo restava in Italia, quei redditi “sono stati tassati come se percepiti direttamente dall’italiano, saltando la holding”.

Le sanzioni amministrative: l’omessa dichiarazione di redditi esteri comporta sanzioni dal 120% al 240% dell’imposta evasa; l’omessa compilazione del quadro RW 3-15% annuo sui valori (raddoppiato se paradiso fiscale). Anche l’IVA in caso di esterovestizione di operazioni può essere recuperata (se una finta società UE viene usata per triangolazioni esenti, si ricalcola l’IVA).

Conseguenze penali: Dichiarative: molto spesso l’esterovestizione comporta reati di omessa dichiarazione (art.5) se il soggetto in Italia non dichiara nulla perché fa risultare i redditi altrui, con imposte evase generalmente ben sopra 50k. Ad es., Cass. Pen. 32507/2022 (cit.) configurò omessa dichiarazione per un imprenditore che aveva fatto figurare società estere fittizie. Anche dichiarazione fraudolenta (art.3) può concorrere: se la struttura estera è considerata un artificio ingannatorio (lo è), e l’evaso >30k, scatta art.3 con 4-8 anni. Inoltre, come già detto, se c’è l’elemento di sottrazione patrimoniale, art.11 può aggiungersi (ma spesso la finalità è più evadere che sottrarre a riscossione). In generale i grandi schemi internazionali di interposizione comportano frode fiscale: non a caso, leggiamo spesso nelle cronache di soggetti arrestati per aver creato “società cartiere”, “trust fittizi”, “esterovestizioni” – tutti casi di interposizione – con accuse di frode ed associazione a delinquere in certi casi aggravati dalla transnazionalità.

Nell’ambito penal-tributario, va ricordato che il ravvedimento operoso penale (pagamento integrale prima del dibattimento) copre anche questi reati (art.13). Quindi un imprenditore con società estera fittizia, se vuole evitare condanne, potrebbe autodenunciarsi e versare tutte le imposte evase e interessi, chiudendo il penale. Non tutti lo fanno, chiaramente. E l’esperienza mostra che gli strumenti investigativi moderni (scambio info, tracciamenti) stanno portando alla luce molte situazioni che un tempo restavano occulte. Anche normative come l’istituto del monitoraggio fiscale e la cooperazione internazionale (FATCA, CRS) hanno di molto ridotto gli spazi: ormai ogni trust o società estera riconducibile a un italiano lascia tracce in archivi accessibili al Fisco. Ad esempio, è in arrivo il Registro dei titolari effettivi anche in Italia: quando sarà operativo, l’Agenzia potrà rapidamente vedere se dietro una società X c’è Tizio come beneficial owner.


(Ovviamente esistono moltissime varianti di interposizione: si pensi a false cooperative create per far risultare tanti piccoli soci al posto di un vero imprenditore, o a prestazioni di lavoro interposte – fenomeno tipico in diritto del lavoro quando un’azienda usa cooperative fittizie per non assumere dipendenti, ma può avere risvolti tributari in termini di IVA e contributi. Data la vastità del tema, ci siamo concentrati sugli esempi principali legati a imposte sui redditi e patrimonio.)

Conseguenze fiscali: accertamento, imposte e sanzioni

Quando l’Amministrazione finanziaria scopre e contesta un’interposizione fittizia, le conseguenze sul piano tributario sono severe. Riassumiamo i principali effetti:

  • Imputazione dei redditi all’effettivo beneficiario: come già spiegato, l’esito primario è che il Fisco ricalcola le imposte come se i redditi/proventi fossero sempre stati del soggetto occulto. Quindi tutti i vantaggi ottenuti tramite il prestanome vengono azzerati. Il contribuente interponente si vedrà recapitare uno o più avvisi di accertamento per le annualità non ancora prescritte (in genere gli ultimi 5 anni, che diventano 7 in caso di omessa dichiarazione), con la richiesta delle imposte evase relative a quei redditi. Ad esempio: se dal 2019 al 2023 Tizio ha occultato 100.000 € annui di redditi facendoli figurare in capo alla società prestanome Alfa, l’Agenzia gli notifica accertamenti per cinque anni (2019-2023) imputandogli quei 100k annui di base imponibile IRPEF, con calcolo dell’imposta dovuta per ogni anno.
  • Recupero imposte evase e interessi: il contribuente dovrà pagare tutte le imposte non versate a suo tempo, come se avesse dichiarato i redditi sin dall’inizio, più gli interessi legali maturati su ogni anno di imposta evasa. Gli interessi decorrono in genere dalla scadenza originaria (per IRPEF, dal 30 giugno dell’anno successivo) fino alla data di pagamento effettivo. Trattandosi di diversi anni, l’ammontare cumulato può essere molto alto. Se ad esempio l’evasione è andata avanti 5 anni, al momento della scoperta il contribuente si troverà a dover sborsare in un colpo solo tutte le imposte risparmiate in quei 5 anni.
  • Sanzioni amministrative pecuniarie: qui sta la vera batosta. Le sanzioni per dichiarazione infedele (ocultamento di redditi) vanno normalmente dal 90% al 180% dell’imposta evasa per ogni anno. Se addirittura la dichiarazione era omessa (il contribuente occulto magari non presentava dichiarazione affatto), la sanzione va dal 120% al 240% dell’imposta dovuta. Inoltre, sanzioni specifiche: ad es., omessa dichiarazione di attività estere (quadro RW) 3-15% annuo del valore (raddoppiato se paesi black list). Si sommano anche sanzioni per eventuali violazioni IVA connesse (es. fatture false emesse dal prestanome, crediti fittizi, ecc., ciascuna col suo 90-180%). Il risultato è che spesso le sanzioni superano l’importo dell’imposta evasa, raddoppiando di fatto il conto. Senza contare eventuali sanzioni accessorie (tipo interdizione da benefici fiscali futuri, segnalazione al casellario dell’Anagrafe Tributaria, ecc., in base alla gravità).
  • Retroattività e cumulo: L’Erario può recuperare come detto gli ultimi 5 periodi d’imposta (o 7 se omessa dich.) a meno che non vi sia stata dichiarazione fraudolenta, nel qual caso scatta la raddoppio dei termini (ma qui entriamo nel penale). Già 5 anni di cumulo di imposte e sanzioni possono portare a importi altissimi. Per esempio, se ogni anno veniva evasa imposta per 50.000 €, su 5 anni sono 250k di imposte; con sanzioni al 100% (ipotesi minima) diventano 500k più interessi. Sovente in casi gravi si arriva a importi a 6 o 7 cifre come recupero complessivo.
  • Perdita di benefici fiscali o regimi agevolati: ogni eventuale agevolazione fruita grazie allo schermo viene revocata. Ad esempio, se il prestanome era in regime forfettario al 5% (startup) ma in realtà il volume d’affari era del dominus che non aveva i requisiti, si ricalcola tutto con tassazione ordinaria. Oppure se una società interposta estera aveva goduto di ritenute ridotte su interessi/dividendi per convenzioni, l’Agenzia potrebbe rifiutare tali aliquote e chiedere la differenza come se il beneficiario fosse italiano (cioè applica la ritenuta italiana). Insomma, qualunque vantaggio fiscale indebito viene annullato. Un esempio menzionato: una società estera interposta godeva di ritenuta 1,20% sui dividendi grazie a normativa UE madre-figlia; l’Agenzia, accertato che era interposta non UE, ha negato l’aliquota ridotta e preteso l’ordinaria.
  • Procedura di riscossione coattiva: Una volta che le somme diventano definitive (dopo l’eventuale processo tributario), se il contribuente non paga volontariamente, scattano le cartelle esattoriali e relative misure: iscrizione di ipoteca sui suoi immobili, fermo su veicoli, pignoramenti di conti correnti e stipendi, ecc. L’interponente diventa dunque a tutti gli effetti debitore verso l’Erario per le somme accertate. A questo punto, paradossalmente, se i beni sono ancora intestati al prestanome, l’Agente della Riscossione potrebbe comunque aggredirli sostenendo (anche in sede esecutiva) che appartengono sostanzialmente al debitore (ma serve spesso un titolo esecutivo anche verso l’interposto, ecco perché spesso si preferisce fare un’azione revocatoria per far dichiarare inefficace l’atto simulato).
  • Danno reputazionale e altri effetti: Un contribuente smascherato in frode fiscale vede intaccata la propria reputazione: risultando un evasore conclamato, può perdere affidabilità verso banche e fornitori. Inoltre, se è un professionista iscritto ad albi, rischia procedimenti disciplinari. Le società coinvolte possono perdere accesso ad appalti pubblici (ci sono cause di esclusione per chi ha commesso violazioni fiscali gravi non regolarizzate). Insomma, le conseguenze vanno oltre il puro esborso economico.

In luce di ciò, appare evidente che l’interposizione fittizia è un’arma a doppio taglio: nell’immediato può aver fatto risparmiare tasse o protetto beni, ma se scoperta porta a pagare molto di più (tutte le imposte arretrate + sanzioni raddoppiate) e a subire l’esazione forzata.

Tabella 2: Sintesi conseguenze tributarie per interponente vs interposto

AspettoInterponente (beneficiario occulto)Interposto (prestanome)
Imposte sui redditiRecupero di tutte le imposte evase sui redditi occultati, con interessi; tassazione retroattiva fino a 5-7 anni a suo nome.Eventuali imposte pagate dall’interposto sui redditi fittizi possono essere chieste a rimborso (per evitare doppia imposizione), poiché i redditi vengono tassati al dominus. In sostanza, l’interposto non rimane tassato su redditi di cui non beneficia.
Sanzioni amministrativeIrrogate all’interponente per dichiarazione infedele/omessa: dal 90% al 240% dell’imposta evasa (secondo i casi). Inoltre sanzioni monitoraggio (3-15% annuo su estero non dichiarato). Possibile cumulo di più anni e tipologie. NB: Anche se le violazioni sono formalmente avvenute tramite società o terzi, se questi erano meri schermi, le sanzioni sono poste a carico del vero responsabile (Cass. 1358/2023).In linea di massima, l’interposto non subisce sanzioni autonome se riconosciuto come “fittizio”. Il principio generale (art.7 DL 269/2003) che le sanzioni di società restano in capo alla società non vale se la società è fictio: in tal caso si risale all’individuo. Dunque il prestanome persona fisica, se era solo facciata e non beneficiario, di regola non viene multato (a meno che non abbia presentato dichiarazioni false consapevolmente: es. un prestanome amministratore che ha firmato dichiarazioni fraudolente potrebbe essere multato come coautore, ma sono casi mirati).
Debito e riscossioneL’interponente diventa debitore diretto verso l’Erario per imposte e sanzioni accertate. Se non paga, subisce la riscossione coattiva: cartelle, pignoramenti, ipoteche sui suoi beni personali. Può vedersi preclusa la rateazione se indicato come evasore grave.L’interposto formalmente non ha debiti tributari (o se li aveva, vengono rideterminati a zero per traslazione al dominus). Quindi non riceve cartelle né subisce pignoramenti per tali importi (salvo fosse coobbligato in solido in casi particolari, come responsabile d’imposta – ma nell’interposizione ciò non accade). Tuttavia, beni intestati all’interposto potrebbero essere aggrediti dal Fisco in via esecutiva se riconosciuti come appartenenti sostanzialmente all’interponente debitore (tramite azioni revocatorie o intervento nel pignoramento).
Situazione fiscale futuraL’interponente, una volta smascherato, perde eventuali benefici (regimi agevolati, etc.) e sarà tenuto in particolare osservazione dal Fisco (aumenta rischio verifiche future).L’interposto, se persona fisica, potrebbe vedersi rimborsate eventuali imposte versate su redditi poi imputati all’altro. Se società, probabilmente verrà liquidata/dismessa perché priva di funzione. Può anch’esso essere oggetto di controlli se ha altri redditi propri, ma in sé la sua posizione viene “svuotata” dell’intestazione fittizia.

Profili penali: reati tributari e responsabilità di interponente e interposto

L’utilizzo di interposizioni fittizie spesso integra estremi di reato tributario, soprattutto quando in gioco vi sono somme ingenti di imposte evase o condotte fraudolente per ostacolare l’accertamento. Vediamo i reati più comunemente contestati in questi scenari (alcuni li abbiamo già accennati parlando delle norme):

  • Dichiarazione fraudolenta mediante artifici (art. 3 D.Lgs. 74/2000) – Si configura quando il contribuente, con “artifici idonei ad ostacolare l’accertamento”, presenta una dichiarazione infedele con evasione > €30.000. L’interposizione fittizia è classicamente un artificio: creare uno schermo societario o utilizzare prestanome rende più difficile collegare i redditi al vero autore, ingannando l’Amministrazione. La Cassazione ha definito che qualunque condotta volutamente ingannatoria, anche formalmente lecita, rientra nella frode. Dunque, un contribuente che, grazie a prestanome, dichiara meno del dovuto (perché una parte dei suoi redditi risultano a nome altrui) può essere accusato di dichiarazione fraudolenta ex art.3 se l’imposta evasa supera 30k. Pena: reclusione da 4 a 8 anni (fascia alta dopo le modifiche del 2015). Esempio: un imprenditore individuale fattura 500.000 € attraverso una società fittizia e nella sua dichiarazione personale indica zero; ha evaso poniamo 150k di IRPEF, usando l’artificio della società schermo per confondere le acque: è art.3. – Nota: Spesso per questa condotta si potrebbe inquadrare anche art.5 (omessa) o art.4 (infedele) ma la presenza dell’inganno qualifica come frode art.3 che è preferita dall’accusa per la maggior gravità.
  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) – Se l’evasione d’imposta supera €100.000 e non vi sono artifici qualificati da integrare la frode, la semplice infedeltà dichiarativa è reato (2 anni min. – 4 anni 6 mesi max di reclusione). Nel contesto di interposizione, l’art.4 potrebbe applicarsi quando l’interposizione viene considerata senza artifici particolarmente ingannevoli. In verità, quasi sempre un prestanome è di per sé un artificio; tuttavia, in alcuni casi la giurisprudenza ha ritenuto che per l’art.3 occorra un quid pluris di messa in scena oltre alla mera intestazione. Se tale quid non è provato, si “ripiega” su art.4. Esempio: un contribuente fa figurare metà dei suoi redditi sul conto della moglie (non dichiarandoli lui); se l’evaso >100k, è dichiarazione infedele. Pena: reclusione da 2 a 4.5 anni circa.
  • Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000) – Scatta quando non viene presentata affatto la dichiarazione annuale, con imposta evasa > €50.000. Nel contesto interposizione tipico: l’interponente, credendo di aver “spostato” tutti i redditi sull’interposto (che magari li dichiara parzialmente), omette del tutto di presentare propria dichiarazione figurando nullatenente. Se il Fisco poi ricollega a lui >50k di imposte evase su redditi occulti, art.5 punisce con reclusione da 2 a 5 anni. Caso esemplare: un imprenditore intestatario di fatto di una ditta a nome della moglie; la moglie dichiara redditi irrisori e lui niente: con imposta evasa sopra soglia, risponderà ex art.5.
  • Emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000) – Rileva in schemi di interposizione societaria volti a frodi IVA o crediti fittizi. Se la società interposta (cartiera) emette fatture false per fornire costi finti all’interponente o ad altre imprese del giro, chi le ha emesse (di fatto l’interponente che la controlla) commette reato art.8, punito da 4 a 8 anni. Spesso queste condotte si accompagnano a dichiarazione fraudolenta di chi usa le fatture (art.2 D.Lgs 74/2000), ma nel contesto in esame l’interponente e interposto possono essere i medesimi soggetti: uno emette, l’altro usa. Ad esempio, in un carosello IVA, la società interposta estera emette fattura fittizia all’italiana per generare un credito d’IVA che l’italiana poi si compensa: l’amministratore della società estera (prestanome dell’italiana) è punibile ex art.8. Nota: dal 2019, reati di fatture false e dichiarazione fraudolenta hanno aumentato le pene max (8 anni) e come detto implicano anche responsabilità 231 per le società reali coinvolte.
  • Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) – Il reato specifico per chi compie atti fraudolenti sui beni per evitare la riscossione. L’interposizione fittizia di beni (intestarli ad altri simulatamente) rientra perfettamente: la norma stessa cita “atti simulati o fraudolenti sui propri o altrui beni tali da rendere inefficace la procedura di riscossione”. Esempi: vendite fittizie a familiari, conferimenti in trust auto-dichiarati, cessioni a società di comodo, occultamento di liquidità all’estero. Se il debito fiscale (anche solo accertato e non ancora definitivo) > €50k e l’atto è fatto con dolo di sottrazione, scatta art.11, pena 6 mesi a 4 anni (1-6 anni se debito >100k). Questo reato è indipendente dall’evasione: punisce l’ostacolo al recupero coattivo. Quindi può concorrere con i reati di evasione. Ad esempio, Tizio occulta redditi tramite una società prestanome (evasione, art.3) e contemporaneamente trasferisce la sua casa a un trust per non farla ipotecare (sottrazione, art.11). Sono due reati distinti. Da notare: l’art.11 non richiede un accertamento già in essere, basta la finalità di non pagare imposte dovute. Quindi può applicarsi anche se la cartella non è ancora arrivata ma l’atto è fatto in previsione. La giurisprudenza ha chiarito la definizione di atto fraudolento: deve implicare inganno o artificio, non basta impoverirsi. Simulazione è l’esempio classico di artificio. Intestare beni a un prestanome è appunto una simulazione (si finge una vendita o un trasferimento fittizio) e certamente integra la fraudolenza. Dunque chi adotta quell’escamotage rischia seriamente una denuncia penale quando il Fisco se ne accorge (spesso la stessa Agenzia denuncia o la GdF).

Responsabilità di interponente e interposto in sede penale: in linea di massima:

  • L’interponente (colui che in realtà possiede redditi o beni occultati) è il protagonista principale dei reati: viene considerato l’autore materiale dell’evasione o della sottrazione, anche se formalmente gli atti li ha compiuti l’interposto. Ad esempio, se Caio (prestanome) ha firmato dichiarazioni infedeli, ma era solo esecutore di ordini di Tizio, quest’ultimo verrà imputato come istigatore o amministratore di fatto e comunque come beneficiario del reato, spesso in concorso con Caio. La Cassazione ha affermato che l’interponente, usando un ente fittizio nel suo esclusivo interesse, è trasgressore e contribuente al contempo – traslando questo concetto in penale, egli è colui che realizza il fine criminoso. Quindi, l’interponente tipicamente risponderà di dichiarazione infedele/fraudolenta/omessa in prima persona, non potrà scaricare la colpa sul prestanome. Allo stesso modo, se trasferisce i suoi beni a terzi, sarà lui l’autore della sottrazione fraudolenta.
  • L’interposto (prestanome) può essere chiamato a rispondere in concorso nei reati, se c’è prova che fosse consapevole del disegno criminoso e abbia dato un contributo causale. Anche solo prestare il nome sapendo di aiutare a evadere o a sottrarre beni può costituire concorso (art.110 c.p.). Tuttavia, la prassi mostra che spesso i prestanome sono figure marginali o nullatenenti: i PM possono decidere di non infierire su di loro, puntando invece al vero beneficiario. Ad esempio, un ragazzo intesta la ditta al padre anziano: difficile che quest’ultimo venga condannato se appare chiaro che era solo una figura di comodo senza guadagni. Diverso se il prestanome è un professionista colluso, o un soggetto che attivamente si presta a più operazioni (ci sono “prestanome di mestiere”, a volte legati alla criminalità organizzata, che vendono la propria identità per far aprire società a fini di frode): costoro sono puniti certamente.
  • Consulenti e promotori: anche il consulente fiscale o legale che architetta o incoraggia l’interposizione fittizia con fine di evasione può rispondere in concorso (o come istigatore ex art. 111 c.p.). Vi sono casi di commercialisti imputati per aver predisposto complessi schemi di frode con società e trust fittizi per clienti. Ovviamente occorre provare il dolo specifico: se il professionista era inconsapevole delle intenzioni elusive del cliente (o pensava di fare le cose in regola), non è punibile; se invece ha coscientemente messo a punto l’imbroglio, ne condivide la responsabilità.

In caso di condanna penale, oltre alle pene detentive (spesso convertibili in misure alternative se entro i 2-3 anni, specie se incensurati) l’interponente subirà anche conseguenze accessorie: confisca obbligatoria dei beni/proventi equivalenti all’imposta evasa (sovente anticipata dal sequestro preventivo durante le indagini, cosa che può congelare i beni del dominus anche prima del processo); interdizione dai pubblici uffici e incapacità a contrattare con la PA per la durata della pena (e in ogni caso iscrizione nel casellario giudiziario). Per il prestanome, se condannato, analoghe pene seppur in misura minore di solito (magari beneficiando di attenuanti come il ruolo marginale).

Cause di non punibilità/attenuanti: come detto, il D.Lgs.74/2000 incoraggia il pagamento integrale dei debiti tributari per evitare la sanzione penale:

  • Se prima del dibattimento di primo grado l’interponente paga tutto il dovuto per i reati di cui agli artt. 2,3,4,5 (frode, infedele, omessa), il reato è estinto. Questo può salvare dalla condanna. Ovviamente bisogna avere la liquidità per farlo.
  • Per l’art.11, il pagamento anticipato è solo un’attenuante discrezionale (comunque utile). In genere, in caso di pagamento e cooperazione, i giudici tendono ad applicare pene minime e talvolta concordare patteggiamenti (es. reclusione sospesa).
  • Anche la tenuità del fatto può essere invocata se l’evasione è di poco sopra le soglie, ma per interposizioni complesse è raro rientri nella tenuità.
  • Il patteggiamento è una via spesso percorsa: l’imputato (magari dopo aver pagato parzialmente) concorda una pena ridotta (spesso sotto i 2 anni, quindi sospendibile) evitando il dibattimento.

In sintesi, l’interponente che si ravvede e sistema il dovuto può riuscire a evitare il carcere, mentre chi persevera nell’occultamento una volta scoperto peggiora solo la situazione (perché accumula anche condanne). Dal punto di vista del debitore/imputato, una difesa penale efficace spesso si sviluppa su due fronti: tecnico (contestare che il fatto integri reato, mancanza di dolo, superamento soglie) e riparatorio (pagare il dovuto, mostrare pentimento).

Riassunto rischi penali per l’interponente (debitore):

  • Reati di evasione (infedele, fraudolenta, omessa) se l’interposizione ha portato a evadere oltre soglie. Pene significative (fino a 8 anni nei casi peggiori di frode con artifizi).
  • Reato di sottrazione (art.11) se ha spostato beni per non pagare debiti fiscali. Pene fino a 6 anni (se importi alti).
  • Sequestro preventivo sul patrimonio: è prassi nelle indagini sequestrare beni dell’interponente fino a concorrenza dell’evaso per garantirne la confisca.
  • Via di scampo: pagare integralmente le imposte dovute (e sanzioni) prima del processo → non punibilità per molti reati (art.13). Non facile se cifre elevate, ma possibile.
  • Strascichi: condanna comporta fedina penale sporca, interdizioni (es. niente appalti pubblici), rischio reputazione, ecc.

Per l’interposto:

  • Rischia di essere coimputato se complice conscio. Se era inconsapevole, in teoria non è punibile (anche se l’ignoranza volontaria non vale come scusa).
  • Spesso il prestanome è nullatenente: anche punirlo serve a poco (non pagherà mai eventuali multe). Ciò porta a situazioni in cui il prestanome rimane sulla carta latitante o irreperibile, mentre il dominus patteggia la pena. Ma ricordiamo: la legge punisce anche il prestanome complice, quindi non va considerato immune.

Con questo quadro in mente, vediamo ora come un contribuente può difendersi se accusato di interposizione fittizia e, ancor meglio, come prevenire di incorrere in tali situazioni.

Strategie difensive e prevenzione: il punto di vista del contribuente

Dal lato del contribuente (specialmente se imprenditore o professionista) che si trovi coinvolto in contestazioni di interposizione fittizia, quali sono le possibili linee d’azione? Idealmente, la migliore strategia è prevenire il problema a monte, evitando di ricorrere a prestanome e schemi artificiosi. Come evidenziato, nel medio-lungo termine i rischi superano di gran lunga i benefici immediati: l’Amministrazione finanziaria è sempre più attrezzata e la giurisprudenza sempre più affinata nel colpire questi comportamenti, privilegiando sostanza economica su forma. Tuttavia, se ci si è già dentro o se si stanno valutando operazioni borderline, occorre agire con cautela. Di seguito alcune strategie difensive e consigli:

  • Strutturare operazioni lecite con reale sostanza economica: Se l’obiettivo è la pianificazione fiscale (ridurre legalmente il carico fiscale), bisogna perseguirlo con strumenti che abbiano una logica economica genuina, non tramite gusci vuoti. Ad esempio, se si vuole internazionalizzare il business aprendo una società estera, assicurarsi che questa abbia autonomia reale: ufficio e personale sul posto, capitale adeguato, un’attività economica effettiva e rischio d’impresa proprio. Così, in caso di verifica, si può sostenere che l’operazione aveva valide ragioni extra-fiscali (mercato locale, etc.) e la società estera è un soggetto vero, non un prestanome. Se invece si crea una “scatola vuota” alle Cayman con unico scopo di spostare profitti, la difesa crolla perché manca qualsiasi sostanza. In sintesi: sostanza, sostanza, sostanza – è la chiave per non incorrere in interposizioni contestabili.
  • Trasparenza e documentazione: Un contribuente che, per legittimi motivi, utilizza strumenti potenzialmente sospetti (trust, società estere, intestazioni a familiari) dovrebbe agire alla luce del sole quanto più possibile e documentare ogni cosa. Ciò serve a costruire un dossier difensivo per dimostrare eventualmente che non c’era intento di occultamento e che l’operazione era genuina. Esempio: se si crea un trust per proteggere un figlio disabile, assicurarsi di non mischiare fondi personali dopo, di non ricevere pagamenti impropri dal trust, di lasciare piena autonomia al trustee. Se poi il Fisco contesta, si esibiranno le evidenze: verbali di decisioni prese dal trustee senza interferenze, conti separati, ecc., a riprova che “io disponente non trattavo quei beni come miei”. Più in generale, evitare mescolanze tra il patrimonio proprio e quello di eventuali entità create: uno dei segnali più forti di interposizione è quando un soggetto mescola conti personali e aziendali, preleva soldi dalla società come fossero suoi senza giustificazione, paga spese personali con carte aziendali, ecc.. Questi sono campanelli d’allarme per il Fisco: dunque vanno evitati accuratamente se si vuole sostenere che quell’entità è indipendente.
  • Non prestarsi a intestazioni di comodo: Dal punto di vista di chi potrebbe venir coinvolto come prestanome (spesso familiari o soci di minoranza), la regola è semplice: non fatevi convincere a intestare a vostro nome attività o beni altrui. Potreste pensare di aiutare un parente, ma rischiate complicazioni legali serie. E dal lato dell’interponente, se qualcuno vi propone “intestiamo tutto a un altro così non paghi tasse”, sappiate che è illegale e pericolosissimo. Nessun pasto è gratis: il Fisco prima o poi scopre e il conto sarà salato.
  • Utilizzare strumenti alternativi leciti: Per raggiungere certi scopi senza finire nell’interposizione illecita, esistono vie legali. Ad esempio, per proteggere i beni da rischi imprenditoriali, si può ricorrere al fondo patrimoniale (che offre una certa protezione per i debiti estranei ai bisogni familiari) oppure a polizze assicurative vita impignorabili, ecc. Certo, il fondo patrimoniale non è opponibile al Fisco per debiti tributari recenti, ma costituisce comunque un limite (ad es. serve che i debiti siano contratti per bisogni familiari, e non è il caso delle imposte) – in ogni caso è uno strumento trasparente e legale, non fraudolento, anche se la sua efficacia verso il Fisco è modesta. Per ridurre il carico fiscale, meglio sfruttare regimi agevolati e incentivi (es. Patent box, super-ammortamenti, crediti d’imposta, regime forfettario se se ne ha diritto) piuttosto che architettare prestanome. Oppure trasformare la ditta individuale in SRL (vera) per pagare 24% IRES – è lecito, basta poi rispettare le regole di distribuzione utili. L’importante è che ogni mossa abbia una ragione valida e non sia solo una pezza fiscale. Spesso chi finisce nelle maglie dell’interposizione lo fa seguendo consigli sbagliati di consulenti improvvisati che propongono scorciatoie miracolose (tipo “apri una società in Delaware, intestale tutto, zero tasse”). Oggi l’informazione è diffusa: un imprenditore avveduto dovrebbe diffidare di soluzioni troppo belle per essere vere che implicano in sostanza “non paghi più tasse perché intestiamo a un altro”.
  • Interpello preventivo e richiesta pareri: L’ordinamento offre la possibilità di chiedere in anticipo all’Agenzia delle Entrate un parere su situazioni specifiche potenzialmente elusive (interpello ordinario o anti-abuso). Ad esempio, se sto per costituire un trust e voglio essere certo che non verrà considerato interposto, posso inviare un interpello dettagliando la struttura. L’Agenzia risponderà se, in base agli elementi forniti, considera il trust soggetto autonomo o interposto. Se la risposta è positiva e io mi attengo, sono protetto: il Fisco non potrà poi sanzionarmi (salvo cambi legge). Certo, chi ha intenzioni maliziose raramente interpella il Fisco – ma chi è incerto su un confine (ad es. un trust familiare per successione) farebbe bene a utilizzare questo strumento. Ad esempio, esiste la recente Risposta a interpello n. 145/2025 dove l’Agenzia ha ritenuto non interposto un trust di Malta perché strutturato con trustee indipendente, guardiano terzo e disponente escluso dai benefici. Ciò dimostra che se un trust è fatto bene, l’Agenzia stessa lo riconosce. Inoltre, anche se non si fa interpello, dichiarare apertamente nella dichiarazione eventuali operazioni potenzialmente elusive (nel quadro RS apposito) mette al riparo da sanzioni per abuso di diritto, ai sensi dell’art.10-bis: l’operazione potrà essere disconosciuta ma senza multa. Insomma, agire non di nascosto ma in trasparenza riduce i rischi.
  • Se l’accertamento è già arrivato – difendersi in giudizio: In caso di contestazione formale di interposizione (avviso di accertamento), la difesa dev’essere calibrata sugli elementi emersi. Come detto, le strategie possibili:
    • Dimostrare l’autonomia economica dell’interposto (portare evidenze che aveva capacità contributiva propria, che i redditi sono rimasti a lui, ecc.).
    • Contestare gli indizi raccolti dal Fisco (mostrare che non sono così gravi e concordanti, fornire spiegazioni alternative lecite).
    • Verificare vizi formali dell’atto (difetto di motivazione, mancato contraddittorio se dovuto, errore sul soggetto notificato, ecc.).
    • Valutare una definizione agevolata: l’accertamento con adesione consente di trattare una riduzione (sanzioni ridotte a 1/3 e a volte limature sugli imponibili) e di pagare a rate. Se la difesa sul merito appare debole, conviene considerarlo (purché si abbiano i mezzi per poi pagare).
    • In parallelo, se c’è un procedimento penale pendente, coordinare la difesa anche lì: dimostrare eventualmente mancanza di dolo (es. “mi hanno consigliato male, pensavo fosse legale”, per quanto poco credibile in grandi evasioni); evidenziare che l’importo evaso è sotto soglia (se ad esempio il Fisco ha esagerato nel calcolo); oppure cercare riti alternativi (patteggiamento) magari dopo aver fatto pagamento parziale per mostrare ravvedimento.
  • Considerare la via del ravvedimento e pagamento: Se il contribuente riconosce di essere in fallo e vuole evitare guai peggiori, una mossa saggia può essere sanare il debito il prima possibile. Se l’evasione non è ancora stata constatata formalmente, può fare ravvedimento operoso (pagando spontaneamente con sanzioni ridotte). Se invece è già arrivato l’accertamento, può aderirvi e pagare (magari rateizzando). Pagare subito riduce drasticamente il rischio penale: come visto, può portare alla non punibilità ex art.13 D.Lgs.74/2000. Certo, servono le risorse finanziarie, cosa non scontata – ma se si hanno beni su cui poter fare liquidità, forse meglio venderne qualcuno e chiudere il debito, piuttosto che tenersi tutto intestato a prestanome e rischiare la reclusione quando inevitabilmente la cosa verrà a galla. Il legislatore incentiva il pentimento operoso: meglio tardi che mai, pagare dimezza i problemi. Dal lato pratico, per il debitore estinguere il debito tributario toglie anche l’assillo di futuri pignoramenti e preserva la reputazione (un conto è dire “ho fatto un errore e ho pagato”, un altro è figurare come evasore inadempiente incallito).
  • “Bonificare” situazioni pregresse prima di controlli: Se un contribuente si rende conto di avere in essere strutture potenzialmente contestabili, sarebbe saggio smontarle spontaneamente prima che arrivi la GdF. Esempio: se esiste una società estera vuota usata come guscio, meglio liquidarla e rimpatriare i capitali dichiarandoli (magari usando il ravvedimento per gli obblighi RW non rispettati). Oppure se c’è un trust farlocco, considerare di scioglierlo e intestare i beni a sé dichiarando i relativi redditi. Certo, bisogna valutare gli effetti (sciogliendo un trust possono emergere imposte di donazione o altro), ma spesso è preferibile regolarizzare ora pagando qualcosa che farsi trovare con un impianto evasivo attivo. Chi spontaneamente regolarizza generalmente evita le contestazioni più gravi e può usufruire di sanzioni ridotte.

In chiusura, dal punto di vista del contribuente debitore d’imposta, l’interposizione fittizia è davvero un’arma a doppio taglio: può sembrare una scorciatoia furba per risparmiare, ma sul lungo periodo espone a rischi enormi di pagare molto di più e perfino di subire procedimenti penali. Il consiglio pratico è di perseguire i propri obiettivi fiscali con trasparenza e sfruttando ciò che la legge consente (gli strumenti leciti esistono per ottimizzare il carico fiscale senza uscire dalla legalità). Se invece ci si trova già in una situazione critica, la cosa migliore è rivolgersi a un professionista esperto per mettere in atto la migliore strategia difensiva o transattiva, minimizzando i danni e magari rientrando “in bonis” per il futuro. Mostrare collaborazione e – seppur tardiva – buona fede (pagando, non reiterando le condotte illecite) può portare a esiti più miti anche in giudizio; al contrario, perseverare nell’occultamento dopo essere stati scoperti porta quasi sempre a un peggioramento netto della propria posizione.

Domande frequenti (FAQ) sull’interposizione fittizia

D: In termini semplici, che cos’è l’interposizione fittizia in ambito tributario?
R: È un meccanismo per nascondere redditi o patrimoni dietro un altro soggetto. In pratica, un contribuente (detto interponente) sfrutta la intestazione formale a un’altra persona (detta interposto o prestanome) di beni, conti o attività che in realtà lui controlla e possiede economicamente. Così il vero contribuente non appare davanti al Fisco: ad esempio, incassa profitti su un conto intestato a un amico nullatenente, oppure gestisce una società che però figura di proprietà della moglie. È un artificio per evadere o eludere le tasse, perché si cerca di imputare i redditi a qualcuno che paga meno imposte o di rendere il patrimonio intoccabile ai creditori. La legge però consente di smascherare queste situazioni e di tassare comunque il reale possessore dei redditi, come se l’interposto non esistesse.

D: Quali sono gli esempi più comuni di interposizione fittizia?
R: Alcuni esempi tipici:

  • Società schermo o prestanome persona fisica: un imprenditore fa figurare i guadagni della sua attività su una società di comodo (o li fa incassare sul conto di un familiare nullatenente) per pagare meno tasse. In realtà lui gestisce e beneficia dei proventi, ma formalmente risultano di altri.
  • Trust fasullo: Tizio conferisce i suoi immobili in un trust dove però continua a comportarsi come proprietario (magari è anche trustee di sé stesso, o mette un amico come trustee e lui rimane beneficiario). Nulla di sostanziale è cambiato nella gestione dei beni, ma spera di non pagarci tasse o di evitarne il pignoramento.
  • Esterovestizione: un residente costituisce una società estera (o sposta formalmente la residenza all’estero) ma senza reale trasferimento di attività: la società estera di fatto opera in Italia o è un guscio privo di dipendenti. Scopo: fatturare all’estero i profitti generati in Italia e non dichiararli al fisco italiano.
  • Intestazione fittizia di beni: ad esempio, Caio acquista un appartamento di lusso ma lo intesta al figlio studente, in modo da non risultare proprietario (ed evitare imposte patrimoniali, redditometro o aggressione di creditori). Oppure acquista una barca e la registra a nome di una società di comodo. In tutti questi casi c’è una dissociazione tra apparenza e realtà: il soggetto che di fatto possiede/usa/beneficia non coincide col soggetto che figura proprietario o percettore.

D: L’interposizione fittizia è diversa dall’elusione fiscale o abuso del diritto?
R: Sì, anche se sono concetti vicini. Nell’elusione fiscale (abuso del diritto) il contribuente sfrutta strumenti legali in modo anomalo per ottenere un risparmio d’imposta, senza violare apertamente la legge e senza necessariamente nascondere la propria identità. Esempio: fare una certa operazione societaria solo per ragioni fiscali (fusione, scissione, trasferimento sede) pur senza sostanza economica; è elusione, ma il contribuente comunque figura come parte dell’operazione (non usa prestanome). L’interposizione fittizia, invece, comporta proprio l’uso di un soggetto-schermo: c’è un vero e proprio inganno sulla titolarità. Si finge che qualcun altro sia il contribuente. Si può dire che l’interposizione fittizia è più vicina all’evasione (che prevede occultamento e frode) che all’elusione. Non a caso, l’abuso del diritto, se contestato, comporta solo il recupero delle imposte evitate ma senza sanzioni (sempreché il contribuente abbia agito in trasparenza, dichiarando il vantaggio fiscale nella nota della dichiarazione). Invece l’interposizione fittizia è considerata una vera violazione, quindi comporta recupero imposte e sanzioni, essendo vista come una forma di frode/occultamento. Naturalmente, un’operazione può essere al contempo abusiva e interpositiva: es. creare una società estera senza funzione economica (abuso) e farla figurare proprietaria al posto proprio (interposizione). In pratica, se c’è un prestanome, si parla di interposizione; se semplicemente si usano scatole vuote ma il contribuente appare comunque (es. amministratore di tutte), si parla di abuso/elusione.

D: La legge italiana come contrasta l’interposizione fittizia?
R: Principalmente con l’art. 37, comma 3, del DPR 600/1973, che – come abbiamo visto – permette di imputare i redditi al loro effettivo possessore anche se formalmente risultano di altri. Questa è la base per gli accertamenti. Inoltre, ci sono altre armi:

  • Presunzioni di residenza fiscale: ad esempio chi trasferisce la residenza in un paradiso fiscale è presunto residente in Italia salvo prova contraria (art. 2 co.2-bis TUIR). Questo per combattere le esterovestizioni di persona.
  • Obblighi di monitoraggio (Quadro RW): chi detiene investimenti all’estero tramite entità opache è comunque tenuto a dichiararli se ne è il beneficiario effettivo; così costringe a rivelare eventuali trust o società off-shore.
  • Normativa anti-abuso (art. 10-bis L.212/2000): smaschera operazioni senza sostanza economica e consente di disconoscerne i vantaggi. Anche se civilmente lecite, fiscalmente vengono ignorate se sono artificiose. Ad esempio, l’Agenzia può contestare come abuso una doppia vendita immobiliare tra società collegate fatta solo per abbattere le tasse, se non riesce a dimostrare la simulazione.
  • Norme penali tributarie: vari reati puniscono l’utilizzo di artifici come prestanome, società fantoccio, trust fasulli per evadere o non pagare il dovuto. Abbiamo l’art. 3 (frode mediante artifici), art. 5 (omessa dichiarazione) e soprattutto l’art. 11 (sottrazione fraudolenta per chi intesta beni a terzi). Quindi chi spinge troppo oltre l’inganno rischia anche il carcere.
  • Cooperazione internazionale: l’Italia partecipa a sistemi di scambio informazioni (es. Common Reporting Standard) che oggi rivelano se un italiano controlla conti o entità all’estero. Inoltre, concetti come beneficial owner sono ormai centrali: se Tizio ha una società in Delaware, le banche chiedono chi è il beneficial owner e quella info può arrivare al Fisco. In sintesi, c’è un arsenale normativo robusto che copre sia la fase di accertamento amministrativo (come tassare il vero soggetto) sia quella dell’eventuale punizione di comportamenti dolosi gravi (penale).

D: Che differenza c’è tra interposizione fittizia e interposizione reale?
R: Sono due varianti del fenomeno di interposizione di persona. La fittizia è pura simulazione: l’interposto sa di essere un prestanome e non partecipa veramente all’attività, fa solo da nome prestato. Tutte le operazioni reali le compie l’interponente (il prestanome magari firma carte ma su istruzione). Invece l’interposizione reale prevede che l’interposto agisca davvero e si intesti diritti/obblighi, però con l’accordo di trasferire poi il risultato all’interponente. Quindi l’interposto ha un ruolo attivo ma temporaneo: per esempio gestisce un’azienda fiduciariamente e poi gira gli utili occultamente all’altro. Ai fini fiscali, non c’è differenza: in entrambi i casi il Fisco punta a tassare chi di fatto ottiene il reddito. La Cassazione ha detto espressamente che l’art.37, co.3 DPR 600/73 si applica a qualsiasi dissociazione tra titolare formale e possessore effettivo, sia con simulazione che senza. Quindi dal punto di vista delle conseguenze tributarie, fittizia e reale vengono trattate allo stesso modo. La differenza è più teorica: nella fittizia c’è un testa di legno che non fa nulla, nella reale c’è un fiduciario che opera ma poi fa avere i benefici all’altro. (In pratica spesso i confini sfumano: un prestanome fa qualcosa a volte, ma rimane eterodiretto).

D: Se costituisco un trust, rischio che il Fisco lo consideri interposizione fittizia?
R: Dipende da come è costituito e gestito il trust. Se il trust è genuino – cioè affidi i beni a un trustee indipendente, ti spossessi davvero del controllo e non sei beneficiario – allora è probabile che venga rispettato fiscalmente come entità autonoma. In tal caso, le imposte le paga il trust stesso o i beneficiari al momento opportuno (il trust interno opaco paga IRES sui redditi, il trust estero trasparente fa imputare i redditi ai beneficiari, ecc.). Se invece il trust è “di facciata” – ad esempio un trust familiare dove disponente e trustee coincidono (ti nomini trustee di te stesso) o comunque il disponente continua a manovrare tutto – allora l’Agenzia delle Entrate tendenzialmente lo ignorerà e farà finta che non esista, tassando i redditi come se fossero ancora tuoi. Indizi negativi: disponente = trustee; disponente che può revocare o sostituire il trustee a piacimento; disponente beneficiario; beni del trust che continuano a essere usati dal disponente; trust all’estero ma gestito di fatto in Italia. In tali casi, altissima probabilità che venga qualificato come trust interposto. In sintesi: il trust va bene se c’è reale spossessamento e gestione separata; non va bene se è un guscio vuoto con dentro sempre la stessa persona che lo ha creato. (Un detto: “no self-trustee, no self-beneficiary” se vuoi stare tranquillo, ossia evita di essere tu a gestire o beneficiare dei tuoi stessi beni tramite trust). Ovviamente anche col trust vero ci possono essere contestazioni, ma se fatto correttamente di solito regge.

D: Quali conseguenze fiscali subisce chi viene scoperto ad utilizzare un’interposizione fittizia?
R: Le conseguenze sono pesanti e multiple:

  • Recupero di tutte le imposte evase, con relativi interessi. Cioè dovrai pagare tutto ciò che non hai pagato in passato grazie allo schermo, come se avessi dichiarato tu quei redditi sin dall’inizio, più gli interessi legali maturati (calcolati per ciascun anno di evasione).
  • Sanzioni amministrative salatissime. Per aver occultato redditi si applicano sanzioni dal 90% al 180% dell’imposta evasa per ogni annualità. Se addirittura non avevi presentato dichiarazione, la forbice è 120% – 240%. Per violazioni sul monitoraggio estero, 3-15% annuo sugli importi non dichiarati. Quindi spesso le sanzioni raddoppiano l’esborso totale rispetto alle sole imposte.
  • Accertamenti retroattivi su più anni. Normalmente il Fisco può recuperare fino agli ultimi 5 anni (estesi a 7 in caso di omessa dichiarazione). Ciò significa che se hai usato un prestanome dal 2018 al 2023, ti rifaranno i conti di tutte quelle annualità. Il cumulo di imposte e sanzioni per 5-7 anni può essere enorme, portando magari l’importo da restituire a diversi milioni in casi di grandi patrimoni occultati.
  • Perdita di benefici fiscali fruiti indebitamente. Ogni agevolazione o aliquota ridotta ottenuta tramite l’interposto viene revocata. Ad esempio, se la società estera interposta godeva di una ritenuta minore su certi redditi (grazie a convenzioni), verrà chiesto di pagare la differenza come se il percettore fosse italiano; se un prestanome persona fisica aveva usato un regime forfettario al 15% ma il dominus non ne aveva diritto (troppo fatturato, etc.), si applicherà l’aliquota ordinaria IRPEF al dominus e così via.
  • Diventi debitore verso il Fisco in prima persona. Una volta ricalcolato tutto in capo a te, sei tu che devi pagare. Se non lo fai entro i termini, partiranno le cartelle esattoriali a tuo nome e le conseguenti azioni esecutive (pignoramenti di conti, stipendi, immobili, iscrizione ipoteche sui tuoi beni). Insomma, ti troverai come qualsiasi evasore scoperto: con un grosso debito erariale da onorare e con Equitalia alle calcagna.
  • Danno reputazionale. Emergere come utilizzatore di prestanome e autore di frodi fiscali può danneggiare la tua immagine e affidabilità. Ad esempio, le banche potrebbero ridurre il merito creditizio se risulti coinvolto in evasione, potresti avere problemi con fornitori o partner che perdono fiducia, ecc. Inoltre potresti incorrere in segnalazioni pubbliche (in alcuni casi eclatanti, i giornali riportano i nomi). E se sei un professionista iscritto ad albo, come detto rischi anche sanzioni disciplinari.

In poche parole, il conto economico finale può essere devastante per il contribuente, ben maggiore di quanto “risparmiato” con l’evasione. E non dimentichiamo il possibile risvolto penale: l’uso di prestanome spesso integra reati, quindi chi viene scoperto può anche finire sotto processo penale (vedi domanda successiva).

D: Ci sono anche implicazioni penali? L’uso di prestanome può portare in carcere?
R: Sì, e non sono ipotesi remote: molti casi di interposizione fittizia portano a procedimenti penali per reati tributari. I possibili reati (come dettagliato sopra) includono:

  • Dichiarazione fraudolenta mediante artifici (art.3 D.Lgs.74/2000) – se hai evaso più di €30k di imposte usando l’artificio del prestanome. Ad esempio, hai presentato dichiarazioni “pulite” perché i redditi stavano altrove. Pena: reclusione 4–8 anni.
  • Dichiarazione infedele (art.4) – se hai nascosto imponibili > €100k, senza magari artifici estremi (però, ripeto, di solito c’è l’artificio e allora è art.3). Pena: 2–4 anni e 6 mesi circa.
  • Omessa dichiarazione (art.5) – se proprio non hai presentato dichiarazioni confidando nei prestanome, con imposta evasa > €50k. Esempio: ti sei fatto passare per disoccupato nullatenente mentre i redditi li faceva risultare la moglie. Pena: 2–5 anni.
  • Emissione di fatture false (art.8) – se nel tuo schema la società interposta ha emesso fatture fittizie per creare costi o crediti inesistenti (tipico nelle frodi IVA organizzate con più società prestanome). Pena: 4–8 anni.
  • Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art.11) – se l’interposizione è servita a occultare i tuoi beni per non pagarci le tasse o le cartelle. Ad esempio, hai intestato casa e auto a terzi per non fartele pignorare. Pena: 6 mesi–4 anni (fino 6 anni se debito >100k). Questo reato prescinde dall’evasione, punisce proprio l’occultamento del patrimonio. Un atto negoziale simulato (vendita finta a prestanome) è considerato “atto fraudolento”, quindi punitivo ex art.11.
    In sintesi, sì, c’è il rischio penale e le pene non sono leggere. Specialmente per schemi su larga scala: spesso leggiamo di persone arrestate per aver creato società cartiere, fiduciari di comodo, trust fittizi – tutti casi di interposizione – con accuse di frode fiscale aggravata. Naturalmente, se le somme evase non superano le soglie di punibilità, rimane solo l’illecito amministrativo (quindi no penale). E va ricordato che la legge offre una via di uscita: se prima del giudizio il contribuente paga tutti i debiti tributari, per molti reati scatta la non punibilità (art.13 D.Lgs.74/2000, copre infedele, fraudolenta, omessa). Ciò incentiva a ravvedersi e risarcire l’Erario. Ma se uno non paga e finisce condannato, la prospettiva del carcere (o quantomeno di pene detentive, anche se sospese, con fedina penale sporca) è concreta.

D: Come fa l’Agenzia delle Entrate a scoprire un’interposizione fittizia?
R: Tramite vari strumenti investigativi e incroci di dati. Ad esempio:

  • Controlli incrociati delle dichiarazioni: se un soggetto dichiara redditi bassi o nulli, ma un suo parente o società a lui riconducibile dichiara redditi alti o possiede molti beni, l’Ufficio si insospettisce. Specie se c’è relazione familiare o partecipazioni.
  • Spesometro e indici di spesa: il Fisco conosce molte tue spese (acquisto auto, immobili, movimenti con carta di credito). Se risulti “povero” ma guidi una Ferrari intestata a Caio, o vivi in villa intestata a una società, qualcosa non torna. Esistono algoritmi (il “redditometro”) che segnalano incoerenze tra redditi dichiarati e tenore di vita: i prestanome saltano fuori così.
  • Indagini finanziarie: l’Agenzia (tramite GdF) può ottenere i movimenti bancari di conti sospetti. Questo è spesso risolutivo: se il conto del prestanome è movimentato dall’interponente (bonifici a suo favore, assegni girati) lo si vede subito. Nel caso di trust, se compaiono bonifici dal trust al disponente non previsti dall’atto, è chiaro l’intento elusivo.
  • Verifiche della Guardia di Finanza: quando la GdF fa un accesso in azienda o indaga, spesso scopre chi la gestisce davvero. Ci sono stati casi in cui i finanzieri, esaminando email, telefonate o parlando coi dipendenti, hanno capito che “il vero capo” era diverso dall’intestatario formale. Queste info finiscono nel verbale di constatazione e fanno piena prova.
  • Banche dati e registri: oggi abbiamo l’anagrafe dei conti correnti, dove per ogni codice fiscale si vede da quanti conti transita denaro; abbiamo (in via di attuazione) il Registro dei titolari effettivi di società e trust; abbiamo gli scambi con l’estero (CRS, FATCA) che rivelano se un italiano controlla conti esteri. Incrociando queste informazioni, l’Agenzia può collegare persone e entità che sembravano separate.
  • Presunzioni legali mirate: certe situazioni sono presunte fittizie dalla legge stessa. Ad esempio, se ti trasferisci in un paradiso fiscale (tipo Montecarlo) ma mantieni legami in Italia, la legge presume la residenza fittizia e sta a te provare il contrario (come detto sopra). Oppure se costituisci un trust in un paese black-list restando disponente e beneficiario, quell’assetto viene automaticamente considerato sospetto e monitorato.

In pratica, non esistono più paradisi sicuri o anonimato totale. I controlli non sono onnipresenti, ma scattano quando ci sono indici di anomalia: grandi patrimoni a fronte di bassi redditi dichiarati, movimenti con l’estero incoerenti, segnalazioni antiriciclaggio di operazioni strane, ecc. Quindi può passare del tempo, ma se e quando vieni selezionato per verifica, l’interposizione fittizia lascia sempre qualche traccia: seguendo i soldi o osservando chi prende le decisioni, si arriva alla verità.

D: Come può difendersi un contribuente accusato di interposizione fittizia?
R: Le strategie difensive principali sono:

  • Dimostrare l’autonomia dell’interposto: cioè provare, con fatti concreti, che il soggetto formalmente intestatario era in realtà indipendente, e che i redditi e beni sono rimasti a lui/lei e non all’interponente. Ad esempio, mostrando che il prestanome aveva mezzi propri per acquistare quei beni o generare quei redditi (soldi ereditati, redditi da lavoro suoi, etc.), o che ha effettivamente speso/investito quei redditi per conto suo e non li ha girati all’altro. Questa difesa è impegnativa, perché spesso l’Agenzia ha raccolto indizi solidi del contrario; ma se riesce, smonta l’accusa nel merito.
  • Contestare la validità degli indizi: esaminare la ricostruzione del Fisco alla ricerca di errori o forzature. Ad esempio, se l’Ufficio basa l’interposizione su una serie di presunzioni, provare che non sono così gravi, precise e concordanti. Magari produrre documenti che offrano spiegazioni alternative lecite a certi movimenti finanziari o rapporti. L’obiettivo è far apparire i fatti noti compatibili con una situazione diversa dall’interposizione. Se il giudice ritiene che gli indizi non raggiungono la soglia richiesta, l’accertamento cade.
  • Far valere vizi procedurali: controllare che l’accertamento sia formalmente ineccepibile. Ad esempio, verificare la correttezza della notifica, oppure la motivazione dell’atto (dev’essere spiegato il perché si ritiene l’interposizione: se l’atto è generico e non dettaglia le prove, è nullo per difetto di motivazione). Oppure, in casi di abuso del diritto, verificare se l’Ufficio ha rispettato il contraddittorio endoprocedimentale (obbligatorio per abuso: l’Agenzia deve averti invitato a spiegare prima di emettere l’atto). Se c’è un vizio del genere, l’atto può essere annullato dal giudice senza nemmeno entrare nel merito (anche se spesso l’Ufficio poi può riemetterlo correggendo il vizio, entro i termini).
  • Accordi transattivi col Fisco: se la difesa nel merito è debole e hai risorse per pagare almeno in parte, può convenire cercare un accordo con l’Agenzia. L’accertamento con adesione ad esempio permette di chiudere la lite con uno sconto su sanzioni (spesso ridotte 1/3) e a volte ricalibrando alcune voci d’imponibile dubbie. Inoltre consente il pagamento rateale. Certo, aderire significa rinunciare a far causa fino in fondo; ma se la causa appare persa, almeno si ottiene certezza e riduzione di sanzioni.
  • In sede penale, mirare sugli elementi soggettivi: ad esempio, sostenere la mancanza di dolo specifico (“non mi rendevo conto, mi hanno mal consigliato” – difficile da far passare se parliamo di milioni evasi, ma in casi minori o con soggetti ingenui può aiutare a ridurre la gravità percepita). Oppure contestare la qualifica di fraudolenza: cercare di far passare l’operazione come formalmente legittima e non un inganno. Ad esempio, nel caso del trust 2018 che citavamo, la difesa convinse il giudice che quel trust aveva una causa lecita (gestione patrimonio post-mortem) e non era destinato a frodare: ne risultò l’assoluzione per art.11. Infine, in alcuni casi si può puntare a far ricadere l’evaso sotto soglia: se il calcolo dell’imposta evasa è borderline, contestando qualche voce (es. alcuni redditi erano già tassati altrove, etc.) si potrebbe scendere sotto 50k o 100k, evitando il penale (questioni tecniche). Come ultima risorsa, vie pragmatiche: chiedere un patteggiamento (rito alternativo) magari dopo aver pagato il dovuto in parte o tutto. Con patteggiamento si ottiene uno sconto di 1/3 sulla pena, che magari scende sotto i 2 anni e può essere sospesa condizionalmente. In questo modo si chiude il penale più velocemente e con danno minore.

In sintesi, la difesa può essere su due fronti: tecnica di merito (provare che l’interposizione non c’era, o non era come la dipinge il Fisco) oppure transattiva (limitare i danni pagando, transigendo, chiudendo sia sul fisco che sul penale). La scelta dipende dalla forza delle prove contro il contribuente e dalle sue possibilità finanziarie. Un bravo avvocato tributarista valuterà il caso e consiglierà se è meglio combattere sul merito o venire a patti.

D: Pianificare fiscalmente con trust o società estere è sempre illecito?
R: Assolutamente no. Ci sono situazioni legittime in cui uno strumento estero o un trust sono usati correttamente e non c’è alcun intento di frode. La chiave sta sempre nel motivo economico sostanziale e nel rispetto delle regole. Esempi:

  • Un trust può essere istituito per finalità meritevoli: tutelare figli disabili, garantire una successione ordinata evitando litigi tra eredi, destinare beni a scopi filantropici. In questi casi è normale che il disponente non abbia interesse a controllare i beni – anzi li affida davvero a un trustee per raggiungere quegli scopi. L’amministrazione finanziaria difficilmente contesterà un trust genuino di questo tipo (pagherà le imposte il trust come sostituto o i beneficiari quando riceveranno i beni, secondo la legge, e amen).
  • Una società estera può essere giustificata se effettivamente si svolge attività in quel paese o si ha un mercato lì, o magari per attirare un investitore internazionale. L’importante è dichiarare correttamente i rapporti infragruppo (transfer pricing fatto in linea di mercato, utile rimpatriato tassato, ecc.). Se la società estera ha sostanza reale (uffici, dipendenti, attività vera), opererà nei parametri legali e non verrà contestata.
    In sostanza, non è lo strumento in sé ad essere illecito, ma l’uso che se ne fa. Se l’unico scopo evidente è risparmiare tasse senza sostanza (es: una holding in Olanda senza ufficio né dipendenti, creata solo per incassare dividendi e girarli altrove), allora quell’uso è a rischio e può configurare abuso/interposizione. Se invece c’è sostanza (la holding in Olanda coordina realmente filiali estere con personale e funzioni economiche, quindi c’è una ragione d’affari), è lecito. Certo, il confine non è sempre chiarissimo – per questo esistono gli interpelli e i pareri professionali: per capire prima se un’operazione può reggersi o se è troppo aggressiva. Diciamo che pianificazione fiscale sì, ma non aggressiva. “Aggressiva” di solito significa spingersi in territori grigi/neri: conviene evitare quelle iper-strutture con mille scatole dove l’unica logica è sfuggire al Fisco, perché oggi vengono smontate con relativa facilità e alla fine fanno scattare sanzioni peggiori di quelle risparmiate.

D: Quali tutele ha il contribuente onesto perché non sia accusato ingiustamente di interposizione?
R: Un contribuente che ha operato in buona fede e con reali motivazioni economiche ha diversi mezzi per far valere le proprie ragioni se accusato ingiustamente:

  • Documentazione e trasparenza: come detto, se hai un trust genuino o una società all’estero per motivi validi, avrai tenuto traccia di delibere, operazioni, contratti a supporto della genuinità. In sede di contenzioso potrai esibirli per dimostrare che l’Agenzia ha forzato le conclusioni. I giudici tributari valutano caso per caso; se vedono che il Fisco non ha prove sufficienti e tu documenti bene la realtà economica, ti daranno ragione. Ad esempio, ci sono pronunce che hanno dato ragione a trust o strutture estere lecite perché l’Erario non aveva provato il contrario.
  • Statuto del Contribuente – contraddittorio: la L.212/2000 garantisce alcuni diritti, tra cui il contraddittorio anticipato in casi di contestazioni di abuso. Quindi, se l’Agenzia ti contesta un’elusione (abuso), tu hai diritto a presentare memorie e chiarimenti prima che emettano l’accertamento. Usa bene quella sede: spesso convincere l’ufficio prima evita la lite. Anche in casi non obbligatori, puoi sempre presentare documenti e istanze durante la verifica.
  • Gradi di giudizio fino in Cassazione: se ritieni di aver subito un torto in primo e secondo grado, puoi ricorrere fino in Cassazione per far valere i tuoi diritti (ovviamente dev’esserci una violazione di legge o motivazione deficitaria, non valutazione di merito). La Cassazione ha annullato accertamenti quando ha riscontrato che i giudici di merito non avevano tenuto conto di prove a favore del contribuente.
    Insomma, un contribuente onesto non è privo di difese; certo, dovrà spendere tempo e risorse per dimostrare la propria correttezza. Questo è un motivo in più per documentare accuratamente ogni operazione e, se c’è margine di dubbio, magari chiedere un interpello prima: più trasparenza e logica economica c’è nei documenti, meno spazio c’è per accuse di interposizione. In caso di controllo, se l’Agenzia sbaglia e tu hai ragione, alla fine (magari in appello o Cassazione) la spunterai, anche se purtroppo non ti ridanno indietro il tempo perso.

D: Come evitare di incorrere nell’interposizione fittizia?
R: La regola fondamentale: non fare intestazioni di comodo e non creare strutture senza reale sostanza. In pratica:

  • Se qualcuno ti propone di far figurare un’attività a nome di un altro solo per pagare meno tasse, rifiuta: è illegale e rischioso. Meglio pagare qualcosa in più che trovarsi poi doppiamente a pagare con sanzioni e magari penali.
  • Se per ragioni legittime hai bisogno di coinvolgere terzi, fallo con contratti chiari e trasparenti. Ad esempio, se vuoi intestare un immobile a tuo figlio ma riservartene l’usufrutto (cosa lecita), dichiara tu i redditi da locazione come usufruttuario e pagaci le tasse: così è tutto regolare e nessuno può dire che stai occultando il bene. L’interposizione nasce quando vuoi “la botte piena e la moglie ubriaca”, cioè il vantaggio fiscale ma senza cambiare davvero la sostanza.
  • Quando costituistui una società o un trust, chiediti sempre: ha uno scopo concreto, indipendente dalle tasse? Se la risposta è no (cioè l’unico scopo è fiscale), fermati: probabilmente stai configurando un’interposizione o un abuso. Esempio: aprire una LTD in UK solo per fatturare lì quello che fai in Italia, senza personale né ufficio in UK – è uno schema a forte rischio. Se invece apri una filiale in UK perché hai clienti lì e ci metti dipendenti e sede, è genuino (lo scopo è di business, non solo fiscale).
  • Tieni separati i patrimoni: se crei enti diversi (società, trust, ecc.), comportati davvero come se fossero soggetti altri da te. Non usare i soldi dell’azienda come fossero i tuoi; non trasferire fondi personali dentro/fuori senza giustificazione; se vuoi godere degli utili, fallo formalmente (prenditi uno stipendio da amministratore o dividendi deliberati) e paga le imposte relative. Molte interposizioni emergono proprio perché il soggetto mescola conti aziendali con i suoi, fa prelievi ingiustificati, paga spese personali con la carta della società: questi comportamenti sono segnali d’allarme che fanno scattare l’accertamento. Quindi, disciplina e rigore nella gestione separata.
  • Consultati con professionisti seri: Spesso chi cade in schemi fittizi lo fa ascoltando il cugino “furbo” o consulenti poco scrupolosi. Un bravo fiscalista ti illustrerà quali margini di pianificazione esistono lecitamente e ti terrà lontano da operazioni indifendibili. Ci sono modi leciti di risparmiare imposte (regimi agevolati, deduzioni, società in trasparenza come le persone fisiche, ecc.), meglio usare quelli piuttosto che trucchetti che possono costare cari.

In definitiva, la miglior prevenzione è la correttezza e la trasparenza: pagare il giusto di imposte in base a ciò che realmente si guadagna e possiede. Se ritieni di pagare troppo, puoi ottimizzare, ma sempre muovendoti entro ciò che la legge consente. L’interposizione fittizia è un imbroglio e come tale viene trattato severamente dal nostro ordinamento. Oggi, con la trasparenza fiscale globale, confidare in facili occultamenti è come costruire castelli di sabbia destinati a crollare di fronte alle onde dei controlli.

Conclusioni

L’interposizione fittizia in ambito tributario è una pratica illecita che, per quanto possa apparire una scorciatoia allettante per chi è alla ricerca di sconti fiscali o di protezione patrimoniale, oggi più che mai si rivela pericolosa e controproducente. L’ordinamento tributario italiano dispone di strumenti robusti per scovare e reprimere queste simulazioni. Come abbiamo visto:

  • La normativa (a partire dall’art. 37, comma 3 DPR 600/73) e la giurisprudenza consolidata fanno prevalere la sostanza economica sulla forma giuridica. Non importa quale costruzione formale si metta in piedi: se c’è un contribuente occulto che in realtà possiede redditi o beni, il Fisco ha il potere di “guardare dietro le quinte” e colpirlo direttamente.
  • Dal punto di vista del Fisco, c’è tolleranza zero verso gli schermi fittizi: società di comodo, trust simulati, parenti compiacenti – l’Amministrazione è legittimata a “togliere la maschera” e pretendere le imposte da chi realmente ha la capacità contributiva. Le sentenze recenti – dalla Cass. n.1358/2023 sulle società fittizie alle pronunce del 2025 sui trust – confermano un orientamento rigoroso e sofisticato, capace di neutralizzare anche le forme più elaborate di interposizione internazionale. Non c’è più scappatoia geografica: grazie allo scambio di informazioni e ai concetti di beneficial owner, l’esterovestizione viene spesso scoperta e i redditi “emigrati” riportati a tassazione in Italia.
  • Dal punto di vista del contribuente/debitore, il messaggio è chiaro: agire con prudenza e legalità conviene. Usare prestanome può sembrare vantaggioso nel breve termine, ma comporta il rischio di conseguenze devastanti nel futuro: recuperi retroattivi di imposte con sanzioni enormi, possibili condanne penali e sequestri, oltre al tracollo di credibilità personale e aziendale. In un’epoca di trasparenza fiscale globale, cercare di nascondersi dietro un’altra entità è un gioco pericoloso, quasi sempre destinato ad essere scoperto.

Ciò non significa che non si possa fare pianificazione fiscale: lo si può e deve fare, ma in modo non fittizio, scegliendo strumenti con reale sostanza e rispettando gli obblighi di legge (sia dichiarativi che sostanziali). Un trust vero, con finalità autentiche, non verrà disconosciuto; una società estera che opera veramente all’estero non verrà contestata. Al contrario, trust di comodo e scatole vuote verranno smontati. In caso di dubbio, il contribuente ha la possibilità di consultare l’Amministrazione (interpello) e professionisti esperti, per evitare di incorrere senza volerlo in situazioni di interposizione.

In definitiva, “interposizione fittizia” in ambito tributario equivale a “costruzione sulla sabbia”: può dare l’illusione temporanea di una fortezza inespugnabile, ma di fronte alle onde del controllo fiscale è destinata a crollare, lasciando esposto il vero proprietario. La moderna Amministrazione finanziaria italiana, supportata da normative avanzate e da una giurisprudenza ferma, dispone di “secchio e pala” per abbattere questi castelli di carta. Il contribuente accorto lo sa: la via più sicura è costruire su fondamenta solide di legalità e trasparenza, piuttosto che confidare in facili occultamenti. Come sintetizzato da una moral suasion emersa nelle ultime pronunce: “Se controlli tu, il reddito è tuo”. In altre parole, se dietro formalità e prestanome c’è la tua regia, il sistema tributario è orientato a stanarti. Chi aderisce a questo principio evita non solo sanzioni, ma contribuisce anche a mantenere quella leale concorrenza tra imprese e equità fiscale tra cittadini che l’interposizione fittizia (se impunita) andrebbe a compromettere.


Fonti e riferimenti (normativa e giurisprudenza)

Normativa italiana rilevante:

  • DPR 29 settembre 1973 n. 600, art. 37, comma 3: Inopponibilità delle interposizioni fittizie di soggetti. Testo: “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona. – (Principio cardine) consente di tassare il possessore effettivo ignorando la titolarità formale altrui.
  • Statuto del Contribuente (L. 212/2000) art. 10-bis: Abuso del diritto ed elusione fiscale. Introdotto con D.Lgs.128/2015, definisce le operazioni prive di sostanza economica volte a ottenere vantaggi fiscali indebiti. Stabilisce il diritto al contraddittorio preventivo e, punto cruciale, l’assenza di sanzioni amministrative/penali in caso di contestazione di abuso (differenziando così abuso vs interposizione fittizia, che invece implica violazioni e sanzioni). – (Rimedio anti-elusivo): l’abuso viene solo neutralizzato, non punito, se il contribuente collabora.
  • TUIR (DPR 22 dicembre 1986 n. 917) art. 73: Criteri di residenza fiscale per enti e tassazione trust. Il comma 3 stabilisce che società/enti con sede amministrativa o oggetto in Italia sono considerati residenti (contrastando esterovestizioni). Identifica i trust tra i soggetti passivi IRES (comma 1 lett. b) e distingue trust “trasparenti” (beneficiari individuati) e “opachi” (senza beneficiari). Interpretazioni (es. Cass. 9782/2020) precisano che i redditi di trust interposti vanno imputati al disponente ai sensi del combinato art. 73 TUIR e 37 co.3 DPR 600. – (Chiarimento): se il trust è fittizio, fiscalmente è come se non esistesse (redditi tassati in capo al dominus). Inoltre, presunzioni di residenza (art.73 co.5-bis) considerano residenti in Italia trust istituiti in paradisi con almeno un fondatore e beneficiario italiano.
  • D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 (Reati tributari): rilevanti:
    • Art. 2 – Dichiarazione fraudolenta mediante fatture/documenti falsi (pena 4–8 anni).
    • Art. 3 – Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (4–8 anni). Rilevante per interposizioni perché punisce comportamenti anche formalmente leciti ma fraudolenti che ostacolano l’accertamento. Cassazione: usare un prestanome è artificio ingannatorio rientrante nell’art.3.
    • Art. 4 – Dichiarazione infedele (>€100k imposta evasa; 2–4.5 anni).
    • Art. 5 – Omessa dichiarazione (>€50k imposta evasa; 2–5 anni).
    • Art. 8 – Emissione di fatture false (4–8 anni). Tipicamente nelle frodi IVA con società interposte.
    • Art. 11 – Sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte (6 mesi–4 anni, o 1–6 anni se debito >100k). Punisce atti simulati o fraudolenti su propri/altrui beni per frustrare la riscossione coattiva, tipicamente intestazioni fittizie di beni a terzi. – Giurisprudenza: “atto fraudolento” richiede inganno, non mera idoneità a ostacolare il Fisco. Una vendita fittizia a un amico per far custodire un bene integra inganno; una vendita reale per far cassa no.
    • Art. 13 – Causa di non punibilità per pagamento integrale: estinzione dei reati di cui agli artt. 2,3,4,5 D.Lgs.74/2000 se l’imputato paga tutte le imposte, sanzioni e interessi prima del dibattimento (introdotto nel 2019 per estendere ai reati fraudolenti la non punibilità già prevista per infedele/omessa). – Nota: Non copre l’art.11 (sottrazione fraudolenta), però il pagamento integrale prima del giudizio costituisce attenuante valutabile dal giudice.
  • D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, art. 9 e art. 7 DL 269/2003: Principi sulle sanzioni amministrative tributarie. In particolare, art.7 co.1 DL 269/2003 prevede che “le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica”. – Tuttavia, come detto, la giurisprudenza (Cass. 1358/2023) ha stabilito che tale norma non si applica se la società è una mera fictio creata nell’esclusivo interesse personale dell’amministratore. In tal caso, “le violazioni, pur formalmente dell’ente, vanno riferite all’attività” dell’interponente, ripristinando il principio generale di responsabilità personale. – (Deroga giurisprudenziale): sanzioni non limitate alla società-schermo, ma imputate alla persona fisica dominus.
  • D.Lgs. 21 novembre 2007 n. 231 (Antiriciclaggio) – obbligo identificazione titolare effettivo: Pur non essendo norma tributaria, è rilevante perché impone a banche e professionisti di identificare il beneficial owner di società, trust, conti, ecc. Questo concetto è entrato anche nel fisco: ad esempio, il titolare effettivo di conti esteri deve dichiararli in RW, anche se schermati. I registri dei titolari effettivi (di prossima attuazione) faciliteranno l’individuazione di interposizioni perché renderanno trasparente l’assetto proprietario effettivo dietro le facciate societarie.

Giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione) – principali pronunce:

  • Cass. civ. Sez. V Trib., 15 gennaio 2025 n. 939: (Ordinanza) Ha ribadito l’applicabilità dell’art. 37 comma 3 DPR 600/73 anche ai casi di interposizione reale, non solo fittizia. Principio: la norma mira a colpire ogni ipotesi di dissociazione tra titolarità formale e possesso effettivo del reddito, facendo prevalere la realtà economica sull’apparenza. – Caso concreto: accertati redditi in capo a società T.Srl, imputati al sig. L.M. quale amministratore di fatto. Le CTR avevano escluso art.37 su interposizione reale; la Cassazione ha accolto il ricorso dell’AdE, affermando che la disposizione si applica anche se il soggetto interposto è reale percettore dei redditi poi ritrasferiti all’interponente. Rimessa la causa alla CTR per nuovo esame alla luce di tale principio.
  • Cass. civ. Sez. V Trib., 26 maggio 2025 n. 9445: (Sentenza, fonte: FiscoOggi) Caso di trust estero utilizzato per detenere partecipazioni societarie italiane non dichiarate (violazione monitoraggio fiscale). La Cassazione ha confermato che ai fini tributari conta il possesso effettivo del reddito e la situazione di fatto circa il controllo, anche provata per indizi. Ha affermato che l’art.37 co.3 codifica un principio ampio: ciò che rileva è il “titolare effettivo” del reddito, sia in presenza di più soggetti coinvolti sia di uno solo (es. coincidenza settlor/trustee). – In concreto: il trust fu ritenuto mero schermo fittizio creato per celare il reale possessore italiano; il ricorso del contribuente è stato dichiarato inammissibile (valutazioni di merito insindacabili) e i redditi esteri imputati a lui con relative sanzioni (circa 6 mln €).
  • Cass. civ. Sez. V Trib., 7 aprile 2025 n. 9096: (Sentenza) Caso di trust estero con holding utilizzati da un imprenditore residente per pianificazione aggressiva. La Suprema Corte ha riconosciuto la natura fittizia del trust, accertando che il disponente residente manteneva il controllo sostanziale sul patrimonio e sulle decisioni del trustee. Principio: la residenza fiscale effettiva e la titolarità effettiva dei redditi prevalgono su qualsiasi costruzione artificiosa; se il controllo resta in Italia, i redditi si considerano prodotti in Italia. – Esito: ricorso contribuente dichiarato inammissibile, confermate decisioni di merito (trust interposto, redditi tassati in Italia). [Nota: Caso ricostruito anche nel blog di P. Di Bello, “Caso Ferraris”, evidenziando istruzioni inviate dal disponente al trustee come prova del controllo].
  • Cass. civ. Sez. V Trib., 17 gennaio 2023 n. 1358: (Sentenza) Caso di società “cartiera” usata per fini personali (frode IVA auto intracomunitarie). Ha stabilito che quando una società di capitali è costituita artificiosamente a fini illeciti e usata nell’esclusivo interesse di una persona fisica, quest’ultima è considerata trasgressore e contribuente al contempo. In tal caso non opera l’art.7 DL 269/2003 (sanzioni solo alla società), ma si applica l’art.37 co.3: i redditi societari sono imputati all’amministratore di fatto interponente, e le sanzioni pure. – Motivazione: l’interponente va oltre il ruolo di mero gestore quando “utilizza l’entità come una mera fictio creata nel suo esclusivo interesse” traendone benefici esclusivi. In tali circostanze, imposte e sanzioni vanno riferite alla persona fisica. (Sentenza importantissima perché supera il principio generale sulle sanzioni delle società: di fatto, disregard della personalità giuridica in caso di abuso).
  • Cass. civ. Sez. V Trib., 17 febbraio 2022 n. 5276: (Sentenza, richiamata da Cass.2025) Ha confermato che l’art.37 co.3 copre sia interposizione fittizia che reale, con riferimento particolare alla gestione di fatto di società. Ha richiesto prova rigorosa per traslare il reddito d’impresa: bisogna dimostrare che l’interponente dispone uti dominus delle risorse sociali. Una volta provato il totale asservimento della società, il reddito d’impresa va imputato a lui, con onere al contribuente di dare prova contraria (assenza di interposizione o mancata percezione dei redditi). – (Vedi Cass. 939/2025 supra, che fa eco a questo principio).
  • Cass. civ. Sez. V Trib., 19 ottobre 2018 n. 26414: (Sentenza, cit. in Cass. 9445/2025) Ha evidenziato che l’interposizione soggettiva – intesa come possesso di reddito da parte di soggetto diverso dal titolare formale – è accertabile anche con base indiziaria. (Riflette la consolidata accettazione delle presunzioni semplici come prova in materia tributaria, anche in interposizione).
  • Cass. civ. Sez. V Trib., 30 ottobre 2018 n. 27625 e 29 luglio 2016 n. 15830: (Sentenze) – Anche esse citate sul punto che non vi è distinzione tra interposizione fittizia e reale ai fini dell’art.37 co.3. La funzione della norma è impedire che il contribuente effettivo si sottragga al prelievo nascondendosi dietro interposizioni. – (Consolida orientamento sostanza > forma).
  • Cass. civ. Sez. V Trib., 6 marzo 2017 n. 5520: (Sentenza, cit. da dottrina) – Sul concetto di soggetto uti dominus, in tema di socio unico di fatto/holding individuale. Ha assimilato l’interponente che controlla totalmente una società all’ipotesi della “holding individuale”: colui che esercita in via stabile indirizzo, controllo e coordinamento di società formalmente altrui viene considerato l’effettivo possessore di quei redditi. – (Questa pronuncia rafforza l’idea che se un soggetto fagocita in sé il ruolo economico di una società, i redditi vanno attribuiti a lui: è un’interposizione sostanziale).
  • Cass. pen. Sez. III, 5 settembre 2022 n. 32507: (Ordinanza) – Ha affrontato un caso di esterovestizione societaria con profili penali ex art.5 (omessa dichiarazione) e art.11 (sottrazione). Ha ribadito che far figurare società estere prive di consistenza per occultare imponibili integra il reato di omessa dichiarazione e giustifica sequestri sui beni dell’indagato in vista della confisca. – (Conferma approccio repressivo penale: schermi esteri fittizi → reato e sequestro pari al risparmio d’imposta).
  • Cass. pen. Sez. Unite, 13 novembre 1996 n. 9961 (sent. Demitry): (Vecchia ma autorevole) – Principio generale sulla prova per presunzioni semplici: per la prova indiziaria non serve necessaria consequenzialità logica, basta che il fatto ignoto sia desumibile dal noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo criteri di normalità. – Viene spesso citata in ambito tributario a supporto dell’uso di presunzioni nel provare l’interposizione: i giudici tributari possono inferire l’interposizione anche se non c’è prova diretta, purché gli indizi rendano quella spiegazione la più ragionevole e coerente (principio recepito poi in moltissime sentenze fiscali).

Giurisprudenza di merito e prassi rilevante:

  • CTR Lazio (Roma), 25 marzo 2025 n. 7948: (da informativa fiscale) – Caso di cooperative edilizie gestite da un interponente. Confermata (anche in Cassazione) la legittimità dell’accertamento per interposizione, chiarendo che la mancanza di tracce bancarie personali non esclude l’appropriazione occulta di redditi. – (Conferma che non serve provare il passaggio finale del denaro all’interponente: può averlo tenuto fuori dai conti, ma ciò non salva se gli indizi indicano che lui disponeva dei redditi).
  • Tribunale di Roma, Sez. IX Penale, 16 ottobre 2018 n. 10972: – Sentenza in materia di trust e art.11 D.Lgs.74/2000. Ha assolto gli imputati (gestori di un trust autodichiarato costituito da un debitore fiscale poi deceduto) perché il fatto non sussiste. Interpretazione: gli atti posti in essere non avevano natura fraudolenta in senso penalistico, mancando artificio/inganno; la mera idoneità a rendere inefficace la riscossione non basta se non c’è stratagemma ingannatorio. Importante perché delimita l’ambito del reato di sottrazione fraudolenta nel caso di trust con finalità non elusive (in quel caso il trust addirittura prevedeva l’obbligo per gli esecutori di pagare i debiti tributari, indice di buona fede). – (Conseguenza: non ogni trust che rende difficoltosa la riscossione è punibile penalmente; serve l’intento fraudolento provato).
  • Agenzia Entrate – Risposte a interpello nn. 144-145/2025: – Casi di trust esteri. In particolare la Risposta 145/2025 (trust in Malta con guardiano terzo) ha riconosciuto che il trust NON era interposto poiché: trustee con ampi poteri discrezionali, nessuna interferenza del disponente, guardiano indipendente con potere di revoca del trustee, disponente totalmente escluso dai benefici. Di conseguenza, l’Agenzia ha trattato il trust come soggetto estero autonomo (concludendo ad es. che sui dividendi percepiti non spetta l’aliquota madre-figlia 1,20% – poiché il trust non è “società madre” UE – ma su plusvalenze gode dell’esenzione prevista per white list). – Significato: la prassi conferma i criteri per distinguere trust genuini da interposti (richiamando anche la circolare 61/E/2010). Un trust con reale segregazione e indipendenza gestionale è fiscalmente rispettato.
  • Agenzia Entrate – Circolare 6 agosto 2010 n. 61/E:Disciplina fiscale dei trust. Documento fondamentale che elenca i criteri per tassazione dei trust e individua i casi di trust interposti in cui i redditi restano imponibili in capo al disponente o beneficiario. Ad es. la circolare dice che sono interposti: trust dove disponente = beneficiario, oppure disponente ha poteri di revoca o sostituzione del trustee, trust revocabile liberamente, ecc.. Questi parametri sono spesso citati nelle risposte a interpello e nelle verifiche per valutare l’interposizione (come nel caso 145/2025 sopra, dove la presenza di guardiano terzo e l’assenza di coincidenza disponente/trustee hanno fatto propendere per non interposto). – Utilità: chi struttura un trust può fare riferimento a tali criteri per evitare elementi che portano all’interposizione.

In conclusione, l’apparato di norme e sentenze delineato sopra offre un quadro avanzato e aggiornato a luglio 2025 del trattamento dell’interposizione fittizia in ambito tributario. Il filo conduttore è la centralità della titolarità effettiva: il sistema è predisposto per andare oltre le forme e individuare il soggetto che realmente dispone della ricchezza, facendogli carico sia del prelievo fiscale sia di eventuali responsabilità sanzionatorie. Il contribuente che agisce con trasparenza e sostanza non ha nulla da temere; chi invece si cela dietro schermi fittizi troverà sempre più difficile farla franca, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali più recenti e della collaborazione informativa globale. L’interposizione, un tempo ritenuta una zona grigia sfruttabile, è oggi chiaramente definita e perseguita come frode: per difendersi, l’unica vera arma vincente è non metterla in atto.

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