Vendita Ditta Individuale Con Debiti: Come Si Fa

Vuoi vendere la tua ditta individuale ma hai ancora debiti e non sai come procedere?
La vendita di un’attività con debiti è possibile, ma richiede attenzione, perché non basta trasferire i beni o il ramo d’azienda per liberarsi dalle obbligazioni. Esistono norme precise che disciplinano il passaggio e la responsabilità verso i creditori, e conoscerle è fondamentale per evitare brutte sorprese dopo la cessione.

Cosa significa vendere una ditta individuale con debiti
– Può riguardare la cessione dell’intera azienda, di un ramo o solo di alcuni beni strumentali
– I debiti restano in capo all’imprenditore cedente, salvo accordi specifici con i creditori o con l’acquirente
– In alcuni casi, l’acquirente può essere chiamato a rispondere in solido dei debiti legati all’attività, specie se si tratta di debiti fiscali o contributivi
– La vendita non interrompe automaticamente eventuali procedure esecutive già avviate

Cosa dice la legge sulla responsabilità per i debiti
– L’art. 2560 c.c. prevede che, nella cessione di un’azienda, l’acquirente risponde anche dei debiti risultanti dai libri contabili obbligatori
– Per i debiti fiscali e previdenziali, l’Agenzia delle Entrate e gli enti previdenziali possono chiedere il pagamento all’acquirente in caso di cessione senza liberatoria
– Per evitare responsabilità, è importante richiedere il certificato dei carichi pendenti e il DURC prima della vendita

Come vendere una ditta individuale con debiti
– Valutare se vendere l’azienda intera o solo beni e attrezzature, per limitare i rischi di responsabilità solidale
– Stipulare un contratto di cessione dettagliato, con clausole chiare sulla gestione dei debiti pregressi
– Richiedere ai creditori una liberatoria o un accordo di accollo del debito da parte dell’acquirente
– Valutare soluzioni alternative come il saldo e stralcio o la ristrutturazione del debito prima della vendita
– Farsi assistere da un avvocato esperto in diritto commerciale e tributario per tutelarsi in tutte le fasi

Cosa può ottenere un venditore ben assistito
– Limitare o azzerare la responsabilità per i debiti successivamente alla cessione
– Evitare che l’acquirente possa rivalersi su di lui per somme non dichiarate
– Vendere più velocemente grazie a una documentazione chiara e trasparente
– Liberare liquidità per chiudere eventuali debiti residui
– Ridurre il rischio di cause legali dopo la vendita

Attenzione: vendere una ditta individuale con debiti senza un’adeguata tutela legale può lasciare il cedente esposto a richieste di pagamento anche molti anni dopo. È essenziale predisporre un’operazione strutturata, con un’analisi completa della situazione debitoria e contrattuale.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto commerciale, crisi d’impresa e difesa del patrimonio – ti spiega come vendere una ditta individuale con debiti, proteggendoti da responsabilità future e concludendo l’operazione in sicurezza.

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Introduzione

La vendita di una ditta individuale – intesa come cessione dell’azienda dell’imprenditore individuale ai sensi dell’art. 2555 c.c. – pone questioni delicate sul destino dei debiti collegati a tale attività. Quando un imprenditore individuale decide di vendere (o trasferire in altro modo) la propria azienda, bisogna stabilire quali obbligazioni rimangono a suo carico e quali, invece, potranno gravare sul cessionario (acquirente). Questo tema coinvolge molteplici categorie di debiti (commerciali verso fornitori e banche, fiscali, previdenziali, debiti verso dipendenti, ecc.) e una pluralità di normative: dal Codice Civile (artt. 2558–2560 c.c. per il trasferimento di azienda) alle disposizioni speciali in materia tributaria (D.Lgs. 472/1997), previdenziale (INPS, INAIL) e di diritto del lavoro (art. 2112 c.c. per la tutela dei lavoratori). Inoltre, non va trascurato il profilo penale: un trasferimento d’azienda effettuato con intento fraudolento (ad esempio per sottrarre beni alle pretese dei creditori o del Fisco) può integrare estremi di reato (si pensi alla sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex art. 11 D.lgs. 74/2000, o alla bancarotta fraudolenta in caso di fallimento).

Scopo di questa guida – aggiornata a luglio 2025 – è fornire un’analisi approfondita di come si effettua la vendita di una ditta individuale gravata da debiti, evidenziando le soluzioni giuridiche disponibili, i rischi e le precauzioni. Adotteremo un linguaggio tecnico-giuridico ma divulgativo, rivolto sia a professionisti legali (che necessitano riferimenti normativi e giurisprudenziali) sia a imprenditori e privati (interessati agli effetti pratici e alle procedure da seguire). Verranno presentati esempi concreti e tabelle riepilogative per distinguere chiaramente, a seconda della tipologia di debito e delle circostanze della cessione, se e quando l’obbligazione “segue” l’azienda ceduta. Una sezione di FAQ risponderà alle domande più frequenti. Infine, tutte le fonti normative (Codice Civile, leggi speciali) e i precedenti giurisprudenziali citati saranno elencati in fondo, nella sezione Riferimenti, per consentire ulteriori approfondimenti.

Nota sul “punto di vista del debitore”: in tutta la trattazione si terrà conto della prospettiva del venditore indebitato (il cedente). Quando un imprenditore individuale con debiti vende la propria attività, il suo obiettivo è spesso liberarsi del peso dei debiti o comunque evitare conseguenze pregiudizievoli. Vedremo in che misura ciò sia possibile (o meno) e quali accorgimenti il debitore-venditore può adottare per tutelarsi, fermo restando il rispetto della legge e i diritti dei creditori.

Disciplina generale: l’art. 2560 c.c. e la responsabilità per i debiti aziendali

Il principio cardine in tema di cessione d’azienda si trova nell’art. 2560 c.c. (“Debiti relativi all’azienda ceduta”). Tale norma prevede due regole fondamentali in caso di trasferimento d’azienda a titolo particolare (vendita, donazione, conferimento, etc.):

  • Continua responsabilità del venditore (cedente): chi cede l’azienda non è liberato dai debiti inerenti all’esercizio della stessa anteriori alla cessione, salvo che i creditori acconsentano espressamente alla sua liberazione. In altri termini, il cedente rimane obbligato per i debiti pregressi dell’azienda, a meno che non ottenga da ciascun creditore il consenso a liberarlo. Nella prassi, tale consenso è raro (i creditori preferiscono mantenere obbligato anche il venditore, che magari offre più garanzie patrimoniali di un acquirente nuovo). Dunque, vendere l’azienda non cancella di per sé i debiti del venditore, che continua ad esserne responsabile con il proprio patrimonio presente e futuro.
  • Responsabilità anche dell’acquirente (cessionario) per i debiti anteriori, se contabilizzati: se si tratta di un’azienda commerciale, l’acquirente risponde in solido con il cedente dei debiti relativi all’azienda ceduta anteriori al trasferimento purché tali debiti risultino dai libri contabili obbligatori del cedente. Questa previsione (art. 2560 c.c., comma 2) introduce quindi una sorta di co-obbligazione ex lege a carico del compratore per i debiti dell’azienda ceduta, con funzione di tutela dei creditori. I creditori dell’azienda, vedendo il patrimonio aziendale passare a un nuovo soggetto, ottengono per legge un nuovo debitore (il cessionario) su cui far valere i propri crediti pregressi – ma solo per i debiti formalmente risultanti dalla contabilità obbligatoria. Il venditore, comunque, resta obbligato insieme all’acquirente (salvo patto liberatorio con consenso dei creditori, come detto). Di fatto, il cessionario diventa un co-obbligato solidale, e se paga potrà poi rivalersi sul cedente, ma i creditori possono agire anche direttamente contro di lui entro i limiti di legge.

Natura dei debiti coperti – “debiti puri” vs obbligazioni contrattuali in corso: La regola dell’art. 2560 c.c., comma 2 si riferisce ai debiti inerenti all’esercizio dell’azienda, ovvero alle obbligazioni già mature a carico dell’imprenditore per la gestione aziendale (es. un debito verso fornitore per merce consegnata, un finanziamento bancario utilizzato, canoni arretrati, ecc.). Diverso è il caso delle obbligazioni derivanti da contratti non ancora completamente eseguiti: qui interviene l’art. 2558 c.c. sul subentro nei contratti aziendali. In base a tale norma, con la cessione dell’azienda il compratore subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda che non abbiano carattere personale, salvo che il contratto escluda la cedibilità. Il cessionario si assume così tutti i rapporti pendenti di quei contratti, sia dal lato dei crediti che dei debiti. Ad esempio, se al momento della vendita sono in corso contratti di fornitura o appalti non completamente eseguiti, l’acquirente subentrerà e dovrà pagare le forniture già ricevute e future, potendo dall’altra parte esigere le prestazioni ancora dovute dai terzi. Queste obbligazioni “in corso” seguono la disciplina del subentro nei contratti (art. 2558 c.c.) e non la regola di cui all’art. 2560 c.c.. Invece, i “meri debiti” già definiti nel loro fatto generatore (prestazione del terzo già eseguita) ma impagati rientrano nell’art. 2560 c.c. e possono quindi gravare anche sull’acquirente. La distinzione è importante: se, ad esempio, un fornitore ha consegnato beni prima della cessione (prestazione eseguita) e vanta un credito scaduto, quello è un debito “puro” che ricade nella previsione di solidarietà ex art. 2560. Se invece la consegna non è ancora avvenuta o il contratto è in corso d’esecuzione bilaterale, l’acquirente subentrerà nel contratto e pagherà a suo tempo, ma secondo art. 2558 (non come debito pregresso, bensì come parte dell’esecuzione contrattuale trasferita).

Condizione dell’annotazione nei libri contabili: Il comma 2 dell’art. 2560 c.c. richiede espressamente, quale condizione per la responsabilità del cessionario, che i debiti anteriori risultino dai libri contabili obbligatori del cedente (registro giornale, libro degli inventari, ecc., ex art. 2214 c.c.). La giurisprudenza ha interpretato tale requisito in modo molto rigoroso: è un presupposto essenziale e insostituibile perché scatti la responsabilità solidale dell’acquirente. Ciò comporta alcuni principi fondamentali:

  • La mera conoscenza da parte dell’acquirente dell’esistenza di un debito non basta: se quel debito non risulta formalmente annotato nelle scritture contabili obbligatorie, il compratore non ne risponde ex art. 2560. Non rileva la buona o mala fede soggettiva del compratore né se egli fosse a conoscenza “informale” del debito: conta solo l’elemento oggettivo della regolare registrazione a bilancio. La Cassazione ha ribadito con forza questo principio (ad es. Cass. 14020/2025) sottolineando che l’iscrizione del debito in contabilità è elemento costitutivo della responsabilità dell’acquirente, mentre va esclusa ogni responsabilità per debiti conosciuti aliunde (in altro modo) data la natura eccezionale della norma.
  • Per “libri contabili obbligatori” si intendono soltanto quelli previsti dall’art. 2214 c.c. (registro giornaliero e libro inventari, principalmente). Non possono supplire altri documenti aziendali (es. registri IVA, fatture, ecc.) né prove testimoniali: se un debito risulta da fatture o registri IVA ma non è stato riportato nelle scritture contabili generali, esso non attiva la responsabilità del cessionario.
  • Se l’azienda ceduta non aveva una contabilità ordinaria tenuta (es. perché era impresa in contabilità semplificata esonerata dagli obblighi, tipico per molte ditte individuali minori, o in caso di mancanza/distruzione dei libri), la condizione legale non può essere soddisfatta. In tali casi il cessionario non risponde dei debiti anteriori, poiché manca il presupposto richiesto dalla legge. Il creditore in teoria potrebbe tentare di provare in giudizio l’esistenza del debito con altri mezzi, ma la giurisprudenza nega qualunque “equipollente” alla formale iscrizione a libro, trattandosi di norma di stretta interpretazione. (Ad esempio, Cass. civ. 12984/2016 ha escluso la responsabilità dell’acquirente di un’azienda ceduta da un’impresa minore esonerata dalla contabilità ordinaria, poiché mancava la scritturazione formale del debito).
  • L’onere della prova dell’annotazione grava sul creditore che voglia chiamare in causa l’acquirente. Sarà quindi il creditore a dover dimostrare che il suo credito verso il cedente era regolarmente risultante dai libri contabili di quest’ultimo. Questa prova può essere ardua, perché i libri contabili non sono pubblici né facilmente accessibili ai terzi; il creditore potrebbe chiedere al giudice un ordine di esibizione, ma il cessionario potrebbe opporsi, e comunque liste di debiti inserite nel contratto di cessione tra cedente e cessionario non fanno fede verso i creditori terzi. In pratica, ciò rende spesso difficile per i creditori sfruttare davvero la responsabilità del compratore, specie se il venditore “sparisce” dopo la cessione. La tutela offerta da art. 2560 c.c. al creditore è quindi reale solo se il debito era regolarmente contabilizzato e se il creditore riesce a provarlo.
  • Eventuali pattuizioni contrattuali tra venditore e acquirente sulla ripartizione dei debiti non vincolano i creditori. Ad esempio, se nel contratto di vendita le parti convengono che “tutti i debiti restano in capo al cedente” oppure, al contrario, che “il cessionario si accolla alcuni debiti specifici”, tali clausole hanno effetto solo interno tra le parti. Esse non possono escludere la responsabilità che la legge comunque pone a carico dell’acquirente, né creare obblighi verso i creditori senza il consenso di questi ultimi. Dunque, un creditore potrà agire contro l’acquirente per un debito iscritto a libro anche se le parti avevano convenuto diversamente; in tal caso l’acquirente che si trova a pagare potrà poi rivalersi sul venditore invocando la violazione delle garanzie contrattuali, ma ciò è un problema loro interno. Viceversa, se un debito non era nei libri e per legge l’acquirente non ne risponde, non basta che nel contratto l’acquirente “si dichiari disponibile” ad accollarselo: senza consenso del creditore, questo patto non gli dà titolo per pretendere nulla dal compratore. Al massimo, quel patto configura un accollo interno: il venditore resta obbligato verso il creditore, ma il compratore si impegna col venditore a pagare quel debito, liberandolo. Solo se il creditore aderisce all’accollo si libera il venditore (accollo liberatorio ex art. 1273 c.c.); altrimenti è un accollo cumulativo, e il creditore può ancora esigere dal venditore, il quale poi chiederà al compratore di adempiere.

Finalità della norma e possibili abusi: Il meccanismo dell’art. 2560 c.c. bilancia due esigenze: da un lato tutelare l’acquirente da passività occulte non contabilizzate; dall’altro proteggere i creditori dell’azienda ceduta, che vedono il patrimonio di riferimento trasferirsi e quindi devono poter contare su un nuovo soggetto obbligato. La giurisprudenza tradizionale ha privilegiato la posizione dell’acquirente, richiedendo la rigorosa iscrizione a libro come condizione inderogabile, così da assicurare certezza nei traffici e sicurezza a chi acquista un’azienda. Tuttavia, questa impostazione può prestarsi ad abusi: un imprenditore cedente disonesto potrebbe deliberatamente omettere di iscrivere un debito nei libri prima di vendere l’azienda, allo scopo di sottrarlo alla responsabilità del cessionario e quindi rendere più difficile al creditore il recupero. Ad esempio, un imprenditore con un grosso debito verso un fornitore potrebbe cedere l’azienda a una società compiacente (magari intestata a un prestanome), assicurandosi di non aver contabilizzato quel debito; così il creditore, pur vedendo l’azienda proseguire la sua attività in mano al nuovo soggetto, non potrà aggredire i beni aziendali presso l’acquirente secondo l’art. 2560 c.c., e rimarrà a rivalersi solo sul venditore, che però potrebbe essere nel frattempo divenuto insolvente (un “guscio vuoto”).

Per scoraggiare tali abusi, l’ordinamento offre ai creditori alcuni rimedi: ad esempio, il creditore frodato potrà esperire l’azione revocatoria (art. 2901 c.c.) sull’atto di cessione d’azienda, dimostrando che esso ha arrecato pregiudizio alle sue ragioni ed era noto al debitore e al terzo acquirente; in caso di esito positivo, la cessione è dichiarata inefficace verso quel creditore, che potrà quindi aggredire i beni ceduti come se fossero ancora del venditore. Se interviene un fallimento del venditore, il curatore potrà agire con la revocatoria fallimentare (artt. 164 e segg. Codice della Crisi, già art. 67 l.fall.) per far dichiarare inefficace la vendita avvenuta in periodo sospetto (ad es. cessione a titolo oneroso a prezzo sproporzionato nell’anno antecedente il fallimento) e recuperare valore nell’attivo fallimentare. Inoltre, manovre dolose di questo tipo possono dar luogo a responsabilità penale: la cessione d’azienda fatta per frodare i creditori sociali può costituire bancarotta fraudolenta patrimoniale, mentre quella fatta per sottrarsi al pagamento di imposte può configurare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. In sintesi, vendere la propria ditta individuale non è un modo lecito per “far sparire i debiti”: i debiti ti seguiranno comunque (salvo procedure concorsuali, come vedremo), e tentativi di liberarsene con trucchi saranno vani o addirittura pericolosi.

Massima recente: la Cassazione continua a ribadire questi principi. Ad esempio, con sentenza n. 14020 del 26 maggio 2025, la Suprema Corte ha confermato che solo i debiti che risultano dai libri contabili obbligatori possono far scattare la responsabilità solidale dell’acquirente, escludendo invece ogni obbligo a carico del cessionario per debiti non scritti a bilancio, pur se da lui conosciuti in altro modo. La natura eccezionale dell’art. 2560 c.c. impone infatti stretta aderenza al suo dettato. Questo orientamento consolidato offre certezza agli acquirenti, ma conferma anche che il venditore rimane l’obbligato principale verso i creditori insoddisfatti (specie se i debiti non erano in contabilità).

Debiti tributari: responsabilità del cessionario ex art. 14 D.Lgs. 472/1997

In materia fiscale vige una normativa speciale che deroga al principio generale civilistico sopra esposto. Il riferimento è all’art. 14 del D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, il quale prevede una responsabilità solidale del cessionario per alcuni debiti tributari del cedente, entro limiti definiti di tempo e di importo. Questa disciplina, sebbene collocata tecnicamente nel contesto delle sanzioni amministrative tributarie, è interpretata come applicabile a tutte le obbligazioni per tributi (oltre che sanzioni) dovute dall’alienante. In sostanza, è un meccanismo creato per tutelare l’Erario quando un’azienda indebitata con il fisco viene trasferita.

Ambito temporale: il cessionario risponde in solido col cedente dei debiti per imposte e sanzioni relative a violazioni tributarie commesse nell’anno in cui avviene la cessione e nei due anni antecedenti, nonché dei debiti già accertati o contestati in detto arco temporale, anche se riferiti a periodi d’imposta più risalenti. In altre parole, l’acquirente si fa carico dei debiti fiscali maturati negli ultimi tre anni di attività del cedente (anno corrente + due precedenti), includendo sia imposte non versate sia eventuali multe e cartelle esattoriali, purché il relativo illecito tributario sia già stato commesso entro la data del trasferimento. Violazioni più datate non fanno scattare responsabilità, a meno che l’Amministrazione le avesse già formalmente contestate nel triennio (es. con notifica di avviso di accertamento, PVC, ecc.). Ad esempio, se un imprenditore cede l’azienda nel 2025, i debiti per IVA o imposte 2023-2025 ricadono nella responsabilità del cessionario; un’evasione IRPEF del 2019, non contestata prima del 2025, invece resta a carico solo del cedente (salvo emerga come “debito occulto” in contabilità, nel qual caso potrebbe farsi valere per altra via, v. art. 2560). Questa responsabilità copre anche le sanzioni tributarie e gli interessi relativi ai tributi di quegli anni.

Limite di importo: la responsabilità del cessionario per i debiti fiscali del cedente è limitata al valore dell’azienda (o ramo) acquisita. Ciò significa che il Fisco potrà chiedere all’acquirente al massimo una somma pari al valore patrimoniale dell’azienda trasferita (di regola, il prezzo pagato o il valore di mercato). Questo tetto evita che un acquirente possa trovarsi a pagare al fisco più di quanto ha effettivamente ottenuto dall’acquisto, scongiurando effetti rovinosi che disincentiverebbero qualunque compratore dall’acquisire aziende con debiti fiscali. Ad esempio, se l’azienda ceduta vale 100 e il cedente aveva debiti col Fisco per 150 relativi al triennio, l’acquirente risponderà solo fino a 100; per il resto il fisco potrà rivalersi solo sul venditore. In pratica, il patrimonio trasferito funge da “garanzia” per i debiti tributari recenti.

Natura sussidiaria della responsabilità: diversamente dall’art. 2560 c.c. (dove il creditore civile può scegliere liberamente se agire contro cedente o cessionario), la responsabilità tributaria del compratore ha carattere di sussidiarietà legale. Infatti, la norma prevede il beneficio di escussione: il Fisco deve prima escutere il cedente, e solo se questi risulta insolvente (totalmente o parzialmente) può rivolgersi al cessionario, nei limiti suddetti. Il cessionario è quindi un obbligato solidale “di secondo grado”. Questa differenza è significativa anche in termini pratici: l’Agenzia Entrate Riscossione di solito tenterà prima su beni e conti del venditore; solo se non trova soddisfazione, notificherà cartelle o atti al compratore in qualità di coobbligato.

Certificato di inesistenza di debiti tributari: per tutelare l’acquirente, l’art. 14 prevede la possibilità di ottenere un certificato dei carichi fiscali pendenti (detto anche “certificato unico dei debiti tributari”) prima della cessione. Questo certificato, rilasciato dall’Agenzia delle Entrate su richiesta, attesta l’eventuale esistenza di debiti o contestazioni tributarie in corso a carico dell’azienda che si intende cedere, relativamente al famoso triennio considerato. Se dal certificato risulta tutto regolare (nessun debito né accertamento pendente), la legge gli attribuisce efficacia liberatoria: in tal caso l’acquirente è esonerato da responsabilità per qualunque debito fiscale del periodo che emergesse successivamente. In altre parole, il certificato negativo “protegge” il cessionario da sorprese fiscali: anche se saltasse fuori dopo un controllo un’evasione del venditore nel triennio, il Fisco non potrebbe chiedere nulla al compratore (dovrà rivalersi solo sul cedente). Se invece il certificato indica che vi sono debiti non pagati o verifiche in corso, l’acquirente è avvisato dei rischi e potrà comportarsi di conseguenza (ad esempio, pretendere che il venditore estingua quei debiti prima di perfezionare la cessione, oppure decurtare il prezzo di pari importo come garanzia). È importante notare che, se il venditore non fornisce il certificato e l’acquirente conclude ugualmente l’acquisto, la responsabilità solidale resta operante per legge. La prassi prudente, quindi, è sempre quella di richiedere il certificato prima di stipulare l’atto definitivo di cessione. Per completezza, segnaliamo che il certificato copre anche le violazioni commesse nell’anno in corso fino alla data di rilascio (esempio: se la cessione avviene a ottobre, il certificato includerà eventuali violazioni scoperte nei primi 9 mesi dell’anno). Inoltre, la legge prevede un meccanismo di silenzio-assenso: se l’Agenzia non rilascia il certificato entro 40 giorni dalla richiesta, esso si considera come se fosse negativo (assenza di debiti).

Cessione fraudolenta e responsabilità illimitata: il D.Lgs. 472/97 contiene anche una norma (art. 14 commi 4 e 5) per contrastare le cessioni d’azienda effettuate a scopo di frode fiscale. In caso di operazione fraudolenta – cioè fatta al solo scopo di sottrarsi al pagamento di imposte – la responsabilità del compratore diviene illimitata: egli risponde di tutti i debiti tributari del cedente, senza i limiti temporali (triennio) e quantitativi (valore) ordinari. Inoltre, la legge presume (iuris tantum) il fine fraudolento quando la cessione (o il frazionamento in più atti) è effettuata entro 6 mesi dalla constatazione di una violazione tributaria penalmente rilevante. Ciò vuol dire, ad esempio, che se a un imprenditore viene notificato un processo verbale per frode fiscale, e questi nel giro di pochi mesi cede l’azienda (magari a un parente o prestanome) oppure ne vende gli asset principali separatamente, la legge presume la frode: il compratore sarà chiamato a pagare tutti i debiti fiscali, anche oltre il triennio e senza tetto di importo. Questa presunzione può essere vinta solo provando l’assenza di intenti fraudolenti, prova tipicamente difficilissima. Inoltre, è specificato che la responsabilità illimitata si applica anche se la cessione è realizzata mediante trasferimento frazionato di singoli beni anziché con un unico atto: ogni stratagemma volto a “spezzettare” l’azienda per evitare la responsabilità, se fatto in frode al Fisco, non elude la norma.

Esonero nelle procedure di crisi (novità 2024): per favorire i salvataggi aziendali, il legislatore ha recentemente introdotto un’importante eccezione alla responsabilità fiscale del cessionario. Con il D.Lgs. 14 giugno 2024 n. 87 (attuativo della riforma fiscale 2023, cd. “decreto sanzioni”), è stato inserito il comma 5-bis all’art. 14 D.Lgs. 472/97. Tale comma prevede che in tutti i casi di cessione di azienda effettuata nell’ambito di una procedura di composizione della crisi o insolvenza omologata (es. concordato preventivo, liquidazione giudiziale ex fallimento, concordato minore, accordo di ristrutturazione omologato, composizione negoziata con omologa), il cessionario non risponde dei debiti tributari del cedente. L’esonero opera a prescindere dal certificato fiscale, che in queste situazioni non è neppure necessario richiedere. L’intento è chiaro: eliminare uno dei maggiori ostacoli alla cessione di aziende in crisi (il “fardello” dei debiti tributari pregressi per chi acquista), così da favorire la continuità attraverso la vendita. In pratica, se l’azienda di un imprenditore indebitato viene ceduta dentro un concordato preventivo autorizzato dal tribunale, l’acquirente la prende libera dai debiti fiscali pregressi, i quali resteranno a carico della procedura concorsuale (e saranno pagati nella misura prevista dal piano concordatario, tipicamente parziale). Questa novità del 2024 estende la “pulizia” dai debiti tributari anche a casi che prima non erano coperti, persino se a vendere è una società controllata facente parte di un gruppo in cui la capogruppo è in crisi (nuovo comma 5-bis applicato in combinato con art. 22 CCI).

Riassumendo (debiti fiscali): al di fuori delle procedure concorsuali, l’acquirente d’azienda risponde in solido col venditore dei debiti tributari del triennio antecedente (imposte e sanzioni), ma solo fino a concorrenza del valore dell’azienda trasferita. Può evitare tale responsabilità ottenendo un certificato fiscale negativo che attesti l’assenza di carichi pendenti. In caso di cessione in frode al Fisco, il compratore risponde illimitatamente di tutti i debiti tributari (e la frode è presunta se l’atto avviene entro 6 mesi da violazioni gravi constatate). Infine, se la vendita avviene nell’ambito di un concordato o altra procedura di crisi omologata, il compratore non subentra in alcun debito fiscale del cedente (esonero totale ex art. 14 co.5-bis).

Implicazioni pratiche per il venditore (cedente) indebitato: l’esistenza di debiti fiscali può complicare la vendita della ditta individuale. Un acquirente informato vorrà tutelarsi: solitamente chiederà al venditore di procurare il certificato dei debiti tributari e, se risultano pendenze, esigerà che il prezzo sia ridotto o che il venditore li paghi prima del passaggio di proprietà. Dal lato del cedente, se parte del ricavato della vendita servirà per pagare imposte arretrate, ciò andrebbe pianificato per evitare che il Fisco aggredisca successivamente l’acquirente (il che potrebbe portare quest’ultimo a rivalersi, anche giudizialmente, sul venditore per violazione delle dichiarazioni contrattuali). In alcuni casi, potrebbe convenire inserire la cessione direttamente in un piano di ristrutturazione fiscale o in un concordato preventivo: così i debiti tributari verrebbero trattati nel piano e l’azienda potrebbe essere venduta più facilmente, senza responsabilità in capo al compratore (che quindi sarebbe disposto a pagare un prezzo migliore). Si ricordi inoltre che nascondere debiti fiscali all’acquirente è pericoloso: se il Fisco si rifà sul compratore e questi scopre che il venditore aveva taciuto una grossa pendenza, può configurarsi dolo contrattuale e il compratore potrebbe agire per l’annullamento del contratto o per il risarcimento dei danni.

Debiti previdenziali e contributivi (INPS, INAIL)

I debiti verso gli enti previdenziali (contributi obbligatori dovuti all’INPS, premi assicurativi dovuti all’INAIL, casse professionali, etc.) presentano un quadro diverso dai tributi, poiché non esiste una norma speciale analoga all’art. 14 D.Lgs. 472/97 per trasferimenti d’azienda. Pertanto, trovano applicazione le norme generali: in particolare l’art. 2560 c.c. e l’art. 2112 c.c. dove pertinente. Occorre però distinguere due categorie di crediti collegati al lavoro:

  • Da un lato i crediti dei lavoratori dipendenti (retribuzioni non pagate, trattamento di fine rapporto, ferie maturate, etc.), tutelati specificamente dall’art. 2112 c.c. (si vedano più avanti).
  • Dall’altro i crediti degli enti previdenziali (contributi dovuti dal datore di lavoro agli istituti): pur originando anch’essi dal rapporto di lavoro, essi hanno natura propria e sono considerati crediti “terzi” degli enti.

Per quanto riguarda i contributi previdenziali dovuti agli enti (INPS, INAIL, casse previdenziali), la regola generale è la seguente: tali obbligazioni rientrano tra i debiti dell’azienda verso terzi, quindi si applica l’art. 2560 c.c.. In altre parole, se il cedente, prima della vendita, non ha versato alcuni contributi obbligatori, quei debiti potranno gravare sul cessionario solo se risultano dai libri contabili obbligatori dell’azienda ceduta. Non si applica invece la solidarietà di cui all’art. 2112 c.c., perché quest’ultima tutela solo i crediti diretti dei lavoratori verso il datore (stipendi, TFR, etc.), non i crediti degli enti previdenziali. La Cassazione ha chiarito che l’ente previdenziale (INPS o altro) non è equiparabile a un lavoratore ai fini dell’art. 2112, essendo un soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro dipendente. Dunque il cessionario non è automaticamente responsabile dei contributi non versati dal cedente, se non alle condizioni di cui all’art. 2560 c.c. (debito risultante formalmente dalle scritture contabili). Questo principio è stato definitivamente affermato dalla Suprema Corte – Sez. Lavoro – nella sentenza n. 3646/2016: in caso di trasferimento d’azienda, i debiti verso l’INPS per contributi non pagati non si trasferiscono ipso iure sul cessionario oltre i limiti dell’art. 2560, in quanto l’art. 2112 c.c. non opera a favore degli enti previdenziali. In pratica, il cedente rimane l’unico obbligato principale verso l’INPS/INAIL, e il cessionario potrà essere chiamato a rispondere solo se e per quanto quei debiti fossero contabilizzati regolarmente. Se, ad esempio, Tizio (imprenditore individuale) cede la sua azienda a Caio e non aveva versato alcuni contributi INPS per i dipendenti, l’INPS potrà pretendere tali somme da Caio solo se tali debiti risultavano a bilancio (come “debiti previdenziali”) al momento della cessione; altrimenti dovrà rivalersi su Tizio. In ogni caso, salvo che l’INPS acconsenta espressamente a liberare il cedente (cosa assai improbabile), la vendita non libera Tizio dal debito contributivo originario.

Strumento di tutela – il DURC: Sebbene non esista un certificato “liberatorio” analogo a quello fiscale, nella prassi l’acquirente accorto richiede al venditore di esibire un DURC aggiornato (Documento Unico di Regolarità Contributiva) prima di procedere. Il DURC, rilasciato dagli enti previdenziali, attesta se l’azienda è in regola con i versamenti contributivi. Un DURC regolare indica che, a quella data, non risultano omissioni contributive note (fermo restando che potrebbe esservi del “sommerso” non ancora accertato). Attenzione: il DURC, a differenza del certificato fiscale, non ha efficacia liberatoria ex lege, perché nessuna norma prevede l’esonero automatico del cessionario in base ad esso. Tuttavia, se dal DURC l’azienda risulta non in regola, ciò segnala all’acquirente un problema: in tal caso di solito egli pretenderà che il venditore **san*i i contributi arretrati prima della cessione, oppure tratterrà dal prezzo un importo equivalente per provvedervi. Se invece il DURC è positivo, il compratore può ragionevolmente confidare che non ci siano grossi debiti contributivi; qualora in seguito emergesse qualche carenza (ad es. un controllo che rileva omissioni), l’INPS potrà sempre agire contro il cedente e, solo se il debito era contabilizzato, anche contro l’acquirente. In ogni caso, la presenza di un DURC irregolare è un campanello d’allarme che può far rischiare anche il buon esito della vendita.

Profili penali: Si rammenti che l’omesso versamento di contributi oltre determinate soglie costituisce reato (art. 2 comma 1-bis D.L. 463/1983, convertito in L. 638/1983, omesso versamento di ritenute previdenziali). La responsabilità penale è personale del cedente (datore di lavoro originario) e non si trasferisce certo al cessionario; tuttavia, dal punto di vista dell’acquirente, rileva perché un’azienda in cui sono stati omessi contributi può aver accumulato sanzioni civili e il venditore potrebbe essere indagato, con possibili ripercussioni indirette (es. sequestro di beni aziendali in mano all’acquirente come prezzo del reato – ipotesi remota ma teoricamente possibile). Dal punto di vista del venditore, è bene sanare i contributi prima di vendere sia per evitare il reato sia per non incorrere in misure che possano poi colpire l’azienda nelle mani altrui.

Cessione in ambito concorsuale: Analogamente a quanto visto per i debiti fiscali, nelle procedure concorsuali o di crisi omologate il legislatore tende a “pulire” l’azienda dai debiti anche contributivi. L’art. 368 del Codice della Crisi (D.Lgs. 14/2019) prevede espressamente che, in caso di cessione dell’azienda in sede di concordato preventivo o liquidazione giudiziale (fallimento), alcuni oneri come i debiti contributivi possano essere accollati alla procedura, lasciando l’azienda libera. Più in generale, nelle cessioni in sede concorsuale l’art. 2560 c.c. non si applica affatto, per cui nessun debito (né civile, né fiscale, né contributivo) passa all’acquirente, salvo che quest’ultimo accetti volontariamente di assumerlo come parte dell’offerta. Questa regola è sancita anche dalla giurisprudenza: ad es. Cass. 16311/2023 ha confermato che la vendita di un’azienda da parte del curatore fallimentare ricade nella disciplina speciale (oggi art. 214 CCI, già art. 105 l.fall.) che purga l’azienda da tutti i debiti pregressi, escludendo qualunque responsabilità del cessionario ex art. 2560 c.c.. Ciò vale sia per i debiti contributivi che per quelli verso fornitori o altri creditori. Dunque, se un’azienda viene venduta nell’ambito di un fallimento, concordato preventivo, concordato minore o composizione negoziata con omologa, l’acquirente la rileva “libera dai debiti”, i quali restano in capo alla procedura concorsuale e saranno soddisfatti (in tutto o in parte) con il prezzo ricavato. Questa è una ragione per cui spesso, quando un imprenditore individuale è gravemente indebitato, può convenire percorrere una procedura di questo tipo (p.es. un concordato) invece di una vendita “sottobanco”: nella procedura, i creditori sono coinvolti e la legge consente di vendere l’azienda senza debiti, massimizzando il valore di realizzo; fuori dalla procedura, il compratore sarebbe scoraggiato dai debiti e il venditore rischierebbe revocatorie o denunce se tentasse di nasconderli.

Riassumendo (debiti previdenziali): nella vendita di una ditta individuale, i debiti verso INPS/INAIL restano per legge a carico del cedente, salvo che risultino dai libri contabili, nel qual caso il cessionario ne risponde in solido ex art. 2560 c.c.. La tutela speciale dell’art. 2112 c.c. si applica solo ai crediti dei lavoratori, non ai crediti degli enti previdenziali. Il venditore rimane comunque obbligato principale per tali debiti (la vendita non lo libera automaticamente). Dal punto di vista dell’acquirente, è fondamentale verificare la regolarità contributiva del cedente (tramite DURC) e prevedere nel contratto misure di garanzia (come depositare parte del prezzo a garanzia di eventuali cartelle INPS non ancora emerse). Dal punto di vista del venditore, fornire un DURC regolare aiuta a rassicurare il compratore; viceversa, se vi sono debiti con l’INPS, è opportuno provvedere almeno a una rateazione o includere la loro estinzione nell’uso del prezzo di cessione, sia per evitare problemi con il compratore sia per scongiurare conseguenze penali. Infine, nelle vendite operate tramite procedure concorsuali omologate, il cessionario è esonerato per legge anche dai debiti contributivi (come già visto per i debiti fiscali).

Debiti verso i lavoratori (retribuzioni, TFR, ecc.) – art. 2112 c.c.

Un capitolo a parte riguarda i crediti dei lavoratori dipendenti dell’azienda ceduta. Il legislatore, in attuazione di normative comunitarie a tutela dei lavoratori, prevede con l’art. 2112 c.c. che in caso di trasferimento d’azienda il lavoratore conservi tutti i suoi diritti e crediti, e che il nuovo datore subentri nei relativi obblighi. In particolare, l’art. 2112 comma 2 c.c. stabilisce che “il cedente ed il cessionario sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento”. Questa disposizione è inderogabile (non può essere esclusa da accordi contrari) e di portata generale. Significa che tutti i crediti di lavoro maturati dai dipendenti fino alla data del trasferimento devono essere garantiti anche dal nuovo titolare (cessionario), oltre che dal precedente (cedente). Si tratta di una deroga precisa alla disciplina generale dell’art. 2560: qui non importa se i crediti risultano o meno dai libri contabili, né vi sono limiti temporali o di importo. La ratio è la protezione dei lavoratori, parte “debole” nel rapporto, assicurando che un cambio di proprietà dell’azienda non li priverà delle loro spettanze arretrate.

In concreto, se l’azienda viene ceduta e un lavoratore aveva stipendi arretrati non pagati, o ratei di tredicesima, o ferie maturate e non godute, o un Trattamento di Fine Rapporto (TFR) maturato in tutto o in parte fino a quella data, egli potrà chiedere il pagamento sia al vecchio datore di lavoro (cedente) sia al nuovo (cessionario). I due datori rispondono in solido, per cui il lavoratore può esigere l’intero dall’uno o dall’altro a sua scelta (di solito, dal nuovo se il vecchio non paga). Qualunque patto tra cedente e cessionario che stabilisca “il cedente paga i vecchi stipendi” o simili ha solo valore interno: i lavoratori potranno comunque rivolgersi al nuovo datore, che poi eventualmente si rivarrà sul precedente.

Da notare che la responsabilità del cessionario verso i lavoratori copre tutti i crediti che questi avevano “al tempo del trasferimento”, quindi non solo retribuzioni e TFR ma anche, ad esempio, eventuali danni da licenziamenti illegittimi comminati dal cedente (se il lavoratore ha in corso una causa per essere stato licenziato prima della cessione e viene reintegrato o gli sono dovute delle differenze retributive, anche il nuovo datore ne risponderà), oppure mancati versamenti di contributi a fondi pensione complementari, premi di risultato maturati e non corrisposti, ecc. L’importante è che il credito del lavoratore esistesse già, in tutto o in parte, al momento del trasferimento.

La tutela dei lavoratori in caso di cessione è talmente forte che non possono rinunciarvi nemmeno con il loro consenso preventivo: ad esempio, non avrebbe valore un accordo con cui i dipendenti, in cambio della continuazione del rapporto col nuovo titolare, dichiarassero di rinunciare ai crediti arretrati verso il vecchio. Essi potrebbero sempre ripensarci e farli valere lo stesso, perché l’art. 2112 c.c. è norma imperativa.

Conseguenze pratiche: per il cedente, vendere l’azienda non lo libera dai debiti verso i dipendenti maturati fino alla cessione; inoltre, egli rimane solidalmente obbligato per quelli che il cessionario maturerà successivamente se i lavoratori un domani dovessero tornare a lui (ipotesi rara nel caso di vendita definitiva, più frequente nel caso di affitto d’azienda temporaneo, come vedremo). Per il cessionario, assumere un’azienda con dipendenti comporta dover farsi carico anche di eventuali pendenze pregresse verso il personale. Ciò influenza spesso le trattative: in sede di calcolo del prezzo di cessione, si terrà conto dei debiti verso i dipendenti (arretrati stipendi, TFR non accantonato, ecc.) e di solito il prezzo viene ridotto di un importo pari a tali passività, oppure il venditore si impegna formalmente a pagarle contestualmente alla cessione. In ogni caso, il compratore farà bene a condurre una due diligence approfondita sul personale: verificare quanti dipendenti ci sono, la loro anzianità (ai fini TFR), se vi sono cause di lavoro in corso, se i cedolini sono stati pagati regolarmente, ecc. Spesso si chiede al venditore di consegnare anche documentazione come il prospetto del TFR maturato per ciascun lavoratore e un estratto dei debiti verso dipendenti. Anche in assenza di documenti, un esame dei bilanci e dei libri paga può far emergere indizi (ad es., voci di TFR e ferie non pagate iscritte a bilancio). Il venditore onesto e prudente dovrebbe informare l’acquirente di tutti i debiti verso il personale; ometterlo potrebbe configurare responsabilità precontrattuale o contrattuale.

Se il venditore è in crisi, esiste per i lavoratori anche la tutela del Fondo di Garanzia INPS (che copre TFR e ultime mensilità in caso di insolvenza del datore). In un fallimento, ad esempio, i dipendenti possono ottenere dal Fondo il TFR e le ultime 3 mensilità impagate; ma se la cessione avviene senza fallimento, il Fondo non interviene e dunque i lavoratori contano sul nuovo datore. Pertanto in una vendita extra-concorsuale, il compratore deve valutare questo impegno. A volte le parti concordano che il venditore versi al Fondo di Tesoreria INPS o su un conto dedicato l’importo del TFR maturato, così che il compratore non abbia l’onere di accantonarlo di nuovo (ma i lavoratori ne siano garantiti).

Cessione in procedure concorsuali: va detto che, se la cessione avviene all’interno di un concordato preventivo o fallimento, la tutela dell’art. 2112 c.c. può subire delle eccezioni per effetto di accordi sindacali autorizzati (art. 2112, commi 4 e 5, consente nelle procedure concorsuali di derogare in parte alle tutele, ad esempio limitando la responsabilità per i crediti di lavoro previo accordo sindacale e approvazione ministeriale, per favorire la cessione). Ciò però attiene più al mantenimento dei livelli occupazionali che ai crediti già maturati: di regola anche nelle procedure i crediti dei lavoratori per stipendi arretrati rientrano nello stato passivo e il compratore li rileva solo se lo prevede espressamente il bando di gara o l’accordo. In questa sede, basti sapere che l’art. 2112 c.c. può essere parzialmente derogato solo entro i limiti consentiti dal diritto UE e tramite accordo con i sindacati, nelle cessioni in contesto concorsuale. Altrimenti, la regola generale resta la solidarietà piena.

Trasferimento d’azienda in situazioni di crisi o insolvenza

Merita un approfondimento la vendita della ditta individuale quando l’imprenditore versi in stato di crisi o insolvenza. Come già accennato, il nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 2022) ha predisposto norme per favorire il salvataggio di aziende indebitate, prevedendo che l’acquirente possa subentrare senza dover rispondere dei debiti pregressi. Si tratta, come visto, di importanti deroghe alle regole ordinarie (art. 2560 c.c. e art. 14 D.Lgs. 472/97), possibili però solo nell’ambito di procedure formali, soggette a controllo giudiziario.

In particolare, possiamo distinguere vari casi:

  • Vendita in concordato preventivo o fallimento (liquidazione giudiziale): negli strumenti concorsuali “classici” – concordato preventivo, concordato minore per sovraindebitati, concordato semplificato (introdotto nel 2021 per liquidazioni rapide) e liquidazione giudiziale (ex fallimento) – la legge prevede espressamente l’esonero del cessionario da ogni responsabilità per i debiti aziendali anteriori. L’art. 118 comma 8 CCI (per il concordato) e l’art. 214 comma 3 CCI (per la liquidazione) dispongono che, in deroga all’art. 2560 c.c., l’acquirente dell’azienda ceduta nell’ambito di queste procedure non risponde dei debiti pregressi, salvo che il piano disponga diversamente. In pratica, se Tizio (imprenditore individuale) presenta un concordato preventivo e, come parte del piano, vende la sua azienda a Caio, quest’ultimo la acquista libera dai debiti pregressi: tutti i debiti di Tizio verso fornitori, banche, Fisco, ecc. restano nel concordato e saranno pagati in percentuale secondo il piano omologato, senza che Caio possa essere perseguito per essi. Analogamente, se l’azienda di Tizio fallisce (oggi “liquidazione giudiziale”) e il curatore la vende all’asta, l’acquirente prende solo l’attivo (beni, avviamento, ecc.) mentre i debiti rimangono nel fallimento e i creditori potranno soddisfarsi solo su quel ricavato distribuito secondo le regole concorsuali. Questa regola – spesso detta effetto “purgativo” della vendita concorsuale – serve a incentivare gli acquirenti: possono comprare un complesso aziendale senza doversi fare carico del passato, pagando quindi un prezzo che riflette il valore “pulito” dell’azienda.
  • Vendita in composizione negoziata della crisi: la composizione negoziata (procedure introdotta a fine 2021) è un percorso stragiudiziale assistito da un esperto, che può culminare in accordi con creditori e, volendo, anche nella cessione dell’azienda. Il Codice della crisi prevede (art. 22, co.1 lett. d) CCI) che, se tali accordi vengono omologati dal tribunale, sia possibile trasferire l’azienda o rami senza responsabilità solidale dell’acquirente per i debiti pregressi. È un meccanismo simile a quello concorsuale: si ottiene un provvedimento del tribunale che omologa l’operazione, e ciò fa scattare l’esonero dall’art. 2560. Lo scopo è favorire soluzioni di mercato anche fuori dal fallimento, ma con un controllo giudiziario che garantisca trasparenza. Ad esempio, se Tizio usa la composizione negoziata per trovare un investitore disposto a rilevare la sua azienda decotta, potrà chiedere l’omologa dell’accordo: a quel punto Caio acquisterà l’azienda di Tizio senza debiti (che verranno regolati negli accordi con i creditori), così da essere motivato a subentrare.
  • Strumenti non coperti da esonero automatico: curiosamente, il legislatore non ha previsto lo stesso beneficio nell’ipotesi di piani attestati di risanamento (art. 56 CCI) e di accordi di ristrutturazione omologati (art. 57 CCI, ex art. 182-bis l.fall.), se non ricompresi in una composizione negoziata. Cioè, se Tizio si limita a fare un piano di risanamento privato con attestatore o un accordo di ristrutturazione col 60% dei creditori, e come parte di esso vende l’azienda, non c’è nella legge (attuale) una norma esplicita che esoneri l’acquirente dai debiti. Ciò sembra una lacuna (forse involontaria) della riforma. In pratica però, tali operazioni raramente avvengono senza misure contestuali: ad esempio, un accordo 182-bis viene omologato dal tribunale, e spesso il giudice nell’omologa può confermare condizioni simili (in passato, per analogia, molti ritenevano applicabile l’esonero anche in questi casi, ma la certezza è minore). In ogni caso, se manca espressa esenzione, il compratore potrebbe teoricamente vedersi opporre dai creditori i debiti ex art. 2560, anche se è più facile che il problema sia risolto a monte prevedendo clausole di accollo dei debiti nel piano stesso o pagamenti integrali di quelli potenzialmente trasferibili.
  • Concordato semplificato: introdotto per liquidazioni rapide di piccole imprese, prevede la cessione diretta dei beni senza voto dei creditori. Anche qui (art. 25-sexies CCI) è previsto che l’azienda possa essere ceduta libera dai debiti, analogamente al fallimento.
  • Vendita di azienda di società controllata per salvare la capogruppo: un’altra previsione inserita nel 2024 (D.Lgs. 87/2024) estende l’esonero da responsabilità al caso in cui sia venduta l’azienda di una società controllata nell’ambito della procedura concorsuale di un’altra società del gruppo (es. la capogruppo). Se la cessione dell’azienda della controllata è funzionale a risanare la controllante in concordato, l’acquirente della controllata gode dell’esenzione dai debiti pregressi (purché l’operazione sia autorizzata dal giudice). Ciò per evitare che i debiti della controllata disincentivino acquirenti quando la vendita è parte di un piano di gruppo.

Effetti e cautele: in sintesi, nelle cessioni d’azienda effettuate nell’ambito di procedure di crisi o insolvenza regolate dal tribunale, il principio generale di responsabilità del cessionario non si applica. L’acquirente rileva solo l’attivo (beni, contratti, avviamento) mentre il passivo resta in capo al venditore (ossia alla procedura concorsuale che lo riguarda). Ciò rende molto appetibile per un investitore rilevare un’azienda in queste sedi, perché può acquistarla “libera dai debiti” – il che spesso significa anche poter continuare l’attività senza strascichi di cause e pignoramenti – pagando un prezzo che andrà a beneficio dei creditori del venditore. Naturalmente, dall’altro lato, i creditori originari dell’azienda ceduta perdono la possibilità di inseguire l’azienda ceduta in mano al nuovo proprietario, dovendosi accontentare di ciò che ricavano dalla procedura (spesso una percentuale ridotta). Per questo la legge richiede che tali operazioni avvengano con trasparenza e tutela dei creditori: ad esempio, nel concordato preventivo i creditori devono essere informati e votare sul piano che prevede la cessione; nel fallimento le vendite devono avvenire tramite procedure competitive per massimizzare il prezzo, etc. Comunque, fuori da queste ipotesi autorizzate, un accordo tra privati per “vendere l’azienda libera da debiti” non può pregiudicare i creditori: come spiegato, i creditori conservano i loro diritti ex lege (2560 c.c., 2112 c.c., ecc.) e se il disegno è fraudolento possono reagire con azioni revocatorie o denunce penali. Dunque un venditore indebitato che voglia realmente “ripulire” l’azienda dai debiti per facilitarne la vendita dovrebbe passare per una procedura concorsuale ad hoc; viceversa, una cessione clandestina sperando che i debiti non seguano, di solito fallirà nei suoi intenti.

Cessione di ramo d’azienda: particolarità

La cessione di un ramo d’azienda (cioè di un settore autonomo dell’impresa, parte del complesso aziendale) segue in linea generale le stesse regole della cessione dell’intera azienda. Il ramo ceduto viene considerato come un’azienda a sé, applicandosi l’art. 2560 c.c. per i debiti inerenti a quel ramo, nonché l’art. 2558 c.c. per i contratti di quel ramo e l’art. 2112 c.c. per i dipendenti afferenti ad esso.

Dal punto di vista contabile, spesso il cedente tiene una contabilità unica per tutta l’impresa, senza libri separati per ciascun ramo. Ciò non esclude la responsabilità ex art. 2560, comma 2: il cessionario del ramo risponde dei debiti inerenti a quel ramo se risultano dai libri contabili generali. In pratica, bisognerà individuare quali debiti del cedente sono riferibili al ramo ceduto. Ad esempio, se l’impresa aveva un ramo “Produzione” e un ramo “Vendite” e viene ceduto solo il ramo Produzione, i debiti verso fornitori di materie prime utilizzate in produzione, i debiti verso i dipendenti di produzione, o la quota di mutui/buoni acquisto macchinari di quel ramo saranno inerenti al ramo ceduto e potranno coinvolgere il cessionario; viceversa, i debiti relativi al ramo vendite rimasto al cedente (o comunque non afferenti all’attività trasferita) resteranno a carico del cedente. Non sempre il confine è netto: talora vi sono debiti generali dell’azienda difficilmente attribuibili pro-quota (si pensi a un fido bancario unico utilizzato per entrambe i rami). In questi casi, è consigliabile che cedente e cessionario, prima della cessione, redigano un elenco dettagliato delle passività distinguendo quelle che si considerano pertinenti al ramo ceduto e quelle che rimangono al cedente. Tale elenco può essere allegato al contratto di cessione di ramo d’azienda. Benché non vincolante per i creditori (un creditore non partecipe a tale accordo non è obbligato da quella ripartizione interna), esso è utile a delimitare i rapporti interni: se un certo debito, che il contratto prevedeva restare al cedente, viene poi richiesto dall’esterno al cessionario (perché magari inerente al ramo e iscritto in contabilità), il cessionario dopo aver pagato potrà rivalersi sul cedente in base a quell’accordo. Viceversa, se un debito era convenuto come afferente al ramo e da trasferire, ma il creditore non può agire sul cessionario perché magari non risultava contabilizzato, allora il cessionario potrebbe sospendere parte del pagamento del prezzo o ottenere indennizzo dal cedente.

La giurisprudenza ha confermato che anche in presenza di contabilità unitaria, l’acquirente del ramo d’azienda risponde dei debiti pregressi inerenti a quel ramo se risultano dalle scritture contabili obbligatorie. La vera difficoltà è di fatto individuare l’inerenza: su questo potrebbero nascere contestazioni (ad es., un fornitore che operava su più rami potrebbe sostenere che il suo credito riguardava anche il ramo ceduto). L’onere probatorio, in eventuale causa, sarebbe in capo al creditore che vuole colpire il cessionario, dovendo provare sia che il debito risultava dai libri, sia che attiene al ramo ceduto.

Quanto ai dipendenti del ramo, come detto, si applica l’art. 2112 c.c.: quindi i lavoratori in forza al ramo ceduto passeranno al cessionario con tutti i loro diritti e il cessionario sarà responsabile in solido col cedente per i crediti di lavoro maturati fino al trasferimento (limitati a quel personale).

Contratti comuni a più rami: Un caso particolare si ha se alcuni contratti o debiti riguardano l’intera azienda e non sono divisibili per ramo (es. un contratto quadro di fornitura valido per entrambe le divisioni, o un finanziamento bancario garantito da beni di tutta l’azienda). In assenza di accordi con la controparte, quei contratti di norma non si trasferiscono col solo ramo ceduto (restano al cedente) perché non “inerenti esclusivamente” al ramo venduto. Di conseguenza, i creditori di quelle obbligazioni generali non potranno agire contro il cessionario del ramo (che non è subentrato in quel contratto), a meno che non provino che almeno una parte specifica del credito era riferita al ramo stesso (ipotesi complicata). In pratica, questioni del genere vanno gestite contrattualmente coinvolgendo anche il creditore: ad esempio, ottenendo dalla banca la divisione del fido in due finanziamenti separati, uno per ramo ceduto (da estinguere o accollare) e uno che resta al cedente, così da evitare che dopo la cessione il finanziatore cerchi di coinvolgere il nuovo proprietario del ramo.

Affitto d’azienda: differenze rispetto alla vendita

L’affitto d’azienda è il contratto con cui l’imprenditore (locatore o affittante) concede a un altro soggetto (affittuario) la gestione della propria azienda per un periodo determinato, dietro pagamento di un canone periodico. In sostanza, è un trasferimento temporaneo della gestione, senza trasferimento di proprietà: l’azienda resta di proprietà del locatore e al termine tornerà a quest’ultimo. L’affitto d’azienda è frequente, ad esempio, come soluzione transitoria in attesa di vendere l’azienda o durante una crisi per mantenere l’attività in esercizio (si pensi all’affitto pre-concordatario). Dal punto di vista dei debiti, l’affitto presenta differenze importanti rispetto alla vendita:

  • Debiti anteriori all’affitto: restano a carico del proprietario (locatore). Poiché l’affittuario non diventa proprietario e l’art. 2560 c.c. parla espressamente di trasferimento dell’azienda, la regola della responsabilità del cessionario non si applica letteralmente all’affittuario. In dottrina c’è chi ha discusso se alcune norme della cessione possano applicarsi analogicamente all’affitto, ma in generale prevale l’idea che la proprietà dei beni aziendali non cambi, quindi i creditori del cedente restano tali e non acquistano automaticamente un coobbligato nell’affittuario. Ad esempio, se Tizio concede in affitto la sua azienda a Caio e aveva debiti verso fornitori sorti prima dell’affitto, quei fornitori dovranno continuare a chiedere il pagamento a Tizio; Caio affittuario non è tenuto per legge a pagarli (salvo che si fosse volontariamente accollato qualche debito nel contratto di affitto, cosa possibile ma non comune). I creditori, tuttavia, conservano i loro diritti sui beni dell’azienda: se Tizio rimane proprietario dell’azienda, può succedere che i creditori tentino di pignorare i beni aziendali anche se sono in godimento a Caio. In pratica, se il locatore (proprietario) non paga i suoi debiti, i suoi creditori potrebbero aggredire l’azienda affittata (ad es. chiedendo il pignoramento dei macchinari, merci, ecc. che però sono in uso all’affittuario). Ciò può creare situazioni complesse: di solito, nei contratti di affitto è previsto che il canone di affitto venga destinato (in tutto o parte) a pagare i debiti pregressi del locatore, o che l’affittuario abbia facoltà di pagare alcuni fornitori vitali per evitare interruzioni nella gestione. In sintesi, formalmente i debiti vecchi restano al cedente, ma praticamente vanno gestiti per evitare che disturbino la gestione dell’affittuario.
  • Debiti contratti durante l’affitto: sono a carico dell’affittuario, perché è lui che gestisce l’azienda per conto proprio, traendone utili e rischi. L’affittuario stipula contratti in nome proprio: quindi i debiti verso i fornitori sortidopo l’affitto, i nuovi finanziamenti bancari, le imposte sul reddito generato durante l’affitto, ecc., sono tutte obbligazioni dell’affittuario. Il proprietario/locatore non è responsabile di questi debiti d’esercizio contratti dall’affittuario (salvo pattuizioni particolari). Tuttavia, dal momento che i beni aziendali rimangono di proprietà del locatore, essi costituiscono comunque garanzia patrimoniale di quei debiti (ai sensi dell’art. 2740 c.c. combinato col fatto che i beni sono del locatore): ad esempio, se l’affittuario non paga i suoi fornitori, questi ultimi potrebbero cercare di pignorare i beni dell’azienda, che appartengono al locatore, per soddisfarsi. La giurisprudenza riconosce infatti che, essendo l’azienda affittata un’entità produttiva unitaria, i creditori dell’affittuario possono chiedere il pignoramento dei beni aziendali (anche se di proprietà altrui) perché il patrimonio dell’affittuario è in parte indistinguibile dall’azienda stessa. Ciò può ovviamente creare conflitti con il locatore. Per prevenire problemi, spesso il contratto prevede che l’affittuario non possa gravare l’azienda di nuove ipoteche, non possa alienare beni senza consenso, e così via, e che eventualmente il locatore possa risolvere il contratto se l’affittuario accumula debiti che minacciano l’integrità aziendale.
  • Debiti verso i dipendenti nell’affitto: qui interviene di nuovo l’art. 2112 c.c. L’affitto d’azienda è considerato un trasferimento di azienda ai fini della tutela dei lavoratori, quindi i dipendenti dell’azienda passano all’affittuario mantenendo tutti i loro diritti ed anzianità. Questo implica due cose: (1) l’affittuario deve applicare ai dipendenti le stesse condizioni (CCNL, livello, ecc.) e non può licenziarli in occasione del trasferimento; (2) cedente e affittuario sono responsabili in solido per i crediti che i lavoratori avevano maturato prima dell’affitto, esattamente come in una cessione definitiva. Quindi, se vi erano stipendi arretrati o TFR maturato non versato prima dell’inizio dell’affitto, i lavoratori potranno pretendere tali somme sia dal vecchio datore (locatore) sia dal nuovo (affittuario). Di solito il contratto di affitto prevede che il locatore si accolli e paghi tutti gli arretrati al momento della consegna dell’azienda, per evitare liti; ma, come sappiamo, tale patto non è opponibile ai lavoratori senza il loro consenso. Quindi i lavoratori mantengono comunque il diritto di chiedere anche all’affittuario il dovuto. Durante l’affitto, i nuovi crediti dei dipendenti (stipendi correnti, ferie, TFR maturando) sono ovviamente a carico dell’affittuario, in quanto datore di lavoro attuale. Al termine dell’affitto, se l’azienda torna al locatore e con essa i dipendenti, si avrà un ulteriore trasferimento ai sensi dell’art. 2112 c.c.: i dipendenti ritornati saranno nuovamente garantiti per i crediti maturati durante l’affitto (se l’affittuario non li avesse pagati) anche verso il locatore. In pratica, nei passaggi di gestione l’importante è che i lavoratori non rimangano mai privi di un soggetto solvibile da cui esigere le proprie spettanze.
  • Ambito concorsuale: l’affitto d’azienda è spesso utilizzato nel contesto di crisi: ad esempio, un’azienda in amministrazione straordinaria o in concordato può essere data in affitto provvisoriamente in attesa della vendita. In questi casi, valgono le stesse regole: l’affitto in sé non trasferisce i debiti pregressi (se non quelli verso i lavoratori, come detto), ma se poi l’affittuario acquista l’azienda, si applicheranno le regole viste per la cessione definitiva, con la possibilità nelle procedure concorsuali di escludere le responsabilità per debiti. Inoltre, il Codice della Crisi estende all’affitto d’azienda alcune norme sull’usufrutto di azienda (art. 2562 c.c.), imponendo all’affittuario di gestire diligentemente e conservare l’efficienza dei beni. Se l’affitto fosse usato in modo fraudolento (ad es. per far sparire gli utili e poi lasciar fallire l’azienda vuota), i creditori potrebbero comunque agire (anche qui con revocatoria “a cascata” o altri rimedi).

Confronto sintetico affitto vs cessione: si può riassumere così: nell’affitto d’azienda l’affittuario non subentra nei debiti commerciali e fiscali contratti anteriormente (restano al proprietario cedente), a differenza della cessione in cui invece l’acquirente può divenire coobbligato per tali debiti se rispettano le condizioni di legge. Tuttavia, nell’affitto il cessionario subentra comunque nei rapporti di lavoro e quindi risponde solidalmente dei debiti verso i lavoratori dipendenti maturati prima dell’affitto (così come, in caso di ritorno dell’azienda, il locatore risponderà dei debiti maturati durante la gestione dell’affittuario). L’affitto è dunque una soluzione meno “traumatica” per l’acquirente sul fronte dei debiti (perché non si prende carico di fornitori, banche e fisco arretrati), ma lascia insoluti quei creditori se il proprietario cedente non paga, e inoltre non libera quest’ultimo dalla responsabilità (anzi, la mantiene su di lui). La cessione definitiva, invece, trasferisce la proprietà e comporta potenzialmente il trasferimento di alcuni debiti sul compratore – ma, come abbiamo visto, consente al venditore di uscire definitivamente dall’attività (anche se non dai debiti personali, salvo procedure). Spesso si vede in pratica usare prima un affitto per traghettare l’azienda e poi una vendita: in tal caso, i debiti pregressi restano al cedente durante l’affitto, e al momento della successiva vendita si applicano art. 2560 e norme fiscali (a meno che il tutto avvenga in sede concorsuale, dove come detto l’acquirente può essere esonerato).

Conclusione sul punto: per un imprenditore indebitato che esiti tra affittare o vendere, la scelta dipende dalla strategia: l’affitto può essere utile se si spera di risanare l’azienda e riprenderla (o venderla poi a migliore prezzo), oppure se si vuole guadagnare tempo; però non elimina i debiti (i creditori restano attaccati al proprietario e possono disturbare). La vendita definitiva consente di incassare subito un prezzo (forse minore se ci sono molti debiti) e trasferire stabilmente l’azienda, ma i debiti in parte “seguono” il nuovo proprietario (che ne terrà conto riducendo il corrispettivo) e in parte restano comunque sul groppone del venditore. In generale, se l’insolvenza è grave, la via concorsuale (con affitto o vendita dentro un concordato/fallimento) potrà rivelarsi la più efficiente per soddisfare il più possibile i creditori e salvare l’avviamento.

Aspetti fiscali ulteriori della cessione di azienda

Oltre al tema della responsabilità per i debiti, è utile accennare ad altri aspetti fiscali e formali legati alla vendita di una ditta individuale (cessione di azienda):

  • IVA e imposta di registro: la cessione di un’intera azienda (o di un ramo) non è qualificata come cessione di beni ai fini IVA, bensì come mera cessione di un complesso organizzato: pertanto è esclusa dal campo di applicazione dell’IVA (art. 2, comma 3, lett. b) DPR 633/72). Invece, è soggetta all’imposta di registro proporzionale, in misura variabile a seconda delle componenti cedute (di regola 3% sul valore complessivo al netto di immobili, i quali scontano imposte ipocatastali proprie). Ad esempio, se la ditta individuale possiede un immobile, sulla parte immobiliare si pagheranno imposte ipotecarie e catastali, mentre sul valore residuo di azienda (macchinari, mobili, avviamento, ecc.) si applicherà il 3% registro. Dal 2025, per effetto del D.Lgs. 139/2024, è stato chiarito che la base imponibile dell’imposta di registro va determinata al netto delle passività accollate all’acquirente: ciò significa che se il compratore, come parte dell’accordo, assume alcuni debiti dell’azienda, tali passività sottraggono valore all’attivo ceduto e non vanno tassate come corrispettivo ulteriore. Questa modifica ha risolto dubbi precedenti su come tassare le cessioni “con accollo di debiti” (prima si tendeva a tassare anche le passività trasferite).
  • Plusvalenza per il cedente: per l’imprenditore individuale che vende l’azienda, l’eventuale plusvalore realizzato è considerato fiscalmente un reddito straordinario d’impresa (plusvalenza da cessione di azienda). In generale, la differenza tra il corrispettivo di vendita e il valore netto contabile dell’azienda ceduta viene tassata come reddito d’impresa nel periodo d’imposta in cui avviene la cessione (con possibilità, in alcuni casi, di rateazione in quote costanti su cinque anni, se si tratta di impresa posseduta da oltre 5 anni, ai sensi dell’art. 86 TUIR). Per fare un esempio semplificato: se Tizio aveva iscritti beni per 50 e zero debiti, e vende l’azienda a 80, realizza una plusvalenza di 30 che concorre a formare il suo reddito imponibile IRPEF. Se però cede l’azienda entro 5 anni dall’inizio attività, quella plusvalenza sarà tutta tassata subito; se oltre 5 anni, potrà spalmare la tassazione in 5 anni (questa è una facoltà che favorisce chi cede dopo lungo tempo). Inoltre, se nell’azienda ceduta vi sono beni rivalutati o plusvalori di avviamento, potrebbero applicarsi regole particolari (es. imposta sostitutiva per affrancare l’avviamento, se scelta prima della vendita). Dal punto di vista del venditore indebitato, la plusvalenza tassabile potrebbe ridurre il netto ricavo disponibile per pagare i debiti: va quindi pianificata anche l’imposizione diretta.
  • Documenti e adempimenti: la vendita di una ditta individuale (azienda) richiede la forma scritta ad atto pubblico o scrittura privata autenticata da notaio, ai sensi dell’art. 2556 c.c.. L’atto va depositato entro 30 giorni nel Registro delle Imprese a cura del notaio e registrato presso l’Agenzia delle Entrate (pagando l’imposta di registro dovuta). Inoltre, il cedente deve comunicare la cessazione dell’attività al Registro Imprese e all’Agenzia Entrate (modello di cessazione P.IVA) e l’acquirente l’inizio attività se nuova, oppure la variazione se è un’impresa esistente che incorpora il ramo. Bisognerà anche gestire il passaggio di eventuali licenze o autorizzazioni amministrative (es. licenza commerciale, sanitaria, ecc.), che spesso richiedono voltura o nuovi titoli intestati al cessionario. Sul piano fiscale, è consigliabile redigere un inventario di cessione: un elenco dettagliato di tutti i beni ceduti e del loro valore, nonché l’eventuale avviamento (goodwill) valorizzato. Questo serve per il calcolo di imposte e per dare trasparenza su cosa viene trasferito. Se alcuni beni non sono trasferiti (magari il venditore li tiene, o li esclude), va indicato chiaramente. Anche i marchi e segni distintivi vanno menzionati: se l’azienda ha un marchio registrato, la sua cessione va annotata in UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi). Riguardo alla ditta (intesa come denominazione commerciale dell’imprenditore individuale), l’art. 2565 c.c. stabilisce che nel trasferimento dell’azienda la ditta (nome commerciale) non passa all’acquirente senza il consenso dell’alienante; dunque, se il compratore vorrà continuare ad utilizzare lo stesso nome commerciale del venditore, occorre uno specifico accordo in tal senso. Spesso nelle cessioni di piccole imprese il compratore cambia la denominazione (anche perché la “ditta individuale” è il nome proprio dell’imprenditore, salvo casi di nomi di fantasia registrati). Se invece c’è un insegna nota o un marchio, in genere sono compresi nella vendita salvo patto contrario.
  • Crediti e debiti non trasferiti: va ricordato che per i crediti aziendali il codice prevede all’art. 2559 c.c. che, salvo patto diverso, essi si trasferiscono all’acquirente senza bisogno di notifica ai debitori, ma questi ultimi sono liberati se pagano in buona fede al cedente (quindi è bene notificare loro la cessione). Per i debiti, invece, come sappiamo il trasferimento passivo non è automatico (se non per la responsabilità solidale ex lege). Se le parti desiderano un accollo di specifici debiti a carico dell’acquirente (magari per ragioni contabili o per agevolare rapporti con alcuni fornitori), possono farlo inserendo clausole apposite, ma ciò non vincola i creditori senza consenso. In pratica, spesso avviene che taluni fornitori chiave vengano contattati prima e coinvolti: ad esempio, può essere conveniente che un fornitore abituale accetti di continuare col nuovo acquirente trasferendo il contratto e magari concordando un pagamento parziale dei vecchi crediti a saldo e stralcio (specie se il cedente era in difficoltà). Questi accordi individuali possono facilitare la transizione.

In sintesi, la vendita di una ditta individuale con debiti richiede non solo di gestire la parte civilistica (responsabilità per i debiti), ma anche di ottemperare a vari adempimenti legali e fiscali. È opportuno rivolgersi a un notaio e possibilmente farsi assistere da un commercialista per gli aspetti tributari, in modo da strutturare al meglio l’operazione (ad esempio valutando se è conveniente cedere l’azienda intera o solo un ramo, come attribuire il prezzo alle singole componenti per minimizzare imposte, ecc.). Un attento piano di impiego del prezzo di vendita per pagare i debiti più urgenti può inoltre mettere al riparo il venditore da future azioni dei creditori e contestazioni.

Tutele e strategie per il debitore cedente

Dal punto di vista dell’imprenditore debitore che decide di vendere la propria azienda, le principali preoccupazioni sono: massimizzare il ricavo della vendita (così da poter pagare i debiti residui) e minimizzare il rischio che i creditori possano vanificare la vendita o rivalersi su di lui in modo pregiudizievole. Ecco alcune strategie e cautele che un cedente indebitato dovrebbe considerare:

  • Mappatura dei debiti e trasparenza: Prima di tutto, è fondamentale avere un quadro chiaro di tutti i debiti esistenti (fornitori, banche, Fisco, INPS, dipendenti, ecc.). Occorre individuare quali di questi “seguiranno” l’azienda (per legge) e quali no, in base a quanto spiegato sopra. È consigliabile essere trasparenti con l’acquirente su queste pendenze: un compratore informato potrà pianificare meglio il subentro, e difficilmente accetterà di acquistare se sospetta debiti occulti. Inoltre, dichiarare falsamente l’assenza di debiti nel contratto espone il venditore a gravi responsabilità post-cessione (risarcimento danni e, in alcuni casi, potrebbe integrare truffa contrattuale). Meglio dunque fornire un elenco completo dei debiti e negoziare con l’acquirente come gestirli (ad esempio riducendo il prezzo oppure concordando che parte del prezzo vada direttamente a saldare taluni creditori).
  • Due Diligence e documenti: il venditore dovrebbe preparare documenti utili per la fase di due diligence dell’acquirente: bilanci, situazione contabile aggiornata, elenco fornitori con eventuali scoperti, estratto delle cartelle esattoriali e DURC, elenco del personale con TFR maturato, ecc. Presentarsi organizzati e fornire questi dati non solo rassicura il compratore, ma permette di individuare in anticipo eventuali problemi che potrebbero far saltare la vendita (es: scoprire prima del rogito che c’è un’ipoteca fiscale sui macchinari, o che un fornitore ha già fatto decreto ingiuntivo e pignoramento sui beni – situazioni da risolvere prima del passaggio).
  • Negoziare con i creditori chiave: In alcuni casi può essere utile, prima della vendita, negoziare con alcuni creditori strategici. Ad esempio, se c’è un fornitore indispensabile che vanta un grosso credito, si può tentare di trovare un accordo: magari il compratore si impegna a pagargli una percentuale del dovuto e il fornitore acconsente a proseguire il rapporto col nuovo imprenditore (fidelizzandolo). Oppure, se vi è un mutuo bancario, il venditore può chiedere in banca di liberarlo dal debito facendolo assumere all’acquirente, se questo ha maggiori garanzie – naturalmente ciò richiede approvazione formale della banca (novazione o accollo liberatorio) e spesso il pagamento di eventuali arretrati o commissioni. Ogni creditore andrebbe valutato: quali è meglio pagare subito? Quali potrebbero collaborare? Quali invece sono “non negoziabili” (come il Fisco, che però offre la strada del certificato)?
  • Utilizzare il prezzo per pagare i debiti prioritari: Una volta determinato il prezzo di vendita, il debitore cedente dovrebbe destinare il ricavato innanzitutto a coprire i debiti per lui più critici: tipicamente i debiti garantiti da pegni/ipoteche (per evitare escussioni) e quelli verso il Fisco o INPS (per evitare aggravio di sanzioni o azioni che possano colpire il compratore). Pagare immediatamente, ad esempio, l’IVA non versata degli ultimi anni o i contributi arretrati dei dipendenti può essere saggio, perché così il Fisco/INPS non avrà motivo di agire contro l’acquirente e questo riduce il rischio di contenziosi futuri (e di rivalse del compratore sul venditore). Se il prezzo non basta a soddisfare tutti, potrebbe essere necessario fare scelte: conviene pagare pochi creditori importanti integralmente, o dare qualcosa a tutti? Questo dipende dalla situazione – un legale potrà consigliare in base al rischio di azioni legali di ciascuno.
  • Clausole contrattuali di salvaguardia: Nel contratto di cessione, il venditore può aspettarsi che l’acquirente inserisca clausole a suo favore (dichiarazioni e garanzie). Per esempio, l’acquirente potrà chiedere una dichiarazione che “l’azienda non ha debiti occulti oltre quelli indicati” e una clausola di manleva per cui, se spunta un debito precedente non dichiarato e il compratore deve pagarlo, il venditore lo rimborserà per ogni esborso. Il venditore deve essere pronto ad accettare tali clausole se vuole concludere l’affare, soprattutto se ci sono elementi incerti. Inoltre, potrebbe essere richiesto dal compratore di vincolare una parte del prezzo per un certo periodo (ad esempio su un conto escrow o tramite pagamento dilazionato) a garanzia di eventuali passività che emergano post-cessione. Dal punto di vista del venditore indebitato, ciò significa non incassare subito tutto il prezzo, ma è spesso inevitabile per la controparte. L’alternativa è vendere a un prezzo inferiore ma senza escrow: la scelta dipenderà dal grado di fiducia e dalla due diligence effettuata.
  • Procedura concorsuale come opzione: Se i debiti sono molto superiori al valore di realizzo dell’azienda, il venditore dovrebbe seriamente valutare l’ipotesi di una procedura concorsuale (es. concordato preventivo, liquidazione giudiziale) invece di una vendita privata. Come abbiamo visto, nella procedura i debiti non seguono l’azienda e il venditore può anche beneficiare dell’esdebitazione (cancellazione dei debiti residui insoddisfatti) una volta chiusa la liquidazione. Certo, il controllo dell’operazione passerà in parte al tribunale/creditori, e il prezzo andrà interamente ai creditori secondo regole concorsuali, ma se tanto il venditore era insolvente e non avrebbe comunque ricavato nulla per sé, almeno si evitano rischi legali e penali. Ad esempio, un piccolo imprenditore individuale sommerso dai debiti potrebbe proporre un concordato minore: vende l’azienda nell’ambito del concordato, i creditori ricevono il ricavato (diviso per quote), e lui poi ottiene l’esdebitazione dei debiti non pagati. Si “libera” così dai debiti residui – cosa che una semplice vendita extra-giudiziale non avrebbe garantito, poiché i creditori potrebbero inseguirlo per il saldo.
  • Evita vendite simulate o a prezzi irrisori a familiari: Un consiglio da seguire assolutamente: non fare operazioni palesemente fraudolente come vendere l’azienda al coniuge/figlio per 1 euro o a prezzo nettamente inferiore al valore, lasciando a te i beni personali e ai creditori nulla. Tali operazioni sono destinate quasi certamente a essere dichiarate inefficaci tramite revocatoria (se i creditori agiscono), o a portare a conseguenze penali (bancarotta, frode fiscale, sottrazione fraudolenta). Se l’obiettivo è far continuare l’attività in famiglia, è meglio percorrere vie trasparenti: ad esempio, far avviare una nuova impresa a un familiare e poi affittarle l’azienda con un canone equo – questo già offre protezione, e poi eventualmente vendere in concordato, ecc. Ma le scorciatoie opache di solito aggravano solo la posizione del debitore.

In definitiva, il venditore indebitato dovrebbe muoversi con consulenza legale specializzata prima di compiere passi che potrebbero influire sui diritti dei creditori. Pianificare la cessione come parte di un disegno di rientro dal debito (o di liberazione tramite procedura) è essenziale. La chiave è bilanciare l’interesse a vendere bene l’azienda (per non svenderla a causa dei debiti) con l’interesse a non incorrere in azioni dei creditori. Spesso una trattativa aperta e onesta con tutte le parti produce il miglior risultato: i creditori possono accettare, ad esempio, di non opporsi o di dare respiro se vedono che la vendita massimizza il valore e offre loro un recupero maggiore di quanto otterrebbero pignorando pezzi dell’azienda.

FAQ – Domande frequenti

Di seguito alcune domande e risposte comuni, sia dal punto di vista dell’imprenditore (cedente) che dell’acquirente, sulle questioni relative alla vendita di una ditta individuale con debiti:

D1: Vendendo la mia azienda, posso liberarmi di tutti i debiti ad essa legati?
R: Non automaticamente. La vendita dell’azienda non cancella i debiti del venditore, che rimane obbligato salvo diverso accordo con i creditori. Tuttavia, l’acquirente potrebbe diventare co-obbligato per alcuni debiti dell’azienda, in base alla legge: ad esempio, risponderà in solido dei debiti aziendali risultanti dalla contabilità (fornitori, banche, ecc. registrati a bilancio) ex art. 2560 c.c., dei debiti verso dipendenti maturati fino alla cessione (stipendi arretrati, TFR) ex art. 2112 c.c., nonché – per legge speciale – di taluni debiti fiscali del cedente riferiti agli ultimi 3 anni. Invece i debiti personali del venditore estranei all’azienda (es. un mutuo personale, una multa intestata al proprietario, ecc.) non riguardano l’acquirente. Allo stesso modo, i debiti “occulti” non contabilizzati in genere non ricadono sul compratore, salvo che emergano in un contesto di frode (specie con riguardo al Fisco, vedi cessione in frode). In sintesi, vendendo l’azienda non “trasferisci” tutto il tuo passivo al nuovo titolare: per alcune categorie di debiti il compratore sarà chiamato in causa (accollandosi di fatto il pagamento, poi potrà rifarsi su di te), per altre resterai solo tu il debitore. È sempre opportuno, in sede di vendita, negoziare col compratore clausole che regolino questi aspetti: ad esempio, pattuire che egli ti indennizzerà per eventuali pagamenti di debiti che per legge venissero chiesti a te ma di competenza sua, o viceversa che tu lo manleverai per debiti precedenti che per legge ricadono su lui. In pratica, conviene definire chi paga cosa, e riflettere tale ripartizione nel prezzo di vendita (un’azienda con molti debiti arretrati “che seguono” vale meno di una senza debiti). Ricorda comunque: accordi interni a parte, i creditori potranno far valere i propri diritti secondo legge, quindi vanno gestiti di conseguenza.

D2: Se compro un’azienda da un imprenditore indebitato, rischio di dover pagare io i suoi debiti?
R: Sì, alcuni potenziali rischi ci sono, ma con le dovute precauzioni possono essere gestiti. In base all’art. 2560 c.c., risponderai in solido con il venditore dei debiti dell’azienda risultanti dai libri contabili obbligatori. Ciò tipicamente include debiti commerciali (fornitori) e bancari registrati a bilancio. Inoltre, sarai coobbligato per tutti i debiti verso i dipendenti maturati fino alla cessione (stipendi arretrati, TFR non versato, ferie) per effetto dell’art. 2112 c.c.. Ancora, la legge fiscale prevede che potresti dover rispondere di alcuni debiti tributari recenti del cedente (relativi all’anno della cessione e ai due anni precedenti) entro il limite del valore dell’azienda. Viceversa, i debiti personali del venditore non inerenti all’attività (es. un finanziamento personale, sanzioni amministrative intestate a lui, ecc.) non ti riguardano. In generale, non ti accolli automaticamente tutto il passivo del venditore, ma solo certe categorie previste dalla legge. Per tutelarti, dovrai fare una due diligence accurata prima dell’acquisto e utilizzare gli strumenti previsti: ad esempio, richiedere il certificato dei carichi fiscali pendenti (art. 14 D.Lgs. 472/97) all’Agenzia Entrate, per sapere se vi sono debiti o accertamenti fiscali negli ultimi 3 anni; ottenere il DURC regolare per la posizione contributiva (così da escludere omissioni note); esaminare i libri contabili del venditore per individuare i debiti iscritti (e pretendere magari che siano pagati o che il prezzo sia ridotto in proporzione). Inoltre, è saggio inserire nel contratto dichiarazioni e garanzie del cedente sull’assenza di debiti occulti, con clausole di indennizzo a tuo favore se emergessero passività non dichiarate. In buona sostanza, un acquirente informato ridurrà il rischio di dover pagare debiti altrui. Se scopri che ci sono molti debiti potenzialmente a tuo carico, puoi decidere di: (a) non procedere all’acquisto; (b) procedere ma scorporare tali debiti dal prezzo, facendoli pagare dal venditore col ricavato o accollandoteli tu stesso in cambio di un prezzo inferiore; (c) richiedere che la vendita avvenga nell’ambito di un concordato preventivo o altra procedura, così da essere esonerato per legge. Dunque, sì il rischio c’è ma è calcolabile: il principio generale è caveat emptor (stai attento tu che compri), ma la legge ti dà gli strumenti per conoscere e mitigare.

D3: Nel contratto di cessione d’azienda possiamo scrivere che tutti i debiti restano a carico del venditore, così il compratore non ne paga?
R: Potete scriverlo, ma serve solo per regolare i rapporti interni tra voi due, non vincola i creditori. Come spiegato, se per legge alcuni debiti “seguono” l’azienda (ad es. quelli risultanti dai libri contabili, le imposte dell’ultimo triennio, i crediti dei lavoratori) i creditori potranno comunque pretenderli dal nuovo titolare. La clausola che “i debiti restano al cedente” avrà l’effetto di permettere al compratore, qualora fosse costretto a pagare un debito che contrattualmente doveva restare al venditore, di rivalersi poi sul venditore stesso (azione di regresso, in base all’accordo di manleva). Ma il compratore non potrà opporre la clausola al creditore per rifiutarsi di pagare se la legge lo rende coobbligato. Quindi queste pattuizioni servono più che altro come tutela interna: funzionano se il venditore, incassato il prezzo, rimane solvibile e onora gli impegni verso l’acquirente. Se il venditore poi non paga (o magari fallisce), quella promessa di tenerlo indenne resta teorica e il compratore subirà il danno. In sintesi: potete certamente convenire chi si farà carico dei debiti, e anzi è bene farlo per chiarezza, ma ciò non elimina il rischio legale verso terzi. Meglio quindi prevedere ulteriori garanzie a supporto di quella clausola: ad esempio, escrow sul prezzo (il compratore trattiene parte del prezzo per un certo tempo, per coprire eventuali debiti che dovesse pagare lui), o fideiussioni/pegni se il venditore si obbliga a pagare successivamente qualcosa.

D4: I debiti verso fornitori che mi accollo come acquirente influenzano il prezzo di acquisto?
R: Sì, assolutamente. In una cessione d’azienda è normale tener conto del passivo nell’accordo economico. Esistono due approcci di base: 1) Transazione “cash free/debt free”, dove il compratore paga un prezzo considerando l’azienda come “senza cassa e senza debiti” – ciò significa che il venditore si accolla e paga tutti i debiti pregressi separatamente, e il prezzo riflette un’azienda ripulita; 2) Accollo dei debiti da parte del cessionario, dove l’acquirente accetta di assumersi alcuni debiti e questo fa ridurre il prezzo concordato. Ad esempio, se l’azienda ha €100 di debiti verso fornitori e le parti concordano che li pagherà il compratore dopo la cessione, allora il compratore pagherà €100 in meno al venditore (di fatto quei €100 li spenderà per saldare i fornitori, quindi li toglie dal prezzo). L’importante è evitare di “pagarli due volte”: se il compratore non è consapevole e paga un prezzo pieno per l’azienda e poi deve anche pagare debiti vecchi, avrà fatto un pessimo affare. Dunque, in fase di trattativa si quantificano i debiti noti e si stabilisce espressamente nel contratto come vanno trattati (pagati dal venditore prima della cessione? O lasciati e quindi prezzo scontato?). Attenzione però: se anche non vi accordate su un debito e non lo menzionate, ma quel debito risulta dai libri, il fornitore potrà lo stesso chiederlo a te acquirente ex art. 2560. Quindi conviene mappare tutti i debiti e includerli nell’accordo, per non avere sorprese dove di fatto li paghi due volte (nel prezzo e poi direttamente).

D5: Se acquisto solo un ramo d’azienda, devo rispondere anche dei debiti dell’intera azienda del venditore?
R: No, risponderai solo dei debiti inerenti a quel ramo specifico che stai acquistando. Quando si vende un ramo, la legge applica l’art. 2560 c.c. ai debiti “relativi a quel ramo” (purché risultanti dai libri) e l’art. 2112 c.c. per i lavoratori di quel ramo. I debiti che riguardano altre parti dell’azienda cedente non ti competono. In pratica, bisogna delimitare cosa rientra nel ramo ceduto: ad esempio, se compri il ramo “produzione” di una ditta che aveva anche un ramo “vendite”, i debiti verso fornitori di materie prime per la produzione e verso i dipendenti di produzione potranno ricadere su di te (se nei libri), mentre i debiti del ramo vendite (rimasto al cedente) no. A volte la distinzione può non essere immediata per certi debiti generali (es. un fido bancario usato per entrambe le attività): in tal caso occorre negoziare col venditore e magari con la banca una ripartizione – ad esempio concordare che il fido rimane al cedente e tu aprirai un nuovo fido tuo, liberandoti da quel debito comune. Di certo, tu non rispondi dei debiti estranei alla gestione del ramo che hai comprato. Nota però: se la contabilità del venditore era unica, i debiti “del ramo” risulteranno comunque nei libri generali, quindi il creditore potrebbe farsi avanti contro di te; starà poi a te dimostrare (se non evidente) che quel debito non afferiva al ramo ceduto e quindi non eri tenuto. Per evitare queste incertezze, come detto, meglio predisporre col venditore un elenco dettagliato dei debiti afferenti al ramo e di quelli estranei, come linea guida interna. Ciò non vincola i creditori terzi, ma è utile tra voi e come prova in eventuali controversie.

D6: Posso vendere l’azienda per evitare il fallimento e salvare il valore, lasciando i debiti fuori?
R: Puoi vendere l’azienda prima di fallire, ma non puoi evitare che i creditori abbiano pretese, a meno che non lo fai all’interno di una procedura concorsuale regolata. Mi spiego: se sei in stato di insolvenza e vendi l’azienda a terzi (fuori da procedure), i creditori potrebbero reagire. In particolare, se il prezzo che ottieni non è sufficiente a pagarli tutti, e soprattutto se vendi a un prezzo inferiore al mercato o a un soggetto vicino a te, i creditori (o un eventuale curatore fallimentare successivo) potranno agire in revocatoria per far annullare la vendita. Anche senza revocatoria, i creditori rimasti insoddisfatti potrebbero tentare di dimostrare che l’operazione era in frode e coinvolgere l’acquirente per certi debiti (il Fisco lo può fare, come visto, entro 6 mesi da violazioni contestate presume la frode e rende l’acquirente illimitatamente responsabile). Se poi tu fallisci dopo aver venduto l’azienda, quella vendita sarà scrutata dal curatore: se fatta entro l’anno precedente e a condizioni squilibrate o verso un famigliare, verrà probabilmente revocata ai sensi del Codice della Crisi (ex art. 164 e segg.) e l’acquirente dovrà restituire i beni o l’equivalente. Pertanto, vendere “di nascosto” per salvare il salvabile e far fallire solo la scatola vuota raramente funziona; anzi, può aggravare la tua posizione (bancarotta). La strada corretta se vuoi evitare il fallimento è semmai ricorrere a un concordato preventivo: proponi ai creditori un piano in cui l’azienda viene venduta a X euro a un certo soggetto, e il ricavato è distribuito ai creditori (magari parzialmente, col loro voto). Così salvi l’avviamento (l’azienda continua in mano al nuovo imprenditore) e gestisci i debiti in modo ordinato, ottenendo anche la protezione dalle azioni esecutive durante la procedura e l’esdebitazione finale dei debiti che non riesci a pagare. In sintesi: vendere prima del fallimento è possibile, ma deve avvenire a prezzo equo e in modo trasparente; se ci sono molti debiti, spesso conviene formalizzare tutto in una procedura di ristrutturazione o liquidazione concordata, per evitare che i creditori ti inseguano dopo e invalidino l’atto.

D7: Trasformare la mia ditta individuale in una SRL può aiutarmi a evitare di pagare i debiti?
R: Trasformare o conferire l’azienda in una nuova società di capitali è un’operazione lecita ma non elimina i debiti pregressi. In caso di conferimento dell’azienda individuale in una SRL (cioè creare una SRL e “vendere” l’azienda a questa in cambio di quote), la giurisprudenza assimila ciò a una cessione d’azienda ai fini degli artt. 2558-2560 c.c.. Dunque, la SRL conferitaria risponderà dei debiti d’azienda risultanti dai libri (come un acquirente qualsiasi) e il conferente (tu) resterai obbligato solidalmente salvo consenso dei creditori. In altri termini, i debiti dell’impresa individuale diventano debiti della nuova società (almeno quelli in contabilità), e tu come persona fisica rimani coobbligato. La SRL potrà limitare il rischio per i debiti futuri, ma non per quelli già esistenti. Inoltre, se il conferimento è fatto in frode (ad esempio crei una SRL con capitale ridicolo, ti conferisci l’azienda e lasci i debiti fuori, poi fai fallire la ditta individuale), i creditori possono far dichiarare inefficace il conferimento o far fallire la società stessa (c’è il concetto di “unitarietà” dell’operazione fraudolenta). Insomma, costituire una SRL può avere vantaggi organizzativi o futuri, ma non è una soluzione per sfuggire ai debiti attuali. Unica eccezione: se contestualmente predisponi un piano di risanamento o un accordo di ristrutturazione omologato includendo la creazione della SRL, può darsi che in quel contesto alcuni debiti siano stralciati e la SRL nasca più pulita – ma si tratta di procedure concorsuali vere e proprie, non di una semplice furbata tecnica. Quindi, attenzione a non credere a facili scappatoie: i creditori delle ditte individuali conoscono bene questi trucchi e li possono contrastare.

Casi pratici e simulazioni

Per illustrare meglio come si applicano le regole esposte, esaminiamo due scenari concreti di vendita di una ditta individuale con debiti, con l’analisi delle conseguenze giuridiche:

Caso 1: Vendita di impresa individuale con debito IVA nascosto
Scenario: Maria è titolare di una ditta individuale (un negozio di elettronica). Nel 2024, a causa di difficoltà finanziarie, decide di vendere l’intera azienda a Luisa. La cessione avviene il 1° giugno 2024. Maria, però, ha un debito IVA riferito all’anno d’imposta 2022 (non ha versato l’IVA dovuta per €30.000). Questo debito non risulta chiaramente dalla contabilità, perché Maria teneva la contabilità in modo approssimativo (regime semplificato) e non lo ha evidenziato; inoltre, al momento della cessione, non c’erano cartelle esattoriali su tale IVA perché l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate verrà notificato solo a settembre 2024. Luisa, da parte sua, non ha richiesto il certificato dei debiti tributari prima dell’acquisto e non era a conoscenza del debito IVA (Maria non gliene ha parlato). Dopo aver incassato il prezzo, Maria sparisce e non paga il dovuto. A dicembre 2024 l’Agenzia Entrate notifica a Luisa (in qualità di cessionaria) un avviso di pagamento di €30.000 per quell’IVA 2022 non versata.

Analisi: In questo caso il debito IVA riguarda un’imposta del 2022, cioè entro i due anni precedenti la cessione avvenuta nel 2024. Rientra quindi nell’ambito della responsabilità solidale prevista dall’art. 14 D.Lgs. 472/97 (ultimi tre anni). Luisa, come acquirente, sarebbe tenuta in linea di principio a risponderne in solido con Maria, entro il limite del valore dell’azienda. Supponiamo che Luisa abbia pagato l’azienda €50.000: questo è il valore trasferito e costituisce il tetto della sua responsabilità; i €30.000 di IVA rientrano sotto quel tetto, quindi l’Agenzia potrebbe legittimamente chiederglieli. Il fatto che Luisa non fosse a conoscenza del debito non rileva, perché la norma fiscale non richiede la conoscenza (a differenza dell’art. 2560, qui non c’è filtro della contabilità: basta che siano debiti fiscali del periodo considerato). Tuttavia, esiste un appiglio tecnico: il comma 1 dell’art. 14 dice che per i debiti di periodi precedenti non risultanti dalle scritture contabili, la responsabilità sussiste solo se vi sia stata una contestazione formale nel triennio. Nel nostro scenario, al 1° giugno 2024 non c’era stata ancora alcuna contestazione (l’accertamento è posteriore). Quindi si potrebbe sostenere che Luisa non debba rispondere di un debito non accertato né noto al momento della cessione. Di fatto, l’Agenzia Entrate qui interpreta la norma diversamente: considererà l’IVA 2022 come “violazione commessa nei due anni anteriori” (2022 è due anni prima di 2024) e dunque, certificato o no, tenterà di addebitare a Luisa l’importo. Probabilmente, in assenza di certificato liberatorio, Luisa sarà tenuta a pagare quei €30.000. Avrebbe potuto evitarlo? Sì: se avesse richiesto il certificato fiscale ex art. 14 comma 3 prima dell’acquisto, dall’esito sarebbe emersa la violazione (il debito IVA 2022, essendo comunque rilevabile dalle dichiarazioni di Maria, sarebbe comparso come carico pendente) e a quel punto l’Agenzia lo avrebbe iscritto nel certificato. Luisa, informata, avrebbe potuto trattare: magari pretendere che Maria pagasse quell’IVA prima della vendita, o ridurre il prezzo di 30.000. Non avendolo fatto, ne risponde. Dal lato civilistico, quell’IVA non era neanche iscritta in contabilità, per cui se fosse stato un debito ordinario, Luisa non ne avrebbe risposto ex art. 2560 c.c.; ma per i tributi la contabilità non conta, vige la norma speciale (che come visto prescinde dall’iscrizione a libro). In conclusione, Luisa dovrà pagare i €30.000 all’Erario (verosimilmente avviando una rateazione se possibile), però potrà agire contro Maria: in contratto, Maria dichiarava probabilmente l’azienda “libera da oneri”, dunque Luisa potrà farle causa per il danno subito (violazione delle dichiarazioni, dolo contrattuale per aver taciuto la passività). Sfortunatamente, Maria è sparita ed è insolvente, quindi questa rivalsa avrà poco effetto pratico. Legalmente si potrebbe anche configurare a carico di Maria un’ipotesi di truffa o di insolvenza fraudolenta per aver ceduto l’azienda tacendo deliberatamente un debito rilevante; ma perseguirla penalmente non restituirà comunque i soldi a Luisa. La lezione: l’acquirente doveva tutelarsi prima, e il venditore agire con buona fede (in questo caso Maria ha peggiorato la posizione di Luisa e ciò potrà avere strascichi legali).

Caso 2: Cessione di ramo d’azienda con debito contestato e venditore fallito
Scenario: La società Alfa S.p.A. opera in due settori (X e Y). Nel 2025 Alfa vende il ramo d’azienda X alla Beta S.r.l.. Tra i debiti di Alfa ce n’è uno di €200.000 verso un fornitore di materie prime usate nel settore X; però tale debito è contestato da Alfa (sostiene che la fornitura era difettosa e di non dover pagare tutto). La lite è in corso. Questo debito figura comunque nella contabilità di Alfa, anche se è stato accantonato a fondo rischi per via della contestazione. Nel contratto di cessione del ramo, Beta (acquirente) esclude espressamente di accollarsi quel debito: c’è scritto che rimane in capo ad Alfa. Un anno dopo, Alfa fallisce. Il fornitore, che nel frattempo ha vinto la causa dimostrando che il credito era dovuto, a questo punto si rivolge a Beta chiedendo il pagamento, dato che Alfa è fallita e in ogni caso insolvente.

Analisi: Qui abbiamo una cessione di ramo X; il debito verso il fornitore attiene chiaramente a quel ramo (fornitura di materie prime del ramo X). Inoltre, risulta dai libri contabili di Alfa (anche se indicato come “debito contestato” c’è un fondo rischi di €200k). Dunque, si applica l’art. 2560 c.c. comma 2: Beta, cessionaria del ramo, risponde solidalmente di quel debito. Il fatto che fosse contestato in giudizio non lo rende un debito “potenziale” esente: giurisprudenza e dottrina ritengono che anche i debiti litigiosi rientrino, se la causa del debito (fornitura consegnata) si è perfezionata prima della cessione. In questo caso, al momento della cessione il fornitore aveva già effettuato la prestazione (consegnato le materie prime) e Alfa aveva omesso il pagamento per una disputa, ma sostanzialmente c’era un debito inadempiuto (anche se sub-iudice). Dunque Beta ne risponde. La clausola contrattuale con cui Beta ha escluso di accollarsi quel debito non ha efficacia verso il fornitore, che non l’ha mai accettata: serve solo a Beta per rivalersi su Alfa (ora fallita, quindi ben poca cosa). Pertanto il fornitore, ottenuta una sentenza che conferma il suo credito, può pretendere l’intero pagamento da Beta, il nuovo soggetto titolare del ramo X, più solvibile rispetto ad Alfa fallita. Beta dovrà pagare i €200.000. Cosa può fare Beta dopo? Beta diventa creditore di regresso verso Alfa fallita per lo stesso importo, avendo pagato un debito solidale di Alfa. Quindi Beta potrà insinuarsi al passivo del fallimento di Alfa per €200.000 come credito di regresso (surrogandosi al fornitore che è stato soddisfatto). Purtroppo, essendo Alfa in fallimento, Beta recupererà probabilmente poco (una percentuale) e solo dopo tempo. Beta potrebbe anche eccepire qualcosa in giudizio? Forse Beta avrebbe potuto sostenere che, al momento della cessione, quel debito era ancora eventuale in quanto sub iudice e che quindi non rientrava tra i “debiti” ai sensi di 2560 (c’era solo una passività potenziale). Tuttavia, la Cassazione ha in più occasioni affermato che 2560 c.c. si riferisce a debiti in sé considerati, anche se litigiosi, mentre gli unici esclusi sono quelli ancora legati a contratti non definiti (nel qual caso subentra 2558). Nel nostro scenario, il contratto di fornitura era completato, quindi Beta subentra solo nel debito insoluto di Alfa, non in un contratto in corso – ergo 2560 si applica. Una via di scampo teorica: Beta potrebbe obiettare che manca l’alterità soggettiva in realtà tra Alfa e Beta (ad esempio se Beta fosse una società creata dagli stessi soci di Alfa per salvare il ramo). In alcuni casi di cessione infragruppo o a società correlate, si è cercato di sostenere che 2560 non applica perché in realtà è come se non ci fosse vero trasferimento; ma questa linea è poco accolta se formalmente c’è cessione. Dunque Beta paga e subisce il danno (forse Beta pensava di essersi protetta con la clausola, ma come detto non basta). Lezione appresa: se si cede un ramo con debiti litigiosi, il compratore deve considerare il rischio e magari escroware parte del prezzo per coprirlo, o ottenere garanzie di manleva dal venditore (che qui però è fallito, quindi inutile). In situazioni del genere, spesso sarebbe meglio far sì che il debito contestato resti interamente al cedente con consenso del creditore (ad esempio, il creditore rinuncia ad agire contro il cessionario in cambio di qualcosa, ma qui non è avvenuto). Beta si trova quindi a pagare €200k e potrà solo insinuarsi in fallimento di Alfa, probabilmente recuperando un’inezia. Possibile anche che Beta faccia causa ai soggetti che hanno orchestrato l’operazione (amministratori comuni?) per dolo o inadempimento, ma se Alfa è fallita il bersaglio è debole.

Questi esempi mostrano come nelle operazioni straordinarie sia cruciale analizzare ogni debito e chi ne rimarrà responsabile, pianificando garanzie contrattuali e tenendo conto di possibili insolvenze. Vendere o acquistare un’azienda indebitata può essere conveniente per entrambi, ma solo se i rischi sono valutati e condivisi equamente.


Riferimenti

  1. Codice Civile, art. 2560 – Debiti relativi all’azienda ceduta. Testo normativo: il cedente non è liberato dai debiti anteriori alla cessione salvo consenso dei creditori; l’acquirente risponde in solido dei debiti aziendali anteriori che risultano dai libri contabili obbligatori.
  2. Corte di Cassazione – Sentenza n. 14020/2025 (Sez. I). Conferma che l’iscrizione del debito nei libri contabili è presupposto necessario per la responsabilità del cessionario; non sussiste responsabilità per debiti conosciuti aliunde, data la natura eccezionale dell’art. 2560 c.c..
  3. D.Lgs. 18/12/1997 n. 472, art. 14 – Responsabilità solidale del cessionario per debiti tributari. Norma speciale tributaria: il cessionario d’azienda risponde in solido col cedente dei debiti per imposte e sanzioni relative a violazioni commesse nell’anno della cessione e due anni precedenti (triennio), entro il limite del valore dell’azienda ceduta; responsabilità sussidiaria (beneficio di escussione). Previsto il certificato dei carichi pendenti fiscali con efficacia liberatoria in caso negativo. Commi 4–5: responsabilità illimitata del cessionario per cessione in frode al Fisco, anche se frazionata in beni, se avvenuta entro 6 mesi da violazioni penali constatate (presunzione di frode).
  4. D.Lgs. 14/06/2024 n. 87 (decreto attuativo riforma fiscale 2023). Novità: introduce art. 14 comma 5-bis D.Lgs. 472/97, che esclude la responsabilità del cessionario per debiti tributari del cedente quando la cessione avviene nell’ambito di procedure di crisi o insolvenza omologate (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, liquidazione giudiziale, composizione negoziata omologata). L’esonero opera in ogni caso, senza necessità di certificato.
  5. Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019):
    • Art. 118 c.8 CCI: Esecuzione del concordato preventivo. Dispone che, in deroga all’art. 2560 c.c., l’acquirente dell’azienda ceduta in concordato non risponde dei debiti pregressi, salvo diversa previsione del piano.
    • Art. 214 c.3 CCI: Liquidazione giudiziale (fallimento). Analoga previsione di non responsabilità dell’acquirente per debiti anteriori.
    • Art. 22 c.1 lett. d) CCI: Composizione negoziata. Prevede la possibilità, con omologa, di cedere l’azienda o rami senza responsabilità solidale per i debiti pregressi.
    • Art. 368 CCI: Liquidazione controllata del sovraindebitato / Concordato minore. Consente cessione di beni liberi da pesi, con accollo di alcuni oneri alla procedura (inclusi debiti contributivi).
      Cass. civ. Sez. I, ord. n. 16311/2023: conferma che la vendita dell’azienda da parte del curatore fallimentare ricade nella disciplina speciale e comporta l’effetto purgativo dei debiti pregressi a tutela dei terzi acquirenti.
  6. Cassazione civile Sez. Lav., sent. n. 3646 del 24/02/2016. Trasferimento d’azienda – debiti contributivi. Ha stabilito che i debiti verso enti previdenziali (INPS, ecc.) non rientrano nella responsabilità solidale ex art. 2112 c.c. (che copre solo i crediti dei lavoratori), bensì seguono la regola generale di art. 2560 c.c.. In altre parole, l’acquirente risponde dei contributi arretrati solo se essi risultano dalle scritture contabili, restando il cedente obbligato principale e non liberato se non con il consenso dell’ente.
  7. Art. 2112 c.c. – Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda. Prevede il passaggio automatico dei lavoratori al cessionario con conservazione di tutti i diritti. Comma 2: cedente e cessionario sono solidalmente obbligati per tutti i crediti che i lavoratori avevano al momento del trasferimento. Norma inderogabile di derivazione comunitaria: i lavoratori possono pretendere dal nuovo datore pagamenti di stipendi, TFR e ogni credito pregresso, indipendentemente da libri contabili o limiti temporali.
  8. Giurisprudenza:
    Cass. civ. Sez. III, ord. n. 8345/2025: ennesima conferma requisiti art. 2560 c.c. (debiti risultanti da libri contabili obblig.).
    Cass. civ. Sez. Unite, n. 5685/2015: sulla natura eccezionale di art. 2560 co.2 e inderogabilità del requisito formale (spesso citata in dottrina).
    Cass. civ. Sez. I, n. 29653/2008: conferimento d’azienda individuale in società = cessione a tutti gli effetti, con subentro in rapporti attivi/passivi.
    Trib. Milano 13/3/2018: caso di affitto d’azienda utilizzato in frode ai creditori, azione revocatoria “a cascata” ammessa contro affittuario (giurisprudenza di merito).

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