Vuoi capire se l’azienda in cui lavori, collabori o investi rischia il fallimento?
Il fallimento di un’azienda non avviene mai all’improvviso: di solito ci sono segnali chiari, finanziari e organizzativi, che se riconosciuti per tempo possono permettere di prendere decisioni strategiche per tutelarsi. Sapere quali sono è fondamentale sia per imprenditori che per dipendenti, fornitori e investitori.
Segnali economico-finanziari di un possibile fallimento
– Ritardi nei pagamenti a fornitori, dipendenti o enti previdenziali
– Indebitamento crescente e difficoltà ad accedere a nuovi finanziamenti
– Utilizzo costante di fidi bancari e scoperti di conto per coprire spese ordinarie
– Riduzione drastica dei ricavi senza un piano credibile di recupero
– Vendita di asset strategici per ottenere liquidità immediata
– Bilanci in perdita per più esercizi consecutivi
Segnali organizzativi e gestionali
– Alta rotazione del personale e perdita di figure chiave
– Tagli improvvisi a progetti, marketing o ricerca e sviluppo
– Riduzione della qualità di prodotti o servizi per risparmiare sui costi
– Comunicazione interna scarsa o assente riguardo alla situazione aziendale
– Decisioni gestionali frettolose o contraddittorie
Segnali esterni
– Aumento delle cause legali e dei contenziosi commerciali
– Notizie negative su media o portali di settore
– Perdita di clienti importanti o contratti strategici
– Peggioramento del rating creditizio e segnalazioni nelle banche dati finanziarie
– Presenza di procedure esecutive o pignoramenti notificati
Come verificare lo stato di salute dell’azienda
– Analizzare gli ultimi bilanci depositati e i principali indicatori finanziari
– Controllare le visure camerali e le eventuali procedure in corso presso il Tribunale
– Monitorare i tempi di pagamento e le relazioni con fornitori e partner commerciali
– Informarsi sulle linee di credito attive e sulla capacità di ottenere nuovi finanziamenti
– Chiedere chiarimenti diretti al management e valutare la trasparenza delle risposte
Cosa fare se pensi che l’azienda possa fallire
– Per imprenditori: valutare piani di ristrutturazione del debito o composizione negoziata della crisi
– Per dipendenti: informarsi sui propri diritti in caso di insolvenza e verificare il TFR accantonato
– Per fornitori: ridurre l’esposizione, richiedere pagamenti anticipati o garanzie
– Per investitori: riconsiderare l’esposizione e diversificare i rischi
– In tutti i casi: consultare un avvocato o un consulente esperto in crisi d’impresa
Attenzione: ignorare i segnali di crisi può portare a perdite economiche rilevanti e a un margine di manovra sempre più ridotto. Agire per tempo è l’unico modo per prevenire o limitare i danni.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi d’impresa, ristrutturazione del debito e difesa del patrimonio – ti spiega come riconoscere i segnali di un’azienda vicina al fallimento e quali azioni intraprendere per proteggerti.
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Introduzione
Capire in tempo se un’azienda sta per fallire (o, più correttamente in termini giuridici odierni, avviarsi verso la liquidazione giudiziale) è fondamentale per imprenditori, professionisti e consulenti legali. La normativa italiana, specialmente dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022), ha introdotto un approccio organico di allerta precoce e gestione tempestiva della crisi, con l’obiettivo di evitare il “too little, too late” che caratterizzava la vecchia legge fallimentare. In questa guida avanzata esamineremo come identificare i segnali di una crisi imminente, quali strumenti normativi esistono per anticiparla e gestirla, e quali obblighi (e responsabilità) gravano sul debitore (l’imprenditore o la società) nel prevenire l’insolvenza. Il tutto è aggiornato a luglio 2025, con riferimenti a fonti normative, novità legislative recenti e pronunce giurisprudenziali di rilievo.
Seguiremo un percorso strutturato in capitoli e paragrafi, con tabelle riepilogative degli indicatori chiave, sezioni domande e risposte su questioni frequenti, e alcune simulazioni pratiche di casi aziendali. Le fonti utilizzate (leggi, sentenze, dottrina) sono elencate in fondo alla guida nella sezione Fonti per ulteriori approfondimenti.
1. Crisi d’impresa vs insolvenza: definizioni e contesto normativo
Per prima cosa, occorre distinguere i concetti di crisi e di insolvenza, così come definiti dalla legge, e chiarire cosa intendiamo con “fallimento” nel nuovo quadro normativo. Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) definisce:
- Crisi: “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. In altre parole, la crisi è uno squilibrio finanziario prospettico: l’azienda prevede di non riuscire a generare cassa sufficiente per pagare debiti e impegni nei successivi mesi (orizzonte di 6-12 mesi, secondo il Codice). Questo concetto di crisi “probabile” è una novità importante, poiché sposta l’attenzione dal puro ritardo nei pagamenti (visione tradizionale) alla previsione di difficoltà future, enfatizzando la necessità di misurare la continuità aziendale futura.
- Insolvenza: “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. È la condizione più grave e attuale: l’impresa non paga più i propri debiti alle scadenze, in modo sintomatico e duraturo. Gli indicatori tipici di insolvenza sono fattuali: ingiunzioni e pignoramenti dai creditori, assegni protestati, stipendi e fornitori non pagati, ecc. Si parla anche di “insolvenza conclamata”, distinguendola dalla crisi (che è invece insolvenza prospettica probabile). L’insolvenza, quando accertata in sede giudiziale, porta all’apertura di una procedura concorsuale (liquidatoria o di ristrutturazione).
- Fallimento: la parola fallimento in senso tecnico-giuridico non è più utilizzata dal Codice della Crisi, sostituita dal termine liquidazione giudiziale per la procedura concorsuale liquidatoria. Tuttavia, nel linguaggio comune “fallire” resta sinonimo di “andare in bancarotta” o “essere insolvente”. In questa guida useremo talvolta il termine “fallimento” in senso colloquiale, pur riferendoci alla liquidazione giudiziale disciplinata dagli artt. 121-283 CCII. A livello sostanziale, la nuova liquidazione giudiziale mantiene le caratteristiche fondamentali del vecchio fallimento (espropriazione e liquidazione dell’attivo sotto il controllo di un curatore e del tribunale), ma con procedure più rapide e alcune innovazioni terminologiche e organizzative.
Presupposti di fallibilità – Non tutte le imprese possono essere soggette a fallimento/liquidazione giudiziale. Il nostro ordinamento esclude i piccoli imprenditori sotto determinate soglie (“impresa minore”) e alcuni soggetti non commerciali. In base all’art. 2, comma 1, lett. d) CCII è definita impresa minore quella che nei tre esercizi precedenti (o dall’inizio attività, se inferiore) non supera congiuntamente tutti i seguenti parametri dimensionali: un attivo patrimoniale annuo ≤ 300.000 €, ricavi lordi annui ≤ 200.000 €, debiti totali ≤ 500.000 €. Chi rientra in queste soglie è un “piccolo imprenditore” non assoggettabile a liquidazione giudiziale ordinaria. L’art. 121 CCII infatti esclude dalla liquidazione gli imprenditori che dimostrino il possesso dei requisiti di impresa minore. In pratica, un’impresa sotto-soglia non “fallisce” in senso tecnico: in caso di insolvenza potrà accedere a procedure semplificate di sovraindebitamento (es. liquidazione controllata dei beni ex art. 268 CCII) oppure alla composizione negoziata, ma non verrà dichiarata fallita dal tribunale. Le società agricole, i professionisti, i consumatori e gli enti non commerciali sono anch’essi esclusi dal fallimento e ricadono nel quadro del sovraindebitamento (procedure ex L.3/2012 integrate ora nel Codice). Di contro, gli imprenditori sopra soglia (PMI e grandi imprese commerciali) sono soggetti alle procedure concorsuali ordinarie in caso d’insolvenza. È importante notare che, se la società è di persone (SNC, SAS) con soci a responsabilità illimitata, il fallimento della società si estende ai soci illimitatamente responsabili, coinvolgendo il loro patrimonio personale (salvo il beneficio delle soluzioni da sovraindebitamento se applicabili).
Soglia di debito rilevante – Un’altra condizione prevista dal Codice (riprendendo la vecchia legge fallimentare) è che non si apre la liquidazione giudiziale se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati è complessivamente inferiore a 30.000 €. Questo valore funge da soglia di tolleranza: piccole insolvenze sotto 30 mila euro non giustificano il “fallimento” giudiziale. Naturalmente, superare quella soglia di debito scaduto (unito agli altri segnali di insolvenza) può innescare le istanze di fallimento da parte di creditori o autorità.
Crisi vs insolvenza in pratica – Riassumendo, la crisi è una situazione di pre-insolvenza in cui l’azienda intravede il rischio concreto di non reggere i propri impegni finanziari nel prossimo futuro (tipicamente 6-12 mesi), a causa di squilibri patrimoniali o di cassa. L’insolvenza è invece lo stadio successivo, il dissesto conclamato, in cui l’impresa ha già cessato i pagamenti regolari ai creditori. Il Codice incentiva fortemente che la crisi venga riconosciuta e gestita prima di degenerare in insolvenza irreversibile: a tal fine introduce obblighi di organizzazione interna e strumenti di allerta precoce (di cui parleremo nei capitoli successivi) per far emergere i segnali di crisi tempestivamente. Dal punto di vista del debitore, ciò significa dover tenere sotto controllo la salute finanziaria dell’azienda e attivarsi subito ai primi campanelli d’allarme, così da evitare l’esito estremo della liquidazione fallimentare.
Nota terminologica: In questa guida useremo talvolta l’espressione “procedura concorsuale” per indicare genericamente i procedimenti giudiziali di regolazione della crisi o insolvenza (es. concordato preventivo, liquidazione giudiziale, ecc.). Il termine “fallimento” verrà utilizzato in senso non tecnico come sinonimo di dissesto irreversibile dell’impresa, sebbene giuridicamente si parli ora di liquidazione giudiziale. Per il lettore interessato al confronto col previgente sistema, ricordiamo che la Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) è stata abrogata con l’entrata in vigore del CCII il 15 luglio 2022, introducendo nuove denominazioni e procedure ma conservando una linea di continuità su molti principi di base (ad esempio, lo stato di insolvenza resta presupposto oggettivo per l’apertura della liquidazione giudiziale, definito in modo analogo al passato).
2. Indicatori finanziari e contabili di una crisi imminente
Come può un imprenditore accorgersi in anticipo che l’azienda sta entrando in crisi? La chiave è monitorare alcuni indicatori finanziari e contabili che fungono da termometri dello stato di salute aziendale. Il Codice della Crisi, all’art. 13, ha codificato gli “squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario” che evidenziano la probabilità d’insolvenza. In particolare, assumono rilievo:
- Flussi di cassa prospettici insufficienti rispetto al fabbisogno finanziario dell’impresa. È necessario valutare se la liquidità che l’azienda genera (dalla gestione operativa, incassi futuri, ecc.) basterà a coprire le uscite previste (pagamenti a fornitori, stipendi, rate di finanziamenti, imposte, ecc.) nei prossimi mesi. Un indicatore sintetico introdotto dal Codice per misurare ciò è il DSCR – Debt Service Coverage Ratio a 6 mesi, ossia il rapporto tra i flussi di cassa disponibili e il servizio del debito (quota capitale + interessi) in scadenza nei sei mesi successivi. Se DSCR < 1, significa che il cash flow atteso non copre il debito da ripagare nel breve termine: questo è considerato un segnale di crisi molto serio. Un DSCR ≥ 1, invece, indica capacità di far fronte al debito imminente. Nota: il DSCR è un indice previsionale e il suo calcolo richiede un budget di tesoreria attendibile; per molte PMI che non dispongono di sistemi sofisticati di cash flow forecasting, il Codice consente di usare in alternativa alcuni indici di bilancio standard (si veda oltre).
- Patrimonio netto negativo o insufficiente rispetto ai debiti. Il patrimonio netto rappresenta le risorse proprie dell’azienda (capitale sociale e riserve); se diventa negativo significa che le perdite cumulate hanno eroso tutto il capitale. Un patrimonio netto negativo (o anche solo inferiore al minimo legale per le spa/srl) è un fortissimo indicatore di crisi, in quanto segnala che l’impresa ha consumato i mezzi propri ed è verosimilmente incapace di sostenersi senza nuovi apporti di capitale. Oltre a costituire causa di scioglimento per le società di capitali (art. 2484 c.c.), il patrimonio netto negativo comporta l’obbligo per gli amministratori di intervenire immediatamente (ricapitalizzazione o liquidazione). Esempio: se una S.r.l. ha capitale sociale di 20.000 € ma dalle ultime perdite il patrimonio netto risulta -5.000 €, l’azienda è sottocapitalizzata: i debiti eccedono gli attivi per 5.000 € e i creditori non hanno più copertura patrimoniale – questa situazione configura uno stato di crisi conclamato.
- Rapporto mezzi propri/debiti (adeguatezza patrimoniale). Anche senza arrivare a patrimonio netto negativo, è utile guardare il rapporto tra capitale netto e debiti totali. Un basso indice di patrimonializzazione (mezzi propri molto esigui rispetto ai debiti) segnala vulnerabilità: basta un piccolo shock per rendere l’azienda insolvente. Il Codice indica come significativo l’indice di adeguatezza patrimoniale = Patrimonio Netto / Debiti totali. Valori molto bassi (ad esempio < 0,1, cioè solo 10% di mezzi propri) sono indice di possibile crisi, specie se combinati con altri squilibri.
- Redditività e flussi di cassa operativi. Un trend di perdite d’esercizio su più anni depaupera il patrimonio e può segnalare crisi strutturale. È importante distinguere tra perdita contabile e carenza di cassa: un’azienda può anche registrare un piccolo utile ma avere problemi di liquidità (ad es. per investimenti o crediti insoluti). Conviene quindi analizzare il cash flow operativo (utile + ammortamenti, variazione CCN, ecc.). Il Consiglio Nazionale dei Commercialisti ha proposto un indice di redditività = Cash flow operativo / Totale attivo: valori molto bassi o negativi indicano incapacità dell’attivo aziendale di generare ritorni e liquidità. In pratica, un EBITDA (margine operativo lordo) negativo, o un flusso di cassa netto negativo, sono campanelli importanti.
- Indice di liquidità corrente. Si tratta del rapporto tra Attività a breve e Passività a breve (current ratio). Misura l’equilibrio finanziario nel breve termine: se le attività correnti (crediti a breve, magazzino, cassa) non coprono le passività correnti (debiti a breve, fidi, ecc.), l’azienda è in tensione di liquidità. Un current ratio < 1 è preoccupante; tuttavia anche valori moderatamente sopra 1 potrebbero non bastare se gran parte dell’attivo circolante è difficile da liquidare (es. magazzino obsoleto). Il CNDCEC nelle sue linee guida ha indicato soglie di indice di liquidità variabili per settore (ad es. 0,8 per industria, 1,0 per servizi, ecc.), sotto le quali scatta l’allerta.
- Indice di sostenibilità degli oneri finanziari. Questo indice confronta l’incidenza degli oneri finanziari (interessi passivi su finanziamenti) con il fatturato o con il cash flow. Un indice tipico è Oneri finanziari / Ricavi: se troppo alto (sopra certe soglie di settore, ad es. >3-5%), indica che l’azienda è troppo indebitata e i costi del debito erodono la marginalità. In altre parole, l’impresa fatica a sostenere il peso degli interessi con quanto genera in vendite. Questo può anticipare tensioni di cassa e difficoltà a rifinanziarsi.
Tabella 1 – Principali indicatori contabili di crisi
Indicatore | Come si calcola | Soglia di allarme | Significato |
---|---|---|---|
DSCR a 6 mesi | Flussi di cassa liberi ÷ Debito da servire (6 mesi) | < 1 | Incapacità di pagare i debiti imminenti con la cassa generata. Segnala rischio insolvenza a breve termine. |
Patrimonio Netto | Attività – Passività (Capitale proprio) | ≤ 0 (o < minimo di legge) | Capitale azzerato da perdite. Copertura dei debiti insufficiente; impresa tecnicamente insolvente (richiede intervento immediato). |
Rapporto Mezzi Propri/Debiti | Patrimonio Netto ÷ Totale Debiti | Molto basso (es. < 5-10%) | Struttura patrimoniale debolissima. Elevato leverage; l’azienda dipende quasi totalmente da capitali di terzi ed è esposta a crisi di fiducia. |
Indice di Liquidità | Attivo a breve ÷ Passivo a breve | < ~0,8–1,0 (varia per settore) | Squilibrio di liquidità corrente. Possibile difficoltà a far fronte alle obbligazioni a breve (bolletta fornitori, banche) senza ricorrere a fonti straordinarie. |
Incidenza oneri finanziari | Oneri finanziari annui ÷ Ricavi annui | Elevata (> 3–5% a seconda settore) | Debito oneroso troppo pesante. L’azienda spende troppo in interessi rispetto al giro d’affari, con rischio di insolvenza se i ricavi calano. |
Indice di redditività attivo | Cash flow operativo ÷ Totale Attivo | Vicino a 0 o negativo | Attività aziendali che non generano flussi adeguati. Investimenti poco redditizi o inefficienze che erodono la cassa, preludio di crisi se persistente. |
N.B.: Gli indici sopra sono da valutare nel loro insieme e in tendenza. Il Codice prevede una valutazione unitaria: ad esempio, se patrimonio netto è positivo e DSCR > 1, singoli indici fuori soglia potrebbero non indicare crisi se controbilanciati da altri fattori. Viceversa, patrimonio netto negativo o DSCR < 1 sono segnali forti che rendono quasi superflua l’analisi degli altri cinque indici settoriali.
Il Consiglio Nazionale dei Commercialisti (CNDCEC), in attuazione dell’art. 13 CCII, ha elaborato nel 2019 un set di 5 indici di allerta settoriali da usare congiuntamente per rilevare la crisi (li abbiamo sostanzialmente inclusi nella tabella: sostenibilità degli oneri finanziari, adeguatezza patrimoniale, equilibrio finanziario di breve, redditività e indebitamento tributario/previdenziale). Tali indici hanno soglie diverse a seconda del settore economico ISTAT di appartenenza; ad esempio, per il commercio un indice di liquidità < ~1 può essere tollerato, mentre per l’industria si richiede ≥0,8, ecc. Un indice di Indebitamento tributario/previdenziale eccessivo (debiti fiscali e contributivi oltre, ad es., il 15% dell’attivo) è considerato segnale di allarme. L’idea è che se tutti e cinque questi indici superano contemporaneamente le soglie, si ha una “ragionevole presunzione dello stato di crisi”. In pratica, l’algoritmo di allerta è gerarchico: prima si verifica che il patrimonio netto non sia negativo; poi si controlla il DSCR; infine, se necessario, si passa agli altri 5 indici. Va sottolineato che il legislatore nel 2022 ha attenuato l’obbligatorietà di questi indici: attualmente essi rappresentano linee guida di supporto (il Ministero doveva approvarli, ma l’entrata in vigore è stata posticipata e resa facoltativa). Ciò non toglie che, da un punto di vista gestionale, monitorare costantemente tali parametri sia una buona pratica per intercettare squilibri sul nascere.
3. Indicatori extra-contabili: campanelli d’allarme “qualitativi”
Oltre ai nudi numeri di bilancio, esistono numerosi segnali extra-contabili o qualitativi che un’azienda sta andando in crisi. Questi riguardano comportamenti e fatti della gestione quotidiana, spesso percepibili ancor prima dei dati di bilancio. Ecco i principali campanelli d’allarme da non ignorare:
- Ritardi nei pagamenti verso fornitori, dipendenti, fisco o altri creditori. Se l’azienda inizia a pagare in ritardo stipendi (magari dilazionando il pagamento delle retribuzioni di qualche settimana) o a saltare scadenze con fornitori (pagando a 120-150 giorni anziché ai termini pattuiti) è un segnale classico di tensione finanziaria. La normativa indica come “significativi” i ritardi reiterati oltre determinate soglie: ad esempio, debiti per retribuzioni scaduti da oltre 60 giorni e superiori alla metà dell’ammontare mensile totale stipendi, oppure debiti verso fornitori scaduti da oltre 120 giorni e superiori ai debiti non scaduti. Tali soglie (originariamente previste per le procedure di sovraindebitamento) quantificano quando un ritardo diventa sintomo sistemico di crisi. Anche il mancato pagamento di imposte e contributi alle scadenze (liquidazioni IVA, INPS) rientra nei ritardi pericolosi: spesso l’imprenditore in difficoltà rinvia i pagamenti fiscali per far fronte ad altre uscite, ma accumula così debiti erariali che aggravano la situazione.
- Utilizzo continuo e integrale degli affidamenti bancari per coprire spese correnti. Un’azienda sana usa le linee di fido (scoperti di c/c, castelletto per anticipo fatture, ecc.) in modo fisiologico e temporaneo. Se invece si è sempre al massimo del fido, magari sconfinando oltre i limiti, significa che la tesoreria è perennemente in rosso. Coprire costantemente le spese operative con scoperti bancari indica che il business non genera abbastanza cassa. Questo può preludere a tensioni gravi, specie se la banca dovesse ridurre gli affidamenti.
- Banche e finanziatori che rifiutano o revocano il credito. Un segnale immediato che “qualcosa non va” è il deterioramento dei rapporti con gli istituti di credito: ad esempio, richiesta di rientro da parte della banca, revoca di fidi e castelletti, diniego di nuovi prestiti o finanziamenti, segnalazioni in Centrale Rischi di sconfinamenti frequenti. Le banche basano le loro decisioni su rating e andamentali: se percepiscono un aumento del rischio (bilanci in perdita, ritardi nei pagamenti, settore in crisi), restringono il credito. Il credit crunch aziendale (banche che chiudono i rubinetti) spesso innesca una crisi conclamata, perché l’impresa resta senza ossigeno finanziario. Dunque, se notate che le banche iniziano a fare difficoltà – ad esempio richiedendo maggiori garanzie, riducendo i plafond o segnalando l’azienda in categoria a rischio – è il momento di investigare a fondo la situazione.
- Fuga di clienti o calo significativo del fatturato. La perdita costante di clienti importanti, ordini in forte diminuzione, o una contrazione del fatturato senza prospettive di ripresa, può indicare che l’azienda ha problemi strutturali (prodotto non competitivo, reputazione in calo, ecc.). Un calo di ricavi non è di per sé insolvenza, ma se combinato con costi fissi alti può rapidamente portare a perdite e tensioni di cassa. Spesso le aziende in difficoltà vedono un circolo vizioso: riducono la qualità o i servizi per risparmiare, perdendo ulteriormente clienti e aggravando la crisi. Monitorare l’andamento del fatturato e il feedback della clientela è quindi importante: ad esempio, se negli ultimi trimestri le vendite scendono del 20-30% anno su anno, l’allarme dovrebbe suonare, soprattutto se il trend continua.
- Margini operativi che non coprono più i costi. Collegato al punto precedente: anche con fatturato stabile, l’aumento dei costi o l’erosione dei margini (EBITDA in forte calo o diventato negativo) è segnale di crisi potenziale. Se l’impresa arriva a un punto in cui gli incassi non coprono i costi (situazione di cash flow negativo), deve attingere a liquidità esterna o indebitarsi per andare avanti. Questo non può durare a lungo: o si invertela rotta (riducendo costi, aumentando prezzi, ecc.) o la crisi di liquidità sarà questione di tempo.
- Segnalazioni dai partner commerciali: fornitori e clienti spesso “annusano” la crisi prima di altri. Se fornitori strategici iniziano a richiedere pagamenti anticipati, riducono il fido commerciale o ritardano le consegne in attesa di saldare vecchie fatture, probabilmente nutrono dubbi sulla solvibilità dell’azienda. Analogamente, se importanti clienti manifestano insoddisfazione, ritardano i pagamenti o riducono gli ordini per timore di mancata esecuzione/assistenza, è un campanello d’allarme. Esempio: se i fornitori cominciano a spedire merce solo contro pagamento anticipato o COD (cash on delivery), vuol dire che non si fidano più della nostra capacità di pagarli a 60-90 giorni – un segno tangibile che la reputazione finanziaria è compromessa.
- Eventi esterni e legali: l’avvio di azioni legali ed esecutive da parte dei creditori è spesso il segnale definitivo. Ricevere decreti ingiuntivi, pignoramenti sui conti, atti di sequestro di beni o iscrizioni di ipoteche giudiziali per crediti non pagati significa che l’insolvenza è già percepita all’esterno. Anche i protesti di assegni e cambiali sono indicatori ufficiali: un assegno emesso e non pagato per mancanza fondi (assegno protestato) diventa pubblico registro e compromette pesantemente la possibilità di ottenere credito. Un singolo protesto può essere un incidente, ma più protesti o più pignoramenti delineano uno stato di insolvenza. Dal punto di vista dell’allerta interna, se si arriva a questi punti, si è in una fase avanzata della crisi, in cui le soluzioni devono essere immediate e drastiche. Idealmente, bisogna agire prima che i creditori inizino le azioni forzate.
In generale, l’imprenditore deve prestare attenzione a qualsiasi anomalia ricorrente nella gestione: ad esempio, richieste continue di proroghe dai pagamenti, necessità di vendere cespiti per fare cassa, inventario che accumula invenduto, dipendenti chiave che lasciano l’azienda (magari perché preoccupati della situazione), aumento di contestazioni da parte di clienti o fornitori, ecc. Ciascuno di questi elementi, preso isolatamente, può avere spiegazioni contingenti; ma se vari sintomi si presentano insieme, compongono il quadro di una potenziale crisi. Anche un solo campanello d’allarme, se ripetuto nel tempo, va analizzato con attenzione: ignorarlo sperando sia passeggero può portare a sottovalutare un problema serio.
4. Obblighi del debitore: “adeguati assetti” e allerta interna
Dal 2019 la legge impone espressamente all’imprenditore (specie se in forma societaria) di dotarsi di strumenti organizzativi interni per prevenire e rilevare tempestivamente lo stato di crisi. Questo rappresenta un cambio di paradigma: non basta più reagire quando la crisi è conclamata, ma occorre predisporre ex ante un sistema di controllo e allerta interno. L’art. 2086 c.c., come riformato dall’art. 375 del Codice della Crisi, sancisce che l’imprenditore che opera in forma societaria o collettiva deve istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensione dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale. Si parla comunemente di “adeguati assetti organizzativi”. In pratica, gli amministratori di S.r.l., S.p.A. (e, per quanto compatibile, anche di società di persone con organo amministrativo collegiale) hanno il dovere di:
- Tenere una contabilità accurata e aggiornata, che permetta di conoscere la situazione economico-finanziaria in tempo reale (niente bilanci fatti male o in ritardo di mesi).
- Implementare sistemi di controllo di gestione proporzionati: ad esempio budget annuali, piani finanziari, reporting periodico su indici chiave, analisi degli scostamenti. Nelle PMI questo può significare anche solo monitorare mensilmente cassa, ordini, margini e debiti.
- Strutturare l’organigramma in modo che ci siano ruoli e procedure per la segnalazione interna di problemi: es. il responsabile amministrativo deve informare subito gli amministratori in caso di cassa insufficiente o di covenants bancari a rischio violazione.
- Sorvegliare la continuità aziendale: questo implica valutare almeno annualmente (in sede di bilancio) se l’azienda è un going concern per i 12 mesi successivi, come richiesto dai principi contabili e di revisione. Qualora emergano “significative incertezze” sulla continuità, occorre agire e darne trasparenza.
Gli organi di controllo societari – sindaci, revisori, collegio sindacale, società di revisione – hanno anch’essi obblighi attivi nell’allerta interna. L’art. 14 CCII (nel testo originario) poneva a loro carico il dovere di segnalare per iscritto agli amministratori l’esistenza di fondati indizi di crisi, sollecitando l’adozione di provvedimenti correttivi. Se gli amministratori ignoravano l’avvertimento, l’organo di controllo avrebbe dovuto informare l’OCRI (Organismo di composizione della crisi) presso la Camera di Commercio. Attenzione: queste specifiche procedure di segnalazione all’OCRI non sono mai entrate in vigore come tali, perché il legislatore le ha sospese e poi eliminate prima dell’effettiva efficacia (inizialmente prevista nel 2020 e poi rinviata, vedi §5). Tuttavia, resta fermo l’obbligo generale di vigilanza: un collegio sindacale diligente, in presenza di segnali di crisi, deve quanto meno attivarsi per convocare il consiglio di amministrazione o l’assemblea dei soci e riferire sulla situazione. Inoltre, sul piano della responsabilità, i sindaci e revisori che omettano di segnalare gravi irregolarità o dissesti possono essere chiamati a rispondere in solido con gli amministratori dei danni verso la società e i creditori (art. 2407 c.c. per i sindaci).
L’adozione di assetti organizzativi adeguati non è solo un onere astratto, ma ha conseguenze concrete: un amministratore che non predispone strumenti di controllo ed evita di “vedere” la crisi commette una violazione di legge. Il nuovo art. 2486 c.c. (modificato dall’art. 378 CCII) stabilisce criteri di quantificazione del danno in caso di gestione oltre il punto di crisi: essenzialmente, se gli amministratori non fermano l’attività dopo scioglimento della società o persistono in una gestione che aggrava il dissesto, il danno ai creditori si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui avrebbero dovuto attivarsi (o avviare la procedura concorsuale) e il patrimonio netto alla data della successiva liquidazione. In altre parole, ogni perdita ulteriore causata dal ritardo nell’emersione della crisi è addebitabile agli amministratori. La giurisprudenza ha più volte affermato questo principio anche prima della riforma, ma ora è normativizzato: continuare ad operare in stato di insolvenza o con capitale azzerato può costare caro agli amministratori, in termini di azioni di responsabilità promosse dal curatore fallimentare nell’interesse dei creditori (ex art. 2394 c.c. per spa, 2476 c.c. per srl). Ad esempio, la Cassazione ha stabilito che la mancanza di adeguati assetti e la tardiva reazione alla crisi costituiscono violazione degli obblighi gestori, aggravando il dissesto e aprendo la strada alla responsabilità personale. L’ordinanza Cass. civ. 29 gennaio 2025 n. 367 (rel. Terrusi) ha proprio ribadito l’importanza di un monitoraggio costante della continuità aziendale: gli amministratori devono valutare con rigore la sostenibilità dei debiti e l’eventuale perdita di continuità, attivandosi senza indugio per evitare pregiudizi ai creditori, in linea con gli obblighi di assetto adeguato introdotti dal CCII.
In sintesi, dal punto di vista del debitore-imprenditore, oggi vige un dovere giuridico di auto-disciplina e auto-controllo: bisogna dotarsi di strumenti contabili e organizzativi idonei a far emergere subito gli indizi di crisi e, una volta emersi, è obbligatorio attivarsi tempestivamente per gestirli. Questo comporta che “non sapere” non è più una scusa valida. Un amministratore che dichiarasse “non ci eravamo accorti della gravità della situazione” ammetterebbe in pratica di non aver istituito quegli adeguati assetti informativi richiesti dalla legge, con tutte le conseguenze del caso. Come evidenziato da autorevole dottrina, gli adeguati assetti rappresentano la prima linea di difesa contro la crisi: il legislatore li ha concepiti come strumenti di allerta interna, destinati a sostituire in gran parte le rigide procedure di allerta esterna poi abrogate. Dunque, capire se l’azienda sta per fallire è anzitutto un dovere dell’imprenditore stesso, da assolversi mediante un’attenta governance.
5. Strumenti di allerta e prevenzione introdotti dal Codice della Crisi
Il Codice della Crisi d’Impresa (D.Lgs. 14/2019) nella sua impostazione originaria prevedeva un vero e proprio sistema di allerta articolato su due livelli:
- Allerta interna, gestita dagli organi sociali (amministratori e organi di controllo) come appena descritto, con obbligo di segnalazione agli amministratori e, in caso di inerzia, all’OCRI istituito presso le Camere di Commercio.
- Allerta esterna, tramite obblighi di segnalazione posti a carico di alcuni creditori pubblici qualificati (Erario, INPS, agente della riscossione) al superamento di certe soglie di debito scaduto.
L’obiettivo era favorire una emersione anticipata della crisi – in linea con le Raccomandazioni UE e le esperienze estere – per consentire interventi di ristrutturazione prima che l’insolvenza diventi conclamata. Tuttavia, queste procedure di allerta non hanno mai visto piena applicazione: complice la pandemia da Covid-19 che ha travolto tutte le imprese nel 2020, il legislatore ha dapprima rinviato più volte l’entrata in vigore dell’allerta (fino al 2023), poi – con il D.L. 118/2021 convertito nella L. 147/2021 – ha di fatto abrogato o sospeso la maggior parte di tali strumenti, sostituendoli con approcci meno coercitivi. In particolare:
- È stato eliminato l’OCRI e le connesse procedure di allerta obbligatoria. Il Titolo II del Codice, dedicato all’allerta, è stato profondamente riscritto prima ancora di entrare in vigore. Gli obblighi di segnalazione formale all’organismo non sussistono più. Dunque, oggi non è obbligatorio rivolgersi a un OCRI o ad un organo esterno quando si rileva la crisi.
- I creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS, Agente Riscossione) non hanno più l’obbligo di attivare la procedura d’allerta attiva originaria (che prevedeva sanzioni in caso di omessa segnalazione). Nel nuovo assetto, tali enti devono comunque avvisare il debitore se le sue esposizioni superano certe soglie, ma l’effetto è solo di invito bonario ad attivarsi (in particolare a presentare istanza di composizione negoziata). Ad esempio, l’art. 25-novies CCII (introdotto dal correttivo 2022 in luogo del vecchio art.15) stabilisce che l’Agenzia delle Entrate, l’INPS e l’Agente della riscossione possono segnalare all’imprenditore il superamento di determinati importi scaduti e invitarlo a reagire, senza più comminare la sanzione dell’inopponibilità o perdita di privilegio sui crediti pubblici in caso di mancata segnalazione (sanzioni che invece erano previste nella versione originaria). In pratica, se un’azienda ha, poniamo, debiti IVA non versati sopra una certa soglia o contributi INPS arretrati rilevanti, l’Ente gli invierà una comunicazione segnalando la situazione e suggerendo di trovare una soluzione (cfr. art. 25-novies CCII). Ma non vi è un automatismo di allerta giudiziaria.
- Contestualmente, il D.L. 118/2021 ha introdotto una nuova procedura volontaria: la Composizione Negoziata della Crisi (CNC). Questo strumento, disciplinato ora dagli artt. 12-25 quinquies CCII, prende il posto dell’allerta “esterna” e della vecchia composizione assistita. Si tratta di un percorso facoltativo che l’imprenditore in crisi può attivare, con l’assistenza di un esperto indipendente nominato da un’apposita Commissione, per trovare un accordo con i creditori e risanare l’impresa fuori dalle aule giudiziarie. La composizione negoziata non è pubblica nella fase iniziale, non comporta dichiarazione d’insolvenza, e offre alcune tutele (come la possibilità di chiedere misure protettive per sospendere azioni esecutive dei creditori durante le trattative, ex art. 18-19 CCII).
In sostanza, quindi, il sistema attuale di allerta punta sulla responsabilizzazione del debitore e su strumenti volontari di emersione della crisi, piuttosto che su meccanismi automatici o punitivi. Gli adeguati assetti organizzativi interni e il monitoraggio di indici restano il cardine (allerta “privata”). All’esterno, i principali creditori istituzionali svolgono un ruolo di sentinella, ma limitandosi a segnalare bonariamente e non più a innescare procedure forzose. L’idea è di evitare gli effetti negativi che un’allerta automatica eccessivamente rigida avrebbe potuto avere (come allarmi a catena in periodi di congiuntura negativa), sostituendola con un approccio negoziale e preventivo.
Vediamo più da vicino la Composizione Negoziata e gli altri strumenti pratici che un imprenditore può utilizzare quando percepisce i segnali di crisi:
- Composizione negoziata della crisi (CNC): È una procedura volontaria e riservata, attivabile da qualsiasi imprenditore commerciale (anche agricolo) iscritto al Registro Imprese, indipendentemente da dimensioni o forma giuridica. Non richiede dichiarazione di stato di crisi o insolvenza, anzi si può avviare anche in semplice situazione di squilibrio temporaneo. L’imprenditore deposita un’istanza su una piattaforma telematica nazionale presso la CCIAA, allegando informazioni economico-patrimoniali e un piano di massima di risanamento. Un’apposita Commissione nomina un Esperto indipendente (iscritto nell’albo degli esperti della crisi) che studia la situazione e aiuta l’imprenditore a negoziare con i creditori una soluzione (può essere un accordo stragiudiziale, un nuovo finanziamento, una moratoria, la cessione dell’azienda, o anche l’accesso a una procedura concorsuale minore come un concordato). La composizione negoziata dura al massimo 180 giorni (prorogabili di 180). Durante questo periodo, l’imprenditore può chiedere al Tribunale l’applicazione di misure protettive (ad esempio il blocco o la sospensione delle azioni esecutive individuali dei creditori) per avere “respiro” e condurre le trattative. L’Esperto non ha poteri gestori, ma redige delle relazioni e può, se rileva atti pregiudizievoli, segnalarli al Tribunale. La procedura è confidenziale: solo se l’imprenditore richiede le misure protettive si ha pubblicità nel Registro Imprese. La CNC è pensata come strumento di salvaguardia della continuità aziendale: l’esperto valuterà la percorribilità del risanamento attraverso un check-up iniziale (il cosiddetto test pratico di risanamento, una lista di controllo di sostenibilità economica e finanziaria). Se emerge che non c’è alcuna prospettiva di risanare, l’esperto può invitarlo a rinunciare e magari orientarsi verso una liquidazione controllata. La CNC, introdotta nel 2021, ha di fatto rimpiazzato le precedenti procedure di allerta obbligatoria, fornendo un percorso più flessibile e su base volontaria, ma comunque vigilato e guidato da un professionista terzo.
- Segnalazioni “morbide” dei creditori pubblici: Come detto, Agenzia Entrate, INPS e Agente Riscossione oggi invitano il debitore ad attivare la composizione negoziata quando i debiti scaduti superano certe soglie (ad esempio: debiti IVA significativamente scaduti, contributi non pagati da oltre 90 giorni per importi rilevanti, ecc.). L’art. 25-novies CCII prevede che tali enti trasmettano una comunicazione al debitore segnalando l’entità dell’esposizione e le possibili iniziative (incluso l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi). Non c’è più un obbligo di segnalazione all’OCRI, né sanzioni per l’ente che non segnala. È quindi nell’interesse del debitore stesso prendere sul serio questi avvisi. Parallelamente, è previsto che anche banche e altri creditori finanziari adottino comportamenti collaborativi: ad esempio, durante la pandemia sono state introdotte moratorie sui prestiti (DL 18/2020 “Cura Italia” e successivi) e protocolli per rinegoziare l’esposizione bancaria in contesto protetto. Alcuni grandi gruppi bancari, in adesione a linee guida ABI, hanno predisposto canali dedicati per sostenere aziende che intraprendono un percorso di risanamento (congelando temporaneamente le rate, evitando revoche improvvise dei fidi, ecc.). Queste prassi rientrano negli sforzi per favorire soluzioni concordate invece di accelerare il default.
- Accordi stragiudiziali e piani attestati: Al di fuori delle procedure formalizzate, un imprenditore in difficoltà può tentare di raggiungere accordi privati con i propri creditori. Un tipico esempio è il piano di risanamento attestato ex art. 56 CCII (già art. 67 L.F.), ossia un piano di ristrutturazione aziendale redatto e attestato da un professionista indipendente che ne valida la fattibilità, sulla base del quale si ottengono dilazioni o remissioni da parte dei creditori, senza passare per un’omologazione giudiziaria. Se redatto secondo i crismi di legge, il piano attestato rende non revocabili (in caso di successivo fallimento) gli atti compiuti in esecuzione del piano, incoraggiando così i creditori ad aderire. È uno strumento extragiudiziale, riservato, spesso utilizzato per ristrutturazioni “silenziose”. Per esempio, una S.r.l. in crisi potrebbe negoziare con le banche una riscadenzazione dei debiti e con alcuni fornitori uno stralcio parziale, formalizzando il tutto in un accordo supportato da un piano attestato di risanamento: se tutti stanno ai patti, l’azienda può evitare il default.
- Strumenti concorsuali di regolazione della crisi: Qualora la situazione sia più compromessa o si preferisca un quadro giudiziale vincolante, il debitore può accedere alle procedure concorsuali prima di arrivare all’insolvenza irreversibile. Le principali sono:
- Il Concordato Preventivo, nelle sue varianti in continuità aziendale (quando l’impresa prosegue attività durante e dopo la procedura) oppure liquidatorio (quando essenzialmente liquida beni ma evita il fallimento con una proposta ai creditori). Il concordato richiede il deposito di un piano dettagliato e di una proposta di soddisfazione dei creditori, ed è soggetto a voto dei creditori e omologazione del tribunale. Può essere utilizzato in stato di crisi o insolvenza (anche probabilmente insolvenza, dopo il recepimento della direttiva UE). Il nuovo Codice introduce anche il concordato semplificato per la liquidazione, accessibile però solo in certe condizioni dopo l’insuccesso di una composizione negoziata.
- Gli Accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD) ex art. 57 CCII: sono accordi con una maggioranza qualificata di creditori (almeno 60% dei crediti, o percentuali minori in alcune varianti come gli accordi agevolati o ad efficacia estesa) che vengono omologati dal tribunale. Vincolano solo i aderenti (i dissenzienti restano fuori, salvo estensioni particolari). Possono essere uno strumento intermedio tra il piano puramente stragiudiziale e il concordato.
- Per le imprese minori e i soggetti non fallibili, il Codice prevede procedure di sovraindebitamento: ad esempio il concordato minore (simile al concordato preventivo ma tarato su piccole dimensioni, senza voto ma con omologazione se soddisfa certi requisiti di convenienza per i creditori) e la liquidazione controllata (analoga al fallimento ma su istanza del debitore e con modalità più snelle). Inoltre esiste la procedura di esdebitazione del sovraindebitato, che consente al debitore persona fisica meritevole di ottenere la liberazione dai debiti residui dopo la liquidazione, una volta ogni 4 anni.
Va evidenziato che la scelta dello strumento dipende dalla gravità della situazione e dalle prospettive di risanamento. Dal punto di vista del debitore, il ventaglio di opzioni consente, se colte per tempo, di evitare la completa rovina dell’impresa e spesso anche di salvaguardare il patrimonio personale (soprattutto per chi ha responsabilità illimitata). L’importante è non aspettare l’irreparabile: la normativa premia l’imprenditore che si attiva presto (con protezioni e possibilità di conservare la gestione in concordato in continuità, ecc.), mentre sanziona chi aspetta troppo (con fallimenti più traumatici, azioni di responsabilità, e in ambito penale i reati di bancarotta, vedi §6).
FAQ sulle procedure di allerta e composizione:
- D: È obbligatorio rivolgersi a qualche autorità appena l’azienda è in crisi?
R: No, attualmente non vi è un obbligo di denuncia esterna immediata. In passato si era previsto l’intervento di un organismo (OCRI) presso la Camera di Commercio, ma tale meccanismo non è entrato in funzione ed è stato abolito. Oggi l’obbligo è principalmente interno: l’imprenditore e gli organi sociali devono attivarsi autonomamente (adeguati assetti, composizione volontaria). Ciò non toglie che ignorare la crisi può portare ad azioni giudiziali dei creditori (un creditore può chiedere il fallimento se vede insolvenza conclamata) o a responsabilità per gli amministratori. Quindi, pur non essendoci un “tribunale della crisi” che scatta d’ufficio, di fatto un’impresa in dissesto sarà chiamata a risponderne in qualche sede se non si muove. - D: I creditori (banche, fisco) possono attivare essi stessi procedure d’allerta?
R: Possono sollecitare l’imprenditore ad agire. Ad esempio, Fisco e INPS inviano comunicazioni di allerta se i debiti scaduti superano certe soglie, invitando a ricorrere alla composizione negoziata. Le banche, dal canto loro, in genere prima di attivare un recupero forzoso cercano un accordo stragiudiziale (piano di rientro) o aderiscono a moratorie di settore. Tuttavia, se l’imprenditore non reagisce e la situazione peggiora, i creditori possono saltare l’allerta e procedere direttamente: ad esempio presentando istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) se ritengono l’azienda insolvente, oppure escutendo garanzie, pignorando beni, ecc. Quindi l’allerta in senso stretto non è più obbligatoria per i creditori pubblici, ma resta nella loro facoltà di mettere pressione e, in ultima analisi, di rivolgersi al tribunale. - D: Cos’è il “test pratico di risanamento” nella composizione negoziata?
R: È uno strumento introdotto con la CNC: consiste in una lista di controllo dettagliata e in un test di sostenibilità predisposti per verificare se l’impresa ha prospettive concrete di risanamento. L’esperto nominato guiderà l’imprenditore attraverso questa checklist (che esamina flussi di cassa, struttura dei costi, mercato, eventuali misure già adottate) e attraverso un test in cui si simula il piano di ristrutturazione per vedere se regge. Se il test da esito negativo – cioè se emergono squilibri insanabili – l’esperto può concludere che non ci sono basi per un risanamento. Questo test è obbligatorio nella composizione negoziata e serve a evitare di perdere tempo con trattative inutili quando l’azienda è decotta. - D: Se attivo la composizione negoziata, perdo la gestione dell’azienda?
R: No, nella composizione negoziata l’imprenditore rimane alla guida della propria azienda (non c’è spossessamento né nomina di un commissario che sostituisce l’imprenditore). L’Esperto ha un ruolo di facilitatore e supervisore, ma non amministra l’impresa. Questo è un punto chiave: a differenza del fallimento o del concordato con cessione dei beni, qui l’imprenditore mantiene il controllo e può negoziare in prima persona con i creditori, con il supporto tecnico dell’esperto. Ovviamente, deve operare in buona fede e seguire le indicazioni; se compie atti pregiudizievoli, l’esperto può segnalare la situazione al tribunale e la protezione potrebbe decadere. Ma in linea generale la CNC è pensata per aiutare l’imprenditore, non per esautorarlo. - D: Quali vantaggi offre la composizione negoziata rispetto ad aspettare il fallimento?
R: Molteplici: (a) evita di arrivare a una procedura concorsuale distruttiva della reputazione (il fallimento comporta effetti pubblicitari, interdizioni, etc., mentre la CNC è riservata e se ha successo nemmeno diventa pubblica); (b) consente di congelare temporaneamente le azioni esecutive (con le misure protettive) proteggendo l’azienda mentre cerca soluzioni; (c) permette di ristrutturare l’impresa (es. riduzione dei debiti, aumento di capitale di terzi, vendere rami d’azienda) in modo organizzato e consensuale, salvando il valore aziendale (nel fallimento invece si arriva spesso a una svendita atomistica dei beni); (d) se non funziona, l’imprenditore ha comunque potuto valutare alternative e arrivare più preparato eventualmente a un concordato preventivo o a liquidazione, e potrebbe persino accedere a un concordato “semplificato” con procedura accelerata; (e) infine, aderire agli strumenti di allerta interna/volontaria è visto di buon occhio anche in sede giudiziale: un imprenditore che dimostra di aver fatto il possibile per gestire la crisi può più facilmente invocare esimenti o attenuanti in eventuali azioni di responsabilità o penali, rispetto a chi rimane inerte. - D: Dopo il “terzo correttivo” del 2024, ci sono nuove regole sulle procedure di crisi?
R: Il D.Lgs. 13 ottobre 2024 n.136 (c.d. correttivo ter) ha introdotto alcune modifiche puntuali al CCII, ad esempio snellendo certi aspetti del concordato preventivo e chiarendo la portata di alcune norme. Sul fronte dell’allerta, il correttivo ha confermato l’impianto esistente: composizione negoziata volontaria come strumento centrale, niente reintroduzione di allerta obbligatoria. Ha però ribadito l’importanza degli assetti adeguati e rafforzato alcuni obblighi informativi verso i creditori nelle procedure di composizione (maggior trasparenza nei piani di concordato, ecc.). In sostanza, per il tema “capire se l’azienda sta per fallire”, il correttivo non ha cambiato i parametri: si è concentrato sulle fasi di procedura concorsuale (es. voto dei creditori, omologa).
6. Conseguenze della crisi non gestita: responsabilità civili e penali del debitore
Dal punto di vista del debitore (imprenditore e organi sociali), ignorare i segnali di crisi o gestire male la fase pre-fallimentare non comporta solo il rischio di perdere l’azienda, ma può implicare responsabilità personali di varia natura. È bene avere chiaro cosa si rischia se non si interviene per tempo:
- Responsabilità civile verso creditori e soci: come anticipato, gli amministratori di società di capitali possono essere chiamati a rispondere dei danni causati dall’aver aggravato il dissesto dell’impresa. L’art. 2486 c.c. (terzo comma introdotto dal Codice della Crisi) prevede criteri presuntivi di danno per gestione oltre il punto di scioglimento. In pratica, se la società andava liquidata (ad es. perché il capitale era azzerato) ma gli amministratori hanno continuato l’attività accumulando ulteriori perdite, si presume un danno pari alla differenza tra patrimonio netto reale e quello teorico se avessero agito tempestivamente. Inoltre, gli amministratori rispondono ex art. 2394 c.c. verso i creditori sociali se, per violazione dei doveri di conservazione del patrimonio, il patrimonio risulta insufficiente a soddisfare i debiti. Cassazioni recenti hanno confermato condanne in solido di amministratori (e talvolta sindaci) a risarcire la curatela fallimentare per aver tardivamente richiesto il fallimento e aver aumentato il buco. Esempio reale: Tribunale di Roma sent. 12042/2023 ha condannato amministratore e sindaci per circa 1 milione di euro di danni, ritenendo che avessero colposamente procrastinato la chiusura dell’azienda aggravando il passivo.
- Responsabilità nelle società di persone: qui i confini sono meno netti, perché i soci amministratori di SNC e SAS rispondono illimitatamente dei debiti sociali. Se la società fallisce, come detto, falliscono anche i soci illimitatamente responsabili. Questi ultimi vedranno aggredito il loro patrimonio personale dai creditori sociali. Oltre a ciò, essi possono rispondere di atti distrattivi o di mala gestio allo stesso modo di un amministratore di S.p.A. La differenza è che nelle società di persone i creditori sociali attaccano direttamente i soci (non c’è l’intermediario del curatore che fa causa per conto loro, salvo farlo all’interno del fallimento esteso ai soci). In ogni caso, il rischio principale per l’imprenditore individuale o socio illimitato è di perdere tutti i propri beni, e se il patrimonio è insufficiente, di rimanere con debiti inesdebitabili (salvo l’accesso alle procedure di esdebitazione del sovraindebitato in certi casi).
- Sanzioni penali – reati fallimentari: la cattiva gestione della fase di crisi può sfociare in fattispecie di reato, una volta che intervenga il fallimento (liquidazione giudiziale). I principali reati sono quelli di bancarotta previsti dal vecchio RD 267/42, tuttora applicabili ratione temporis ai fallimenti aperti prima del 15 luglio 2022 e, in parte, anche a quelli successivi (il CCII ne riprende la sostanza). La bancarotta semplice punisce, tra le altre cose, l’imprenditore fallito che ha aggravato il dissesto per grave imprudenza nella gestione o per aver ritardato la dichiarazione di fallimento (art. 217 L.F.). Esempio: continuare ad accumulare debiti sapendo di essere insolvente, fare spese personali con i soldi aziendali in crisi, non tenere la contabilità. La bancarotta fraudolenta (art. 216 L.F. e segg.) è ancora più grave e riguarda atti dolosi: ad esempio distrarre beni dell’azienda (svenderli o sottrarli ai creditori), falsificare le scritture contabili per nascondere il dissesto, pagare preferenzialmente alcuni creditori a scapito di altri poco prima del fallimento (bancarotta preferenziale), oppure aggravare dolosamente il passivo. Se emergono irregolarità del genere, il curatore le segnala al PM e gli amministratori/soci possono subire procedimenti penali. In sintesi: un imprenditore che, fiutando la crisi, sottrae risorse (magari trasferendo immobili a familiari, o svuotando i conti) rischia la bancarotta fraudolenta patrimoniale; chi falsifica i bilanci per coprire le perdite rischia la bancarotta documentale; chi paga solo i creditori “amici” lasciando gli altri a bocca asciutta rischia la bancarotta preferenziale. Le pene vanno da 2 a 6 anni (fraudolenta) o fino a 2 anni (semplice) di reclusione, oltre a pene accessorie come l’interdizione all’esercizio d’impresa.
- Altri profili di responsabilità: erariali e tributari. In certe circostanze, l’amministratore può rispondere personalmente di alcuni debiti tributari dell’azienda. Un esempio è l’omesso versamento IVA: se un imprenditore non versa l’IVA per importi rilevanti (sopra 250.000 € annui), commette reato tributario (punibile con reclusione). Inoltre, a prescindere dal penale, l’art. 36 D.P.R. 602/1973 prevede che i liquidatori di società (e amministratori che hanno cessato l’attività lasciando debiti fiscali) possano essere responsabili in proprio del pagamento delle imposte dovute dalla società, se con il loro comportamento hanno pregiudicato le ragioni del Fisco. La Cassazione nel 2024 ha ad esempio affermato la responsabilità ex art.36 DPR 602/73 dell’amministratore che abbia ripagato creditori privati anziché il Fisco in prossimità del fallimento, riducendo così la capienza patrimoniale per l’Erario.
In conclusione, far finta di nulla di fronte ai segnali di fallimento può esporre l’imprenditore a conseguenze molto peggiori del fallimento stesso. Spesso si cita un motto: “il primo a scappare prende meno botte”. Nel contesto della crisi d’impresa, significa che chi anticipa i problemi e li gestisce con gli strumenti legali disponibili può limitare i danni, mentre chi aspetta di essere travolto rischia di affrontare, oltre alla perdita dell’azienda, anche cause legali e procedimenti penali. Per un amministratore professionale, dunque, capire se l’azienda sta per fallire non è solo una questione di salvare il business, ma anche di tutelare sé stesso.
7. Focus: imprese individuali e società di persone
Come richiesto, dedichiamo un approfondimento specifico alle ditte individuali e alle società di persone (SNC, SAS), dal punto di vista della crisi e del “fallimento”. Queste forme d’impresa presentano peculiarità rispetto alle società di capitali (SRL, SPA) sia in termini di soglia di fallibilità sia di conseguenze patrimoniali per l’imprenditore.
Fallibilità e procedure applicabili: Le imprese individuali e le società di persone rientrano nella categoria degli imprenditori commerciali. Possono dunque essere soggette a fallimento (liquidazione giudiziale) solo se sopra le soglie di cui all’art. 2 lett. d CCII (cfr. §1): attivo >300k€, ricavi >200k€, debiti >500k€. Se una ditta individuale o una SNC soddisfa tali parametri dimensionali, non c’è distinzione rispetto a una SRL: in caso di insolvenza accertata da un giudice, può essere aperta la liquidazione giudiziale con nomina di un curatore, chiusura dell’attività, ecc. Invece, se l’impresa è sotto-soglia, non verrà dichiarata fallita; i suoi creditori dovranno ricorrere alle procedure di sovraindebitamento (ora incorporate nel CCII). Ad esempio, un piccolo artigiano individuale con 100k di debiti non pagati non subirà una sentenza di fallimento, ma potrà attivare la liquidazione controllata (ex art. 268 CCII) o un concordato minore, su sua iniziativa. Questo non significa che il debitore sotto-soglia la passi liscia: i suoi beni personali possono comunque essere pignorati singolarmente dai creditori, e anzi la liquidazione controllata è una procedura concorsuale (davanti al tribunale) simile a un fallimento semplificato, benché con effetti personali meno afflittivi.
Responsabilità illimitata: Nelle imprese individuali e società di persone (tranne SAS per i soci accomandanti), l’imprenditore/socio risponde con tutto il suo patrimonio dei debiti aziendali. Ciò implica che i segnali di crisi di tali imprese devono essere valutati ancor più attentamente, perché fallire significa anche mettere a repentaglio la propria casa, i propri risparmi, etc. Un imprenditore individuale che accumula debiti e precipita nell’insolvenza potrebbe vedersi ipotecare l’abitazione da Equitalia, pignorare l’auto dal fornitore non pagato, e così via. Per questo il Codice della Crisi (e prima la legge 3/2012 sul sovraindebitamento) ha previsto un’ancora di salvezza: l’esdebitazione del debitore civile. Dopo una liquidazione del patrimonio (in cui si vendono tutti i beni disponibili per pagare i creditori almeno in parte), il giudice può esdebitare il debitore persona fisica onesto ma sfortunato, cancellando i debiti residui non soddisfatti. Questa è la cosiddetta legge “salva suicidi” (L. 3/2012), ora trasfusa nel CCII, che tutela il piccolo imprenditore sovraindebitato dandogli una seconda chance post-crisi. Tuttavia, l’esdebitazione è possibile solo in procedimenti volontari (il debitore deve attivarsi) e se ha collaborato lealmente. Quindi, l’imprenditore individuale in difficoltà ha l’onere di attivare le procedure giuste (concordato minore, liquidazione controllata) se vuole poi liberarsi dei debiti residui. Se resta inerte, i creditori potranno inseguirlo vita natural durante sui futuri redditi.
Allerta e gestione della crisi nelle micro-imprese: Anche le ditte individuali e società di persone devono dotarsi di adeguati assetti “compatibilmente con la loro struttura”. Ovviamente, non avendo spesso organi collegiali o sindaci, questo si traduce nell’attenzione che l’imprenditore stesso deve porre. Una micro-impresa familiare magari non farà reporting sofisticati, ma deve comunque tenere i conti in ordine e avere un’idea chiara di incassi e pagamenti futuri. Il Codice ha un po’ “alzato l’asticella” anche per loro: ad esempio, ha ridotto le semplificazioni di bilancio per le micro-imprese, chiedendo di fatto anche al piccolo imprenditore di estrarre dati per il calcolo degli indici di crisi. Se un tempo il piccolo commerciante poteva limitarsi a registrare gli estratti conto e fare il bilancio una volta l’anno, oggi dovrebbe ad esempio predisporre un budget di cassa di almeno 6-12 mesi se vuole sincerarsi di poter pagare affitti, fornitori e fisco. Questo può essere percepito come un aggravio burocratico, ma è funzionale all’autodiagnosi precoce.
Soci illimitatamente responsabili: Nelle società di persone, un aspetto delicato è che i soci rischiano il proprio patrimonio anche se non gestiscono direttamente. Pensiamo a una SAS: l’accomandatario amministra e risponde illimitatamente; l’accomandante non amministra e risponde limitatamente al capitale conferito. Se la società fallisce, solo l’accomandatario fallisce con essa, non l’accomandante (quest’ultimo perde al più il capitale sociale). In una SNC, invece, tutti i soci sono amministratori (salvo patto contrario) e tutti illimitatamente responsabili. Quindi se uno è socio “di capitale” ma lascia la gestione all’altro, comunque rischia il fallimento personale solidale se l’azienda va a picco. Perciò, chi è socio illimitato deve vigilare attivamente sulla gestione e intervenire se vede segnali di crisi. Ha il diritto di consultare i conti, chiedere spiegazioni all’altro socio amministratore, e può recedere dalla società se non è d’accordo sulle scelte (il recesso però non lo salva dai debiti già esistenti). In ambito di allerta, è importante che tutti i soci di SNC siano consapevoli della situazione finanziaria: non di rado accade che uno dei soci, più esperto, rassicuri gli altri che “va tutto bene” finché scoppia il dissesto. La trasparenza interna è dunque cruciale.
Procedura di composizione negoziata per ditte individuali e SNC: La composizione negoziata è aperta anche alle imprese minori e alle società personali. Anzi, può essere un salvagente prezioso. Ad esempio, un’impresa agricola individuale che ha accumulato debiti verso fornitori e banca potrebbe avviare la CNC, ottenere la sospensione delle esecuzioni (evitando che il trattore venga pignorato), e nel frattempo negoziare la vendita di un terreno per pagare i debiti con l’assistenza dell’esperto. Se riuscisse a sistemare la posizione, eviterebbe la liquidazione controllata e magari salverebbe l’azienda. La piattaforma telematica per la CNC è unica per tutti: un piccolo imprenditore può caricare i propri dati (anche semplificati) e richiedere l’esperto. Ovviamente per micro-realtà può essere necessario farsi aiutare da un commercialista nel predisporre le informazioni. Le Camere di Commercio hanno attivato sportelli informativi per supportare le piccole imprese in questo percorso.
Concordato minore (ex sovraindebitamento) per il piccolo imprenditore: Se i debiti sono insostenibili e non c’è modo di proseguire l’attività, una ditta individuale sotto soglia può proporre ai creditori un concordato minore: è simile al concordato preventivo, ma pensato su misura per chi non può accedere al concordato classico (perché non fallibile). Si presenta un piano al tribunale, con l’ausilio di un OCC (Organismo di Composizione della Crisi), e se il giudice lo omologa, i creditori sono vincolati nei limiti dell’offerta. Ad esempio, il titolare di un negozio potrebbe proporre: “vendo l’attrezzatura e la licenza, e con quel ricavato pago il 40% dei vostri crediti, dopodiché chiedo l’esdebitazione del resto”. Se il tribunale verifica che è il massimo sforzo possibile e i creditori non ne avrebbero comunque di più pignorando individualmente, può approvare il piano nonostante il dissenso di eventuali creditori (non c’è voto, conta la soddisfazione minima garantita). Questo strumento, introdotto dalla riforma, offre una via d’uscita regolata anche ai piccoli, evitando loro il marchio di fallito e dando la chance di ripartire puliti dai debiti insoddisfatti.
Simulazione – Piccola impresa individuale sotto-soglia: Mario è titolare di una ditta individuale commerciale (negozio di abbigliamento). Negli ultimi 3 anni il suo attivo medio è 250.000 €, i ricavi attorno a 180.000 €/anno, debiti totali 400.000 € (tra banca, fornitori e Fisco). Mario è quindi una “impresa minore” ai sensi del Codice. A causa della concorrenza dell’e-commerce, il fatturato è calato e Mario ha accumulato debiti con fornitori (200k€ scaduti) e con l’erario (50k€ di IVA non versata). I segnali di crisi ci sono tutti: magazzino invenduto crescente, ritardi nei pagamenti (alcuni fornitori consegnano solo previo pagamento), banca che non concede nuovi fidi. Mario capisce che così non può reggere un’altra stagione. Cosa può fare? Non essendo fallibile, i suoi creditori individualmente potrebbero pignorargli beni ma non chiederne il fallimento. Mario decide di giocare d’anticipo: si rivolge all’OCC (Organismo di Composizione della Crisi) presso la Camera di Commercio locale e attiva una composizione negoziata. Ottiene la nomina di un esperto. L’esperto, analizzando i dati, verifica che l’attività di Mario potrebbe tornare in utile solo riducendo i costi di affitto (magari trasferendo il negozio online) e trovando un accordo sui debiti. Con l’esperto, Mario elabora una proposta: chiudere il locale fisico, liquidare il magazzino con una svendita, e offrire ai creditori un pagamento parziale (es. 30%) grazie a un prestito che un familiare è disposto a concedergli per ripartire come e-commerce. Durante le trattative, Mario chiede e ottiene dal tribunale una misura protettiva: i creditori sono bloccati, non possono pignorare la merce né i conti. I fornitori, vedendo la buona fede e la perizia dell’esperto che attesta il piano, accettano la soluzione (meglio il 30% subito che rischiare quasi zero). Equitalia accetta la definizione agevolata del debito fiscale (grazie anche alle norme di tregua fiscale vigenti nel 2025). In pochi mesi Mario chiude il negozio, paga quanto concordato e trasforma la sua attività in un piccolo business online senza debiti pregressi. Esito: Mario ha evitato sia il fallimento sia la liquidazione controllata; ha pagato parzialmente i debiti ottenendo la liberazione dal resto (in virtù dell’accordo stragiudiziale raggiunto con la maggior parte dei creditori), e può ripartire come imprenditore. Se invece Mario non avesse fatto nulla, i fornitori avrebbero agito in giudizio, forse pignorandogli il conto e impedendogli di comprare nuova merce; il Fisco avrebbe potuto iscrivere ipoteca sulla casa; in breve, Mario avrebbe perso tutto e avrebbe comunque dovuto affrontare una liquidazione dei beni (magari richiesta da lui stesso o dai creditori).
Simulazione – Società in nome collettivo in crisi: La SNC Alfa gestisce un piccolo pastificio artigianale. Ha 3 soci (A, B, C), tutti illimitatamente responsabili, A e B amministrano attivamente, C è socio finanziatore poco presente. Negli ultimi due esercizi Alfa ha subito grossi cali di vendite per via della concorrenza industriale. Il patrimonio netto si è ridotto da 50.000 € a 5.000 €; l’ultimo bilancio mostra perdite che lo porteranno sotto zero nell’anno in corso. A e B, ottimisti, continuano l’attività sperando in un grosso ordine da un cliente estero. Nel frattempo, però, ritardano il pagamento di fornitori di materie prime (hanno 100k€ scaduti da 4 mesi, superiore ai debiti non scaduti – uno degli indici di allerta qualitativa). I fornitori iniziano a rifiutare nuove forniture a credito. La SNC fatica a rispettare le consegne, perde altri clienti e incassi. A questo punto B si rende conto che sono in crisi grave: DSCR calcolato è ~0,7 (flussi insufficienti), capitale quasi azzerato, fornitura bloccata. B vorrebbe attivare una composizione negoziata, ma A è contrario (“non voglio far sapere in giro che stiamo male, tiriamo avanti ancora un po’”). C, informato solo vagamente, non interviene. Purtroppo, dopo altri 3 mesi la situazione precipita: un fornitore stanco di aspettare ottiene un decreto ingiuntivo e fa pignorare i macchinari del pastificio. L’attività produttiva si ferma. A quel punto la SNC è di fatto insolvente. B e C convocano un avvocato che suggerisce di depositare un’istanza di liquidazione giudiziale per evitare ulteriori atti esecutivi disordinati. Il tribunale dichiara il fallimento (liquidazione giudiziale) di Alfa SNC. Conseguenze: essendo la SNC fallita, il tribunale dichiara il fallimento personale dei soci A, B, C. Viene nominato un curatore che raccoglie l’attivo (macchinari pignorati, scorte, ecc.) e liquida tutto all’asta. I soci falliti subiscono le usuali incapacità personali (non possono intraprendere altre imprese, restrizioni sui beni personali, ecc. durante la procedura). Inoltre, il curatore sta valutando un’azione di responsabilità contro A e B: ritiene che avrebbero dovuto cessare l’attività mesi prima, prima di perdere il grosso cliente estero e prima di accumulare debiti ulteriori con fornitori. Si prevede che chiederà ai soci (e in subordine a C per omesso controllo) un risarcimento per aver aggravato il passivo di 50k€. Morale: se A e B avessero attivato prima la composizione negoziata, forse avrebbero potuto vendere il pastificio come azienda in funzionamento ad un concorrente, ottenendo più valore per pagare i fornitori (magari parzialmente) e salvando posti di lavoro. Invece, l’inerzia li ha portati al fallimento collettivo, con i soci personalmente colpiti. C, che si era disinteressato, scopre troppo tardi che la sua fiducia mal riposta in A gli è costata la reputazione (fallito anche lui) e forse parte dei risparmi (il curatore potrà aggredire i loro beni personali se l’attivo sociale non copre i debiti). Questa simulazione riflette casi purtroppo frequenti: nelle società a base familiare c’è reticenza ad ammettere la crisi, e si arriva al disastro. L’insegnamento è: monitorare gli indicatori (capitale, debiti, flussi) e non esitare ad usare gli strumenti di allerta. Meglio una soluzione concordata prima, che un fallimento con danni maggiori dopo.
8. Domande frequenti (Q&A)
D: Quali sono i segnali più affidabili per capire se la mia azienda è in crisi?
R: Non esiste un solo segnale, ma una combinazione. In generale, tre ambiti vanno tenuti d’occhio: (1) i dati di bilancio (perdite, patrimonio netto in calo o negativo, indici finanziari come quelli visti: DSCR, liquidità, ecc.); (2) i flussi di cassa e i pagamenti (se inizi a pagare in ritardo stipendi, fornitori, rate, vuol dire che la cassa è insufficiente); (3) i rapporti esterni (banche che restringono credito, fornitori che sollecitano o bloccano forniture, clienti che calano). Un singolo episodio isolato (es. un mese di ritardo per un imprevisto) può capitare senza essere crisi, ma se diventa ricorrente allora è un sintomo. Indici come patrimonio netto negativo o DSCR < 1 sono segnali tecnici forti. Anche l’assenza di prospettive di continuità è un indicatore: se prevedi che tra 6-12 mesi, a meno di un miracolo, sarai a corto di liquidità, allora sei già in crisi secondo la definizione di legge.
D: In concreto, come posso effettuare una diagnosi precoce della crisi?
R: Puoi impostare un piccolo “cruscotto di controllo” dei principali indicatori. Ad esempio, ogni trimestre (o ogni mese, se la situazione è tesa) verifica: il patrimonio netto (è positivo? di quanto è variato?), il DSCR a 6 mesi (fai una stima di entrate e uscite prossime e vedi se coprono i debiti in scadenza), il saldo di tesoreria (cassa + fidi disponibili – uscite a breve), l’età dei debiti (quanti debiti oltre i 30-60-90 giorni?), e alcuni rapporti chiave (debiti finanziari/EBITDA, oneri finanziari/ricavi, indice di liquidità). Se non hai le competenze in casa, puoi farti aiutare da un commercialista o consulente nel predisporre questa dashboard. Inoltre, analizza elementi qualitativi: feedback dei fornitori su pagamenti, eventuali insoluti dei clienti (crediti inesigibili), clima interno (dipendenti preoccupati?). Tutto questo fa parte di una valutazione oggettiva e professionale dei dati aziendali. L’importante è non basarsi solo sull’istinto o sulla speranza (“forse il mese prossimo va meglio”), ma guardare numeri e trend con lucidità.
D: La mia azienda è in difficoltà ma non ancora insolvente. Cosa posso fare prima di arrivare al fallimento?
R: Puoi attivarti su più fronti: (a) internamente, prepara un piano di risanamento (taglio dei costi, ricerca di nuovi ricavi, dismissione di attività poco profittevoli, ecc.) e verifica se può funzionare; (b) parla con i creditori principali in anticipo: spesso banche e fornitori preferiscono ristrutturare il debito (darti più tempo, ridurre importi) piuttosto che vederti fallire e incassare poco nulla. Queste trattative informali possono portare ad accordi stragiudiziali o piani attestati; (c) considera di attivare la Composizione Negoziata: è volontaria, riservata, e ti permette di avere un esperto al tavolo negoziale e protezioni legali (come il blocco delle esecuzioni). Molte aziende nel 2022-2025 hanno usato la CNC con successo per ottenere moratorie e nuove finanze (anche lo Stato ha previsto un fondo per finanziare imprese in composizione negoziata con garanzia pubblica). (d) Valuta un concordato preventivo se il debito è troppo alto: a volte proporre un concordato (in continuità o anche liquidatorio) può tagliare i debiti e salvare l’impresa. Ad esempio, un concordato in continuità ti consente di congelare i debiti pregressi e pagare i creditori in parte con i flussi futuri, evitando la liquidazione immediata. Insomma, non aspettare di non poter pagare stipendi: già quando prevedi che tra qualche mese avrai problemi seri, inizia a confrontarti con un advisor e con i creditori. La nuova filosofia della legge è proprio “guadagnare tempo utile” per soluzioni negoziali, piuttosto che lasciare che il tempo passi inutilmente verso il fallimento.
D: Una piccola SRL può accedere alle stesse soluzioni di una grande società?
R: Sì, in linea di massima il quadro normativo è lo stesso per PMI e grandi imprese, salvo alcune distinzioni: le grandi imprese (oltre 250 dipendenti o attivo >20 mln, fatturato >40 mln) sono escluse dall’allerta CCII e soggette ai soliti strumenti (per loro esiste anche l’amministrazione straordinaria in caso di insolvenza, se superano certe soglie di indebitamento). Le PMI, invece, rientrano appieno nel CCII: obbligo di assetti adeguati, composizione negoziata, ecc.. Le micro e piccole imprese possono utilizzare la composizione negoziata e gli accordi, ma se sono “sotto soglia” non possono fare concordato preventivo ordinario: in compenso hanno il concordato minore e la liquidazione controllata come visto. Quindi le opzioni ci sono per tutte le taglie, solo calibrate. Ad esempio, una SRL unipersonale piccolissima, se fallibile, può comunque proporre un concordato semplificato o liquidatorio; se non fallibile farà un concordato minore. L’importante è non pensare “sono troppo piccolo per queste cose”: anche la microimpresa deve reagire, magari con procedure semplificate ma deve. Infatti, un tempo molte micro imprese lasciavano semplicemente fallire di fatto, rinunciando all’attività e lasciando i debiti insoluti (tanto non fallivano formalmente): ora però, per ottenere l’esdebitazione, è opportuno che attivino almeno la liquidazione controllata.
D: Un imprenditore individuale può davvero “non fallire mai” se è sotto soglia? Non c’è alcuna procedura forzata contro di lui?
R: Tecnicamente, l’imprenditore individuale sotto soglia non sarà dichiarato fallito dal tribunale, quindi non avrà un curatore né una sentenza di fallimento. Tuttavia, i suoi debiti non spariscono: i creditori possono fargli azioni esecutive individuali (pignorare stipendio, beni, ecc.). Se l’imprenditore vuole gestire la cosa in modo ordinato e liberarsi dei debiti residui, dovrebbe egli stesso chiedere la liquidazione controllata dei beni (nuovo nome della procedura ex L.3/2012). In tal caso, avrà un liquidatore nominato dal giudice che venderà tutto il vendibile e poi chiederà l’esdebitazione. Quindi, pur senza “fallimento”, l’effetto pratico è simile: si liquida l’esistente. La differenza è che è più volontaria e con meno stigma. C’è anche una novità: se il debitore non ha alcun patrimonio liquidabile ma solo debiti, può chiedere comunque l’esdebitazione immediata (c.d. esdebitazione del debitore incapiente), ma deve dimostrare di meritarla e di non aver truffato i creditori. Dunque, dire che una ditta individuale non può fallire non significa che non subisca conseguenze; significa solo che le conseguenze si svolgono fuori dal tradizionale fallimento. Da un lato c’è più libertà d’iniziativa per il debitore (che può scegliere lo strumento), dall’altro c’è la responsabilità di attivarsi (se non fa nulla, potrebbe restare inseguito dai creditori a lungo, salvo prescrizioni).
D: Se l’azienda fallisce, l’imprenditore perde tutto?
R: Dipende dal tipo di azienda e dalla forma giuridica. Se è una società di capitali, l’imprenditore (socio) di regola perde solo quanto investito nella società, perché c’è il principio della responsabilità limitata: i creditori sociali possono rivalersi solo sul patrimonio della società, non su quello personale dei soci, salvo casi eccezionali (es. fideiussioni personali, o casi di abuso di personalità giuridica che portano a estensione del fallimento ai soci occulti, fenomeni comunque particolari). Tuttavia, l’amministratore o il socio che di fatto gestiva può incorrere in responsabilità (come visto) e dover risarcire i danni, quindi indirettamente perdere anche beni personali se condannato. Per le società di persone e le imprese individuali, invece, sì, in caso di insolvenza grave il rischio è perdere tutto il patrimonio personale, perché la distinzione tra beni aziendali e beni dell’imprenditore è labile o nulla. Nel fallimento di una SNC, ad esempio, se l’attivo sociale non basta, i creditori vanno dietro ai beni dei soci fino a soddisfazione (auto, immobili personali, conti correnti privati, ecc.). Anche l’imprenditore individuale risponde con ogni bene presente e futuro (salvo quelli impignorabili per legge). Dopo la procedura, potrà essere liberato dai debiti residui (esdebitazione), ma intanto quel che aveva di valore viene liquidato. Un’altra perdita da considerare è di tipo “morale”: la reputazione. Un imprenditore dichiarato fallito subisce restrizioni (non può avviare nuove imprese se non dopo esdebitazione, per qualche tempo) e un danno di immagine. Pur essendo venuto meno il vecchio marchio d’infamia del fallito, negli affari la notizia circola e potrebbe influire su future relazioni. Perciò è fondamentale gestire la crisi in modo da evitare la frattura di un fallimento giudiziale, quando possibile.
D: I membri del CDA di una SRL rischiano anche il carcere se l’azienda fallisce?
R: Possono rischiare sanzioni penali nei casi di bancarotta fraudolenta o altri reati societari. Se però hanno agito correttamente (solo mala sorte negli affari) non c’è reato nel semplice fallire. I reati entrano in gioco se, ad esempio, prima del fallimento gli amministratori hanno distratto beni (portati via asset dall’azienda), o hanno falsificato i bilanci per nascondere perdite, o hanno pagato alcuni creditori preferendoli (ciò configura bancarotta preferenziale), oppure non hanno tenuto la contabilità (bancarotta semplice/documentale). Dunque, non ogni fallimento genera reati: un imprenditore può fallire in bona fede e in tal caso subirà le conseguenze civili ma non penali. Viceversa, se durante la gestione della crisi l’amministratore compie atti illeciti, questi verranno perseguiti. Ad esempio, un classico: l’azienda è in crisi, l’amministratore vende a prezzo irrisorio un immobile a un amico per toglierlo dalla massa attiva – quando fallirà, quel atto sarà scoperto e lui incriminato per bancarotta fraudolenta patrimoniale. Altro esempio: l’azienda va male e l’amministratore smette di presentare i bilanci e butta via le pezze giustificative – alla dichiarazione di fallimento non si trovano i libri e le scritture, ciò è reato di bancarotta documentale. Quindi, sebbene “fallire” di per sé non porti in galera, cosa fai durante la crisi può farcelo. La regola aurea è: anche in crisi, mantieni la contabilità in ordine, non occultare informazioni, e non fare giochetti di spostare soldi o beni fraudolentemente. Meglio affrontare apertamente la situazione e, se del caso, arrivare a un fallimento pulito, piuttosto che tentare furbizie che aggiungono problemi penali.
D: Se una SRL unipersonale fallisce, il socio unico ne risponde personalmente?
R: No, per il solo fatto di essere socio unico di SRL non c’è responsabilità personale verso i debiti sociali: vale la separazione patrimoniale. Però occorre che il capitale sia stato interamente versato e che la natura unipersonale sia stata pubblicizzata nel Registro Imprese come per legge (altrimenti in caso di insolvenza possono esserci responsabilità, come prevedeva l’art. 2362 c.c. ora abrogato, ma di principio la CCII non reintroduce nulla del genere). Quindi, se Tizio è socio unico della Alfa SRL e Alfa SRL fallisce, Tizio perde il capitale di Alfa ma i creditori di Alfa non possono escutere Tizio, a meno che… Tizio avesse prestato garanzie personali su debiti (es. ipoteca sulla sua casa per un mutuo aziendale: quella resta valida; oppure fideiussioni bancarie: la banca anche post-fallimento può chiedere a Tizio di onorarle). Inoltre Tizio, se era anche amministratore, potrebbe incorrere in responsabilità come amministratore o nei reati di cui sopra. Ma la “SRL” di per sé protegge i soci non amministratori. Se il socio unico non era amministratore e non ha vincoli di garanzia, può ricominciare da capo senza dover pagare i debiti di Alfa (che resteranno nel fallimento di Alfa). Ricordiamo però che l’abuso della forma societaria (es. la SRL usata come schermo fittizio per attività personale del socio) può portare i creditori a tentare azioni per far dichiarare il socio responsabile illimitatamente (teoria della “personalità giuridica schermante” da superare): casi rari e difficili, ma la giurisprudenza in passato ha in poche occasioni “disapplicato” la responsabilità limitata in presenza di frodi evidenti. Dunque, senza entrare troppo nel tecnico: in condizioni normali, il socio unico di SRL non paga i debiti sociali, però se ha gestito male o garantito, indirettamente pagherà.
D: La continuità aziendale di cui tanto si parla è la stessa cosa della solvibilità?
R: Non esattamente. La continuità aziendale (going concern) è un concetto di bilancio: l’azienda è in continuità se può proseguire la propria attività nel futuro prevedibile (almeno 12 mesi) senza intenti liquidatori. Quando i revisori valutano la continuità, guardano a fattori simili a quelli della crisi prospettica: flussi di cassa futuri, ordini, supporto finanziario. Un’azienda può essere temporaneamente illiquida (insolvenza tecnica) ma mantenere continuità se ottiene ad esempio nuova finanza e ha prospettive di ripresa; viceversa può essere ancora “solvibile” sul momento ma senza continuità a medio termine (es. ha cassa per pochi mesi ma nessun business sostenibile dopo, e non vuole proseguire – in tal caso si dovrebbe liquidare). La Cassazione nel 2025 (sent. n. 348/2025) ha delineato che continuità aziendale significa capacità non solo di adempiere ai debiti immediati ma di mantenere operativa l’azienda come fonte economica funzionante anche a seguito di un concordato misto. È un concetto più qualitativo e di prospettiva. In sintesi: insolvenza è concetto finanziario di corto periodo (non paghi le obbligazioni correnti); continuità è concetto gestionale di medio termine (l’azienda ha un futuro economico?). La crisi d’impresa secondo il Codice è essenzialmente perdita di continuità a breve termine. Si può dire che la perdita di continuità è il sintomo, l’insolvenza è l’evento conclamato. Entrambi sono legati ma non identici.
D: I soci di una SNC fallita possono ancora fare impresa in futuro?
R: In caso di fallimento di una società, i soci illimitatamente responsabili sono dichiarati falliti personalmente. Durante il fallimento, non possono intraprendere nuove iniziative economiche (devono dedicarsi al procedimento, consegnare i beni, ecc.). Dopo la chiusura del fallimento (una volta liquidati i beni e completate le ripartizioni), i soci persone fisiche otterranno presumibilmente l’esdebitazione, cioè la liberazione dai debiti residui. A quel punto possono tornare a fare impresa, legalmente nulla lo vieta (a parte possibili misure interdittive temporanee se erano stati condannati per reati fallimentari gravi, ma parliamo di ipotesi minoritarie). Tuttavia, la reputazione creditizia di ex falliti può essere compromessa: le banche potrebbero non dare fiducia immediata, etc. Giuridicamente, l’esdebitato ex fallito è come “riabilitato” (nel vecchio sistema serviva un decreto di riabilitazione, ora con l’esdebitazione è automatico). Quindi sì, un socio di SNC fallita può aprire una nuova attività, magari usando la forma di SRL per sicurezza. C’è anche chi scherzosamente dice: “il fallimento insegna cosa non fare, i secondi tentativi spesso riescono meglio”.
D: I creditori come possono sapere se un’azienda sta per fallire?
R: Domanda dal lato opposto. I creditori – banche, fornitori – tipicamente monitorano alcuni segnali pubblici: bilanci depositati (se vedono patrimonio netto basso o perdite rilevanti, alzano antenna), protesti (controllano se l’azienda ha assegni protestati), eventi negativi su sistemi informativi (ritardi nei pagamenti segnalati da altri, pignoramenti in atto). Le banche hanno la Centrale Rischi di Banca d’Italia che mensilmente indica l’utilizzo dei fidi e le sofferenze: se un’azienda appare con sconfinamenti o rate non pagate, la notizia arriva a tutte le banche che la affidano. Un creditore “forte” come il Fisco sa se l’azienda accumula ruoli non pagati e può presumere lo stato di crisi. In generale, però, un creditore esterno non ha la visione completa come l’imprenditore stesso: ecco perché il sistema di allerta è costruito per far sì che sia il debitore a muoversi per primo, perché i creditori potrebbero accorgersi quando è troppo tardi e agire in modo disordinato. Comunque, se sei un fornitore e vuoi capire se il tuo cliente è a rischio default, controlla: paga puntuale? ha chiesto dilazioni strane? risultano pregiudizievoli (ipoteche, pignoramenti) a suo carico nei registri pubblici? Il Registro delle Imprese offre dati sui bilanci e ora anche eventuali composizioni negoziate in corso (se pubblicate). Se percepisci troppi segnali negativi, potresti decidere di ridurre l’esposizione e magari attivare tu un’azione legale per primo (nel dubbio, meglio essere il primo a ottenere un pignoramento che l’ultimo in coda…).
D: In conclusione, qual è il punto di vista del debitore giusto da tenere per prevenire il fallimento?
R: Il debitore deve adottare una prospettiva proattiva e trasparente: monitorare la propria azienda come farebbe un medico con un paziente a rischio, e non nascondere la testa sotto la sabbia. In concreto: implementare strumenti di controllo interno (anche semplici, purché efficaci), chiedere aiuto a consulenti esperti appena qualcosa non torna, e soprattutto non avere paura di affrontare i problemi con i creditori. La legge oggi fornisce un “ombrello” per chi ammette la crisi e chiede aiuto (vedi composizione negoziata), mentre punisce chi persiste in gestione irresponsabile. Dal punto di vista culturale, il debitore deve superare lo stigma del fallimento come vergogna da occultare a tutti i costi – che in passato portava molti a dissesti peggiori – e vederlo invece come una situazione gestibile se presa per tempo. In definitiva, capire se l’azienda sta per fallire significa essere onesti con sé stessi, leggere i segnali obiettivi e agire in fretta: se lo fai, potrai forse evitare che l’azienda fallisca davvero; se anche il fallimento fosse inevitabile, arriverai ad esso avendo fatto il possibile, probabilmente in condizioni migliori per chiudere dignitosamente e senza strascichi irreparabili.
9. Conclusioni
In questa guida abbiamo esplorato in modo approfondito come un imprenditore possa (e debba) riconoscere i segnali che l’azienda sta scivolando verso il fallimento, e quali strumenti l’ordinamento mette a disposizione per fronteggiare la crisi. Abbiamo visto che la prevenzione e l’emersione tempestiva sono le armi principali: grazie a indicatori di allerta, adeguati assetti organizzativi e un cambio di mentalità, oggi è possibile intervenire prima che sia “troppo tardi”. Dal punto di vista del debitore, questo significa assumersi la responsabilità di monitorare la propria impresa con occhio critico e di attivare soluzioni negoziali appena compaiono squilibri significativi. La normativa, aggiornata al 2025, è molto chiara nel privilegiare il risanamento rispetto alla liquidazione: strumenti come la composizione negoziata, i piani attestati e i concordati preventivi sono lì per essere utilizzati come vie di salvataggio. Ignorarli o ritardarli, oltre a peggiorare le chance di successo, espone a serie conseguenze legali come abbiamo evidenziato (responsabilità verso creditori, azioni risarcitorie, reati fallimentari).
In definitiva, capire se l’azienda sta per fallire non è un esercizio di pura analisi finanziaria, ma un processo continuo di gestione consapevole dell’impresa. I segnali vanno cercati, riconosciuti e affrontati. Come recita un vecchio adagio, “prevenire è meglio che curare”: nel contesto della crisi d’impresa, significa che prevenire il fallimento – cogliendo i sintomi e curando la crisi – è immensamente preferibile che subire passivamente la rovina dell’azienda. Con le giuste informazioni, il supporto di professionisti e la cornice normativa attuale, anche un imprenditore in difficoltà può evitare il fallimento oppure gestirlo in modo ordinato, salvaguardando il più possibile il valore aziendale e la propria posizione. Si tratta di agire “prima che sia troppo tardi”, ma anche di sapere che non è mai veramente troppo tardi per provare a contenere i danni e ripartire, se si utilizza lo strumento adatto. La speranza è che questa guida avanzata abbia fornito gli elementi utili – teorici e pratici – per valutare la situazione di un’azienda e prendere decisioni informate sul da farsi in caso di crisi incipiente, dal punto di vista del debitore e nel rispetto della normativa italiana vigente.
Fonti
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (come modificato dai D.Lgs. 147/2020, 83/2022 e 136/2024). In particolare: art. 2 (definizioni di crisi e insolvenza); art. 13 (indicatori della crisi); art. 24-25 (Composizione negoziata); art. 25-novies (segnalazione creditori pubblici); art. 2086 c.c. (riformato dall’art. 375 CCII: obbligo di assetti adeguati); art. 2486 c.c. (riformato dall’art. 378 CCII: criteri di quantificazione del danno da gestione in crisi); art. 121 CCII (soglie impresa minore/fallibilità); art. 147 L.F. previgente (estensione fallimento a soci illimitatamente responsabili).
- Documenti e linee guida sulla crisi d’impresa: Documento CNDCEC “Crisi d’impresa – Gli indici di allerta” ottobre 2019 (elaborazione ai sensi art. 13 co.2 CCII) – contenente i 7 indici complessivi e le soglie per settore. Principi di revisione ISA Italia, in particolare ISA 570 sulla continuità aziendale (richiamato in art. 13 CCII). Linee guida del CNDCEC e Unioncamere sulla composizione negoziata (check-list e test pratico di risanamento). Relazioni illustrative ai decreti correttivi 2020 e 2022 (spiegano ratio della sostituzione degli strumenti di allerta con la composizione negoziata).
- Giurisprudenza civile recente: Cassazione civile, sez. I, ordinanza 8 agosto 2024 n. 22474 – in tema di concordato in continuità, evidenzia che il surplus derivante dalla continuità aziendale va considerato nell’Absolute Priority Rule (divieto di alterare le prelazioni). Cassazione civile, sez. I, ordinanza 29 gennaio 2025 n. 367 (Pres. Terrusi) – ribadisce gli obblighi degli amministratori in tema di adeguati assetti e verifica prospettica della continuità aziendale, in linea con la giurisprudenza precedente sulla responsabilità per tardiva emersione della crisi. Tribunale di Bologna, decreto 8 novembre 2022 (Est. Atzori) – nell’ambito di una composizione negoziata, affronta il tema dell’accesso all’esperto da parte di impresa già insolvente, evidenziando una certa “ritrosia” del legislatore italiano nell’implementare l’early warning (commento critico). Tribunale di Roma, Sez. Fallimentare, sentenza 02/08/2023 n. 12042 – condanna amministratore e sindaci di società fallita per responsabilità da tardiva liquidazione, confermando che omesso adeguamento degli assetti e omessa reazione alla perdita del capitale integra inadempimento agli obblighi gestori (caso citato).
- Giurisprudenza penale: Cassazione penale, varie sentenze 2021-2024 confermano: bancarotta fraudolenta per distrazione ravvisata in operazioni di spoliazione pre-fallimentare; bancarotta semplice per omessa tenuta di libri e per aggravamento evitabile del dissesto. (Es. Cass. pen. 16/03/2021 n. 9665 – dovere di tempestiva richiesta di fallimento; Cass. pen. 24/05/2022 n. 20584 – conferma condanna per bancarotta preferenziale verso il Fisco). Inoltre, Cass. pen. sez. trib. 30/07/2024 n. 21333 – in ambito fiscale, ha ritenuto fraudolenta la donazione di beni effettuata dall’imprenditore con >50.000 € di debiti IVA, in violazione dell’art. 11 DLgs 74/2000 (reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte).
- Articoli di dottrina e prassi: Eva Desana, “Le misure di allerta fra vecchio e nuovo diritto della crisi: la tela di Penelope”, in Ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 03/05/2022 – analizza la genesi e la “dismissione” delle procedure di allerta introdotte dal CCII originario e superate dal D.L. 118/2021. Riccardo Della Santina, “Indicatori e indici della crisi nel sistema degli strumenti di allerta”, IlCaso.it, 23/01/2020 – commento sistematico al documento CNDCEC indici di allerta e interpretazione integrata degli indicatori qualitativi (pagamenti, continuità). Giuseppe Monardo (Avv.), vari articoli divulgativi avanzati su AvvocatiCartelleEsattoriali.com (2025): “Come si effettua la diagnosi precoce della crisi d’impresa?” (24/06/2025) – offre una guida pratica alla valutazione dei segnali di crisi e agli strumenti di allerta interna dal punto di vista del debitore; “Quali sono gli indicatori della crisi d’impresa?” (24/06/2025) – approfondisce gli indici codificati dall’art.13 CCII e le soglie proposte dal CNDCEC; “Quali imprese non sono soggette alle procedure concorsuali?” (22/06/2025) – esamina dettagliatamente le esclusioni per dimensione (impresa minore) e per natura giuridica, con simulazioni pratiche di casi sotto-soglia; “Liquidazione giudiziale: quali conseguenze per l’amministratore e come difendersi” (12/05/2025) – ampia trattazione sulle responsabilità civili e penali degli amministratori in caso di fallimento, con riferimenti a sentenze recenti (es. Cass. 2023 n.3552 su azione ex 2394 c.c., Cass. 2024 n.15580 su responsabilità ex art.36 DPR 602/73). Infine, circolari esplicative del CNDCEC e di Assonime successive al “Correttivo ter 2024” che confermano il quadro degli strumenti di allerta e composizione riformati nel 2022.
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