Avviso Di Accertamento Per Ricavi Non Dichiarati: Come Difendersi

Hai ricevuto un avviso di accertamento per ricavi non dichiarati? Ti accusano di aver omesso fatture, incassi o compensi nella tua dichiarazione dei redditi o IVA? È fondamentale capire da dove nasce l’accertamento e come difendersi nel modo giusto per evitare sanzioni e pagamenti indebiti.

Il Fisco può emettere un accertamento se ritiene, anche in base a presunzioni o controlli incrociati, che i tuoi ricavi siano superiori a quelli dichiarati. Ma questo non significa che tu sia automaticamente colpevole: puoi contestare i rilievi se li ritieni ingiusti.

Quando il Fisco può contestare ricavi non dichiarati?
– Se rileva incongruenze tra le fatture emesse e i corrispettivi incassati
– Se emergono versamenti bancari non giustificati
– Se ci sono dati in contrasto con gli ISA, gli studi di settore o le comunicazioni di terzi
– Se risulta una mancanza di coerenza tra le tue spese e i redditi dichiarati
– Se esistono prove dirette o indirette di vendite non registrate o prestazioni non fatturate

Cosa rischi in caso di accertamento per ricavi non dichiarati?
– Il pagamento dell’imposta evasa (IRPEF, IRES, IVA, IRAP)
Sanzioni dal 90% al 180% dell’imposta, anche di più in caso di recidiva
Interessi legali dal giorno in cui le imposte avrebbero dovuto essere versate
– In certi casi, segnalazione penale per dichiarazione infedele (se gli importi superano certe soglie)

Come puoi difenderti da un accertamento su ricavi non dichiarati?
– Richiedendo e analizzando attentamente il processo verbale o l’atto di accertamento
– Contestando presunzioni infondate o calcoli errati
– Dimostrando che i presunti ricavi non esistono o non sono imponibili
– Fornendo documentazione bancaria, contrattuale o fiscale che giustifichi i movimenti contestati
– Presentando memorie difensive o istanza di adesione, per bloccare l’accertamento o ridurre le somme
– Valutando, nei casi più gravi, la proposizione di un ricorso tributario

Cosa puoi ottenere con una difesa mirata?
Annullamento totale o parziale dell’accertamento
Sconto sulle sanzioni, anche fino a un terzo, in caso di accertamento con adesione
Rateizzazione degli importi dovuti
– Protezione da ulteriori conseguenze patrimoniali o penali, se la situazione viene gestita tempestivamente

Un avviso di accertamento per ricavi non dichiarati non va mai sottovalutato. Ma puoi far valere le tue ragioni, soprattutto se i rilievi fiscali sono basati su dati incompleti o presunzioni discutibili.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e difesa da accertamenti fiscali ti spiega come affrontare un avviso di accertamento per ricavi non dichiarati, cosa verificare e come difendere la tua posizione in modo concreto ed efficace.

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate per ricavi non dichiarati? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo l’atto e ti diremo come difenderti subito, senza errori.

Introduzione

Ricevere un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate per presunti ricavi non dichiarati è un evento critico per qualsiasi contribuente, sia esso un privato, un professionista o un imprenditore. Si tratta dell’atto formale con cui l’Amministrazione finanziaria comunica al contribuente una maggiore pretesa tributaria a seguito di controlli svolti. In altre parole, l’Agenzia contesta che il reddito o il volume d’affari dichiarato sia inferiore a quello effettivo e reclama imposte e sanzioni aggiuntive per i ricavi che ritiene occultati al Fisco.

Questa guida – aggiornata a luglio 2025 – offre un’analisi approfondita su come difendersi da un avviso di accertamento per ricavi non dichiarati, dal punto di vista del contribuente (il “debitore” dell’obbligazione tributaria). Verranno esaminate le norme italiane vigenti, le pronunce giurisprudenziali più autorevoli e recenti, nonché le possibili strategie difensive e soluzioni deflative della controversia. Il taglio è avanzato, adatto a professionisti legali e fiscali, ma con un linguaggio chiaro e divulgativo per essere utile anche a contribuenti non esperti. Troverete inoltre tabelle riepilogative, una sezione di domande e risposte frequenti (FAQ) e alcune simulazioni pratiche che illustrano casi tipici e relative difese.

Avvertenza: ogni caso concreto presenta peculiarità proprie. Questa guida fornisce indicazioni generali, ma è sempre consigliabile farsi assistere da un professionista qualificato (avvocato tributarista o commercialista esperto in contenzioso tributario) per impostare nel modo migliore la difesa di fronte a un accertamento fiscale.

Che cos’è un avviso di accertamento per ricavi non dichiarati

Un avviso di accertamento è l’atto formale con cui l’ufficio finanziario (Agenzia delle Entrate o ente impositore competente) notifica al contribuente una pretesa fiscale aggiuntiva, a seguito di un controllo sostanziale sui tributi dichiarati e versati. In pratica, tramite l’avviso di accertamento l’Amministrazione contesta che il contribuente abbia dichiarato meno di quanto dovuto, indicando le maggiori imposte accertate su base istruttoria e gli eventuali importi sanzionatori e interessi.

Nel contesto di questa guida parliamo di avvisi di accertamento emessi per ricavi non dichiarati, ossia per redditi o volume d’affari che il Fisco ritiene occultati (in tutto o in parte) dal contribuente. Ciò può riguardare, ad esempio, incassi “in nero” da parte di un’impresa o di un professionista, vendite non fatturate, compensi non dichiarati, o più in generale componenti positivi di reddito sottratti a tassazione. Spesso tali accertamenti emergono da verifiche fiscali (come ispezioni della Guardia di Finanza con esame delle scritture contabili e ricerca di documentazione extracontabile) oppure da controlli a tavolino basati su riscontri documentali, indagini finanziarie sui conti bancari, incrocio di dati dell’anagrafe tributaria, segnalazioni, studi di settore/ISA, etc.

L’avviso di accertamento per ricavi non dichiarati ha natura di provocatio ad opponendum, secondo la giurisprudenza: è un atto che contiene una contestazione motivata, finalizzata a mettere il contribuente in condizione di conoscere la pretesa ed eventualmente impugnarla per far valere le proprie ragioni. Non va confuso con altre comunicazioni del Fisco: ad esempio, l’“avviso bonario” (comunicazione di irregolarità) emesso a seguito di controlli automatici formali non è un atto impositivo impugnabile, mentre l’avviso di accertamento è un atto immediatamente impugnabile dinanzi al giudice tributario. Inoltre, a differenza della cartella esattoriale (che interviene in fase di riscossione), l’avviso di accertamento è atto di accertamento e liquidazione dell’imposta e – come vedremo – oggi cumula in sé anche la funzione di intimazione di pagamento (avviso esecutivo) trascorsi i termini per il ricorso.

Requisiti formali essenziali: l’avviso di accertamento, per essere valido, deve rispettare precisi requisiti normativi (previsti in particolare dall’art. 42 DPR 600/1973 e dallo Statuto del Contribuente, L. 212/2000). Esso deve essere motivato a pena di nullità, cioè contenere l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo hanno determinato. In pratica deve spiegare su quali elementi l’ufficio fonda la pretesa di maggiori ricavi non dichiarati (ad es. documenti extracontabili trovati, movimenti bancari anomali, percentuali di ricarico, ecc.) e quali norme ritiene violate. Inoltre, l’atto deve indicare gli imponibili accertati, le aliquote applicate, le maggiori imposte calcolate, le sanzioni irrogate, il referente dell’ufficio (responsabile del procedimento) e le modalità e termini sia per effettuare il pagamento sia per presentare eventuale ricorso (specificando l’organo giurisdizionale competente). La mancanza di motivazione o di questi elementi essenziali può rendere l’atto annullabile per vizio insanabile.

Esecutività dell’atto: dal 2011, gli avvisi di accertamento dell’Agenzia delle Entrate sono immediatamente esecutivi trascorsi 60 giorni dalla notifica. Ciò significa che, una volta scaduto il termine per presentare ricorso, l’avviso costituisce titolo esecutivo per la riscossione coattiva, senza necessità di un’ulteriore cartella di pagamento. L’atto deve infatti contenere l’intimazione ad adempiere entro il termine di impugnazione, avvisando il contribuente che, decorsi 30 giorni ulteriori, il carico fiscale verrà affidato all’agente della riscossione per l’esecuzione forzata. In sostanza l’avviso cumula la funzione di accertamento e di precetto. In pratica, se il contribuente non paga né impugna, dopo 60 giorni l’importo diventa definitivo; trascorsi 30 giorni ulteriori, l’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) prende in carico le somme e può procedere con atti esecutivi (fermi amministrativi, ipoteche, pignoramenti), fatta salva una sospensione automatica di 180 giorni per l’avvio dell’esecuzione forzata (non per le misure cautelari) prevista dalla legge. Questo regime – volto a velocizzare la riscossione – rende ancora più importante che il contribuente reagisca tempestivamente, se intende difendersi, entro i termini previsti.

Riassumendo, un avviso di accertamento per ricavi non dichiarati notifica al contribuente che il Fisco ritiene maggiori redditi imponibili non dichiarati e chiede il pagamento delle relative imposte e sanzioni. Nel prossimo paragrafo vedremo quali sono le principali basi normativa di tali accertamenti e le diverse tipologie di accertamento che l’ufficio può effettuare (analitico, induttivo, ecc.), poiché comprendere la natura dell’accertamento è fondamentale per impostare la difesa.

Normativa di riferimento e tipologie di accertamento

La materia degli accertamenti tributari sui redditi (e IVA) è disciplinata da una pluralità di norme. Di seguito sintetizziamo i riferimenti principali, con particolare riguardo agli accertamenti di maggiori ricavi:

  • DPR 600/1973 (Disposizioni comuni accertamento delle imposte sui redditi): è la “bibbia” dell’accertamento delle imposte dirette (IRPEF, IRES). Rilevano in particolare:
    • Art. 39 DPR 600/73: regola le modalità di determinazione del reddito in sede di accertamento. Distingue:
      • Accertamento analitico (art. 39 co.1 lett. a-c): l’ufficio rettifica analiticamente singoli elementi del reddito (ricavi, costi) basandosi su dati certi o su presunzioni semplici dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Presuppone che la contabilità sia regolare nel complesso, consentendo solo di correggere alcune poste.
      • Accertamento analitico-induttivo (art. 39 co.1 lett. d): se emergono irregolarità od omissioni contabili che rendono inattendibili le risultanze per specifici elementi, l’ufficio può prescindere in parte dalle scritture e ricostruire i ricavi o altri elementi anche su base presuntiva, purché con presunzioni gravi, precise e concordanti. Esempio tipico: la contabilità è formalmente tenuta ma si scoprono appunti extracontabili di maggiori vendite; il Fisco può rideterminare i ricavi presunti servendosi di quegli appunti, dei consumi di materia prima, di percentuali di ricarico, ecc.
      • Accertamento induttivo “puro” (art. 39 co.2): applicabile in casi più gravi – ad esempio omessa dichiarazione, contabilità totalmente inattendibile o mancata tenuta delle scritture – consente di determinare il reddito d’impresa in modo completamente induttivo, anche tramite qualsiasi presunzione, ancorché priva dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c. (quindi anche presunzioni semplicissime). In pratica l’ufficio può ricostruire ex novo ricavi e reddito con ampio margine (purché la ricostruzione sia ragionevole), ad esempio basandosi sui movimenti bancari, su indici di redditività medi, su documenti di terzi, ecc.
    • Art. 42 DPR 600/73: disciplina il contenuto formale dell’avviso di accertamento (motivazione, sottoscrizione da parte del capo ufficio o delegato, ecc.) e prevede la nullità in caso di inosservanza.
    • Art. 43 DPR 600/73: fissa i termini di decadenza per notificare gli avvisi (vedi approfondimento nel paragrafo successivo).
    • Art. 32 DPR 600/73: regola i poteri istruttori dell’ufficio, tra cui le indagini finanziarie presso banche e altri intermediari. Di rilievo qui il comma 2, che stabilisce una presunzione legale relativa: per i soggetti obbligati a tenere scritture (imprese e lavoratori autonomi), i movimenti bancari non giustificati si considerano fiscalmente riferibili all’attività: in particolare, i versamenti sul conto si presumono ricavi non dichiarati, e i prelevamenti si presumono costi non registrati (quindi destinati a produrre ricavi non dichiarati). Questa presunzione legale – di cui parleremo diffusamente – è stata oggetto di interventi della Corte Costituzionale e della Cassazione, che ne hanno delimitato l’applicazione (specie per i prelevamenti) riconoscendo al contribuente il diritto di fornire prova contraria (anche presuntiva).
    • Art. 41-bis DPR 600/73: prevede l’accertamento parziale, un particolare strumento che consente all’ufficio, quando scopre elementi di evasione chiari e specifici (ad es. una fattura non dichiarata, un conto estero non indicato, ecc.), di emettere un avviso limitato a quei rilievi, senza attendere di fare un accertamento globale su tutto il periodo d’imposta.
  • DPR 633/1972 (IVA): contiene norme parallele per l’accertamento IVA. In particolare:
    • Art. 54 (accertamento con metodo analitico e induttivo IVA) e Art. 55 (accertamento d’ufficio IVA in caso di omessa dichiarazione) ricalcano sostanzialmente i criteri di cui all’art. 39 DPR 600, adattati al diverso tributo. Ad esempio, l’omessa fatturazione di operazioni attive consente la rettifica dell’IVA dovuta con metodo induttivo.
    • Art. 57 DPR 633/72: termini di decadenza per notificare avvisi IVA (anche qui quinto anno, salvo omessa dichiarazione settimo anno, in parallelo all’art. 43 DPR 600).
  • D.Lgs. 471/1997 (sanzioni tributarie): fissa le sanzioni amministrative per le violazioni tributarie. Per i ricavi non dichiarati, tipicamente si applica:
    • Art. 1, co.2 D.Lgs. 471/97: dichiarazione infedele, sanzione dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta (con minimo elevato al 100% se l’imposta evasa supera determinate soglie). Esempio: se si occultano ricavi causando una differenza d’imposta, la sanzione base è 90% dell’importo evaso (riducibile con definizioni agevolate).
    • Art. 5 D.Lgs. 471/97: omessa dichiarazione, sanzione dal 120% al 240% dell’imposta se dovuta (con un minimo di 250€); applicabile se i ricavi non dichiarati derivano da mancata presentazione della dichiarazione annuale.
  • Statuto dei Diritti del Contribuente (L. 212/2000): sancisce importanti principi garantistici. Ad esempio:
    • Art. 6, co.5 L.212/2000: diritto del contribuente, nelle verifiche fiscali in loco, a presentare osservazioni prima che l’avviso sia emesso (c.d. contraddittorio endoprocedimentale nel caso di PVC della Guardia di Finanza).
    • Art. 7 L.212/2000: obbligo di motivazione degli atti e di indicazione delle modalità di impugnazione.
    • Art. 10 L.212/2000: principio di affidamento e buona fede, lo Stato non può richiedere sanzioni in contrasto con i propri comportamenti o interpretazioni ufficiali (potenzialmente invocabile se il contribuente si è conformato a istruzioni ufficiali).
  • D.Lgs. 218/1997: disciplina gli istituti deflativi del contenzioso, ossia:
    • Accertamento con adesione (artt. 2-15): possibilità di definire l’accertamento con accordo transattivo col Fisco, prima del ricorso, con riduzione sanzioni a 1/3.
    • Acquiescenza (art. 15): facoltà di accettare l’avviso senza ricorrere, pagando entro 60 giorni, con sanzioni ridotte a 1/3 del minimo.
    • Conciliazione giudiziale (art. 48 D.Lgs. 546/92, richiamato da art. 17-bis D.Lgs. 218/97): possibilità di accordo durante il processo con sanzioni ridotte (40% del minimo in primo grado, 50% in appello).
  • D.Lgs. 546/1992 (processo tributario): regola l’impugnazione degli avvisi di accertamento. Vanno evidenziate:
    • Art. 2 D.Lgs. 546/92: elenca gli atti impugnabili davanti alle Commissioni/nuove Corti di Giustizia tributaria – l’avviso di accertamento è impugnabile.
    • Art. 21: termine di 60 giorni dalla notifica per proporre ricorso (esteso di 30 giorni se risiede all’estero).
    • Art. 17-bis: disciplina il reclamo/mediazione per controversie di valore non elevato (attualmente fino a €50.000), imponendo un tentativo di accordo prima del processo vero e proprio.
    • Art. 7, co.5-bis (introdotto dalla L. 130/2022): norma innovativa sul onere della prova nel processo tributario, di cui diremo oltre.
    • Art. 68: regola la riscossione frazionata in pendenza di giudizio (ad es., dopo una sentenza di primo grado che dia ragione al Fisco, il contribuente deve versare provvisoriamente due terzi dell’imposta, tenendo conto di quanto eventualmente già versato come un terzo iniziale in caso di ricorso).

Queste sono le basi normative essenziali. In parole semplici, la legge consente al Fisco di accertare maggiori ricavi non dichiarati utilizzando metodi sia analitici (precisi, se ha dati certi) sia presuntivi (stimando sulla base di indizi). Ci sono presunzioni previste dalla legge stessa – ad esempio sui movimenti bancari – e presunzioni semplici utilizzabili quando supportate da indizi consistenti. D’altro canto, la normativa offre al contribuente strumenti per difendersi sia in via amministrativa (adesione, autotutela) sia in via giurisdizionale (ricorso alle Corti tributarie), con la possibilità di far valere prove contrarie e di ottenere importanti riduzioni sanzionatorie se collabora o se ha ragione.

Tipologie di accertamento e metodi di ricostruzione dei ricavi

È utile distinguere le principali modalità con cui il Fisco può ricostruire i ricavi non dichiarati, perché ciascuna ha presupposti e limiti probatori diversi, con riflessi sulla difesa. Ecco le tipologie più rilevanti:

  • Accertamento analitico: l’ufficio contesta specifici componenti del reddito dichiarato, rettificandoli sulla base di dati puntuali o errori aritmetici. Esempio: viene disconosciuta la deduzione di alcuni costi ritenuti indeducibili, oppure vengono aggiunti ricavi risultanti da documenti ufficiali non contabilizzati (es. corrispettivi da scontrini non inclusi per errore). In tal caso, la difesa verterà su quelle voci specifiche (dimostrando magari che il costo era deducibile o che il presunto ricavo in più in realtà è inesistente o già tassato altrove).
  • Accertamento analitico-induttivo: qui l’ufficio, rilevando incongruenze o irregolarità (contabili o dichiarative), procede in parte in modo induttivo. Ad esempio, se un ristorante dichiara incassi troppo esigui rispetto ai costi sostenuti, l’ufficio può presumere ricavi in nero applicando una percentuale di ricarico standard del settore ai costi di cucina, alle forniture e utenze, etc. La Cassazione ha ritenuto legittimo, in un caso del genere, che l’Agenzia ricostruisse i ricavi di un ristorante privo di scritture applicando il mark-up medio del settore su tutti i costi sostenuti (materie prime, servizi, utenze), poiché limitarsi ai soli alimenti avrebbe sottostimato il volume d’affari effettivo. In questo tipo di accertamento, la legge richiede che le presunzioni siano dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza – in pratica, gli indizi utilizzati (percentuali, confronti con medie, documenti extracontabili, movimenti bancari, ecc.) devono essere sufficientemente solidi e coerenti tra loro da far presumere l’esistenza di ricavi non dichiarati. Il contribuente può contrastare tali presunzioni contestandone la validità (es. dimostrando che il campione di comparazione non è omogeneo, o che ci sono spiegazioni alternative per gli indizi) oppure fornendo prove contrarie specifiche.
  • Accertamento induttivo puro: viene usato in situazioni di estrema inattendibilità o assenza di contabilità. Ad esempio, se un imprenditore non ha tenuto i registri o non ha presentato la dichiarazione, e magari il Fisco scopre tracce di operazioni o beni che fanno presumere redditi, l’ufficio può determinare il reddito ex novo. Tipicamente ricostruisce i ricavi sulla base di elementi esterni: ad esempio, la spesa per beni personali (metodo sintetico redditometrico, per le persone fisiche, su cui torneremo), oppure i movimenti bancari (in base all’art. 32 citato), oppure altre fonti (inventari, tenore di vita, ecc.). In tali casi la legge consente di usare anche presunzioni privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza – in sostanza basta la ragionevolezza logica. Ciò non toglie che in giudizio il Fisco debba comunque dimostrare in modo convincente l’attendibilità del suo calcolo. Per esempio, se la Finanza trova un “registro parallelo” che evidenzia incassi doppi rispetto a quelli ufficiali, l’ufficio potrà induttivamente raddoppiare i ricavi dichiarati. In giudizio, il contribuente potrà contestare la fondatezza di tale ricostruzione (es. sostenendo che quel registro non era un reale elenco di vendite ma appunti privi di valore, se provabile).
  • Accertamento sintetico sul reddito delle persone fisiche (redditometro): metodo peculiare rivolto alle persone fisiche non imprenditori, basato sui consumi e il patrimonio. Previsto dall’art. 38 DPR 600/73, permette di determinare un reddito “sintetico” in base alla spesa per beni e servizi sostenuta dal contribuente nel periodo (abitazioni, auto, viaggi, investimenti, ecc.), confrontandola col reddito dichiarato. Se il tenore di vita appare incompatibile col reddito dichiarato, si presume l’esistenza di redditi non dichiarati. Il vecchio “redditometro” è stato riformato e, dopo sospensioni, è confluito in una versione aggiornata (dal 2015 in avanti) con indicatori di spesa più aderenti alla realtà. Anche qui al contribuente è data possibilità di prova contraria (es. dimostrare che quelle spese sono state finanziate con redditi di altri anni già tassati, con donazioni esenti, con disinvestimenti di risparmi, ecc.). Gli accertamenti sintetici non riguardano specificamente “ricavi” di attività, ma piuttosto redditi non dichiarati in senso lato; li citiamo perché fanno parte degli strumenti utilizzati per scovare evasione soprattutto tra privati.
  • Utilizzo di presunzioni legali specifiche: oltre alle presunzioni generali sopra descritte, ci sono presunzioni legali previste da norme specifiche che il Fisco spesso invoca. Una già menzionata è quella di cui all’art. 32 DPR 600/73 sui movimenti bancari: i versamenti su conti correnti, se il contribuente non li giustifica, si considerano ricavi tassabili; analogamente i prelievi non giustificati si considerano utilizzati per acquisti “in nero” produttivi di ricavi in nero. Questa presunzione ha un impatto enorme negli accertamenti: ad esempio, se un imprenditore ha versamenti sul conto per 100.000 € non spiegati da ricavi dichiarati, l’ufficio li aggiunge a tassazione come ricavi non contabilizzati. Tuttavia, la Corte Costituzionale (sent. n. 228/2014) ha escluso l’applicabilità di tale presunzione dei prelevamenti per i soggetti non obbligati a tenere contabilità (privati, lavoratori dipendenti), e più di recente la Corte Costituzionale n. 10/2023 ne ha confermato la legittimità per imprenditori solo a condizione che sia sempre data al contribuente la possibilità di prova contraria, in particolare dimostrando in via presuntiva l’esistenza di costi collegati a quei prelevamenti. Torneremo nel dettaglio su questa fondamentale evoluzione giurisprudenziale in tema di indagini finanziarie.
  • **Presunzione di distribuzione utili ai soci (per società di capitali a ristretta base): un’altra presunzione di origine giurisprudenziale ma consolidata equipara i soci di una piccola società di capitali alla figura dell’imprenditore individuale, presumendo che eventuali utili occulti emersi in capo alla società siano stati incassati pro-quota dai soci. In pratica, se una SRL familiare occulta ricavi, il Fisco, dopo aver tassato la società per quei maggiori utili, tende a emettere avvisi di accertamento ai soci per attrarre a IRPEF quei redditi come utili distribuiti “in nero”. La Cassazione ha più volte ritenuto legittima tale presunzione nelle società a base ristretta, ferma restando la facoltà del contribuente di provare il contrario, ossia che gli utili extracontabili sono rimasti in azienda (accantonati o reinvestiti) e non effettivamente distribuiti ai soci. Ad esempio, in un’ordinanza del 2024 la Suprema Corte ha ribadito che è onere del socio dimostrare – con elementi concreti – che i maggiori ricavi accertati nella società non gli sono stati girati, per vincere la presunzione di distribuzione. Questa è una presunzione semplice (giurisprudenziale), non una presunzione legale assoluta: infatti non è prevista dalla legge ma è frutto di orientamento consolidato. Ciò significa che il giudice deve valutare caso per caso e il Fisco dovrebbe comunque portare indizi di conferma (ad es., la presenza di soli familiari come soci può costituire indizio a favore della presunzione, ma va accompagnato magari da riscontri come la mancanza di reinvestimenti in azienda).

In Tabella 1 riepiloghiamo le principali tipologie di accertamento dei ricavi con le relative caratteristiche:

Tipo di accertamentoPresuppostiMetodo di calcolo dei ricaviNote sulla prova
Analitico (rettifica puntuale)Contabilità complessivamente regolare; differenze su singole voci (errori, omissioni limitate)Ricavi aggiunti determinati da documenti certi o errori evidentiFisco deve provare puntualmente la voce non dichiarata. Contribuente può contestare dati o giustificare l’errore.
Analitico-induttivo (presuntivo parziale)Contabilità attendibile in generale ma con elementi di inattendibilità su specifici aspetti (es. incongruenze, indici di redditività anomali, appunti extra)Ricavi ricostruiti in parte con metodo induttivo: p.es applicazione di percentuali di ricarico standard, utilizzo di indizi vari (consumi, movimenti bancari, ecc.)Presunzioni gravi, precise, concordanti richieste. L’onere iniziale è del Fisco che deve fornire indizi consistenti; il contribuente può fornire prova contraria o spiegazioni alternative sugli indizi.
Induttivo puro (art.39 co.2)Gravi irregolarità o contabilità assente/nulla (omessa dichiarazione, scritture inattendibili nel complesso)Ricavi determinati totalmente in via induttiva, anche con presunzioni semplici prive di requisiti G.P.C. (es. interamente da movimenti bancari, o stime in base a dati esterni)L’ufficio ha maggiore libertà di stima, ma in giudizio deve comunque motivare la ragionevolezza del calcolo. Il contribuente può contestare nel merito l’attendibilità della ricostruzione o presentare elementi che riducono la base (es. costi anche se non registrati).
Sintetico (redditometro)Persone fisiche con spese/tenore di vita elevato rispetto al reddito dichiaratoReddito complessivo presunto basato su spese sostenute e incremento patrimoniale, da cui si inferiscono redditi sottrattiPresunzione legale relativa (art.38): il Fisco deve indicare le spese; il contribuente può provare che sono state finanziate con redditi esenti o risparmi pregressi (cioè che non derivano da redditi non dichiarati dell’anno).
Indagini finanziarie (art.32)Movimentazione bancaria non coerente con i ricavi dichiarati (versamenti e, per imprenditori, prelevamenti non giustificati)Importi accreditati su conti considerati ricavi non dichiarati; importi prelevati considerati ricavi non dichiarati (tramite l’ipotesi di costi occulti) – salvo prova contrariaPresunzione legale relativa: il contribuente deve giustificare la natura non imponibile di ogni movimento contestato, altrimenti l’importo è tassato. Per i prelevamenti, dopo Corte Cost. 10/2023, va sempre ammessa la prova contraria anche presuntiva (es. dimostrare costi correlati).
Presunzione utili ai sociSocietà di capitali a ristretta compagine sociale (es. pochi soci familiari) con utili extracontabili accertatiQuote di utili occulti imputate pro-quota ai soci come reddito di capitale (dividendi) non dichiaratoPresunzione semplice (Cass.): il Fisco la applica quasi automaticamente in base alla “ristrettezza” societaria. Il socio può vincerla provando che gli utili sono rimasti nella società e non distribuiti. Se il socio porta evidenze (es. utili reinvestiti nell’azienda, mancanza di prelievi di cassa), spetta all’ufficio fornire altri elementi per mantenere la pretesa.

(Legenda: G.P.C. = gravità, precisione e concordanza degli indizi.)

Come si vede, il ventaglio di strumenti è ampio. La difesa del contribuente deve modulare le proprie argomentazioni a seconda del tipo di accertamento subito. Ad esempio, se l’ufficio applica un markup standard per stimare ricavi, la difesa potrà contestare la non rappresentatività di quel parametro per l’azienda in questione (magari portando studi di settore o bilanci comparativi che mostrano percentuali diverse). Se invece l’accertamento è basato su movimenti bancari, la difesa dovrà concentrarsi sul giustificare quei movimenti uno per uno (es. “quel versamento di €10.000 era un finanziamento soci già tassato” oppure “quel prelievo ha finanziato spese personali non inerenti all’attività, dunque non generava ricavi”).

Nei prossimi paragrafi affronteremo in dettaglio le strategie difensive, sia preventive/deflative (autotutela, adesione, ecc.) sia in sede contenziosa, tenendo conto delle più recenti novità normative (es. riforma del processo tributario del 2022) e delle sentenze di legittimità aggiornate al 2025 che impattano su questi accertamenti (in tema di onere della prova, contraddittorio, presunzioni bancarie, costi occulti, ecc.).

Termini di notifica dell’avviso di accertamento

Un aspetto cruciale, spesso decisivo, è il rispetto dei termini di decadenza da parte dell’ufficio. La legge impone infatti che l’avviso di accertamento sia notificato entro un certo termine, pena la decadenza del potere impositivo (l’atto tardivo è nullo perché l’Erario ha perso il diritto di accertare quell’anno).

Termini ordinari (periodi d’imposta recenti): Per le imposte sui redditi (IRPEF, IRES) e IVA, a seguito della riforma intervenuta con la legge n. 208/2015 (Legge di Stabilità 2016), i termini a regime sono i seguenti:

  • 5 anni: avviso notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione. Ad esempio, per l’anno d’imposta 2020 (dichiarazione presentata nel 2021), il termine ordinario è il 31/12/2025.
  • 7 anni: se la dichiarazione non è stata presentata (od è nulla), il termine si estende al 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. Ad esempio, per un omesso invio del 2020, l’accertamento può essere notificato fino al 31/12/2027.

Questi termini si applicano dall’anno d’imposta 2016 in poi. Per gli anni precedenti (fino al 2015 incluso) valevano termini più brevi: 4 anni (dichiarazione presentata) o 5 anni (omessa). Di conseguenza, attualmente il Fisco ha più tempo rispetto al passato per emettere avvisi.

Violazioni penali tributarie: In passato, se l’evasione configurava un reato (ad es. dichiarazione infedele o fraudolenta sopra soglie penalmente rilevanti), scattava il raddoppio dei termini di accertamento. Tale meccanismo però è stato abolito dal 2016 in avanti: la legge 208/2015 ha eliminato il raddoppio, prevedendo semmai che il Fisco usi direttamente il nuovo termine più ampio (5/7 anni). Dunque, per i periodi 2016 e seguenti non si applica il raddoppio, mentre per i periodi fino al 2015 resta applicabile: in quei casi l’accertamento poteva essere notificato entro 8 anni (se dichiarazione omessa, 10 anni) ma solo a condizione che la denuncia penale fosse presentata entro la scadenza ordinaria allora vigente. Oggi questo aspetto ha perso rilevanza pratica, se non per eventuali strascichi su vecchie annualità non ancora notificate ma difficilmente giustificabili a tanti anni di distanza.

Proroghe straordinarie (es. Covid-19): Va ricordato che eventi eccezionali possono comportare sospensioni dei termini. Ad esempio, l’emergenza Covid-19 ha portato a una sospensione dei termini di decadenza degli accertamenti in scadenza tra l’8 marzo e il 31 dicembre 2020, poi prorogati di alcuni mesi (fino al 26 marzo 2021 per gli atti 2020, in base al DL 34/2020 e DL 41/2021). Queste proroghe ad hoc non sono qui trattate in dettaglio, ma chi riceve un avviso per annualità attorno al 2015-2018 potrebbe notare riferimenti a proroghe normative (ad es. per il 2015, scadenza portata a ottobre 2020 da DL 34/2020). In ogni caso, per gli anni più recenti (2020 e seguenti) i termini generali sopra detti (5° o 7° anno) sono allo stato attuale validi.

È fondamentale verificare il rispetto dei termini: se l’avviso viene notificato oltre il termine di decadenza, esso è impugnabile per decadenza e il contribuente – indipendentemente dal merito – può far valere l’intervenuta perdita di potere dell’ufficio. Ad esempio, supponiamo che un avviso per l’anno 2017 (dichiarazione presentata nel 2018) sia stato notificato il 2 gennaio 2024: essendo scaduto il termine (31/12/2023), l’avviso è tardivo e va annullato. L’onere di provare la tempestività grava sull’ufficio: la notifica si considera effettuata nella data in cui l’atto è stato consegnato al destinatario o anche solo avviato (ad esempio data di spedizione raccomandata) a seconda delle norme sulle notifiche. Occorre quindi controllare l’avviso di ricevimento o la ricevuta PEC per capire la data esatta di notifica.

Notifica dell’atto: Gli avvisi possono essere notificati tramite:

  • Posta raccomandata con avviso di ricevimento, anche tramite Poste Italiane o corrieri autorizzati.
  • Posta Elettronica Certificata (PEC), obbligatoria per imprese e professionisti iscritti in albi, e utilizzata sempre più spesso dall’Agenzia.
  • Notifica a mano tramite messi notificatori o agenti della riscossione.

La notifica via PEC si perfeziona quando il messaggio arriva nella casella PEC del destinatario (fa fede la ricevuta di avvenuta consegna). Per la raccomandata tradizionale, se il destinatario è assente, c’è la compiuta giacenza: l’atto si considera notificato dopo 10 giorni di giacenza in posta se non ritirato, come da art. 140-142 c.p.c. applicati al procedimento tributario.

Esempio di calcolo termini: in Tabella 2 riportiamo alcuni esempi concreti di termini di notifica:

Anno d’impostaDichiarazione presentata?Termine decadenza ordinario(Se reato, termine raddoppiato*
2018 (dich. 2019)31 dicembre 2024n/a (no raddoppio dal 2016)
2018 (dich. 2019)No (omessa)31 dicembre 2025n/a (no raddoppio)
2015 (dich. 2016)31 dicembre 201931 dicembre 2023 (ultimo anno con raddoppio)
2015 (dich. 2016)No31 dicembre 202031 dicembre 2025
2020 (dich. 2021)31 dicembre 2026**n/a
2020 (dich. 2021)No31 dicembre 2027**n/a

* Il raddoppio dei termini si applica solo fino alle annualità 2015, se l’ufficio ha presentato denuncia penale per reato tributario. Dal 2016 in poi non previsto.
** Per le annualità 2020 e 2021 vi sono state proroghe Covid (come cen accennato: gli atti in scadenza al 31/12/2025 potrebbero avere slittamenti al 2026 in certi casi).

Come si nota, per gli anni recenti (2016 in poi) possiamo ignorare il raddoppio e considerare direttamente 5 o 7 anni. Verificare la data di notifica (sulla busta raccomandata o la ricevuta PEC) è uno dei primi passi per impostare la difesa: se l’avviso è fuori termine, il contenzioso si potrà risolvere in favore del contribuente per vizio formale di decadenza, senza nemmeno affrontare il merito.

Strategie difensive: soluzioni deflattive e rimedi amministrativi

Affrontare un avviso di accertamento non significa necessariamente arrivare fino in Cassazione. L’ordinamento offre vari strumenti per evitare o risolvere la lite prima (o al di fuori) del processo tributario. Tali strumenti possono permettere di ottenere riduzioni delle sanzioni e, talvolta, un concordato su importi più bassi. Vediamo le principali opzioni difensive in sede amministrativa, con i loro pro e contro, dal punto di vista del contribuente (riassunte anche in Tabella 3 a fine paragrafo):

  1. Istanza di autotutela tributariaAnnullamento in via di autotutela: è una richiesta che il contribuente può presentare allo stesso ufficio che ha emesso l’atto, esponendo i motivi per cui l’avviso sarebbe errato o illegittimo e chiedendone l’annullamento (totale o parziale) senza dover ricorrere al giudice. L’autotutela è prevista dall’art. 2-quater DL 564/1994 e dalle circolari ministeriali: consente alla Pubblica Amministrazione di rettificare spontaneamente i propri atti viziati o infondati. Nella pratica, va usata quando vi sono errori evidenti e documentabili nell’accertamento – ad esempio:
    • Scambio di persona o errore sull’intestazione (avviso inviato al soggetto sbagliato).
    • Doppia imposizione palese (stesso reddito tassato due volte).
    • Errore di calcolo macroscopico negli importi.
    • Violazioni procedurali riconosciute (es: mancato rispetto di un condono già perfezionato).
    Il contribuente, nell’istanza, deve indicare con chiarezza i vizi manifesti dell’atto e allegare eventuale documentazione probatoria. Vantaggi: se l’ufficio riconosce l’errore, può annullare o correggere l’avviso senza costringere il contribuente al ricorso e senza spese. Non ci sono termini per presentarla (può essere fatta anche oltre i 60 giorni, in teoria), e non serve assistenza tecnica – anche se, data la tecnicità della materia, è consigliabile farsi assistere per scrivere un’istanza efficace. Svantaggi/limiti: l’autotutela è discrezionale – l’ufficio non è obbligato ad accogliere l’istanza. Inoltre, l’istanza non sospende i termini per ricorrere: attenzione, se presentate autotutela, i 60 giorni per l’eventuale ricorso continuano a decorrere normalmente. In mancanza di risposta positiva entro quel termine, occorre comunque fare ricorso per non perdere il diritto. Dunque, l’autotutela si addice a casi clamorosi di errore, dove si confida che l’Agenzia riconosca subito lo sbaglio. Una recente novità legislativa (delega fiscale 2023 in corso di attuazione) prevede l’autotutela “obbligatoria” in alcuni casi di errore palese: se attuata, potrebbe rendere più incisivo questo strumento, costringendo l’ufficio a rispondere entro un termine. Ma al luglio 2025 non risulta ancora in vigore una norma specifica di autotutela obbligatoria generale (se non in materia di sanzioni in certi casi specifici). In ogni caso, vale la pena tentare l’autotutela quando l’errore è documentabile: male che vada, l’ufficio la respinge e si prosegue con le vie ordinarie.
  2. Acquiescenza all’accertamento: è la scelta di non impugnare l’avviso e pagare quanto richiesto, usufruendo in cambio di una consistente riduzione delle sanzioni. In base all’art. 15 D.Lgs. 218/97, se il contribuente accetta integralmente l’esito dell’accertamento e provvede a pagare le somme (o la prima rata) entro il termine per ricorrere (60 giorni dalla notifica), le sanzioni irrogate nell’atto sono ridotte ad 1/3 del minimo edittale previsto dalla legge. Qual è il vantaggio concreto? Le sanzioni per infedele dichiarazione sono in genere pari al 90% della maggiore imposta; il minimo edittale coincide spesso con quella misura (salvo circostanze aggravanti). Ridotte a 1/3, diventano il 30%. Se, ad esempio, l’ufficio contesta €50.000 di imposte evase, la sanzione piena sarebbe €45.000 (90%). Con acquiescenza pagheremmo solo €15.000 di sanzione, risparmiando €30.000. Un beneficio notevole, a fronte però della rinuncia totale a contestare. Oltre alla riduzione sanzioni, l’acquiescenza evita il rischio di dover pagare spese di giudizio e altri oneri in caso di soccombenza futura. Svantaggi: Bisogna essere sicuri che la pretesa sia corretta o comunque non vi siano margini di vittoria in giudizio. È una scelta spesso dettata da valutazioni di convenienza: ad esempio, se l’avviso ha un vizio procedurale o di merito serio, conviene fare ricorso; se invece l’ufficio ha ragione e si rischiano sanzioni piene e interessi maggiori protraendo la lite, può convenire accettare subito lo sconto. L’acquiescenza richiede il pagamento integrale (imposte + interessi + sanzioni ridotte) entro 60 giorni, ma è ammessa la rateizzazione (vedi punto 5 infra). Va formalizzata comunicando la rinuncia al ricorso e effettuando il pagamento nei termini. Importante: l’acquiescenza non è ammessa parziale – occorre accettare l’atto in tutto; se si concorda solo in parte, bisogna usare altri strumenti (adesione o ricorso e poi conciliazione eventualmente).
  3. Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/97 artt. 2-15): è un procedimento di definizione concordata col Fisco, che può avvenire su iniziativa del contribuente dopo aver ricevuto l’avviso (o anche prima, a seguito di un processo verbale di constatazione). In pratica il contribuente presenta un’istanza di adesione e viene convocato per un contraddittorio presso l’ufficio; durante il confronto, può esporre le proprie ragioni, eventualmente portare documenti nuovi, e le parti cercano un accordo sull’ammontare dovuto. Se raggiungono un’intesa, la definiscono in un atto di adesione con le nuove somme dovute. Perché considerarlo? L’adesione comporta vantaggi: le sanzioni sono ridotte a 1/3 del minimo (similmente all’acquiescenza), si evitano spese processuali e si può ottenere una riduzione della base imponibile rispetto all’accertato iniziale, se si convincono i funzionari delle proprie ragioni in parte. Inoltre, la presentazione dell’istanza di adesione sospende i termini per fare ricorso per 90 giorni (art. 6 co.3 D.Lgs. 218/97): dunque, se l’avviso arriva e i 60 giorni scadono, ad esempio, il 30 marzo, presentando adesione entro quel giorno si sposta il termine al 30 giugno, guadagnando tempo. Svantaggi: L’adesione richiede che vi sia margine di trattativa. Se l’ufficio ha elementi solidi e ritiene l’atto fondato, potrebbe non concedere riduzioni significative di imposta (limitandosi al beneficio sanzionatorio). In alcuni casi, tuttavia, l’ufficio può ridurre l’importo imponibile accertato per chiudere la vertenza (specie se il contribuente porta elementi nuovi in suo favore non considerati prima). È fondamentale prepararsi bene al contraddittorio: il contribuente (idealmente con il proprio consulente) deve presentare documenti o calcoli che evidenzino perché l’accertamento è eccessivo o infondato in parte. Ad esempio, in un accertamento bancario si potrebbe dimostrare documentalmente che alcuni versamenti contestati erano in realtà finanziamenti da terzi già tassati, convincendo l’ufficio a stralciarli dalla pretesa. Procedura: l’adesione post-avviso va richiesta entro i 60 giorni dalla notifica (inviando l’istanza all’ufficio competente). L’ufficio invita entro 15 giorni a comparire (o, talvolta, può rigettare l’istanza se ritiene di non poter aderire). Il termine di impugnazione è sospeso finché dura l’eventuale dialogo, e comunque per massimo 90 giorni. Se si raggiunge accordo, si redige atto di adesione da firmare entro 20 giorni dalla definizione e il contribuente paga entro 20 giorni dalla firma (o prima rata). Se non si raggiunge accordo, l’ufficio (o il contribuente stesso) può chiudere il procedimento e a quel punto il contribuente ha 30 giorni per fare ricorso (i 90 giorni di sospensione si sommano ai 60 originari). L’adesione è uno strumento molto utile: statisticamente molti accertamenti si chiudono così, con reciproca soddisfazione (il Fisco incassa più rapidamente e il contribuente limita danni e rischi). Va segnalato che non tutti gli atti sono “aderibili”: l’avviso di accertamento lo è certamente; non lo sono, ad esempio, gli avvisi bonari o le cartelle, ma questo esula dal nostro tema.
  4. Reclamo e mediazione tributaria: introdotto per le liti minori dall’art. 17-bis D.Lgs. 546/92, è un istituto peculiare perché si colloca a metà tra la fase amministrativa e quella giudiziale. Esso prevede che, per le controversie di valore non eccedente una certa soglia (attualmente 50.000 euro, valore calcolato al netto di sanzioni e interessi) relative ad atti impugnabili (come l’avviso di accertamento), la presentazione del ricorso equivalga anche a presentare un “reclamo” all’ufficio, con proposta di mediazione. In altre parole, se l’importo del tributo contestato nell’avviso non supera 50.000 €, il contribuente deve comunque predisporre il ricorso (con motivi, eventuali documenti, etc.), ma prima di depositarlo in giudizio lo invia all’ufficio: quest’ultimo ha 90 giorni per eventualmente accogliere il reclamo (annullando o riducendo l’atto) oppure formulare una proposta di mediazione (un accordo transattivo). Se trascorrono 90 giorni senza esito positivo, il ricorso acquista efficacia e la causa prosegue in Commissione (ora Corte Giustizia Trib.). Se invece si raggiunge un accordo di mediazione, si redige un atto con cui l’ufficio ridetermina l’importo dovuto e il contribuente paga quanto concordato. Vantaggi della mediazione: oltre a evitare il contenzioso, la normativa prevede – similmente alla conciliazione giudiziale – una riduzione delle sanzioni al 35% del minimo (leggermente più favorevole del 40% in conciliazione giudiziale) in caso di esito positivo. Svantaggi: la soglia di valore la rende applicabile solo ai casi più piccoli o medi. Spesso, per ricavi non dichiarati, i rilievi superano 50.000 euro di imposte e quindi la mediazione non è obbligatoria. Va detto che con L. 130/2022 la soglia è stata elevata (era 20.000 € fino al 2018, poi 50.000); c’è la possibilità che in futuro venga estesa ulteriormente. In ogni caso, se la controversia rientra nel reclamo/mediazione, il contribuente deve attivarlo (non è facoltativo): la presentazione diretta del ricorso al giudice in questi casi comporta l’improcedibilità. Quindi è un passaggio obbligato. Molti uffici usano questa fase per rivedere l’atto: se riscontrano effettivamente errori o valutano che la controparte ha buone ragioni, possono accordarsi per ridurre sanzioni e/o imponibili ed evitare il giudizio. Dal lato contribuente, conviene sfruttare la memoria di reclamo per mettere già tutte le argomentazioni migliori sul tavolo, sperando in una soluzione. Non di rado, comunque, la mediazione si conclude con un nulla di fatto (silenzio-rigetto) e si deve proseguire in Commissione.
  5. Rateizzazione degli importi: non è una “difesa” in senso tecnico, ma è un’agevolazione importante da considerare in caso di adesione o acquiescenza. Se il contribuente definisce l’accertamento (adesione o acquiescenza) può chiedere di pagare a rate le somme dovute. Secondo la normativa vigente (art. 8 D.Lgs. 218/97), il piano standard è:
    • Fino a €50.000 dovuti: max 8 rate trimestrali.
    • Oltre €50.000: max 16 rate trimestrali.
      La prima rata va pagata entro 20 giorni dalla sottoscrizione dell’atto di adesione (o entro 60 giorni dalla notifica, in caso di acquiescenza). Le rate successive ogni tre mesi. Sulle rate si applicano gli interessi legali. Per importi molto elevati e comprovate difficoltà, è teoricamente possibile ottenere piani più lunghi presentando garanzie, ma ciò riguarda più la riscossione coattiva. Nell’ambito di adesione/acquiescenza ci si attiene di norma a 8 o 16 rate. Attenzione: se si opta per la rateazione, è decaduto dal beneficio se salta il pagamento di anche una sola rata (o ritarda oltre la tolleranza di legge): in tal caso l’intero importo residuo diviene immediatamente iscritto a ruolo e si perdono anche le riduzioni sanzioni accordate (si torna alle sanzioni piene). Dunque è fondamentale rispettare le scadenze. L’ufficio spesso richiede l’invio dell’attestazione di avvenuto pagamento delle rate via PEC per monitorare.

In Tabella 3 riepiloghiamo le caratteristiche delle opzioni deflative:

Strumento difensivoDescrizioneVantaggiSvantaggi / Note
Autotutela (richiesta annullamento in via amministrativa)Istanza all’ufficio per far annullare/modificare l’atto viziato o infondato in modo palese.Procedura informale, gratis, nessun rischio di spese. Se errore evidente, l’ufficio può annullare subito senza contenzioso.Discrezionale: rara l’ammissione salvo errori lampanti. Non sospende i termini di ricorso: va presentata tempestivamente e parallelamente valutare ricorso.
Acquiescenza (rinuncia al ricorso con pagamento)Pagamento di quanto accertato entro 60 gg, rinunciando a impugnare, con sanzioni ridotte 1/3.Sanzioni ridotte a 1/3 (es. da 90% a 30%). Chiusura immediata del caso, stop interessi e procedure.Bisogna pagare tutto (salvo rateazione). Nessuna possibilità di successiva contestazione: si accetta per intero l’addebito, adatto solo se atto è fondato o convenienza economica netta a evitare la lite.
Accertamento con adesione (concordato col Fisco)Istanza di adesione, incontro con ufficio, eventuale accordo su nuova base imponibile e sanzioni ridotte 1/3. Termine ricorso sospeso per max 90gg.Sanzioni 1/3 come acquiescenza. Possibile riduzione del quantum (l’ufficio può concedere sconti su imposte). Dialogo costruttivo: si possono chiarire equivoci e far valere ragioni prima del giudizio.Richiede cooperazione: esito incerto se l’ufficio è rigido. Tempi: se non si chiude entro ~90gg, poi bisogna far ricorso. Comporta rivelare la propria strategia difensiva (ma ciò spesso non è negativo se si punta a convincere).
Reclamo/Mediazione (per importi ≤ €50.000)Invio del ricorso all’ufficio come reclamo, con proposta di mediazione (riduzione importi). L’ufficio può accogliere o formulare accordo entro 90gg.Obbligatorio per liti minori: chance di definire con sanzioni al 35%. Risolve in tempi brevi se accettato.Limitato a valore modesto. L’ufficio che ha emesso l’atto giudica su sé stesso (tasso di accoglimento non altissimo). Se fallisce, si va in giudizio (tempi allungati di 90gg).
Ricorso giurisdizionale (contenzioso tributario)Presentazione ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (già Comm. Trib.) entro 60gg. Segue processo in uno o più gradi.Giudice terzo valuta nel merito e può annullare in toto l’atto, o ridurlo. Si possono far valere tutti i vizi e produrre prove.Tempi e costi (contributo unificato, spese legali). Rischio sanzioni intere se si perde, + pagamento 50% imposte dopo primo grado. Esito incerto. Da preferire se si hanno solide ragioni di merito/procedura e importi ingenti.

Nota: gli strumenti non si escludono a vicenda in modo assoluto. Ad esempio, si può prima tentare l’adesione e, se fallisce, presentare ricorso; oppure presentare reclamo e in sede di mediazione proporre un’adesione semplificata. Quello che invece non si può fare è cumulare i benefici: acquiescenza e adesione sono alternative (se chiedi adesione, rinunci allo sconto di acquiescenza perché stai contestando l’atto). Invece, dopo un eventuale fallimento dell’adesione, si può comunque in corso di processo concludere una conciliazione giudiziale con analoghe riduzioni sanzioni (40% in primo grado).

Importante: quando si riceve un avviso, è opportuno valutare tutte le opzioni prima di agire. Un avvocato tributarista esperto o un commercialista potrà consigliare se vi sono vizi formali grossolani (sfruttabili in autotutela o ricorso) o se conviene negoziare una riduzione tramite adesione, o se invece le possibilità di successo in giudizio sono alte, giustificando quindi il ricorso. Spesso, anzi, l’avvio della fase di adesione è consigliabile anche se poi si ha intenzione di fare ricorso: il contraddittorio può aiutare a chiarire le posizioni e, se non altro, a comprendere meglio le prove in mano all’ufficio (utili da conoscere in caso di successivo processo).

Nei prossimi capitoli ci concentreremo sulla difesa nel merito contro l’accertamento: quali argomentazioni giuridiche e probatorie sollevare, con riguardo anche agli ultimi orientamenti giurisprudenziali. Successivamente affronteremo alcuni casi concreti (simulazioni) e risponderemo a FAQ comuni.

Difendersi nel merito dell’accertamento

Se si decide di impugnare l’avviso di accertamento, occorre predisporre una strategia difensiva sul merito della pretesa fiscale. In sostanza, bisogna convincere il giudice (o prima l’ufficio, in sede di adesione/mediazione) che l’accertamento è infondato in tutto o in parte. Le linee difensive possono essere molteplici e vanno adattate alle peculiarità del caso. Ecco gli aspetti essenziali da considerare e le relative difese:

1. Vizi formali e procedurali (oltre a termini e motivazione già trattati)

Prima di tutto, valutare se l’avviso presenta vizi formali ulteriori rispetto a motivazione e termini. Ad esempio:

  • Difetto di sottoscrizione o incompetenza: l’avviso deve essere firmato dal capo ufficio o da un funzionario delegato. Se manca la firma, o se si scopre che il firmatario non aveva delega valida, l’atto è nullo. La Cassazione ha spesso annullato avvisi per delega generica irregolare o firmatario non legittimato (ma attenzione: la delega interna è di solito sanabile e l’AE ha reso più solide le procedure).
  • Mancato contraddittorio quando dovuto: tema complesso. In generale, per gli accertamenti “a tavolino” su tributi non armonizzati (IRPEF, IRES), non sussiste un obbligo generalizzato di invitare il contribuente a dialogare prima dell’emissione. La Corte di Cassazione (SS.UU. 2015 n.24823) ha stabilito che, salvo diversa previsione di legge, il mancato contraddittorio preventivo non invalida l’atto per i tributi nazionali interni. Diverso per l’IVA e i tributi “armonizzati” UE: lì vige il principio unionale del contraddittorio, per cui se l’ufficio emette un avviso senza aver preventivamente invitato il contribuente a esporre le sue ragioni, l’atto può essere annullabile, ma a certe condizioni (la giurisprudenza ha richiesto la c.d. “prova di resistenza”: il contribuente deve indicare quali argomenti avrebbe potuto far valere se fosse stato sentito, in grado di incidere sul risultato). In sintesi:
    • IVA: se non c’è stato contraddittorio endoprocedimentale (ad es. avviso basato su indagini finanziarie emesso senza invito al contribuente a spiegare), si eccepisce la violazione del diritto al contraddittorio (art. 41 Carta UE). Il giudice valuterà se la presenza di un contraddittorio avrebbe potuto portare a esito diverso (cioè se il contribuente indica elementi difensivi non considerati per mancanza di confronto). Se sì, l’atto va annullato.
    • Imposte dirette: qui la norma interna non prevede obbligo (salvo il caso degli accertamenti da studi di settore/ISA, dove per legge c’è obbligo di invito al contraddittorio). Tuttavia, se c’è stato un PVC della Guardia di Finanza, in genere viene concessa la possibilità di osservazioni entro 60 giorni (art. 12 c.7 L.212/2000) prima dell’avviso: se l’ufficio emette avviso prima dei 60 giorni senza urgenza, l’atto è nullo. Quindi verificare se, in caso di verifica, l’avviso è uscito rispettando quel termine.
    • Cassazione recente: va menzionato che Cass. n.6098/2023 ha affermato un indirizzo più garantista, sottolineando che il contraddittorio endoprocedimentale è un elemento essenziale di leale collaborazione e può determinare nullità se la sua omissione lede il diritto di difesa. Inoltre, la Corte Costituzionale con sent. 47/2023 ha richiamato l’attenzione sull’importanza del contraddittorio, pur senza sancirne l’obbligatorietà universale. È un tema in evoluzione: in casi dubbi conviene sempre eccepire la mancata instaurazione del contraddittorio, illustrando cosa si sarebbe potuto chiarire (la cosiddetta “difesa frustrata”).
  • Altri vizi: errori nella notifica (es. notificato a indirizzo errato, o a soggetto deceduto senza reiterazione agli eredi nei termini), difetto di competenza territoriale dell’ufficio, violazione di norme sul procedimento (es. atto emesso prima dello scadere del termine dilatorio di 60 giorni dal PVC), ecc. Questi rilievi vanno sollevati come motivi di ricorso preliminari, poiché se accolti fanno cadere l’atto a prescindere dalla questione sostanziale dei ricavi.

2. Contestazione nel merito: inesistenza o diversa qualificazione dei ricavi presunti

Arriviamo al nocciolo: contestare la sussistenza dei ricavi non dichiarati così come quantificati dal Fisco. Le possibili difese qui includono:

  • Dimostrare che i movimenti finanziari contestati non sono ricavi: se l’accertamento si basa su versamenti bancari (o su entrate di cassa) non giustificati, il contribuente deve fornire una spiegazione credibile e documentata per ciascuna voce:
    • Se erano finanziamenti o apporti da parte del titolare/soci: provare la provenienza (es. movimentazione da conto personale, prelievo di contante poi versato in c/c aziendale).
    • Se erano prestiti ricevuti da terzi: esibire contratti di mutuo, assegni ricevuti, scritture private con data certa, e idealmente prova che il rimborso è avvenuto.
    • Se erano restituzioni di denaro precedentemente dato a terzi (rientro di somme): mostrare i flussi a uscire originari e il successivo rientro.
    • Se trattasi di vendita di beni personali non tassabile: ad esempio, incasso da vendita di un’auto usata; in tal caso presentare atto di vendita, pagamento, ecc., per qualificare quell’entrata come reddito esente/non imponibile (cessione di bene personale, fuori dall’attività).
    • Se entrate da indennizzi assicurativi, risarcimenti, lasciti: produrre la documentazione (es. quietanza assicurazione). Questi importi di norma non sono redditi.
    Il contribuente deve essere consapevole che l’art. 32 DPR 600/73 pone a suo carico l’onere di giustificare analiticamente ogni movimentazione: la Cassazione 31/5/2024 n.15337 ha ribadito che la presunzione legale da indagini bancarie può essere vinta solo dimostrando la natura non reddituale delle operazioni, in modo analitico per ciascuna. Non basta affermare genericamente che “i versamenti erano redditi già tassati”, va provato con riscontri precisi. Un grande aiuto è arrivato, come accennato, dalla Corte Costituzionale n. 10/2023: questa sentenza (commentata anche dalla Cass. 2344/2024) ha chiarito che, per gli imprenditori, a fronte di versamenti non giustificati è legittimo presumere ricavi non dichiarati, ma l’imprenditore può sempre contrapporre una prova presuntiva contraria deducendo l’esistenza di costi relativi da detrarre. In pratica: se Tizio impresa ha versamenti per 100, ed è plausibile che per realizzare quei ricavi abbia sostenuto costi, deve essergli consentito di far valere almeno in via forfettaria tali costi. La Consulta ha detto che così interpretata la norma (art. 32) supera le censure di incostituzionalità. Questo principio è stato recepito dalla Cassazione in varie pronunce (Cass. 5586/2023, 6874/2023, Cass. 10013/2025, Cass. 19574/2025 etc.), e significa che non è lecito tassare l’intero importo dei versamenti come se fossero profitto netto: va considerato che una parte è costo. Ad esempio, se un ristoratore incassa in nero 50.000 €, avrà avuto costi per cibo, personale etc., quindi forse l’utile effettivo è 10.000. Pertanto, in giudizio oggi si può ottenere che, pur riconoscendo l’occultamento, la tassazione colpisca il reddito netto e non il lordo dei ricavi. Questo avviene o stimando forfettariamente i costi, oppure obbligando l’ufficio a ricalcolare. Cass. ord. n.2344/2024 ha statuito proprio che, in accertamento induttivo puro, l’ufficio deve determinare anche i costi correlati ai ricavi ricostruiti, e se non lo fa, deve pensarci il giudice. Nel caso concreto (vendite auto non fatturate), la Cassazione ha censurato la CTR che aveva annullato tutto l’atto senza calcolare i costi: avrebbe dovuto invece determinare essa i costi delle auto vendute in nero, riducendo la pretesa ma non annullandola totalmente. Questo per dire che oggi la difesa può (e deve) sempre eccepire il diritto alla deduzione dei costi presunti: non ci si può limitare a dire “quei 100 non erano reddito”; se il giudice non crede all’assenza totale di reddito ma accerta comunque ricavi, bisogna in subordine chiedere l’applicazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.) perché siano scorporati i costi. Cass. 19574/2025 (Sez. Trib.) ha proprio enunciato che, grazie alla sentenza Corte Cost. 10/2023, anche nell’accertamento analitico-induttivo il contribuente imprenditore può sempre opporre in giudizio una percentuale forfettaria di costi di produzione da detrarre dai maggiori ricavi presunti. Questa è una conquista recente e molto rilevante nella difesa.
  • Contro l’uso di percentuali standard e studi di settore: se l’ufficio ha determinato i ricavi non dichiarati applicando un parametro medio (ad es. ricarico medio del settore, risultati degli Indici Sintetici di Affidabilità fiscale – ISA), la difesa può contestare che tali medie non tengono conto delle peculiarità dell’azienda. Ad esempio: “L’AE mi attribuisce un ricarico del 150% perché così fanno i ristoranti in zona, ma il mio è un locale di nicchia con prodotti costosi, il margine è minore”. Bisogna portare evidenze: bilanci di aziende comparabili, documenti di acquisto/vendita che mostrano margini più bassi, per dimostrare che l’applicazione rigida di quell’indice genera un ricavo presunto esagerato. La giurisprudenza ha affermato che l’utilizzo di parametri o studi di settore può sì legittimare un accertamento se c’è grave incongruenza, ma in giudizio la pretesa va calata nella realtà specifica e il contribuente può dimostrare che la sua situazione particolare giustifica gli scostamenti (Cass. SU nn.26635 e 26636/2009 sugli studi di settore). Dal 2019 gli ISA hanno sostituito gli studi di settore, e l’Agenzia attualmente non può fare accertamenti basati unicamente su ISA bassi; li usa però come elementi di analisi del rischio. Se l’atto menziona scostamenti da studi/ISA, la difesa sottolineerà che tali strumenti offrono indicazioni di massima e non prova concreta di evasione, specie se l’azienda può giustificare la scarsa redditività (crisi del mercato, costi imprevisti, ecc.).
  • Dimostrare che i documenti extracontabili non riflettono ricavi reali: spesso la Finanza trova agende, appunti (“nero di giornata”, contabilità parallele). Tali documenti costituiscono gravi indizi e la legge consente di basare l’accertamento su di essi. Tuttavia, la difesa può provare a sminuirne l’attendibilità: per esempio sostenere che non erano scritture tenute dall’azienda ma calcoli ipotetici, oppure che si riferiscono a progetti non concretizzati. Se c’è contraddizione con le scritture ufficiali, bisogna fornire una spiegazione plausibile del perché esistono quelle differenze (anche se spesso è arduo negare l’evidenza di un brogliaccio del venduto). Una linea a volte utilizzata è evidenziare possibili errori di interpretazione: la GdF trascrive quei dati attribuendogli il significato di ricavi in nero, ma magari alcune voci erano crediti verso clienti, acconti, note interne. Qualora possibile, portare testimonianze (ora ammesse nel processo tributario, grazie alla riforma 2022, pur con limiti) o dichiarazioni di terzi che chiariscano la natura di quei dati. Ad esempio: appunti con nomi e cifre – si potrebbe far testimoniare che erano conti di spese personali annotate, non incassi aziendali. Le dichiarazioni rese da terzi in sede di PVC valgono come semplici indizi, e se l’accertamento si fonda solo su quelle, si può contestare la carenza di prova. Con la nuova normativa sulla prova testimoniale ammessa nel processo tributario (L.130/2022, art. 7 co.4 D.Lgs.546/92), in teoria la difesa può citare quei terzi a testimoniare direttamente in giudizio, rafforzando le proprie tesi (salvo che non si tratti di circostanze coperte da verbali con fede privilegiata).
  • Redditometro e difesa sulle spese: qualora l’accertamento per ricavi non dichiarati verso un imprenditore individuale o professionista si accompagni anche a un profilo di accertamento sintetico (ad es. contestano ricavi in nero perché il soggetto ha acquistato una villa o un’auto di lusso non compatibili col reddito dichiarato), la difesa deve dimostrare la provenienza dei fondi usati per quelle spese. Ad esempio: “Ho comprato casa da 1 milione ma con soldi avuti in eredità” → mostrare la successione e l’atto di donazione. Oppure “L’auto di lusso l’ha pagata un parente per me”. In generale, per il redditometro vigente, se il contribuente prova che le spese sono state sostenute con redditi diversi da quelli dell’anno (risparmi accumulati, disinvestimenti) o con redditi esenti, l’accertamento sintetico va ridimensionato. Bisogna essere precisi e fornire quantificazioni: se l’ufficio presume €X di reddito occulto per giustificare le spese, occorre presentare evidenza di almeno €X provenienti da fonti lecite e tassate.
  • Verificare errori di calcolo nella quantificazione: a volte l’ufficio commette banali errori matematici nel ricostruire i maggiori ricavi. Ad esempio, doppia conta di un elemento, oppure applicazione errata di percentuali. Questi errori, se individuati, vanno segnalati sia in sede di adesione (dove magari l’ufficio li corregge subito) sia in ricorso, come motivo di rideterminazione dell’imponibile.
  • Onere della prova nel processo: Con la riforma del 2022 si è introdotto nell’art. 7 D.Lgs. 546/92 il comma 5-bis che codifica i principi sull’onere probatorio. Esso stabilisce che è l’Amministrazione finanziaria a dover provare in giudizio le violazioni contestate col l’atto impugnato. Il giudice deve basare la decisione sulle prove emerse in giudizio (quindi non può limitarsi a quanto affermato nell’atto, se il contribuente nega e l’ufficio non produce le evidenze). E il contribuente ha onere della prova solo se chiede un rimborso o in casi particolari. Questo significa che, se il contribuente contesta i fatti costitutivi (ad es. “non è vero che quei versamenti sono ricavi, erano un prestito”), spetta all’ufficio convincere il giudice che la sua versione (versamenti = ricavi) è più credibile, portando elementi concreti a supporto. Di fatto, il contribuente deve comunque cooperare perché se si limita a un diniego generico, difficilmente il giudice gli darà ragione. Però la norma rafforza l’idea che il beneficio del dubbio giova al contribuente: se la prova dell’evasione non è pienamente raggiunta, l’accertamento va annullato. Questo inveramento normativo è stato voluto per bilanciare i poteri ampi del Fisco con le garanzie del giusto processo. La difesa quindi ricorderà al giudice questa regola: “onus probandi incumbit ei che asserit, non ei che nega”, e sottolineerà eventuali carenze probatorie dell’ufficio. Ad esempio: l’ufficio accusa ricavi non dichiarati basandosi solo su una percentuale di ricarico media senza altri riscontri → la difesa dirà che questa è un’ipotesi non provata e l’AE non ha fornito prova specifica di vendite in nero (in passato magari la Cassazione tendeva a favorire le presunzioni del Fisco; oggi con l’art.7 co.5-bis e con il nuovo orientamento, c’è più spazio per contestare l’insufficienza degli indizi).

In definitiva, la difesa nel merito richiede di:

  • Smontare o ridimensionare gli indizi del Fisco (documenti, conti bancari, percentuali, ecc.) proponendo spiegazioni alternative supportate da prove.
  • Mettere in evidenza eventuali contraddizioni o assenze di prove nella ricostruzione dell’ufficio.
  • Far valere i principi di diritto più aggiornati (es. diritto ai costi, onere probatorio a carico dell’AE, contraddittorio mancato su IVA).
  • Quantificare correttamente l’eventuale dovuto: se anche qualche ricavo in nero c’è stato, evitare che si esageri l’importo: portare in luce costi correlati, periodi diversi, errori, ecc. in modo che, nella peggiore delle ipotesi, il giudice riduca sensibilmente l’accertato (o invii la pratica all’ufficio per ricalcoli).

Talvolta conviene anche – in via subordinata – invocare la clemenza sulle sanzioni: i giudici tributari possono ridurre le sanzioni entro il minimo edittale se erano state applicate oltre il minimo, oppure disapplicarle per obiettiva incertezza normativa. Ad esempio, se su una certa entrata c’era dubbio interpretativo se fosse tassabile, e il contribuente l’ha esclusa in buona fede, il giudice potrebbe annullare la sanzione per “incertezza”. Questo argomento va proposto qualora applicabile (art. 6, co.2 D.Lgs. 472/97).

3. Conseguenze penali e coordinamento con la difesa tributaria

È possibile che un accertamento per ricavi non dichiarati di notevole entità porti con sé un procedimento penale per dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) o omessa dichiarazione (art. 5). I reati scattano se l’imposta evasa supera determinate soglie (per infedele, attualmente: imposta evasa > €100.000 e ricavi non dichiarati > 10% del dichiarato o > €2 milioni; per omessa: imposta evasa > €50.000). Dal punto di vista del “debitore”, è fondamentale sapere che:

  • La definizione del procedimento tributario (pagare col ravvedimento operoso, adesione, etc.) non estingue il reato, ma può incidere sulla pena (attenuanti) e sulla volontà di procedere del fisco.
  • Viceversa, vincere il ricorso tributario (accertamento annullato) non comporta automaticamente l’assoluzione penale, ma di fatto toglie fondamento economico al reato (mancando l’evasione accertata, il fatto tipico non sussiste). Tuttavia i giudici penali fanno una valutazione autonoma: potrebbero ritenere provata l’evasione anche con mezzi di prova diversi.
  • Nel coordinare le difese, attenzione a non contraddirsi: dichiarazioni rese in sede tributaria possono essere acquisite nel penale. Occorre una strategia unitaria. Spesso, in presenza di penale, la scelta nel tributario è di combattere con ancora più vigore l’accertamento per far cadere la base del reato.

Questi aspetti travalicano la guida fiscale e richiedono assistenza legale specializzata. Il punto per il debitore è: non ignorare un parallelo penale e informare subito l’avvocato, perché magari conviene evitare di esporsi troppo in sede di adesione se c’è il rischio di autoincriminazione (anche se i dati fiscali in adesione in teoria non potrebbero essere usati nel penale, la cautela è d’obbligo). In alcuni casi può essere opportuno transare il tributario (pagando) per avere attenuanti e cercare patteggiamento nel penale. Ma queste valutazioni vanno fatte caso per caso con professionisti.

Conclusione della difesa nel merito: una difesa vincente richiede documentazione solida, coerenza nelle spiegazioni e padronanza delle regole fiscali. L’ideale è produrre un dossier chiaro per il giudice: ad esempio, un prospetto che elenchi tutti i versamenti contestati e a fianco la giustificazione e il riferimento al documento di prova (es.: “Versamento 10/5/2019 €5.000 – origine: rimborso prestito da Mario Rossi, vedi contratto allegato 3”). Questo tipo di approccio aiuta il giudice a recepire immediatamente la nostra contro-narrativa. Di contro, evitare difese generiche (“non ho evaso nulla, è tutto regolare”) senza prove: oggi la mole di dati che il Fisco ha rende rarissimo un accertamento totalmente campato in aria; di solito qualche riscontro c’è, e bisogna affrontarlo puntualmente.

Esempi pratici di difesa (casi simulati)

Di seguito presentiamo alcune simulazioni pratiche, ossia scenari tipici di avvisi di accertamento per ricavi non dichiarati, con le possibili difese che un contribuente potrebbe approntare. Ogni caso ha le sue particolarità, ma questi esempi aiutano a capire l’applicazione concreta dei principi esposti.

Caso 1: Accertamento bancario a imprenditore individuale

Scenario: Il sig. Bianchi, titolare di una piccola ditta individuale edile, riceve un avviso di accertamento per l’anno 2021. L’ufficio ha svolto indagini finanziarie sui suoi conti correnti e ha rilevato versamenti non giustificati per €80.000. Bianchi nel 2021 aveva dichiarato un reddito di €20.000. L’avviso presume dunque €80.000 di ricavi non dichiarati, calcolando circa €24.000 di IRPEF evasa più IVA e sanzioni al 90%. Totale richiesto (tra imposte, IVA e sanzioni): ~€60.000.

Elementi del Fisco: elenco dettagliato di n.20 versamenti (assegni e contanti) sul conto personale e su quello aziendale, di cui nessuna traccia in contabilità. Inoltre evidenziano che Bianchi ha acquistato un’auto nuova nel 2021 (valore €30.000) incompatibile col reddito di €20.000 dichiarato.

Difesa: Il sig. Bianchi, con l’aiuto del suo consulente, analizza uno per uno i 20 versamenti:

  • 5 versamenti provenivano da assegni bancari di sua madre (per tot. €20.000). Vengono recuperate le copie degli assegni e una scrittura privata dove la madre dichiarava di donare al figlio quelle somme per aiutarlo nell’acquisto dell’auto. Viene allegata anche un’asseverazione della madre (pronta a testimoniare) e i documenti di prelievo dal conto della madre.
  • 3 versamenti, per tot. €15.000, erano prelievi di contante fatti dallo stesso Bianchi qualche mese prima e poi reintrodotti sul conto (sostanzialmente movimentazione infrannuale di liquidità). Si allegano gli estratti conto che mostrano i prelievi precedenti di pari importo e l’assenza di utilizzo di quei contanti (dichiarazione che li teneva in casa e poi li ha riportati in banca).
  • 4 versamenti, tot. €10.000, corrispondono ad altrettanti bonifici ricevuti dal fratello di Bianchi. Viene prodotta una dichiarazione del fratello che attesta trattarsi della restituzione di un prestito che Bianchi gli aveva fatto anni prima. A supporto, copia di bonifici usciti dal conto di Bianchi nel 2019 verso il fratello per €10.000 (quindi il fratello nel 2021 gli stava restituendo). I bonifici di restituzione avevano causale generica, ma ora con questa documentazione si chiarisce.
  • 2 versamenti (contanti €5.000) provenivano dalla vendita di un vecchio furgone aziendale dismesso. Bianchi pensava di non dover fatturare perché rottamato, ma comunque quell’importo in realtà è stato dichiarato come plusvalenza? (Qui c’è un errore suo: doveva emettere autofattura per beni propri dismessi). Tuttavia, come reddito la plusvalenza era minima essendo già ammortizzato il mezzo. Si allega atto di vendita e pagamento.
  • Restano 6 versamenti, tot. €30.000, di cui Bianchi non ha chiara traccia (molti contanti). Dopo riflessione, Bianchi ammette che probabilmente sono incassi non fatturati di piccoli lavoretti extra. Non può provarne la non imponibilità.

In contraddittorio (adesione) si porta tutto questo. Si fa inoltre leva sul principio della deducibilità dei costi: Bianchi argomenta che, ammesso avesse ricavi non dichiarati per €30.000 (gli unici non giustificati), per realizzarli ha sostenuto almeno €20.000 di costi (materiali, manodopera in nero). Propone quindi di concordare un maggior ricavo imponibile di €10.000 netto.

Esito possibile: L’ufficio, verificati i documenti, accetta di stralciare €45.000 di versamenti (donazioni madre, restituzioni fratello, ecc.) riconoscendo che non sono ricavi. Rimangono €35.000 di ricavi non spiegati. Sulle vendite non fatturate (€5.000) l’ufficio ricalcola l’IVA dovuta e la piccola plusvalenza. Sugli altri €30.000 in nero, accetta di ridurre del 40% per presumibili costi, tassando quindi €18.000 come maggior reddito. Si formalizza un atto di adesione: imposte su €18.000 (circa €5.000 IRPEF + addizionali, €0 IVA perché lavori privati non soggetti, e contributi se applicabili), sanzione al 1/3 (30% invece di 90%). Bianchi paga in 8 rate. Conseguenze: niente penale perché l’imposta evasa residua è sotto 100k, ha regolarizzato e l’Agenzia incassa in tempi rapidi. Bianchi ha ridotto l’impatto economico e ha evitato un giudizio dall’esito incerto (visto che qualcosa in nero c’era). Ha però dovuto comunque pagare il dovuto sui redditi occulti emersi.

Commento: in questo caso la difesa ha evidenziato come separare il grano dal loglio: ha documentato i movimenti legittimi e circoscritto la parte effettivamente irregolare. Inoltre ha sfruttato il nuovo orientamento sui costi presunti per non pagare su tutto il lordo. Si è quindi giunti a un compromesso ragionevole.

Caso 2: Accertamento da differenze di magazzino e appunti interni (società)

Scenario: La Alfa Srl, commercio all’ingrosso di abbigliamento, subisce una verifica fiscale nel 2022. La GdF trova un magazzino occulto: molte più giacenze di quelle risultanti a libro inventari, e scopre un taccuino della responsabile vendite dove annotava vendite “fuori contabilità”. L’anno 2021 risulta a forte rischio evasione. Viene emesso avviso di accertamento per il 2021 contestando ricavi non contabilizzati per €200.000 e IVA evasa corrispondente. Vengono recuperate a tassazione IRES e IVA su tale importo, con sanzioni del 90% sul maggiore IRES e 90% sul IVA. Inoltre, data la ristretta base (società di 2 soci familiari), vengono emessi anche avvisi ai due soci imputando utili extra pro quota (100k ciascuno) come dividendi percepiti non dichiarati.

Difesa della società: La Alfa Srl impugna l’accertamento. La difesa verte su:

  • Il metodo di ricostruzione: l’ufficio ha presumibilmente stimato i ricavi non dichiarati sulla base di differenze inventariali: tot capi d’abbigliamento non risultanti venduti, valorizzati a un certo prezzo medio. La difesa sostiene che parte di quel magazzino in più proveniva da acquisti non ancora registrati al 31/12 (merci arrivate ma fatture ricevute a gennaio) – quindi c’era anomalia contabile ma non necessariamente vendite in nero di pari importo. Fornisce DDT e fatture di acquisto datate a cavallo d’anno per provare che alcune giacenze “in più” erano arrivate regolarmente.
  • Quanto al taccuino delle vendite non fatturate: l’azienda non nega che alcune vendite al dettaglio in nero siano state fatte (difficile negare l’evidenza se il taccuino ha date, importi, ecc.). Ma contesta l’ammontare: la GdF avrebbe sommato tutto come ricavi 2021, mentre alcuni appunti riguardavano magari l’inizio 2022 (c’è da controllare le date). Inoltre, c’erano annotazioni di incassi per vendite che poi sono state fatturate regolarmente (magari vendite registrate con scontrino fiscale, ma la responsabile le appuntava comunque).
  • Si quantifica che, sui €200.000 contestati, €50.000 derivano da vendite effettivamente fatturate (si esibiscono le fatture e si fa corrispondere a voci del taccuino), e €30.000 erano merci arrivate a fine anno (non vendute affatto). I ricavi in nero reali sarebbero sui €120.000.
  • Anche su €120.000, si invoca che la società ha margine lordo del 40%, quindi il profitto occulto sarebbe €48.000, il resto costo. Quindi chiedono di tassare al più quell’utile e l’IVA solo sulla differenza tra vendite e acquisti correlati.
  • Sollevano inoltre il tema del contraddittorio: l’accertamento è arrivato senza un invito formale dopo la chiusura verifica (in realtà c’era il PVC, la società ha presentato memorie? Se non concesse 60 gg, eccepire violazione art.12 c.7 Statuto).
  • Proceduralmente, fanno notare che l’avviso società è stato notificato il 58° giorno dalla chiusura PVC, violando il termine dilatorio dei 60 gg (se vero, nullità).

In parallelo, i soci difendono i loro avvisi affermando che: se l’utile occulto non esiste (o è minore), in ogni caso non è stato distribuito. Poiché la società aveva reinvestito tutto nell’attività (possono mostrare che l’azienda ha acquistato macchinari nel 2022 o pagato debiti, non distribuendo dividendi). Quindi anche applicando la presunzione di ristretta base, i soci portano prova contraria che gli utili extracontabili sono rimasti in azienda (esibiscono conti correnti soci senza movimenti anomali, verbali assembleari di destinazione utili a riserva).

Esito possibile: Il giudice, rilevato che l’AE ha violato il termine di 60 giorni dal PVC per emettere l’avviso, potrebbe annullare l’atto per vizio procedurale – ciò risolverebbe tutto a favore dei contribuenti, se eccepito correttamente (Cass. n.701/2015 ha sancito nullità se emissione avviso prima di 60gg senza urgenza). Qualora invece il giudice entri nel merito:

  • Potrebbe rideterminare i ricavi non dichiarati riconoscendo che una parte era già tassata (accoglie la prova sulle fatture) e che va applicato l’abbattimento costi su quella in nero. Dunque magari riduce la pretesa da 200k a, poniamo, 80k di ricavi netti imponibili.
  • Di riflesso, annulla in toto gli avvisi ai soci (perché se la società non ha utili extra o li ha molto ridotti, e comunque i soci hanno provato di non aver prelevato utili, la presunzione è vinta).

In questo caso si vede come la difesa societaria e quella dei soci sono coordinate: l’obiettivo primario era ridurre l’accertamento a carico della società e annullare quello dei soci tramite prova contraria. Se i giudici sono convinti dalle prove, il risultato è positivo. Se anche rimane qualche utile occulto, i soci potrebbero comunque non essere tassati se si dimostra che rimase in cassa aziendale (con l’impegno di tassarlo quando effettivamente distribuito).

Caso 3: Accertamento sintetico redditi vs. ricavi d’impresa sottodichiarati

Scenario: Il sig. Verdi è un agente di commercio (ditta individuale) che per anni ha dichiarato redditi modesti (~€25k/anno). Nel 2019 acquista una seconda casa al mare per €300.000 in contanti e gira con un’auto Porsche. L’Agenzia avvia un accertamento redditometrico sul 2019 e 2020, sospettando ricavi in nero. Emette un avviso per 2019 rideterminando sinteticamente il reddito in base alla spesa per l’immobile e al tenore di vita (calcolano che serviva reddito di almeno €150k). Contestualmente, usano l’art.32: vedono movimenti sui conti di Verdi, tra cui prelievi di contante per €100k non giustificati. Avviso di accertamento 2019 quindi basato sia su metodo sintetico che su indagini finanziarie, con aumento di reddito di €120k e imposte relative.

Difesa: Il sig. Verdi giustifica così:

  • L’immobile al mare è stato pagato con i risparmi accumulati negli anni precedenti e con un cospicuo assegno regalo del padre. Porta prove: estratti conto degli anni precedenti che mostrano saldo iniziale 2019 di €180k (frutto di risparmi dichiarati) e copia di un atto di donazione paterna di €150k avvenuta nel 2018 (con relativa imposta di donazione assolta).
  • La Porsche è in leasing intestato alla sua società e i canoni dedotti in parte (che erano già nel reddito d’impresa dichiarato).
  • I prelievi di €100k dal conto nel 2019 li ha usati in parte per acquistare criptovalute (fornisce documenti di wallet) e in parte li teneva in cassetta di sicurezza (non può provarlo facilmente, ma sottolinea che prelevare contante non genera reddito di per sé, come da incostituzionalità art.32 per privati).
  • Sottolinea che come agente di commercio ha spese elevate (carburante, rappresentanza) e margini non altissimi, quindi anche se avesse incassato di più, non tutto sarebbe profitto.
  • Fa notare che l’anno 2019 aveva venduto un suo precedente immobile in città ricavando €200k, esenti (prima casa): quello spiega come aveva liquidità per la casa al mare. Alleghiamo rogito di vendita 2019.

Sulla base di ciò, la difesa punta a dimostrare che:

  • Il redditometro non regge perché la spesa patrimoniale viene da fonti non tassabili (donazione, risparmi, disinvestimenti).
  • I movimenti finanziari non evidenziano ricavi occulti ma piuttosto investimenti (criptovalute) e gestione patrimoni personali.

Esito atteso: se le prove sono solide (il rogito della casa venduta, la donazione, ecc.), il giudice potrebbe annullare l’accertamento per mancanza di reale prova di redditi non dichiarati: il contribuente ha spiegato come ha finanziato le spese. Rimarrebbe solo il “sospetto” dei €100k prelevati: ma essendo persona fisica, grazie a Corte Cost. 228/2014, la presunzione sui prelievi non dovrebbe applicarsi (non tutti i giudici lo ricordano, ma va invocato). Quindi quei €100k prelevati non possono da soli giustificare ricavi non dichiarati. L’atto sarebbe verosimilmente annullato in toto.

Questo caso mostra l’importanza di tracciare le fonti finanziarie delle proprie disponibilità: spesso gli accertamenti sintetici cadono se si fornisce un “prospetto fonti/impieghi” convincente che le uscite sono coperte da risorse tassate o esenti.


Ovviamente, i casi pratici possono essere infiniti, ma da questi esempi notiamo come la difesa efficace richieda un mix di:

  • Documentazione concreta (contratti, estratti conto, fatture).
  • Richiamo ai principi di diritto (es. costi forfettari ammessi, esclusione presunzioni illecite).
  • Capacità di narrare una storia alternativa consistente: il contribuente deve fornire al giudice una spiegazione plausibile e dettagliata di perché quei dati non implicano evasione o comunque ne ridimensionano la portata.

Domande frequenti (FAQ)

D1: Ho ricevuto un avviso di accertamento, cosa devo fare per prima cosa?
R: Mantieni la calma e analizza le carte. Verifica innanzitutto la data di notifica (per calcolare i 60 giorni per reagire) e identifica l’anno d’imposta e gli importi contestati. Leggi bene la “motivazione” dell’avviso: spiega perché ti accusano di ricavi non dichiarati (es. per via di indagini bancarie, studi di settore, controllo incrociato fatture, ecc.). Poi, consulta un professionista di fiducia (commercialista o avvocato tributarista) portandogli l’avviso: il tempo è poco e bisogna decidere una strategia. Nei primi 30 giorni valuta se presentare istanza di adesione (così guadagni 90 giorni extra). Nel frattempo, raccogli documenti che possano supportare le tue ragioni (estratti conto, contratti, ricevute). L’errore più comune è ignorare l’atto: se non fai nulla entro 60 giorni, diventa definitivo ed esecutivo. Anche se pensi sia sbagliato, devi attivarti (adesione o ricorso). Un professionista saprà consigliarti se c’è un vizio formale per annullarlo subito o se conviene negoziare.

D2: Posso chiedere una proroga dei 60 giorni per il ricorso?
R: Non c’è una proroga formale, ma hai un paio di strumenti: presentando un’istanza di accertamento con adesione entro 60 giorni, il termine per ricorrere si sospende per 90 giorni. Questo di fatto ti dà più tempo (fino a 150 giorni totali). Anche un’eventuale procedura di mediazione/reclamo “congela” la causa per 90 giorni in mano all’ufficio. Quindi, se hai bisogno di tempo, conviene presentare l’adesione: anche se poi non ti accordi, intanto eviti che i 60 gg scadano. Altrimenti, senza adesione, l’unica proroga automatica è se l’avviso è notificato a cavallo di agosto: dal 1° al 31 agosto i termini sono sospesi (ferie dei termini processuali). Ad esempio, atto notificato il 20 luglio: i 60 gg si interrompono dal 1 al 31/8 e riprendono a contare dal 1° settembre (di solito viene indicato nei fac-simile).

D3: Devo pagare qualcosa intanto che faccio ricorso?
R: L’avviso di accertamento è esecutivo trascorsi 60 giorni. Se presenti ricorso entro i 60 giorni, puoi chiedere al giudice tributario la sospensione dell’esecuzione (se il pagamento immediato ti causerebbe un danno grave e se il ricorso sembra fondato). Il giudice di solito decide sulla sospensiva in 2-3 mesi. Nel frattempo, l’Agente della Riscossione potrebbe iscriverti a ruolo un importo pari al 1/3 delle imposte contestate (a titolo provvisorio), trascorsi 90 giorni dalla notifica. Questo perché per legge l’AE può riscuotere un terzo subito anche in pendenza di giudizio. Nella pratica, se chiedi e ottieni la sospensiva, non dovrai pagare nulla finché la causa è pendente (o quantomeno fino alla sentenza di primo grado). Se non chiedi o non ottieni sospensione, preparati che dopo circa 4-6 mesi dall’avviso potresti ricevere una cartella (o intimazione) per quel 1/3 da pagare subito. In caso di esito negativo in primo grado, dovrai pagare (oltre al primo terzo eventualmente) un ulteriore importo fino a 2/3 del totale. Consiglio: se ritieni di aver ragione, chiedi la sospensiva; se il caso è incerto ma hai liquidità, a volte pagare spontaneamente il terzo iniziale può evitare misure cautelari (es. fermi) e poi te lo fai restituire se vinci.

D4: Come funziona la sospensiva?
R: Nel ricorso tributario, contestualmente o subito dopo il deposito, puoi fare un’istanza di sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato (art. 47 D.Lgs. 546/92). Devi dimostrare due cose: 1) che il ricorso non è pretestuoso ma presenta “fumus boni iuris” (motivi validi, possibilità di vittoria); 2) che l’esecuzione immediata ti arrecherebbe un danno grave e irreparabile, di tipo economico o patrimoniale (es. dovresti chiudere l’attività per pagare, o vendere la casa). Alleghi documenti (dichiarazioni dei redditi, bilanci, ecc. per provare la difficoltà a pagare). Il giudice fisserà un’udienza (o camera di consiglio) entro 30-60 giorni. Se concede la sospensiva, l’atto non sarà eseguito fino alla decisione di merito (o per un periodo definito). Nota: la sospensione può essere totale o parziale. Esempio: se contesti tutto l’importo ma ammetti che almeno una parte è dovuta, il giudice potrebbe sospendere solo l’eccedenza. La sospensiva non cancella il debito, lo congela solamente. Se poi perdi, il debito “sospeso” rivive con interessi.

D5: L’avviso è per IRPEF e IVA. Posso fare unico ricorso per tutto?
R: Sì, se riguardano la stessa annualità e sono nello stesso atto, fai un unico ricorso indirizzato sia alla materia dei tributi erariali che IVA (che tanto è la stessa Commissione/Corte che giudica). Nel processo tributario, un ricorso può contenere più motivi relativi a diversi tributi purché riferiti al medesimo atto. Fai attenzione che dovrai pagare il contributo unificato (CU) per il ricorso in base al valore totale dell’atto (somma delle imposte + sanzioni contestate). Il CU per 60k contestati, ad esempio, è 120€; sale con importi maggiori. Se invece parliamo di più anni di imposta (ad esempio hai avvisi separati per 2018 e 2019), vanno impugnati con ricorsi separati (puoi chiederne la riunione ma formalmente sono distinti).

D6: L’avviso riporta “atto emesso in adesione a PVC Gdf, termine 60 giorni per osservazioni decorso”. Cosa significa?
R: Significa che prima dell’avviso c’è stato un Processo Verbale di Constatazione (PVC), probabilmente della Guardia di Finanza, consegnato ad esempio il 1 marzo. Da quella data avevi per legge 60 giorni per presentare memorie difensive (art.12 c.7 Statuto). L’Agenzia ha aspettato quei 60 giorni (o sostiene di averlo fatto) prima di emanare l’avviso, e lo dichiara nell’atto. Questo è importante perché, se non avessero aspettato, l’atto sarebbe nullo salvo casi di particolare urgenza motivata. Dunque, se leggi quella dicitura, sappi che è l’Agenzia che si tutela dicendo “ho rispettato il contraddittorio endoprocedimentale post-verifica”. Se invece la dicitura non c’è e il tuo avviso scaturisce da un PVC, controlla le date: se l’avviso è stato notificato prima dei 60 giorni dal PVC e l’ufficio non ha motivato un’urgenza, puoi eccepire la nullità per violazione dell’art.12. Spesso però lo scrivono per mostrarsi adempienti. In tal caso, se avevi presentato osservazioni scritte in quei 60 giorni, verifica se l’avviso ne tiene conto o le confuta: in caso negativo, potresti lamentare un vizio di motivazione (il Fisco deve rispondere alle memorie del contribuente).

D7: Posso definire l’accertamento dopo aver presentato ricorso (cioè durante il processo)?
R: Sì, hai ancora la chance della conciliazione giudiziale. In primo grado, fino all’udienza (o anche in udienza) puoi trovare un accordo con l’ufficio legale dell’Agenzia: firmate un verbale di conciliazione che di solito prevede il pagamento di un importo ridotto rispetto al contestato (un compromesso). Le sanzioni in conciliazione sono ridotte al 40% del minimo (simile all’adesione). Se concili in appello, sanzioni al 50%. C’è anche la “conciliazione su proposta del giudice” (novità 2023) per le liti medie, ma in sostanza sempre di accordo si tratta. Dunque, se dopo aver presentato ricorso pensi di chiudere per evitare l’incertezza, contatta l’ufficio legale: sono generalmente disponibili a valutare. Attenzione: se conciliate, la controversia si estingue e paghi quanto accordato (rateizzabile in 8 o 16 rate come l’adesione). Se hai già versato un terzo in pendenza, quello conta ovviamente. Diciamo che è un’adesione “tardiva” in sede processuale. Inoltre, va ricordato che periodicamente escono norme di definizione agevolata delle liti pendenti: ad esempio nel 2023 c’è stata la possibilità di chiudere le cause tributarie in Cassazione pagando il 5% se avevi vinto in secondo grado, ecc. È sempre bene informarsi se il tuo caso rientra in qualche sanatoria, perché potresti risparmiare parecchio.

D8: Se perdo la causa tributaria, posso essere condannato penalmente?
R: La causa tributaria in sé non influisce direttamente sul penale, ma i fatti accertati sì. Se l’evasione accertata supera soglie di reato, l’Agenzia delle Entrate/Guardia di Finanza trasmettono una notizia di reato alla Procura. Questo di solito avviene già durante la verifica, non aspettano l’esito del contenzioso. In concreto: se la pretesa fiscale definitiva (dopo giudizi) indica che hai evaso oltre soglia, la Procura quasi certamente ti contesterà il reato di dichiarazione infedele (o omessa). Tuttavia, nel penale puoi difenderti separatamente, magari sostenendo che non avevi dolo o che le cifre sono diverse. Ci sono stati casi di contribuenti assolti penalmente pur avendo perso in Commissione e pagato, ma non è la norma. Viceversa, se vinci la causa tributaria (accertamento annullato) e il reato riguardava proprio quei fatti, è molto probabile che il procedimento penale venga archiviato o si concluda con assoluzione, perché manca l’evasione. Comunque, se sei in questa situazione, devi coordinare avvocato tributarista e avvocato penalista per decidere come agire (ad es. a volte nel penale conviene aspettare l’esito del tributario). Ricorda anche che pagare completamente il dovuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento penale estingue alcuni reati tributari (causa di non punibilità introdotta nel 2019). Quindi può darsi che anche se hai torto, pagando eviti il penale.

D9: Dopo quanto tempo si prescrive un avviso di accertamento?
R: Se intendi dire il potere di notificarlo, come detto ci sono i termini di decadenza (5 o 7 anni). Se invece parli della riscossione una volta divenuto definitivo, quella è un’altra storia: il debito tributario una volta definitivo segue la prescrizione ordinaria (10 anni salvo atti interruttivi) o termini specifici per tributo. Ma atti interruttivi (cartelle, intimazioni) possono prolungare. In pratica, se non paghi e l’atto è definitivo, l’Ente di riscossione ti perseguiterà con atti esecutivi. Se passa tantissimo tempo (anni) senza atti, si può eccepire prescrizione, ma di solito non lasciano passare così tanto. Nel dubbio, meglio gestire la posizione prima (rate, saldo, o procedure concorsuali se sei in fallimento).

D10: Ho già avuto altri avvisi in anni precedenti sullo stesso tema e li ho vinti. Posso usarli a mio favore?
R: Sì, è il concetto di giudicato esterno. Se per esempio la Commissione in passato ti ha annullato un accertamento per ricavi in nero per l’anno 2018 ritenendo che i metodi usati dal Fisco fossero errati, e ora per il 2019 l’ufficio ripropone la stessa contestazione, puoi eccepire che c’è un precedente giudicato tra le stesse parti sulla stessa materia, vincolante se le circostanze sono identiche. La Cassazione riconosce efficacia al giudicato esterno anche tra annualità diverse, specie in tributi periodici, purché la questione di fatto e di diritto sia la medesima (Cass. 25014/2019 ad es.). Quindi nel ricorso scrivi “la CTP/CTR con sentenza n… passata in giudicato ha affermato che la presunzione tal dei tali non è applicabile al mio caso; l’ufficio sta violando il giudicato riproponendola uguale”. Attenzione: se però i fatti non sono sovrapponibili, il giudice potrebbe dire che quell’anno era diverso. In ogni caso, citare sentenze pregresse a tuo favore è sempre utile, se definitive. Allegale. Potrebbero convincere il nuovo collegio, anche solo come precedente persuasivo.

D11: Se l’Agenzia delle Entrate in sede di adesione mi propone un accordo, ammettere parzialmente l’evasione può danneggiarmi dopo?
R: La fase di adesione è riservata e coperta da segreto d’ufficio: le dichiarazioni che fai lì non possono essere usate contro di te in giudizio se l’accordo salta. Così almeno dispone la norma. Quindi, ad esempio, se in adesione riconosci “ok ho fatto 50k in nero, ma non 100k”, e poi non trovi accordo, non è che in processo l’ufficio può dire “lo ha ammesso lui che erano almeno 50k”. Ufficialmente quello che succede in adesione rimane lì. Nel penale, teoricamente, quanto discusso in adesione non dovrebbe trapelare (sono coperti dal segreto i verbalini di adesione). Quindi direi: cerca di essere franco in adesione per ottenere il miglior risultato, senza paura eccessiva. L’ufficio sa bene che ciò che viene detto in sede adesione è per trovare un’intesa, non una confessione giuridicamente rilevante. Diverso se firmi l’accordo: quello sì, perché a quel punto quell’adesione è un atto definitivo che chiude il discorso tributario (e semmai rimane questione penale, potrà emergere l’adesione come pagamento del dovuto, spesso estintivo del reato minore).

D12: Le sanzioni applicate mi sembrano altissime, posso farle ridurre?
R: Come spiegato, hai diverse possibilità di riduzione:

  • Definizioni agevolate: acquiescenza o adesione (sanzioni ridotte a 1/3), mediazione (1/3), conciliazione (40% in primo grado).
  • In giudizio: puoi chiedere al giudice di ridurle al minimo se l’ufficio avesse applicato una percentuale più alta (talvolta per infedele dichiarazione partono dal 120% ad esempio). Il giudice non può scendere sotto il minimo legale, ma può metterle al minimo se ci sono circostanze attenuanti del caso.
  • Casi particolari: se dimostri “non colpevolezza” (es. errore scusabile, obiettiva incertezza normativa), il giudice può annullarle del tutto (art. 6 co.2 D.Lgs. 472/97) – però in materia di ricavi non dichiarati è difficile invocare incertezza normativa, a meno di situazioni limite.
  • Prescrizione sanzioni: attenzione, le sanzioni tributarie si prescrivono in 5 anni dall’accertamento divenuto definitivo se non riscosse; però se sei in questa fase significa che l’accertamento è fresco.

In soldoni, concentrati più a ridurre la base imponibile. Le sanzioni andranno di conseguenza. E se definisci con un accordo o acquiescenza, beneficerai dello sconto.

D13: Una volta chiuso il caso (pagato o vinto il ricorso), avrò controlli a catena ogni anno?
R: Non è automatico, ma può succedere che se ti hanno beccato evasione, ti tengano d’occhio. Soprattutto se hai adeso ammettendo ricavi in nero, potrebbero controllare anche altri anni (se ancora accertabili) o monitorare le tue dichiarazioni future. Se invece hai vinto in giudizio dimostrando che avevano torto, probabilmente sposteranno risorse altrove, a meno che non emergano elementi nuovi. Non esiste una “lista nera” ufficiale, ma certamente l’Anagrafe tributaria tiene traccia degli evasioni accertate. Un consiglio: dopo un’esperienza simile, conviene mantenere la contabilità regolare al 100% negli anni successivi, per non dare appigli. In alcuni casi, è possibile chiedere all’Agenzia un contratto di compliance (soprattutto aziende più grandi possono aderire a regime di adempimento collaborativo) per avere meno controlli, ma per piccole imprese non si applica. In generale, se hai chiuso un accertamento, cerca di evitare di ricadere negli stessi errori: la recidiva peggiora la posizione in eventuali futuri controlli (anche perché possono applicare sanzioni aggravate se c’è condotta ripetuta).

D14: Posso rivalermi sul mio commercialista se vengo accertato?
R: Dipende. Se l’evasione era volontaria (ricavi in nero non dichiarati), ovviamente no: il professionista dichiara quello che tu gli dici, non c’entra se hai nascosto incassi. Se invece l’accertamento deriva da errori tecnici del commercialista (es. non ha dedotto costi che poteva e quindi hai avuto reddito tassato in più, o ti ha fatto sbagliare aliquote), potresti valutare un’azione di responsabilità professionale. Ma nel caso dei ricavi non dichiarati, è quasi sempre una scelta/imprudenza del contribuente, non del consulente. Il commercialista potrebbe semmai aiutarti a difenderti, avendo il quadro della tua contabilità. Ci sono situazioni in cui l’errore è del consulente (es. non ha inviato la dichiarazione IVA e tu pensavi di essere a posto – allora l’accertamento per omessa dichiarazione è colpa sua): in tal caso sì, potresti chiedere i danni a lui (che avrà una polizza RC professionale). Tuttavia, dal punto di vista del Fisco, il debitore resti tu e devi pagare tu eventualmente, poi casomai ti fai risarcire. Bisogna dimostrare la colpa grave del professionista, non semplice inadempimento lieve.

D15: In sede penale, l’adesione o l’acquiescenza possono essere usate contro di me come “ammissione”?
R: L’adesione comporta il riconoscimento di un maggior imponibile, ma giuridicamente non è un’ammissione di reato; tuttavia è un fatto: hai accettato di pagare tasse che prima non avevi dichiarato. Nel penale tributario, il pagamento integrale del debito tributario (anche mediante adesione) prima del dibattimento estingue i reati di omessa o infedele dichiarazione. Quindi paradossalmente ti mette al sicuro (art. 13 D.Lgs. 74/2000). Se paghi tutto il dovuto con sanzioni prima che inizi il processo penale, il giudice penale deve dichiarare il non luogo a procedere per extinzione del reato. Quindi l’adesione può salvarti. Se invece parliamo di reati non estinguibili col pagamento (tipo frode fiscale), l’adesione no, ma sono casi meno comuni per ricavi in nero semplici. L’acquiescenza idem. In generale, la linea è: meglio regolarizzare in sede tributaria se hai uno strascico penale, perché nella maggior parte dei casi ti avvantaggia enormemente (o estingue il reato o è una fortissima attenuante). Ovviamente, valuta col tuo legale i tempi e modi (a volte conviene farlo immediatamente, a volte aspettare che la Procura faccia richiesta di rinvio a giudizio per poi presentare l’avvenuto pagamento… tecnicismi). Ma la conclusione è: per la legge italiana, ravvedersi e pagare è incentivato, anche penalmente.


Queste FAQ coprono molti dubbi comuni. Se hai ulteriori domande sul tuo caso specifico, considera di rivolgerti a un esperto, poiché in materia tributaria ogni dettaglio conta e le risposte generali potrebbero non cogliere sfumature decisive nel tuo caso.

Conclusione

Difendersi da un avviso di accertamento per ricavi non dichiarati è un percorso impegnativo, che richiede conoscenza della legge, analisi attenta dei fatti e prontezza nell’agire. Abbiamo visto come:

  • Sia essenziale controllare da subito i vizi formali (termini, motivazione, firma, contraddittorio) che possono far cadere l’atto.
  • Sul merito, occorre smontare le presunzioni dell’ufficio con controprove ben documentate, sfruttando i più recenti orientamenti che tutelano il contribuente (onere della prova a carico del Fisco, diritto a costi presunti, ecc.).
  • Gli strumenti deflativi (adesione, mediazione, conciliazione) offrono vie d’uscita spesso convenienti, ed è bene valutarli seriamente per contenere danni e incertezza.
  • La giurisprudenza aggiornata – Corte Costituzionale, Cassazione – ha introdotto principi di equità importanti (es. costi da dedurre anche su ricavi in nero, illegittimità di pretese basate solo su mancato contraddittorio in IVA, limitazioni alla presunzione sui prelevamenti, etc.). Questi vanno sempre richiamati nella difesa, perché i giudici tributari di merito potrebbero non esserne pienamente al corrente se l’avvocato non li segnala.

In conclusione, il punto di vista del debitore (del contribuente) dev’essere portato all’attenzione dell’Amministrazione e del Giudice con una ricostruzione alternativa credibile e supportata. L’onestà e la trasparenza possono persino portare a soluzioni transattive: riconoscere eventuali errori ma ridimensionarli. Viceversa, negare l’evidenza di fronte a prove schiaccianti raramente paga.

Ricorda sempre che hai dei diritti: diritto a essere ascoltato, diritto a una motivazione chiara, diritto a non subire doppia tassazione, diritto a un giudice indipendente. E hai anche doveri: tenere le scritture regolari, presentare dichiarazioni complete e veritiere, conservare documenti. Se qualche dovere è venuto meno (volontariamente o per negligenza) causando l’accertamento, la legge ti permette comunque di difenderti, ma in prospettiva futura occorre imparare la lezione e adeguare i comportamenti per evitare di trovarsi di nuovo in questa situazione.

Affrontare un accertamento è stressante, ma con l’aiuto giusto e un atteggiamento proattivo, è possibile uscirne limitando le conseguenze o addirittura annullandole, quando l’Erario ha torto. Ogni euro speso in una buona consulenza o per regolarizzare subito può far risparmiare molto di più in sanzioni e interessi.

Questa guida ha cercato di fornire un quadro il più completo e aggiornato possibile (luglio 2025) sul tema. Nel frattempo, il diritto tributario continua a evolversi: nuovi decreti attuativi della delega fiscale 2023 potrebbero introdurre ulteriori novità (ad esempio in tema di autotutela, di conciliazione d’ufficio ampliata, ecc.). Sarà importante mantenersi informati.

In appendice, si fornisce un elenco delle fonti normative e giurisprudenziali citate, per chi volesse approfondire direttamente dai testi ufficiali.

Nota: Questa guida ha finalità informative generali e non sostituisce il parere legale. Ogni caso concreto andrebbe sottoposto a un professionista qualificato per una valutazione puntuale.

Fonti

  • DPR 600/1973, art. 39 (metodi accertamento redditi) e art. 42 (forma avviso).
  • DPR 633/1972, art. 54-55 (accertamento IVA) e art. 57 (decadenza IVA).
  • L. 212/2000 (Statuto diritti contribuente), art. 7 (obbligo motivazione atti), art. 12 c.7 (termine 60 gg post-PVC).
  • D.Lgs. 218/1997 (adesione e acquiescenza): riduzione sanzioni a 1/3.
  • D.Lgs. 546/1992 (processo tributario), art. 7 c.4 (prova testimoniale ammessa dal 2022), art. 7 c.5-bis (onere prova a carico ufficio), art. 17-bis (reclamo/mediazione < €50k), art. 47 (sospensiva).
  • D.Lgs. 471/1997, art. 1 c.2 (sanzione 90-180% infedele), art. 5 (omessa dichiarazione 120-240%).
  • Corte Costituzionale n. 228/2014 – Illegittimità presunzione su prelevamenti bancari per soggetti non obbligati a contabilità.
  • Corte Costituzionale n. 10/2023 – Legittimità presunzioni da indagini finanziarie con condizione del diritto alla prova contraria anche presuntiva (costi correlati).
  • Corte Costituzionale n. 47/2023 – Principio del contraddittorio endoprocedimentale (ribadisce importanza ma non introduce obbligo generalizzato).
  • Cass. Sez. Unite n. 24823/2015 – Contraddittorio: obbligo solo per tributi UE, per altri no (salvo art.12 Statuto).
  • Cass. Sez. Unite nn. 26635-26636/2009 – Studi di settore: valore di presunzioni semplici, necessaria considerazione caso concreto.
  • Cass. (Sez. Trib.) n. 14200/2000 – Avviso come provocatio ad opponendum: sufficiente motivazione che permetta difesa efficace.
  • Cass. (Sez. Trib.) n. 15337/2024 – Presunzione legale versamenti bancari può essere vinta con prova analitica dell’estraneità di ciascuna operazione.
  • Cass. (Sez. Trib.) n. 5586/2023 e 6874/2023 – Confermano post Consulta 10/2023: riconoscimento costi presunti anche in analitico-induttivo.
  • Cass. (Sez. Trib.) n. 2344/2024 – Ufficio deve determinare induttivamente anche i costi corrispondenti ai ricavi occulti; se non lo fa, ci deve pensare il giudice.
  • Cass. (Sez. Trib.) n. 19574/2025 – Principio di diritto: imprenditore può sempre eccepire una percentuale forfettaria di costi da dedurre dai ricavi accertati induttivamente.
  • Cass. (Sez. Trib.) n. 30827/2024 – Legittimo ricostruire ricavi con mark-up di settore in accertamento induttivo puro, imprese omogenee, salvo prova contraria contribuente.
  • Cass. (Sez. Trib.) n. 6098/2023 – Necessità del contraddittorio endoprocedimentale in ambito accertamento, in linea con principi CEDU (non totale automatismo nullità, ma sensibilizzazione).
  • Cass. (Sez. Trib.) n. 30598/2024 – Presunzione utili extracontabili ai soci di società a ristretta base legittima, ma contribuente può provare che utili non distribuiti ma reinvestiti.
  • Circ. Ag. Entrate n. 19/E 2012 – (sulle presunzioni finanziarie post Cass. SU 26635/09 e post Corte Cost. 228/2014).

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