Lettera Di Compliance Agenzia Delle Entrate Su Spese Non Coerenti Con Reddito: Come Difendersi

Hai ricevuto una lettera di compliance dall’Agenzia delle Entrate perché le tue spese risultano non coerenti con il reddito dichiarato?
Questa tipologia di comunicazione nasce dai controlli incrociati che il Fisco effettua tra il reddito dichiarato e le spese sostenute, utilizzando banche dati, segnalazioni e strumenti come il “redditometro” o l’analisi di spese anomale. L’obiettivo è verificare se le uscite siano compatibili con le entrate ufficiali e invitare il contribuente a fornire chiarimenti o a regolarizzare la posizione.

Quando può arrivare una lettera di compliance per spese non coerenti
– Quando il Fisco rileva che il tenore di vita (viaggi, auto, immobili, beni di lusso) non è compatibile con il reddito dichiarato
– Quando ci sono movimenti bancari rilevanti non giustificati in dichiarazione
– Quando sono state registrate spese per investimenti, ristrutturazioni o acquisti importanti non coerenti con le entrate
– Quando vengono rilevate spese su carte di credito o conti correnti superiori alle disponibilità dichiarate
– Quando segnalazioni di altri enti o soggetti fanno emergere possibili incongruenze

Cosa può accadere dopo la lettera di compliance
– Se non si forniscono spiegazioni, l’Agenzia delle Entrate può avviare un vero e proprio accertamento fiscale
– Contestazione di maggiori imposte, sanzioni e interessi
– Iscrizione a ruolo del debito e successiva cartella esattoriale
– Maggiori controlli negli anni successivi sul contribuente
– Nei casi più gravi, segnalazioni per possibili reati tributari

Come difendersi da una lettera di compliance per spese non coerenti
– Far analizzare la comunicazione da un avvocato tributarista o un commercialista esperto in contenzioso fiscale
– Richiedere all’Agenzia delle Entrate il dettaglio completo delle spese e delle fonti di dati utilizzati
– Dimostrare, con documentazione, che le spese contestate provengono da redditi esenti, risparmi accumulati o entrate non imponibili
– Presentare memorie difensive e chiarimenti nei termini indicati per evitare l’accertamento
– Se parte delle contestazioni è fondata, valutare la regolarizzazione spontanea per ridurre le sanzioni
– Coordinare la risposta con eventuali altre pendenze fiscali per evitare ulteriori controlli

Cosa si può ottenere con la giusta assistenza legale e fiscale
– L’annullamento totale o parziale delle contestazioni
– La riduzione di sanzioni e interessi
– La chiusura del procedimento senza passare a un accertamento formale
– La tutela del patrimonio personale da eventuali azioni esecutive
– Il mantenimento di una posizione fiscale regolare per il futuro

Attenzione: le lettere di compliance non vanno sottovalutate. Sono un campanello d’allarme che segnala l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate e un’occasione per chiarire prima che parta un accertamento vero e proprio. Una risposta tempestiva e ben documentata può fare la differenza tra archiviare la pratica o affrontare una contestazione pesante.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario, difesa del contribuente e tutela del patrimonio – ti spiega cosa fare se ricevi una lettera di compliance per spese non coerenti con il reddito, come proteggerti e come evitare conseguenze peggiori.

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Introduzione

Ricevere una lettera di compliance dall’Agenzia delle Entrate per spese non coerenti con il reddito dichiarato può generare preoccupazione nel contribuente. Si tratta di una comunicazione con cui l’Amministrazione finanziaria segnala un’anomalia: in particolare, spese sostenute (o altri indicatori di capacità contributiva) appaiono sproporzionati rispetto al reddito dichiarato. Queste lettere rientrano nelle strategie di promozione dell’adempimento spontaneo (“compliance”) che il Fisco italiano adotta da alcuni anni: anziché procedere subito con un accertamento formale, il contribuente viene invitato a verificare la propria posizione e, se necessario, a regolarizzarla volontariamente.

Secondo i dati recenti, l’Agenzia invia milioni di comunicazioni di questo tipo ogni anno (nel 2024 oltre 3 milioni) per anomalie considerate minori, con l’obiettivo di recuperare gettito tramite versamenti spontanei prima di avviare controlli formali. È dunque fondamentale comprendere cosa significa ricevere una lettera di compliance per spese incoerenti con il reddito, quali sono le basi legali di tali controlli e, soprattutto, quali strumenti ha a disposizione il contribuente per difendersi o per regolarizzare la propria posizione. Questa guida – aggiornata a luglio 2025 – fornisce un quadro normativo avanzato, illustra le strategie difensive sia in fase pre-contenziosa (dinanzi all’Agenzia, prima di un eventuale atto impositivo) sia in fase contenziosa (dinanzi al giudice tributario, in caso di accertamento), analizza le sentenze più recenti in materia e propone esempi pratici, tabelle riepilogative e una sezione di domande e risposte. Il tutto dal punto di vista del contribuente, con un taglio tecnico-giuridico ma dal tono divulgativo, utile sia a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti) sia a privati cittadini e imprenditori che si trovino in questa situazione.

Che cos’è la lettera di compliance per spese non coerenti con il reddito

La “lettera di compliance” è una comunicazione informale che l’Agenzia delle Entrate invia (tramite PEC o posta) quando dai dati in suo possesso emergono incongruenze o anomalie nelle dichiarazioni fiscali del contribuente. Nel nostro caso, l’anomalia consiste nel fatto che il tenore di vita o le spese sostenute dal contribuente appaiono incompatibili con il reddito dichiarato. In altre parole, il Fisco ritiene che il contribuente spenda più di quanto guadagna ufficialmente, presumendo quindi l’esistenza di redditi non dichiarati a finanziare tale differenza.

Queste situazioni tipicamente emergono grazie a uno strumento di controllo chiamato redditometro – oggi evoluto nel cosiddetto “evasometro” – che ricostruisce in via induttiva il reddito presunto di una persona fisica a partire dalle spese sostenute e dal tenore di vita. Ad esempio, l’Agenzia incrocia molteplici banche dati: acquisti di beni durevoli (auto, immobili), spese per mutui, assicurazioni, utenze, investimenti, spese mediche, viaggi, ecc.. Se il totale di tali spese attribuibili a un contribuente in un anno è significativamente superiore al reddito da lui dichiarato per lo stesso anno, scatta un segnale di incoerenza. In passato il redditometro funzionava con coefficienti fissi per tipologie di beni (“beni-indice”), mentre oggi si privilegia un approccio più analitico sulle spese effettive registrate.

È importante sottolineare che la lettera di compliance non è un atto impositivo: non contiene una rettifica del reddito né la richiesta di pagare specifiche somme (a differenza di un avviso di accertamento). Si tratta piuttosto di un invito rivolto al contribuente a controllare e, se del caso, correggere la propria dichiarazione prima che il Fisco avvii un controllo formale. In genere la lettera elenca l’anomalia riscontrata (ad esempio: “nel 2021 ha sostenuto spese per €50.000 a fronte di un reddito dichiarato di €20.000, circostanza anomala in assenza di giustificazioni oggettive”) e suggerisce le possibili azioni da intraprendere. Spesso viene allegato anche un prospetto di dettaglio delle voci di spesa considerate o delle informazioni utilizzate dal Fisco, per aiutare il contribuente a individuare la fonte dello scostamento.

A chi vengono inviate queste comunicazioni? Le lettere per spese incoerenti col reddito possono riguardare sia privati cittadini sia titolari di partita IVA. Ad esempio, tra i destinatari vi possono essere:

  • persone fisiche che, pur dichiarando redditi medio-bassi, risultano aver acquistato beni di lusso (auto di grossa cilindrata, barche, immobili costosi, ecc.) o sostenuto elevate spese per consumi, investimenti, trasferimenti di denaro, non compatibili con quel livello di reddito;
  • piccoli imprenditori o professionisti che presentano dichiarazioni dei redditi molto basse rispetto al loro tenore di vita personale;
  • contribuenti in regime forfettario o soggetti a ISA (indici sintetici di affidabilità) con ricavi molto bassi a fronte di spese significative;
  • un caso particolare emerso di recente è quello di datori di lavoro che dichiarano un reddito d’impresa inferiore al totale degli stipendi corrisposti ai propri dipendenti: in tali situazioni l’Agenzia ha inviato lettere definendo “anomalo” che il titolare guadagni meno dei suoi dipendenti nello stesso settore. Questo è stato collegato all’introduzione del concordato preventivo biennale (CPB) nel 2024 per le partite IVA: molte lettere di compliance a fine 2024 invitavano chi aveva un reddito d’impresa sotto un certo minimo “settoriale” a integrare i redditi 2023 o aderire al CPB 2024-25. Si tratta dunque di comunicazioni che, pur differenti nei dettagli, condividono la logica di base: segnalare redditi dichiarati non coerenti con la capacità di spesa osservata e sollecitare un comportamento proattivo del contribuente.

Perché l’Agenzia invia queste lettere? L’obiettivo dichiarato è favorire la compliance fiscale, cioè la corretta e volontaria adesione agli obblighi tributari. Da un lato, il contribuente ha la possibilità di evitare sanzioni ben più gravi correggendo subito eventuali errori od omissioni; dall’altro, il Fisco ottiene in tempi brevi il pagamento di imposte che ritiene dovute, senza dover attivare dispendiose procedure di accertamento e contenzioso. Non a caso, l’Agenzia comunica spesso i risultati positivi di tali campagne: ad esempio, solo nel 2023 le lettere di compliance (su varie tipologie di anomalie) hanno fruttato circa 4 miliardi di euro di gettito attraverso versamenti spontanei dei contribuenti “ravveduti”.

Va però rilevato che queste comunicazioni talvolta sono percepite come pressione psicologica sui contribuenti onesti. Alcune associazioni di categoria dei commercialisti hanno criticato il tono “intimidatorio” di alcune lettere, le quali rischiano di ingenerare paure infondate e confusione. In effetti, una lettera standardizzata inviata massivamente potrebbe non tenere conto di situazioni particolari che giustificano lo scostamento (es. utilizzo di risparmi accumulati, aiuti di familiari, ecc.), lasciando al contribuente l’onere di spiegare dopo essere stato messo in allarme. È quindi importante affrontare la comunicazione con calma e lucidità, conoscendo i propri diritti e doveri. Nel prosieguo vedremo quali norme disciplinano questi controlli, come avviene il contraddittorio col Fisco e quali sono le strategie difensive efficaci.

Quadro normativo di riferimento

Per capire come difendersi, occorre prima delineare il quadro normativo entro cui si colloca la lettera di compliance per spese incoerenti. Le principali fonti sono:

  • Art. 38 del DPR 600/1973: è la norma che da oltre 50 anni disciplina l’accertamento sintetico del reddito complessivo delle persone fisiche, comunemente noto come redditometro. In estrema sintesi, questa disposizione consente all’Amministrazione finanziaria di determinare induttivamente il reddito di un contribuente sulla base di elementi di capacità contributiva quali il possesso di determinati beni, la sostenimento di spese e gli incrementi patrimoniali, presumendo che tali manifestazioni di capacità di spesa derivino da redditi (non dichiarati) conseguiti. La norma (comma 4) elenca gli elementi indicativi di capacità contributiva – es. disponibilità di beni e servizi, spese per il loro mantenimento – e (comma 5) prevede anche le spese per incrementi patrimoniali (acquisto di beni durevoli). Per queste ultime, nel testo originario era stabilito che la spesa per beni patrimoniali si presumesse sostenuta con redditi dell’anno in cui è avvenuta e dei 5 anni precedenti (rateo quinquennale). Questo meccanismo “di favore” teneva conto del fatto che per comprare un bene importante spesso ci si finanzia con risparmi di più anni. Resta sempre salva la prova contraria del contribuente (comma 6): egli può dimostrare con documenti che il reddito presunto in realtà non esiste o esiste in misura inferiore perché, ad esempio, quelle spese sono state sostenute con redditi esenti o già tassati alla fonte (o comunque non imponibili). Su questo aspetto torneremo ampiamente. Originariamente la norma menzionava solo redditi esenti o soggetti a ritenuta come possibili fonti giustificative; oggi, grazie sia all’evoluzione giurisprudenziale sia a modifiche normative recenti, il ventaglio delle prove contrarie ammissibili è più ampio (includendo ad es. l’uso di risparmi pregressi, donazioni, ecc., come vedremo).
  • Decreto-legge 78/2010 (conv. L. 122/2010): ha riformato il redditometro “storico”, introducendo l’allora nuovo redditometro operativo dagli anni d’imposta 2009-2010 in poi. Le modifiche principali furono: l’uso di coefficienti statistici basati sui consumi delle famiglie (definiti con successivi DM), l’obbligo per il Fisco di attivare il contraddittorio preventivo in ogni caso prima di emettere l’accertamento sintetico (nuovo comma 7 dell’art. 38), e inizialmente la condizione di poter effettuare l’accertamento solo se lo scostamento tra reddito dichiarato e redditometro superava il 20% per due anni consecutivi (requisito poi attenuato/interpretato negli anni successivi). Di fatto, con questa riforma il redditometro è diventato uno strumento più organico e “aggressivo”, ma al contempo con maggiori garanzie procedurali per il contribuente (il contraddittorio obbligatorio).
  • D.M. 10 settembre 2015 (MEF): è il decreto ministeriale che ha individuato gli indici e coefficienti del redditometro parametrico per gli anni fino al 2015. Esso suddivideva le famiglie per composizione e area geografica, assegnando valori medi ISTAT di spesa per varie categorie (abitazione, mezzi di trasporto, tempo libero, ecc.), in modo da presumere un reddito corrispondente al tenore di vita. Questo DM 2015 è stato l’ultimo applicato: infatti, per gli anni dal 2016 in avanti il redditometro è rimasto in una sorta di sospensione, in attesa di un nuovo DM aggiornato, come spieghiamo oltre. Nel frattempo, l’Agenzia ha continuato a effettuare controlli sintetici basati principalmente sulle spese effettive note, senza utilizzare parametri standardizzati (in pratica, redditometro in forma “mirata” non parametrica).
  • D.L. 87/2018 (art. 10-bis, conv. L. 96/2018, noto come “Decreto Dignità”): ha di fatto bloccato l’operatività del redditometro per gli anni dal 2016 in poi, stabilendo che i nuovi accertamenti sintetici su annualità dal 2016 dovessero essere effettuati solo sulla base di nuovi criteri da definirsi con decreto del MEF, sentiti l’ISTAT e le associazioni dei consumatori, per garantire maggiore trasparenza e affidabilità. Questa norma è nata anche a seguito di critiche sul fronte della privacy e della qualità dei dati utilizzati dal redditometro. Il Garante Privacy nel 2018 espresse perplessità su alcune tipologie di spese considerate (dati sensibili) e chiese revisioni. Pertanto, fino all’emanazione di un nuovo DM, il redditometro parametrico è rimasto sospeso. L’Agenzia ha comunque proseguito con controlli su spese anomale, ma incardinando gli accertamenti su basi di fatto concrete e presunzioni semplici, anziché usare le medie ISTAT.
  • Legge 212/2000 (Statuto del Contribuente), art. 6-bis: introdotto nel 2019, ha reso generale l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per i tributi non armonizzati (come le imposte sui redditi), salvo casi di particolare urgenza. Questo principio però per il redditometro era già esplicitamente previsto dall’art. 38 DPR 600 (come detto sopra) e ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823/2015. In sostanza, oggi è pacifico che prima di emettere un avviso di accertamento basato su spese sospette, l’ufficio deve invitare il contribuente a fornire chiarimenti. Il mancato rispetto di tale contraddittorio rende nullo l’atto, a meno che l’ufficio non motivi specificamente una situazione d’urgenza che lo ha impedito. È un aspetto di garanzia fondamentale, su cui torneremo parlando della fase difensiva.
  • Decreto Legislativo 4 agosto 2023 n. 108 (cosiddetto correttivo della riforma fiscale 2023): questa recentissima norma, in vigore dal 2024, ha innovato l’accertamento sintetico sotto vari profili. Ha modificato l’art. 38 DPR 600/73 introducendo una “doppia soglia” per l’attivazione del redditometro, e dettaglliando meglio le categorie di prova contraria a disposizione del contribuente. Nello specifico, oggi l’accertamento sintetico può scattare solo se:
    1. lo scostamento tra reddito “sintetico” e reddito dichiarato supera il 20% (ossia il reddito accertabile è almeno del 20% maggiore di quello dichiarato);
    2. il reddito sintetico determinato è almeno pari a 10 volte l’ammontare dell’assegno sociale annuo. Poiché l’assegno sociale è circa €6.980 annui nel 2024, ciò significa che serve un reddito sintetico ≥ €70.000 affinché si proceda. Questa seconda soglia introduce un “filtro” per evitare accertamenti a carico di contribuenti a basso reddito: sebbene non dichiarino abbastanza da giustificare le spese, restano comunque su livelli reddituali modesti (ad esempio, reddito dichiarato €10.000 vs spese per €15.000 non darà luogo a redditometro perché 15.000 < 70.000, pur essendoci scostamento percentuale).
    Entrambe le condizioni devono essere soddisfatte. Questa novità normative limita i redditometri ai casi più rilevanti, evitando di inseguire differenze esigue o situazioni marginali. Inoltre, lo stesso D.Lgs. 108/2024 ha esplicitamente riconosciuto che tra le prove contrarie che il contribuente può fornire rientra l’utilizzo di redditi o risorse di altri periodi d’imposta (non solo dell’anno in contestazione). Si supera così definitivamente la vecchia impostazione che parlava solo di redditi esenti o già tassati: oggi la legge considera legittimo giustificare lo scostamento anche provando, ad esempio, che si sono usati risparmi accumulati in anni precedenti o somme ricevute da terzi a titolo gratuito. Su questo punto la Cassazione era già intervenuta, e ora il principio è recepito in norma (vedi anche Cass. ord. n. 31568/2023, infra).
  • D.M. 7 maggio 2024 (MEF): è il nuovo decreto sul redditometro, pubblicato in G.U. n. 116 del 20/5/2024, che avrebbe dovuto individuare i nuovi elementi indicativi di capacità contributiva e i criteri di calcolo del reddito sintetico per gli anni d’imposta a partire dal 2016. In pratica, è il “Redditometro 2.0” che aggiorna il DM 2015. Questo DM 7/5/2024 prevede l’utilizzo sia delle spese note del contribuente sia di una quota di risparmio calcolata anche tramite l’archivio dei rapporti finanziari (conti correnti). La Tabella A allegata al DM elenca tutte le informazioni che il fisco può usare per dedurre la capacità contributiva e come stimare alcune spese in base a categorie di beni e servizi. Tuttavia, con un atto di indirizzo del MEF del 23 maggio 2024 l’entrata in vigore di questo DM è stata sospesa, disponendo ulteriori approfondimenti. Di conseguenza, al luglio 2025, il nuovo redditometro parametrico non è ancora effettivamente operativo. Ciò significa che le lettere di compliance su spese anomale continuano a basarsi su analisi mirate delle spese effettive, senza applicare i nuovi coefficienti su base statistica. È verosimile che nel prossimo futuro il DM 2024 venga attuato (magari con modifiche), ma per ora resta un quadro di riferimento teorico.

Oltre a queste fonti primarie, vanno ricordate alcune circolari e prassi rilevanti:

  • Circolare Agenzia Entrate n. 5/E del 14/02/2018: forniva una guida operativa sull’accertamento sintetico dopo il DM 2015, chiarendo metodologie e procedura (prima che intervenisse lo stop del 2018).
  • Provvedimento Ag. Entrate n. Prot. 183217 del 21/12/2020: ha dettato i criteri attuativi generali dell’obbligo di contraddittorio (anticipando l’entrata in vigore dell’art. 6-bis Statuto contribuenti), applicabili anche al redditometro.
  • Circolare Ag. Entrate n. 19/E del 8/8/2019: alla luce delle pronunce giurisprudenziali, ha ribadito che in caso di mancata partecipazione del contribuente al contraddittorio, l’ufficio deve comunque dare conto nell’avviso di accertamento delle ragioni per cui eventualmente procede in assenza di spiegazioni, così da garantire una “motivazione rafforzata” dell’atto (ciò in recepimento di Cass. SU 24823/2015).
  • Circolare Ag. Entrate n. 17/E del 29/04/2016: riguardava la definizione agevolata degli accertamenti esecutivi, ma è citabile perché conferma l’utilizzo degli istituti “deflattivi” del contenzioso (adesione, acquiescenza) anche per gli accertamenti da redditometro.
  • Circolare Ag. Entrate n. 21/E del 7/11/2024: di interesse tangenziale, ricorda le ipotesi tipiche di autotutela doverosa, tra cui errori palesi dell’accertamento; nel contesto redditometro potrebbe applicarsi se l’ufficio riconoscesse ex post un palese errore (es. attribuzione al contribuente di spese non sue).

In sintesi, il quadro normativo attuale (2025) vede un redditometro “ibrido”: gli accertamenti sintetici in essere seguono l’art. 38 DPR 600/73 come modificato dal 2024 (soglie 20% + 10×assegno, prova contraria ampliata), ma senza ancora utilizzare i nuovi indici del DM 2024 (sospeso). Nel frattempo, l’Agenzia cerca di ottenere collaborazione spontanea inviando le lettere di compliance prima di emettere avvisi. Forte del supporto normativo e giurisprudenziale (che – va detto – in buona parte dà ragione al Fisco sulla validità di queste presunzioni se il contribuente non prova il contrario), il messaggio implicito delle lettere è: “Spiegaci o metti a posto tu la situazione, altrimenti procederemo noi con un accertamento”. Nei capitoli successivi vedremo come gestire al meglio questa situazione dal lato del contribuente.

Il funzionamento del redditometro e l’individuazione delle spese anomale

Come fa il Fisco a stabilire che le spese di un contribuente non sono coerenti col suo reddito? Come accennato, lo strumento principe è l’accertamento sintetico (redditometro). È utile comprenderne il funzionamento concreto per sapere su cosa si basa l’Agenzia e quindi come eventualmente controbattere.

Indici di capacità contributiva e fonti informative

L’Agenzia delle Entrate dispone oggi di banche dati molto estese da cui attingere informazioni sulle nostre spese e sul patrimonio. Alcune di queste fonti:

  • Archivio dei rapporti finanziari: contiene i saldi e movimenti dei conti correnti, depositi, carte di credito, investimenti finanziari di ciascun contribuente (segnalati periodicamente dagli intermediari bancari). Questo consente di monitorare, ad esempio, prelievi e versamenti di denaro contante significativi, acquisti con carte, incrementi di risparmio, ecc.
  • Anagrafe tributaria – archivi immobiliari e registri pubblici: l’Agenzia sa se possediamo immobili (registro catastale), se compriamo o vendiamo case (atti notarili registrati), se possediamo auto, moto o imbarcazioni (PRA e altri registri). Ogni acquisto di un bene immatricolato o registrato è una spesa nota. Ad esempio, comprare un’auto di grossa cilindrata per 50.000 € è un dato che il Fisco apprende (dall’immatricolazione e dai contratti registrati) e che indica capacità di spesa.
  • Spesometro / fatture elettroniche / corrispettivi telematici: il sistema di fatturazione elettronica e comunicazione IVA fa sì che buona parte delle nostre spese (soprattutto se fatte verso operatori economici) siano note al Fisco. Ad esempio, l’Agenzia vede se paghiamo consistenti fatture per ristrutturazioni edili, se abbiamo spese per assicurazioni, bollette, rette scolastiche, ecc. Anche molte spese detraibili/deducibili (spese mediche, veterinarie, assicurazioni vita, contributi previdenziali…) sono comunicate all’Agenzia e compaiono nel 730 precompilato. Quindi l’Agenzia può incrociare quanto abbiamo speso in queste categorie.
  • Comunicazioni da altri enti: ad esempio l’ACI per le tasse automobilistiche (possedere auto costose implica bollo elevato), la nautica da diporto per barche, il registro aeronautico per eventuali aerei turistici, il ministero dell’istruzione per le università private o scuole d’élite frequentate dai figli, ecc.
  • Operazioni con l’estero (monitoraggio fiscale): grazie allo scambio automatico di informazioni tra Paesi, l’Agenzia può venire a sapere se abbiamo conti o case all’estero, investimenti fuori Italia, ecc. Se generano redditi non dichiarati o se implicano spese/investimenti elevati, anche queste sono anomalie (difatti esistono lettere di compliance specifiche per capitali esteri non dichiarati).
  • Guardia di Finanza – indagini finanziarie e controlli sul territorio: in casi mirati, la GdF può condurre verifiche approfondite (accedere ai conti, fare pedinamenti per documentare il tenore di vita, controllare cantieri, ecc.). Spesso queste sono attività successive, a valle di una selezione fatta centralmente con i dati di cui sopra. Ma la possibilità esiste, specie se si passa da una fase di semplice compliance a una vera verifica fiscale.

Tutti questi elementi confluiscono nel concetto di “spesa nota” sostenuta dal contribuente in un dato anno. Il redditometro di nuova generazione considera l’insieme delle spese di qualsiasi genere sostenute in un periodo d’imposta, e in alcuni casi aggiunge anche una quota di risparmio accumulato o disinvestito. L’idea è che reddito = consumi + risparmio (semplificando molto). Dunque, se in un anno hai consumato/speso molto più di quanto dichiarato, o hai anche incrementato i tuoi risparmi/patrimonio, allora probabilmente avevi fonti di reddito extra non dichiarate.

Un esempio di “capacità contributiva”: il possesso di un’auto. Se Mario possiede e mantiene un’auto di grossa cilindrata, il Fisco presume che Mario abbia un certo livello di reddito sufficiente a comprare e gestire quell’auto. In passato si attribuiva direttamente un reddito presunto (es: auto sopra 3000 cc => almeno 30.000 € di reddito). Oggi invece si guarda alle spese effettive: costo di acquisto (es. 50.000 €) e costi annuali di mantenimento (bollo, assicurazione, carburante stimato). Se Mario dichiara solo 15.000 € annui, c’è incongruenza evidente. Il redditometro “parametrico” (DM 2015 e nuovo DM 2024) fornisce modelli statistici per stimare alcune voci di spesa basandosi su medie (es. spesa alimentare e abbigliamento determinata in base alla famiglia e zona), ma come detto queste medie standard dal 2016 non sono state applicate. Si tende a usare dati puntuali: se Mario ha pagato €10.000 di assicurazioni, €5.000 di bollette, €8.000 di mutuo, ecc., quei valori reali entrano nel calcolo.

La doppia soglia (20% e 10×assegno sociale)

Non tutte le differenze attivano l’accertamento: occorre superare certe soglie di tolleranza. Abbiamo visto che dal 2024 sono richieste due condizioni cumulative:

  • Scostamento percentuale ≥ 20%: ad esempio, se reddito dichiarato 50.000 € e spese note per 58.000 €, la differenza è +16% circa, quindi sotto il 20% – non si procede. Se spese per 70.000 € (+40%), è sopra soglia.
  • Importo assoluto del reddito sintetico ≥ 10× assegno sociale (~€70.000): se il redditometro stima un reddito di 60.000 € ma ne hai dichiarati 45.000, pur essendoci 33% in più, 60.000 € è sotto la soglia assoluta quindi niente accertamento. Se invece il redditometro stima 100.000 € vs dichiarato 50.000 € (scostamento 100%, reddito presunto 100k > 70k), allora sì.

Queste soglie mirano a evitare accertamenti per importi modesti o su contribuenti di per sé non abbienti. In passato esisteva la regola (meno mirata) dei due anni consecutivi sopra 20%. Ora conta il singolo anno ma con la franchigia fissa dell’assegno sociale. Questo chiaramente circoscrive le lettere di compliance e i controlli ai casi più macroscopici: grandi incongruenze tra stile di vita e reddito dichiarato. Esempio concreto: “contribuente dichiara €15.000 e risultano spese per €100.000” – caso eclatante che certamente ricade nel redditometro. Viceversa “dichiara €30.000, spese €35.000” – scostamento 16% e importo 35k < 70k, quindi non rientra nel nuovo redditometro.

Da notare: la doppia soglia è stata introdotta nel 2024 e vale per i nuovi controlli. Per annualità pregresse (es. una lettera inviata nel 2023 riferita al 2019) si applicava la normativa del tempo, che prevedeva la soglia del 20% (e interpretazioni oscillanti sul criterio dei due anni). Tuttavia, in ottica difensiva, anche prima era prassi dell’Agenzia concentrare i controlli sui casi più rilevanti, quindi difficilmente si riceveva un accertamento sintetico per poche migliaia di euro di scostamento.

Il contraddittorio endoprocedimentale

Prima di inviare un formale avviso di accertamento basato sul redditometro, l’Ufficio è obbligato a instaurare un contraddittorio con il contribuente. Questo avviene di solito mediante un “invito a comparire” o una richiesta di informazioni, citando l’art. 38 DPR 600/73 e l’art. 5-ter D.Lgs. 218/1997. In pratica il contribuente viene convocato (di persona o oggi spesso in via telematica) per esaminare insieme la situazione e fornire giustificazioni. La giurisprudenza, fin dalla storica sentenza delle Sezioni Unite n. 24823/2015, ha ribadito che tale contraddittorio non è una mera facoltà, ma un obbligo per l’Amministrazione, la cui assenza rende nullo l’accertamento. Inoltre, se il contribuente partecipa e porta elementi a sua discolpa, l’esito del contraddittorio deve essere tenuto in considerazione: un eventuale avviso di accertamento successivo dovrà motivare adeguatamente perché le spiegazioni fornite sono state ritenute non sufficienti. Questo è il concetto di motivazione rafforzata richiesto dalla C.Ass. SU e recepito nella Circ. 19/E/2019 citata.

Nel contesto della lettera di compliance, va chiarito che essa di per sé non coincide necessariamente con l’invito formale al contraddittorio ex art. 38. La lettera può precederlo come fase “informale”, invitando il contribuente a regolarizzare spontaneamente. Se il contribuente ignora la lettera o non fornisce elementi convincenti tramite i canali di compliance, l’Ufficio potrà a quel punto emettere il vero e proprio invito a comparire (questa volta tramite atto protocollato e inviato con raccomandata A/R o PEC, avente valore legale). In alcuni casi però la comunicazione di anomalie può già contenere un invito a presentare deduzioni entro un certo termine, il che sostanzialmente equivale ad avviare il contraddittorio. In qualunque forma avvenga, è fortemente consigliato al contribuente di non sottrarsi al confronto: il contraddittorio è l’occasione per chiarire equivoci, fornire prove e magari evitare l’accertamento. Tra l’altro, non rispondere alla chiamata può peggiorare la posizione del contribuente, perché se poi si arriva in giudizio il giudice potrebbe considerare negativamente la mancata collaborazione (anche se, va detto, il silenzio non equivale mai ad ammissione).

Riassumendo: il redditometro funziona tramite la rilevazione di spese certe o stimate, applica oggi criteri più selettivi (doppia soglia) e prevede sempre un confronto preventivo col contribuente. La lettera di compliance è spesso il primo passo di questo confronto. Nei prossimi capitoli vedremo cosa fare esattamente quando si riceve la lettera, come fornire le prove contrarie e, se il caso sfocia in accertamento, come difendersi nel merito anche dinanzi al giudice.

Fase pre-contenziosa: come reagire alla lettera di compliance

La ricezione di una lettera di compliance non va ignorata, ma nemmeno affrontata con panico. In questa fase il contribuente ha la possibilità di risolvere la questione bonariamente, evitando che si trasformi in un contenzioso oneroso. Ecco i passi e gli strumenti difensivi principali in fase pre-contenziosa (cioè prima che venga emesso un avviso di accertamento):

1. Analisi dell’anomalia segnalata: Per prima cosa, leggete attentamente la comunicazione. Di solito viene indicato il motivo: ad es. “reddito dichiarato 2020 non coerente con spese risultanti (mutuo, acquisto auto) per importo complessivo X”. Possono essere specificate le categorie di spesa o il valore di reddito “atteso” in base ad esse. Verificate se i dati citati corrispondono al vero: quelle spese le avete effettivamente sostenute voi? Sono state conteggiate correttamente? Talora potrebbero esserci errori (ad es. una spesa attribuita due volte, o riferita a un omonimo). È raro, ma se individuate un palese errore fattuale, prendetene nota perché sarà un elemento di difesa (eventualmente segnalatelo subito). Nella maggior parte dei casi, però, i dati sono corretti e vanno spiegati.

2. Valutare se c’è stata un’omissione d’imposta: La domanda chiave da porsi è: ho effettivamente omesso di dichiarare dei redditi, oppure ho dichiarato tutto e le spese sono state finanziate con redditi legittimi? Se, riesaminando la propria situazione, il contribuente si accorge di aver commesso un errore od omissione nella dichiarazione, conviene ammetterlo e procedere a correggerlo, perché prima lo fa minori saranno le sanzioni. Ad esempio, potrebbe emergere che non è stato dichiarato un reddito (magari una plusvalenza, un reddito estero, o un reddito di capitale) che spiega in parte le spese: in tal caso si può presentare una dichiarazione integrativa e versare la relativa imposta con sanzioni ridotte da ravvedimento. Se invece il contribuente ritiene di aver dichiarato tutto correttamente, allora l’incoerenza dev’essere frutto di altre circostanze (redditi esenti, risparmi, aiuti, ecc.). In tal caso l’obiettivo è dimostrare all’Agenzia tali circostanze.

3. Ravvedimento operoso (se dovuto): Il ravvedimento operoso è lo strumento che consente di regolarizzare spontaneamente una violazione fiscale beneficiando di sanzioni ridotte (art. 13 D.Lgs. 472/97). La lettera di compliance esplicitamente incoraggia questa strada, dicendo: se riconosci l’errore/anomalia, puoi presentare una dichiarazione integrativa e pagare il dovuto con sanzioni ridotte. Ad esempio, se ci si accorge di non aver proprio presentato la dichiarazione dei redditi di un certo anno (omissione totale) – una delle cause più comuni di lettera di compliance – si può presentare la dichiarazione tardiva entro 90 giorni con sanzione fissa minima (oggi 25 €) e poi versare le imposte con sanzione ridotta del 5% (anziché 30%). Se invece la dichiarazione era infedele (qualche reddito non indicato), la sanzione ordinaria sarebbe del 90% circa sull’imposta evasa; col ravvedimento la si riduce in proporzione al tempo trascorso. Ad esempio, integrando entro un anno dall’omissione la sanzione è 1/8 del minimo (circa 11%), entro 2 anni 1/7 (circa 12.86%), oltre 2 anni 1/6 (15%). In ogni caso, ravvedersi prima che l’Agenzia contesti formalmente la violazione evita ulteriori guai: se la violazione è palese e non ci sono valide giustificazioni, il ravvedimento è l’azione migliore per minimizzare le penalità e chiudere la partita. La lettera di compliance non preclude il ravvedimento, anzi lo sollecita, poiché finché non viene notificato un avviso di accertamento il ravvedimento è ammesso.

4. Fornire chiarimenti e documentazione (se si ritiene di essere in regola): Se ritenete che l’anomalia sia solo apparente, dovuta magari a fattori leciti, è fondamentale comunicare queste spiegazioni all’Agenzia tempestivamente. La lettera solitamente indica le modalità: è possibile rispondere tramite:

  • Servizi online/cassetto fiscale: Alcune comunicazioni permettono di inviare spiegazioni o segnalare errori direttamente tramite l’area riservata sul sito dell’Agenzia o servizi dedicati.
  • PEC o email dedicata: In molti casi viene fornito un indirizzo PEC a cui inviare una risposta scritta, allegando eventuali documenti giustificativi.
  • Sportello territoriale (ufficio locale): Il contribuente (o il suo intermediario delegato) può recarsi presso l’ufficio dell’Agenzia indicato nella lettera, per un incontro o per protocollare una memoria con i chiarimenti.
  • Intermediario abilitato (commercialista, CAF): La lettera può essere consegnata al proprio consulente fiscale, il quale potrà interfacciarsi con l’Agenzia per conto del cliente.

Nella risposta, occorre spiegare in modo chiaro le ragioni per cui le spese risultate non implicano evasione. Questo vuol dire dichiarare, ad esempio: “Le spese contestate (acquisto auto €50.000) sono state finanziate con utilizzo di risparmi personali accumulati in anni precedenti, come da estratti conto allegati” oppure “con somme donate da un familiare, come da atto notarile allegato” ecc. Bisogna allegare i documenti che supportano tali affermazioni (si veda oltre la sezione “Prova contraria”). Secondo le istruzioni ufficiali, se l’anomalia è frutto di errore (ma non di evasione) il contribuente può fornire spiegazioni documentate tramite i canali dell’Agenzia (cassetto fiscale, PEC o sportello) direttamente o tramite un intermediario di fiducia.

È importante rispettare le tempistiche indicate nella lettera. Spesso viene concesso un termine (ad esempio 30 giorni o 60 giorni) per rispondere o regolarizzare. Anche se la lettera potrebbe non indicare espressamente una scadenza tassativa, è bene agire al più presto. Infatti, trascorso un certo periodo, l’ufficio potrebbe procedere ad approfondire il caso ed eventualmente emettere un accertamento.

5. Coinvolgere un professionista (se necessario): Di fronte a questioni fiscali complesse, specialmente se in ballo ci sono importi rilevanti, è consigliabile farsi assistere da un dottore commercialista o avvocato tributarista. Questo è ancor più vero se la materia è tecnica (es. investimenti esteri, plusvalenze) o se non si è sicuri su come predisporre la documentazione di risposta. Un professionista può aiutare a:

  • esaminare la fondatezza della pretesa fiscale sottesa alla lettera;
  • predisporre la dichiarazione integrativa e calcolare il dovuto, se si opta per il ravvedimento;
  • redigere una memoria difensiva chiara e completa di riferimenti normativi e giurisprudenziali, se si intende dimostrare la propria regolarità;
  • interloquire con i funzionari dell’Agenzia in sede di contraddittorio, facendo valere i diritti del contribuente ed evitando passi falsi.

La stessa Agenzia nelle comunicazioni di compliance suggerisce al contribuente incerto di rivolgersi a un esperto fiscale di fiducia. È vero che ciò comporta dei costi, ma di fronte al rischio di un accertamento con maggiori imposte e sanzioni, è spesso un investimento sensato.

6. Autotutela in caso di errore evidente dell’Agenzia: Se dopo attenta verifica risultasse che l’anomalia segnalata è frutto di un errore dell’Agenzia (ad esempio, vi viene attribuita una spesa che in realtà riguarda un’altra persona, oppure l’Agenzia non ha considerato che quella spesa già emergeva dalla vostra dichiarazione), conviene comunicarlo immediatamente, chiedendo l’archiviazione della posizione in autotutela. L’autotutela è il potere/dovere dell’Amministrazione di correggere o annullare i propri atti errati. Anche se qui non c’è ancora un atto (solo una lettera), segnalare l’errore serve a evitare che si prosegua su un binario sbagliato. Ad esempio: “Avete rilevato un bonifico da 20.000 € sul mio conto, ma è un mero trasferimento da un mio conto corrente ad un altro, non una spesa; quindi non rappresenta capacità contributiva aggiuntiva”. Oppure: “L’auto risulta a me intestata ma è stata acquistata da mio padre, come posso documentare”. Inviate una PEC o lettera all’ufficio spiegando e allegando eventuali documenti. In molti casi, di fronte all’evidenza, l’ufficio chiuderà la segnalazione senza accertamento. Questo è l’esito migliore: risolvere tutto in fase pre-contenziosa grazie a chiarimenti convincenti.

7. Preparatevi al contraddittorio formale: Se la vostra risposta scritta non risolve la questione (ad esempio l’ufficio non è soddisfatto delle spiegazioni, oppure comunque vuole vederci chiaro), riceverete quasi certamente un invito al contraddittorio/invito a comparire ufficiale. A quel punto, presentatevi (personalmente o tramite professionista delegato) all’incontro, muniti di tutta la documentazione in originale. La legge prevede che in sede di contraddittorio l’ufficio possa proporre un accertamento con adesione al contribuente (una definizione concordata). Nella prassi, se il contribuente porta elementi parziali ma non totalmente risolutivi, l’ufficio potrebbe proporre un “compromesso”: dichiarare un certo maggior reddito per chiudere la vicenda. Valuteremo più avanti se e quando conviene aderire.

In sintesi, in fase pre-contenziosa la parola d’ordine è collaborazione (senza arrendevolezza ingiustificata). La lettera di compliance vi dà la chance di aggiustare il tiro volontariamente – approfittatene se avete realmente commesso un errore. Se invece siete convinti della bontà della vostra posizione, dovete difenderla attivamente fornendo al Fisco tutti gli elementi utili a spiegare la copertura delle spese. In entrambi i casi, tempestività e trasparenza giocano a vostro favore: mostrano all’Agenzia che siete contribuenti attenti e riducono la probabilità che si passi alle maniere forti. Nel prossimo paragrafo vedremo quali strumenti “deflattivi” esistono per chiudere la partita prima del contenzioso (adesione, acquiescenza ecc.) e come funzionano.

Strumenti deflattivi: ravvedimento, adesione e altre opzioni prima del processo

Durante la fase pre-contenziosa e fino a poco dopo l’eventuale emissione di un accertamento, esistono alcuni strumenti deflattivi del contenzioso che meritano attenzione. L’uso sapiente di questi strumenti può spesso evitare il ricorso in Commissione Tributaria (ora Corte di Giustizia Tributaria di primo grado) e limitare le sanzioni. Li riassumiamo qui, anche in relazione a una lettera per spese incoerenti:

  • Ravvedimento operoso: Ne abbiamo già parlato. È l’opzione da usare prima che il Fisco formalizzi l’accertamento, quando il contribuente riconosce di aver omesso/imposto qualcosa. Nel contesto di spese incoerenti, tipicamente il ravvedimento implica presentare una dichiarazione integrativa per l’anno in questione dichiarando un reddito maggiore (ad esempio aggiungendo un reddito che non era stato dichiarato, o correggendo importi dichiarati troppo bassi) e versando le imposte dovute con sanzioni ridotte. Vantaggi: sanzioni ridotte al minimo, niente spese di lite, definizione immediata. Svantaggi: si paga tutto il dovuto (imposte + interessi + sanz. ridotta) subito; inoltre si “ammette” l’errore, rinunciando a eventuali chance di farla franca se il Fisco non avesse proseguito. Ma attenzione: se l’Agenzia ha inviato la lettera, significa che è già sul pezzo; confidare che lasci correre è rischioso. Conviene ravvedersi solo se si è effettivamente in difetto e la prova contraria sarebbe inconsistente.
  • Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997): È una procedura di confronto con l’Ufficio, dopo che è stato emesso un avviso di accertamento (anche solo un “avviso bonario” o un P.V.C.) ma prima di fare ricorso. Nel caso del redditometro, spesso viene proposto durante il contraddittorio: in pratica l’Ufficio dice “Secondo noi il tuo reddito 2020 va aumentato di €XX; se sei d’accordo, formalizziamo un atto di adesione con queste somme”. Il contribuente può anche presentare istanza di adesione dopo aver ricevuto l’avviso (entro 30 giorni), il che sospende i termini per il ricorso. Nell’adesione si può negoziare l’entità dei maggiori redditi attribuiti (magari portando ulteriori elementi per ottenere uno sconto). Vantaggi: la sanzione viene ridotta a 1/3 di quella ordinaria (quindi per un’imposta evasa con sanzione base 90%, si paga il 30%) e si evita il processo; si può chiedere la rateazione fino a 8 rate trimestrali. Svantaggi: bisogna comunque concordare di pagare imposte (magari non tutte quelle inizialmente pretese, ma comunque un importo significativo); inoltre l’adesione implica rinunciare al ricorso. Quando conviene? Se le spiegazioni non sono state del tutto accolte ma l’Ufficio mostra apertura a ridurre l’accertamento, e soprattutto se mancano prove solide per vincere in giudizio, può essere saggio aderire e chiudere con pena pecuniaria ridotta. Se invece si hanno buone carte per opporsi, aderire significherebbe cedere su qualcosa che forse in tribunale si potrebbe far annullare.
  • Acquiescenza all’accertamento (art. 15 D.Lgs. 218/97): Significa accettare l’accertamento così com’è, senza contestazioni, beneficiando in cambio di una riduzione delle sanzioni del 1/3. In pratica, se arriva un avviso di accertamento e il contribuente, valutati rischi e costi, decide di non fare ricorso, può pagare entro 60 giorni le somme dovute e avrà lo sconto sulle sanzioni (pagherà il 66% della sanzione anziché 100%). Vantaggi: sanzione ridotta (anche se meno che con adesione), evita ulteriori aggravi, chiusura rapida; nessun rischio di condanna alle spese di giudizio. Svantaggi: si paga tutto per intero (a parte lo sconto sanzioni), niente possibilità di rateizzare oltre i 60 giorni (se non eventualmente con piani di riscossione ordinaria poi); e ovviamente si abdica al diritto di difesa (non si saprà mai se un giudice avrebbe potuto dare ragione, magari annullando tutto). Quando conviene? Se l’accertamento è fondato e magari già contiene il minimo perché l’Ufficio ha tenuto conto del contraddittorio (es. vi contestano 30k di imponibile e sapete che davvero quello è frutto di nero non giustificabile), allora fare ricorso servirebbe solo a perdere e pagare di più (aggiungendo interessi, spese, forse sanzioni piene). In questi casi l’acquiescenza permette almeno di risparmiare un 1/3 delle sanzioni e chiudere la vicenda.
  • Mediazione/reclamo obbligatorio (fino al 2023): Fino agli atti notificati al 2023, se il valore in contestazione non superava €50.000 era necessario proporre un’istanza di reclamo-mediazione prima di poter adire la Commissione Tributaria, dando modo all’Ufficio legale dell’Agenzia di eventualmente ridurre/annullare l’atto in via amministrativa. Tuttavia, con la riforma della giustizia tributaria entrata in vigore nel 2023, il reclamo-mediazione è stato abolito dal 2024 per semplificare il rito. Quindi per gli accertamenti dal 2024 in poi non c’è più questa fase. In ogni caso, nelle controversie da redditometro la mediazione trovava poco spazio: l’Agenzia di rado “mediava” su questioni fattuali di prova contraria, a meno che il contribuente non portasse nuovi documenti. Oggi questa dinamica si sposta tutta nel contraddittorio preventivo e nell’eventuale adesione.

In tabella 1 sottostante riassumiamo le opzioni e i benefici:

StrumentoQuando usarloBenefici sanzionatoriNote
Ravvedimento operosoPrima dell’accertamento, se si riconosce l’errore (omessa o infedele dichiarazione)Sanzioni ridotte (da 1/10 a 1/6 del minimo, a seconda del tempo trascorso). Esempio: omesso reddito con sanzione base 90%, col ravvedimento dopo oltre 2 anni paga ~15%.Necessario correggere la dichiarazione e pagare spontaneamente imposte + interessi + sanzioni ridotte. Evita del tutto l’accertamento e ulteriori aggravi.
Accertamento con adesioneDopo ricezione di avviso di accertamento (o invito), se si preferisce concordare col FiscoSanzioni ridotte a 1/3 del minimo (90% → 30%). Possibile ulteriore limatura dell’imponibile in sede di accordo.Si firma un atto di adesione e si rinuncia al ricorso. Pagamento in unica soluzione o rate (max 8 trimestrali). Richiede accordo reciproco su somme.
Acquiescenza (definizione)Dopo avviso di accertamento, se non si intende fare ricorsoSanzioni ridotte a 2/3 (90% → 60%).Bisogna pagare tutto entro 60 gg dall’avviso. Nessuna trattativa sulle somme: si accetta integralmente l’atto (a parte lo sconto di legge sulle sanzioni).
Ricorso (contenzioso)Dopo avviso, se si vuole contestare in giudizioNessuna riduzione automatica (potrebbe annullare in toto sanzioni se vittoriosi).È la via giudiziaria: può portare ad annullamento integrale (zero sanzioni) o parziale, ma comporta costi legali e rischio di dover pagare il pieno (imposte + 100% sanzioni) se si perde.

(Tabella 1: Opzioni di definizione e relativi benefici in caso di accertamento da redditometro)

Come si vede, gli strumenti deflattivi offrono riduzioni significative delle sanzioni (dal 33% al 70% di sconto rispetto al 100%). L’Agenzia stessa li favorisce perché chiudono le pendenze velocemente. Dal punto di vista del contribuente, scegliere l’uno o l’altro dipende dalla forza delle proprie argomentazioni e dalle evidenze a sostegno. Se si ha piena ragione e documenti solidi, fare ricorso può far vincere tutto; ma se il terreno è incerto e la posta in gioco alta, a volte una soluzione di compromesso (adesione) riduce l’esborso e la tensione. In qualunque caso, è fondamentale valutare con lucidità – magari col supporto di un consulente – le probabilità di successo in contenzioso prima di rinunciare agli sconti deflattivi.

Nei capitoli successivi supponiamo che, esaurita la fase pre-contenziosa, si arrivi comunque a un avviso di accertamento: vediamo come impostare la difesa in giudizio e quali argomenti utilizzare, alla luce della giurisprudenza recente.

Difesa in fase contenziosa: opporsi a un accertamento sintetico

Se l’Agenzia delle Entrate, dopo la lettera e il contraddittorio, emette un avviso di accertamento basato sul redditometro, significa che ritiene non sufficienti le spiegazioni fornite o che comunque attribuisce al contribuente un reddito maggiore non giustificato. A questo punto, dal punto di vista del contribuente, ci si trova di fronte a un atto impositivo contro cui è possibile presentare ricorso al giudice tributario entro 60 giorni (salvo eventuale istanza di adesione che sospende i termini). Vediamo come strutturare la difesa in giudizio (fase contenziosa), quali sono i principali motivi di ricorso e come viene ripartito l’onere della prova.

Vizi formali e procedurali: contraddittorio e motivazione

Un primo profilo da verificare è se l’accertamento è stato emanato nel rispetto delle regole procedurali. In particolare:

  • Mancato contraddittorio preventivo: come detto, l’assenza di invito al contraddittorio rende nullo l’atto (violazione dell’art. 38 DPR 600/73 e art. 6-bis Statuto). Oggi è raro che l’Agenzia salti questa fase, ma è accaduto in passato in qualche caso. Se non vi è traccia né di una lettera di compliance né di un invito formale a comparire prima dell’accertamento, potete eccepire la nullità dell’atto per violazione del contraddittorio endoprocedimentale, richiamando Cass. SU 24823/2015. L’Agenzia potrebbe replicare che ha inviato la PEC di compliance e voi non avete risposto; occorrerà allora dimostrare eventualmente di non aver ricevuto alcun invito formale. Questo motivo è tecnico, ma se fondato comporta l’annullamento integrale dell’atto. Va notato che la Corte Costituzionale nel 2023 (sent. n. 47/2023) ha sollecitato il legislatore a generalizzare il contraddittorio anche per i tributi non armonizzati, principio poi attuato; quindi i giudici tributari oggi sono molto attenti su questo aspetto.
  • Motivazione carente o contraddittoria: l’avviso deve esplicitare le spese considerate, il calcolo del reddito sintetico e soprattutto dare conto delle controdeduzioni del contribuente se queste sono state presentate. Una motivazione “standard” che non menziona affatto i documenti giustificativi che avevate eventualmente prodotto potrebbe essere contestata come insufficiente. La Cassazione (sent. n. 19257/2016, ad es.) ha affermato che l’Amministrazione deve confutare le prove contrarie offerte dal contribuente; in caso contrario, l’atto è viziato. Inoltre, dopo la Circ. 19/E 2019, l’Agenzia sa di dover motivare bene se decide di non accogliere le spiegazioni fornite. Verificate quindi se l’avviso spiega perché le vostre prove sono state ritenute non idonee: se non lo fa, potete denunciare la violazione dell’art. 7 co.1 L. 212/2000 (obbligo di motivazione degli atti fiscali).
  • Errori nelle somme o negli elementi considerati: a volte l’accertamento può contenere errori di calcolo (es. doppia conteggiatura di una spesa, o importi sbagliati). In giudizio potete far emergere questi errori che incidono sul quantum. Se l’errore è materiale ma non altera la struttura dell’atto, il giudice può rettificare le somme; se invece l’errore è tale da far crollare l’intera pretesa (ad es. attribuzione al contribuente di redditi/spese che in realtà sono di terzi), allora l’atto può essere annullato per infondatezza.
  • Notifica e termini: controllate che l’atto sia stato notificato regolarmente (via PEC o posta) e nei termini di decadenza. Per le imposte sui redditi, il termine ordinario è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (quarto se presentata tempestiva). Ad esempio, per il 2019 il termine era 31/12/2024. Se l’accertamento arriva dopo, ed eventualmente non c’è stata una causa di sospensione, è decaduto e va annullato. Questi aspetti temporali sono tecnici ma vanno sempre verificati.

In genere, le Commissioni Tributarie (oggi Corti di Giustizia Tributarie) accolgono di buon grado i vizi formali/procedurali se chiaramente sussistenti, perché ciò consente di decidere senza entrare nel merito. Dunque, è strategico sollevare tali eccezioni quando ci sono. Tuttavia, nel redditometro spesso l’Agenzia cura la procedura, quindi la partita principale si gioca sul merito sostanziale, ovvero l’esistenza o meno dei redditi presunti.

Onere della prova e prova contraria del contribuente

Nel merito, la questione fondamentale è: chi deve provare cosa quando si litiga su un accertamento da spese non coerenti? La giurisprudenza consolidata dice che ci troviamo di fronte a una presunzione legale relativa in favore del Fisco. Ciò significa che:

  • Il Fisco, per vincere la causa, non deve provare direttamente che avete evaso redditi, ma solo dimostrare i fatti “indice” di capacità contributiva (cioè l’avvenuto sostenimento delle spese, il possesso di beni, ecc.). Questi fatti sono considerati dalla legge indizi sufficienti di maggiore reddito, senza bisogno di ulteriori prove da parte dell’Agenzia. In altre parole, l’Ufficio in giudizio si limiterà a produrre documenti che attestano quelle spese (es. atto di acquisto immobiliare, estratto conto con bonifico di pagamento, ecc.) e a richiamare l’art. 38 DPR 600/73.
  • Il contribuente ha l’onere della prova contraria: spetta quindi a voi, in giudizio, dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore. Questa dimostrazione deve avvenire attraverso idonea documentazione e può articolarsi in vari modi:
    1. Prova di redditi esenti o già tassati utilizzati per le spese: è la classica difesa prevista dalla norma (vecchio comma 6 art.38): es. dimostrare che certe entrate che non dovevate dichiarare (perché esenti o già soggette a ritenuta a titolo d’imposta) vi hanno fornito la capacità di spesa contestata. Esempi: indennità esente, donazione o eredità ricevuta (non tassabile ai fini IRPEF), vincita al gioco, redditi tassati alla fonte come interessi su Titoli di Stato, etc.. Se queste somme coprono la spesa, allora il reddito “in nero” presunto non sussiste.
    2. Prova dell’uso di disponibilità pregresse (risparmi): come oggi riconosciuto dalla legge e dalla Cassazione, il contribuente può dimostrare che le spese sono state finanziate con capitali accumulati in passato. In tal caso non serve fossero redditi esenti, potevano anche essere redditi tassati a suo tempo (il risparmio è per definizione reddito già tassato quando fu prodotto). Ad esempio: “Ho utilizzato €30.000 provenienti dalla vendita di un immobile avvenuta 10 anni fa”; “Ho attinto dal mio conto corrente dove avevo accantonato risparmi negli anni precedenti”. Questa prova, secondo la Cassazione, deve riguardare la complessiva posizione familiare: potete cioè includere i risparmi di vostro coniuge o altri familiari conviventi, se concorrono a finanziare la spesa. Importante: occorre documentare sia l’entità di tali risparmi, sia la durata del loro possesso. In pratica, servono estratti conto bancari o altri documenti che mostrino che disponevate effettivamente di quelle somme e da tempo. La Cassazione (ord. 31568/2023) ha chiarito che non ci si limita al quinquennio precedente l’anno di spesa: potete far vedere risparmi accumulati anche in periodi più lontani. Ciò smonta la presunzione perché se per esempio avevate €100.000 sul conto derivanti da redditi dichiarati nel passato, spenderne 50.000 oggi non implica affatto un nuovo reddito.
    3. Prova di intervento di terzi (finanziamenti, donazioni): un altro scenario è dimostrare che le spese sono state sostenute non con vostri redditi, ma con soldi altrui che vi sono stati messi a disposizione a titolo non reddituale. Ad esempio: un finanziamento o prestito ottenuto (da una banca o da privati), oppure una donazione da un familiare. In entrambi i casi, le somme ricevute non costituiscono reddito imponibile per voi (un prestito non è reddito, va restituito; una donazione è esente da IRPEF, semmai sconta l’eventuale imposta di donazione). Se avete comprato casa per 200.000 € accendendo un mutuo bancario di 150.000 €, la vostra effettiva capacità di spesa derivante da reddito era solo 50.000, il resto erano soldi della banca. Questo va portato a conoscenza del giudice: il mutuo è documentato dall’atto notarile e dal piano di ammortamento. La giurisprudenza ha riconosciuto che in presenza di mutui pluriennali, la capacità contributiva va “diluita”: va considerata spesa solo la parte non coperta da mutuo + le rate effettivamente pagate nell’anno. Similmente, se uno zio vi ha regalato 20.000 € per comprare l’auto, dovrete esibire magari una lettera o un bonifico che provi tale liberalità. Attenzione: spesso le donazioni familiari avvengono informalmente (contanti), ma in giudizio serve qualche riscontro oggettivo. La Cassazione accetta anche “presunzioni secondarie”: ad esempio, mostrare l’estratto conto dello zio che preleva 20k e voi che li versate poco dopo, più una dichiarazione scritta dell’interessato, può essere ritenuto sufficiente indizio di donazione reale. L’ideale sarebbe un atto di donazione o almeno un bonifico con causale. In mancanza, si cerca di ricostruire comunque.
    4. Contestazione delle spese imputate (quantum): un’ulteriore linea difensiva è attaccare il calcolo delle spese. Magari l’Agenzia vi attribuisce un certo costo standard, ma voi potete provare che avete speso meno. Esempio: il Fisco vede che possedete un’auto X e presume abbiate speso 50.000 € per acquistarla, ma potete produrre il contratto d’acquisto di un’auto usata per €30.000. Oppure: contestano “viaggi all’estero per 10k in un anno” basandosi su movimenti carta di credito, e voi dimostrate che una parte erano spese pagate da altri o rimborsate. Insomma, ridurre la base presuntiva. Anche le spese familiari vanno calibrate: se l’accertamento considera tutto in capo a uno solo dei coniugi ma in realtà il costo era sostenuto in parte dall’altro coniuge (con redditi dichiarati), ciò va evidenziato. La Cassazione ha affermato che va considerata la posizione reddituale complessiva della famiglia: ad esempio, se marito e moglie hanno cointestato un immobile, non si può attribuire l’intera spesa solo al marito ignorando il reddito della moglie.
    5. Dimostrare che il fatto indice non sussiste o non è significativo: in rari casi si può provare che l’elemento di capacità contributiva in realtà è inesistente o non riconducibile al contribuente. Ad esempio, se viene contestato l’acquisto di un immobile ma risulta che la compravendita era simulata (fittizia) o annullata, potete provare che quell’atto non ha comportato spesa reale. Oppure, se contestano prelievi elevati dal conto, potreste provare che quei contanti non sono stati spesi ma custoditi (anche se questa è difficile, la Corte Cost. 228/2014 ha escluso presunzioni sui prelievi per autonomi, ma per privati la questione è diversa).

Come impostare la difesa nel ricorso? Bisogna allegare tutti i documenti utili già dal ricorso introduttivo (o comunque entro le memorie, ma prima è meglio) che supportino le prove contrarie di cui sopra. Elencate analiticamente le fonti di finanziamento non reddituali e per ognuna allegate la relativa evidenza:

  • Esempio: “€XX provenienti da risparmio pregresso su c/c n… – vedi estratti conto anni … che mostrano saldo di €YY a inizio 2020”.
  • “Donazione di €ZZ da padre in data … – vedi dichiarazione sostitutiva atto notorio firmata dal padre e estratto conto di prelievo/versamento corrispondente”.
  • “Mutuo bancario contratto il … – vedi contratto di mutuo e quietanze delle somme erogate”.

È molto importante evidenziare la congruenza temporale tra le risorse e le spese: la Cassazione chiede di provare l’entità e la durata del possesso di eventuali redditi esenti o risparmi. Ciò significa che, ad esempio, se dichiarate di aver usato una vincita alla lotteria di anni prima, dovreste mostrare che quei soldi erano ancora nella vostra disponibilità (es. sul conto) quando avete effettuato la spesa contestata. Non basta dire “ho vinto 50k cinque anni fa”; dovete far vedere che non li avevate dilapidati altrove nel frattempo. La tracciabilità bancaria spesso è la miglior alleata: l’estratto conto bancario è un documento privilegiato perché attesta non solo la presenza del denaro ma anche la persistenza di un certo saldo nel tempo. La stessa Cassazione nella sentenza n. 12527/2024 ha sottolineato che tale prova documentale non è eccessivamente gravosa, potendo essere appunto fornita con estratti conto.

D’altro canto, dovete essere pronti a contrastare le possibili argomentazioni dell’Agenzia:

  • L’Agenzia potrebbe sostenere che la vostra è solo “mera disponibilità” di altri redditi e non prova che li abbiate usati per quelle spese. In passato alcune sentenze dicevano che bisognava provare lo specifico nesso (cioè che quei risparmi sono stati effettivamente spesi per quell’acquisto). Oggi l’orientamento è più favorevole al contribuente: non si richiede la prova rigorosa dell’impiego causale di ogni euro, ma almeno circostanze che rendano verosimile che ciò possa essere accaduto. Ad esempio, avere sul conto 100k e spenderne 50k rende plausibile che li avete presi da lì, anche se non potete mostrare la banconota fisica. Compito vostro è far emergere queste “circostanze sintomatiche” (Cass., ord. 22021/2018).
  • L’Agenzia potrebbe contestare la idoneità della documentazione: es. una semplice autocertificazione di un parente che dice “ti ho dato 30k in contanti” può essere vista come auto-servile. Meglio accompagnarla da estratti conto, ricevute o altri elementi oggettivi. Se proprio non ci sono, enfatizzate la credibilità complessiva: magari quel parente ha un reddito tale da poter disporre di 30k (se potete documentare questo, fatelo).
  • Potrebbero anche eccepire che i redditi esenti addotti non erano nella vostra disponibilità perché spesi altrove. Ad esempio, sostenere di aver usato un risarcimento assicurativo ricevuto anni prima: se poi si scopre che con quel risarcimento avevate comprato un’altra cosa, non potete riusarlo due volte. Quindi bisogna essere coerenti e dimostrare che le risorse invocate erano “libere” e utilizzabili per la spesa in oggetto.
  • Circa i mutui o prestiti, attenzione: se li avete poi rimborsati con rate, quelle rate stesse rappresentano spese per gli anni successivi, quindi il Fisco potrebbe rifarsi sotto per le annualità delle rate se il reddito non le copre. Però almeno l’anno dell’acquisto viene alleggerito. In giudizio comunque l’importante è dimostrare che l’esborso immediato era coperto da debito. Cassazione (ord. 9515/2014) ha dato ragione al contribuente che aveva documentato di aver finanziato l’acquisto immobile quasi interamente a mutuo.
  • Se avete venduto un bene per far cassa (es. venduto un terreno e coi proventi finanziato un altro acquisto), è una difesa valida: però la vendita potrebbe aver generato una plusvalenza tassabile (pensiamo a una seconda casa venduta prima dei 5 anni). Se quella plusvalenza non l’avevate dichiarata, salterà fuori. Quindi fate attenzione: certe giustificazioni potrebbero scoperchiare altre irregolarità. In questi casi conviene ravvedere anche quell’aspetto se possibile, o essere pronti che il giudice dica “ok i soldi vengono da lì ma allora dovevi pagare la tassa sulla plusvalenza”.
  • Un particolare da considerare: soggetti terzi paganti. Esempio: spese di famiglia sostenute in realtà dal coniuge o da altri. Se contestano al marito certe spese e il marito dimostra che in realtà quelle le ha pagate la moglie con il suo reddito (documentando i flussi di pagamento dal conto della moglie), allora non c’è maggior reddito del marito. Questo rientra nel concetto di considerare l’intero nucleo. Quindi portate anche eventuali documenti sui redditi del coniuge e su chi ha materialmente sostenuto le spese (es. estratto carta di credito intestata alla moglie usata per gli acquisti).
  • Coerenza logica: la difesa deve convincere il giudice che la vostra ricostruzione è plausibile e completa. Se dite “avevo 100k di risparmi” ma poi non spiegate perché dichiari redditi bassi da anni accumulando tanto – potrebbe suonare strano ma è possibile (magari avete ereditato una somma e l’avete messa da parte). L’importante è che tutto quadri: spesso nel ricorso è utile fare proprio un prospetto fonti-impieghi per l’anno in contestazione, mostrando: Reddito dichiarato + altre entrate non tassabili + disponibilità iniziale anno + prestiti = spese sostenute + disponibilità finale anno. Se la somma a sinistra copre la destra, avete dimostrato che non c’è “buco” finanziario. Se invece c’è un buco, difficilmente il giudice potrà darvi ragione.

Giurisprudenza di supporto

Nel ricorso conviene citare anche le sentenze di Cassazione che avvalorano le vostre tesi:

  • Cass. n. 31568/2023 ha sancito che la prova contraria può riferirsi al nucleo familiare e ai risparmi accumulati negli anni, non limitati al quinquennio. Ha cassato un accertamento proprio perché i giudici di merito avevano ignorato le prove dei risparmi di moglie e marito oltre i 5 anni.
  • Cass. n. 20166/2020 (e nn. 20058-20059/2020): hanno chiarito che il contribuente non deve necessariamente collegare ogni spesa a uno specifico reddito esente, potendo fornire una prova anche globale che l’insieme delle spese è coperto da risorse non tassabili. È sufficiente provare “in modo analitico o anche solo globale che il complesso delle spese è sostenibile con redditi non imponibili” (in uno di questi casi la contribuente aveva usato capitali pregressi di origine donativa).
  • Cass. ord. n. 31568/2023 (già citata) e Cass. sent. n. 14885/2015: affermano che la prova contraria non è tipizzata, può essere data con qualsiasi mezzo idoneo. Non ci sono forme sacramentali: contano i fatti. Questo vi aiuta a sostenere che anche documenti che non sono esplicitamente elencati in legge (es. estratti conto, scritture private) vanno considerati validi elementi di prova.
  • Cass. n. 28855/2019: ha ritenuto sufficiente la prova di movimenti bancari da cui risultava che l’onere di un acquisto immobiliare era stato sostenuto da un terzo (genitore) e non dal contribuente.
  • Cass. n. 12527/2024 (citata nell’introduzione) conferma che l’onere della prova contraria è a carico del contribuente e che basta la dimostrazione dell’esistenza e possesso di redditi esenti o di altri mezzi finanziari per vincere la presunzione. Però questa stessa sentenza sottolinea anche che la prova deve essere documentale e riferita all’entità e al periodo di possesso di tali somme. Quindi la citiamo per la parte sull’onere e per ricordare cosa serve come prova.
  • Cass. SU n. 26641/2008: questa è antecedente, ma spesso citata per dire che l’accertamento sintetico è “presunzione semplice” e richiede comunque che gli indizi siano gravi, precisi e concordanti. In realtà la giurisprudenza successiva è andata verso la tesi della presunzione legale relativa (più forte), tuttavia qualche difesa ha provato a sostenere che se i dati del Fisco non sono pienamente attendibili o attuali, la presunzione perde di gravità. Ad esempio, vecchi parametri ISTAT poco rappresentativi potrebbero essere contestati. Ma nel concreto, meglio puntare sulle prove contrarie fattuali che su argomenti teorici.
  • Cass. n. 3738/2015: ha annullato un redditometro dove l’ufficio non aveva considerato che l’incremento patrimoniale (acquisto casa) era interamente coperto dalla vendita di altra casa: evidenziamo questo precedente se simile al nostro caso, mostra come la logica del “fonte che copre impiego” faccia cadere la pretesa.

Con queste sentenze, potete dare forza giuridica alla vostra ricostruzione. Il giudice di merito non è vincolato ai precedenti, ma certamente vedere che la Cassazione ha dato ragione in casi analoghi conforta la vostra posizione.

Possibili esiti e strategie

Nei casi ben documentati, le Commissioni Tributarie spesso accolgono in toto le ragioni del contribuente, annullando l’accertamento. Ad esempio, Commissione Reg. Lombardia 2019 ha annullato un accertamento dove una contribuente aveva dimostrato che le spese per investimenti erano state coperte con disinvestimenti finanziari e aiuti familiari. In altri casi, se le prove coprono solo una parte delle spese, il giudice potrebbe optare per un accoglimento parziale, riducendo il maggior reddito accertato (c’è anche una base normativa nel D.Lgs. 546/92 art. 7 comma 5, che permette una rideterminazione equitativa, usata raramente). Ad esempio, se contestavano €100k e voi provate coperture per €70k, il giudice potrebbe ridurre l’accertato a €30k residui (capita, ma dipende dalle circostanze).

Se invece le spiegazioni fornite risultano generiche o non supportate da prove concrete, è probabile che il giudice confermi l’accertamento. In mancanza di prova contraria, la legge fa piena fede della presunzione del Fisco. Questo va messo in conto: se non avete realmente nulla in mano se non la vostra parola, le chance di vittoria sono scarse. La Commissione potrebbe magari ridurre le sanzioni se avete tenuto un comportamento collaborativo, ma la sostanza dell’imposta resterebbe.

Costi e rischi del contenzioso: Ricordate che se fate ricorso e perdete, dovrete pagare oltre all’imposta e sanzioni (per intero, salvo diversa decisione), anche gli interessi maturati nel frattempo e le eventuali spese legali liquidate a favore dell’Agenzia. Inoltre, un accertamento definitivo comporta l’iscrizione a ruolo e la riscossione coattiva se non si paga. C’è da dire però che, soprattutto per importi elevati, spesso vale la pena tentare la via giudiziaria se esistono elementi difensivi: il contenzioso tributario è abbastanza “rapido” (2-3 anni in primo grado) e la posta risparmiabile può essere importante. Valutate anche la possibilità di una conciliazione giudiziale: durante il processo, sino all’udienza, potete trovare un accordo transattivo con l’Agenzia, ad esempio riconoscendo una parte del reddito contestato in cambio di sanzioni ridotte al 50%. La conciliazione produce una sentenza che ratifica l’accordo e chiude la lite. È un’altra opzione negoziale se emergono punti di incontro.

Con questo si conclude la fase contenziosa. In sintesi: in giudizio la difesa si basa su documenti e numeri per convincere che quelle spese non rivelano redditi nascosti. La legge è esigente con il contribuente sul piano probatorio, ma l’esperienza insegna che chi ha davvero coperture lecite riesce a farle valere. Nel prossimo capitolo vedremo in modo più discorsivo alcune domande frequenti su questo tema e forniremo risposte sintetiche, prima di passare alle simulazioni pratiche.

Domande frequenti (FAQ)

D: Cosa significa esattamente “spese non coerenti con il reddito dichiarato”?
R: Significa che, in base ai dati a disposizione del Fisco, hai sostenuto spese, effettuato investimenti o tenuto un tenore di vita eccessivamente alto rispetto ai redditi che hai dichiarato. Ad esempio, se in un anno dichiari 20.000 € ma risulti aver comprato un’auto da 50.000 €, quella spesa non è coerente col tuo reddito (ci si chiede dove hai preso i soldi). Il concetto di “coerenza” è proprio questo: il reddito dichiarato dovrebbe logicamente poter coprire le uscite. Se non lo fa, c’è incoerenza e il Fisco sospetta che tu abbia altri redditi non dichiarati. Tali situazioni vengono individuate con strumenti informatici (redditometro/evasometro) e portano all’invio di lettere di compliance per chiarimenti.

D: Ho ricevuto una lettera di compliance: sono obbligato a rispondere?
R: Formalmente non c’è un obbligo legale sanzionato di risposta alla lettera di compliance – non è un questionario con sanzione per mancata risposta (come quelli ex art. 11 D.Lgs. 471/97). Tuttavia, è fortemente consigliabile rispondere o comunque attivarsi. Se ignori la lettera, l’Agenzia presumibilmente procederà comunque: può invitarti formalmente al contraddittorio e, in assenza di tue giustificazioni, emetterà un accertamento considerando non giustificate le spese. In pratica, ignorare equivale a lasciar intendere che non hai spiegazioni, col rischio di pagare poi importi maggiorati. Rispondere non è obbligatorio ma è nel tuo interesse: puoi evitare il peggio chiarendo subito eventuali equivoci o accedendo al ravvedimento (con sanzioni ridotte). Quindi la migliore strategia è reagire: o regolarizzando se sai di avere torto, oppure fornendo elementi difensivi se sei convinto di essere a posto.

D: Cosa devo fare in concreto se penso di essere “a posto” e che la lettera sia un errore o un equivoco?
R: In tal caso devi predisporre una risposta scritta dettagliata, indicando perché ritieni che non ci siano redditi occulti. Elenca le fonti con cui hai finanziato le spese contestate (risparmi, aiuti familiari, ecc.) e allega documentazione comprovante. Puoi mandare questa risposta via PEC all’indirizzo indicato, caricarla tramite il cassetto fiscale (se disponibile) o consegnarla a mano all’ufficio competente. Nella risposta cita i riferimenti della lettera e spiega punto per punto. Ad esempio: “Avete rilevato una spesa per acquisto auto di 50.000 €. Preciso che l’importo è stato pagato in parte con €30.000 provenienti da un prestito bancario (si allega copia contratto di finanziamento) e €20.000 mediante bonifico ricevuto da mio padre (allegato estratto conto e dichiarazione del genitore). Pertanto il reddito da me dichiarato è coerente, avendo utilizzato tali fonti finanziarie non imponibili”. Una volta inviata la risposta, attendi un feedback. Importante: conserva la prova dell’invio (ricevuta PEC o protocollo) e copia di tutto. Se poi ti convocheranno, avrai già fornito una base scritta.

D: Quanto tempo ho per rispondere alla lettera di compliance?
R: Solitamente la lettera indica un termine (ad esempio 30 giorni dal ricevimento) per regolarizzare o fornire chiarimenti. Anche se talvolta viene formulata in modo soft (“La invitiamo a valutare…”), in realtà il Fisco di solito attende qualche settimana o pochi mesi prima di procedere oltre. Non c’è un termine uguale per tutti: dipende dal tipo di anomalia. Per le anomalie sulle dichiarazioni recenti (es. omessa dichiarazione) spesso danno 90 giorni o segnalano scadenze come il 29 gennaio per presentare la tardiva. In generale, è bene non superare i 30-60 giorni senza aver fatto qualcosa. Se hai bisogno di più tempo (magari per recuperare documenti), puoi contattare l’ufficio e chiedere una proroga informale. Ma il consiglio è: non aspettare l’ultimo momento, mostra almeno di esserti attivato (ad esempio presentando intanto un’integrazione parziale, o prendendo appuntamento con l’ufficio).

D: Cosa succede se non rispondo affatto o non aderisco alla compliance?
R: Trascorso un certo tempo, l’Agenzia procederà con le attività di controllo ordinario. In pratica potresti ricevere un invito a comparire ufficiale per il contraddittorio oppure direttamente (ma di solito dopo l’invito) un avviso di accertamento sintetico. Ignorare la lettera, quindi, non fa “sparire” il problema, anzi in genere lo aggrava: l’accertamento che arriva dopo avrà sanzioni piene (90%) e ti troverai a difenderti in ambito contenzioso senza aver prima avuto un dialogo con l’ufficio. Inoltre, in caso di accertamento, se non hai mai fornito prima spiegazioni, l’Ufficio potrebbe essere meno disposto a sconti in adesione. In sintesi: se non rispondi, il Fisco assume che tu non abbia giustificazioni valide e tira dritto. Meglio evitare questo scenario.

D: La lettera di compliance può contenere errori? Dovrei fidarmi dei dati che riportano?
R: In larga parte i dati provengono dalle dichiarazioni e comunicazioni inviate all’Agenzia, quindi di solito sono corretti. Tuttavia non è infallibile: possono capitare casi di scambio di codici fiscali, o di doppia registrazione. Ad esempio, più frequenti sono i casi di anomalie apparenti dovute a come sono interpretati i dati: bonifici da un conto all’altro scambiati per spese, movimentazioni patrimoniali che non sono veri consumi, proprietà cointestate conteggiate per intero su una persona, ecc. Quindi sì, controlla bene. Se individui un errore (es: ti attribuiscono due volte la stessa spesa, oppure una spesa in realtà finanziata da un prestito), evidenzialo subito nella risposta. L’Agenzia non ha interesse a insistere su un dato sbagliato e di solito, se glielo dimostri, ne terrà conto. In ogni caso non limitarti a dire “i dati sono errati” senza dimostrarlo: procurati documenti che attestino la realtà (es. estratto conto che mostra che quel bonifico in uscita era verso un tuo conto deposito, quindi non un pagamento a terzi). In conclusione, la lettera è un punto di partenza, ma devi verificare tu la tua situazione reale.

D: Ho tutti i redditi dichiarati correttamente, ma spendo più di quanto dichiaro perché attingo ai risparmi: è lecito, vero?
R: Certamente è lecito spendere i propri risparmi accumulati in passato. Non esiste una legge che ti impedisca di usare capitale pregresso per spese correnti. Il problema è solo dimostrare che lo stai facendo. Il redditometro presume che se spendi 100 nell’anno e ne hai dichiarati 50, la differenza 50 sia nuovo reddito dell’anno non dichiarato, a meno che tu provi che quei 50 provengono da patrimonio accumulato in passato. Quindi, se tu puoi documentare che avevi risparmi per 50 all’inizio dell’anno (o li hai ricevuti da terzi) e li hai impiegati, non hai nulla da temere in punto di diritto: l’accertamento dovrà essere annullato perché il reddito presunto non esiste. La chiave è tutta nella prova documentale dei risparmi. Un suggerimento pratico: se prevedi spese grosse e sai di dover usare risparmi, mantieni traccia di quei risparmi, ad esempio lasciandoli su conti bancari, così hai estratti conto a supporto. Prelevare tutto in contanti e tenerli sotto il materasso rende quasi impossibile poi provare che li avevi davvero, a meno che tu non possa produrre estratti conto di anni prima e testimonianze (ma i contanti non sono tracciabili). Dunque, sì è lecito e difendibile, ma serve pezza d’appoggio.

D: Quali documenti dovrei preparare come “prova contraria”?
R: Dipende dal tipo di giustificazioni che hai:

  • Se usi risparmi accumulati: estratti conto bancari o postali dagli anni precedenti, che mostrino saldi e magari lenti decrementi corrispondenti alle spese. Se i risparmi erano in casa in contanti, è più dura provarlo; a volte si possono esibire ricevute di stipendi prelevati non spesi, o libretti di risparmio, ecc. L’idea è dare evidenza che possedevi già quelle somme prima.
  • Se ricevi aiuti o donazioni: meglio se via bonifico (basta copia del bonifico e magari l’estratto conto del donante per confermare la provenienza). Se in contanti, una dichiarazione firmata da chi ti ha dato i soldi, accompagnata da prova che aveva la capacità finanziaria (es. attestato reddito o patrimonio del donante). Atti notarili se la donazione è cospicua e lo avete formalizzato.
  • Se hai venduto un bene o disinvestito: contratto di vendita, atto notarile o contabile di liquidazione investimento, e evidenza di dove sono andati i proventi (se sul conto, estratto). Attenzione a eventuali imposte su plusvalenze come dicevamo.
  • Se hai contratto un mutuo/prestito: contratto di mutuo o finanziamento, quietanza di erogazione della somma, piano di ammortamento. E magari estratto conto che mostra l’accredito del mutuo e il pagamento della spesa. Così fai vedere che, ad esempio, la banca ti ha dato 100k e tu li hai girati per comprare casa.
  • Se contesti l’importo di una spesa: fatture, ricevute, contratto di compravendita che attestino il costo reale. Esempio: fattura del concessionario auto per importo inferiore a quello ipotizzato dal Fisco.
  • In generale, estratti conto bancari sono jolly importanti: mostrano flussi di denaro. Anche se pagavi in contanti, far vedere i prelievi dal conto in date prossime alle spese può aiutare a collegare.
  • Documenti reddituali di familiari: CU, Modelli Unico dei tuoi conviventi, se parte delle spese le hanno sostenute loro. Così dimostri che avevano redditi leciti utilizzabili.

Prepara un fascicolo ordinato, magari con un prospetto riepilogativo (tipo tabella entrate/uscite), e allega copie. Nel dubbio, è meglio presentare troppi documenti che troppo pochi: starà poi all’Agenzia esaminarli o al giudice valutarli. Ricorda che la prova va data con documenti “idonei”: ciò che è prodotto da terzi (es. banche, atti pubblici) pesa più di autodichiarazioni. Ma anche queste ultime, se dettagliate e non smentite, hanno un loro valore.

D: Se la mia spiegazione non viene accettata dall’Agenzia, sono spacciato?
R: Non necessariamente. Se l’Agenzia non si convince e emette l’accertamento, tu puoi sempre far valere le tue ragioni davanti al giudice tributario. Il giudice è terzo e potrebbe valutare con più equilibrio le tue prove. Specialmente se ritieni che l’Ufficio sia stato troppo rigido nel non accettare spiegazioni plausibili, il ricorso ha senso. Abbiamo visto molti casi in cui la Commissione ha dato ragione al contribuente smentendo l’Agenzia, ad esempio riconoscendo la validità di una donazione familiare anche se l’Agenzia l’aveva ignorata. Certo, devi avere elementi concreti; se in effetti le tue giustificazioni erano fumose, difficilmente il giudice potrà ribaltare la situazione. Ma se pensi di essere nel giusto e hai supporto documentale, non arrenderti solo perché l’Agenzia ha detto no: il processo serve proprio a questo, a far riesaminare la questione da un organo imparziale. E in sede di giudizio puoi anche rafforzare le prove (magari presentando qualcosa che avevi dimenticato prima, sebbene sarebbe meglio averlo già mostrato all’ufficio). Quindi no, non sei spacciato: hai un secondo tempo della partita, in tribunale.

D: Se invece so di avere torto (ho fatto nero) mi conviene fare ricorso lo stesso sperando in un cavillo?
R: In linea di massima, no. Se hai realmente omesso redditi e l’Agenzia li ha scovati attraverso le spese, andare in giudizio senza alcuna vera prova contraria significa perdere quasi certamente, con l’aggravante di dover pagare anche le spese legali dell’Agenzia e gli interessi maturati nel frattempo. I cavilli procedurali (tipo contraddittorio mancante) sono ormai pochi e difficili da far valere perché l’Amministrazione raramente sbaglia su quelli. Puoi valutare con un avvocato se ci sono vizi formali, ma basare un ricorso solo sul tentativo di allungare i tempi raramente conviene: il processo tributario è abbastanza veloce oggi, e non è che farai passare 10 anni. Senza contare che, se l’importo evaso è molto grande, potrebbe esserci un procedimento penale in parallelo (dichiarazione infedele se imposta evasa > €100k, omessa dichiarazione se imposta evasa > €50k). In tal caso un ricorso temerario in sede tributaria potrebbe perfino nuocerti nel penale. Meglio puntare a limitare i danni: magari adesione o conciliazione per ridurre sanzioni e rateizzare. L’unico caso in cui fare ricorso anche essendo in torto può avere senso è se c’è possibilità di transare in corso di causa con l’Agenzia (conciliazione) ottenendo un ulteriore sconto. Ma sono strategie delicate da valutare con un legale. In generale: se sai di aver evaso e ti hanno beccato, meglio sfruttare la compliance/ravvedimento subito; se sei oltre e sei stato accertato, di solito paga e chiudi (facendo acquiescenza o adesione per lo sconto). Fare ricorso “tanto per” può peggiorare la situazione economica complessiva.

D: C’è il rischio di denuncia penale per redditi non dichiarati scoperti col redditometro?
R: Sì, il rischio c’è se i numeri superano certe soglie. Le violazioni penali tributarie rilevanti qui sarebbero:

  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): scatta se l’imposta evasa supera €100.000 e l’attivo sottratto supera il 10% del reddito dichiarato o comunque €2 milioni. Esempio: dichiari 50k ma ne avevi altri 150k non dichiarati → l’imposta evasa potrebbe essere ~€60k (sotto soglia, niente penale). Se invece ne avevi 500k non dichiarati, imposta evasa ~€200k → supera €100k, reato. Purtroppo il redditometro è proprio finalizzato a individuare somme sottratte consistenti, quindi se l’accertamento riguarda cifre grosse (evidentemente non dichiarate), può integrare il reato.
  • Omessa dichiarazione (art. 5): se non hai proprio presentato dichiarazione e l’imposta evasa supera €50.000. In una lettera di compliance capita spesso il caso di “doppio CU non dichiarato” in cui magari l’imposta evasa è piccola, ma se per dire non hai dichiarato nulla e dovevi 60k di IRPEF, scatta.
  • Altri reati: in ipotesi estreme, se emergono profili di false fatturazioni o altro, ma nel redditometro tipicamente no, è questione di dichiarazione.

In pratica, se la somma non dichiarata è molto alta, l’Agenzia dopo l’accertamento farà la comunicazione di reato alla Procura (lo deve fare per legge). Come contribuente, questo è un ulteriore motivo per sistemare prima: se aderisci e regolarizzi pagando tutto prima che vi sia formale constatazione, l’ipotesi di dolo può cadere (soprattutto per infedele). Anche se c’è accertamento, una volta pagato il dovuto puoi accedere alla causa di non punibilità per pagamento integrale del debito (introdotta nel 2019 per alcuni reati tributari). In definitiva: la via penale è remota nei piccoli scostamenti, ma se sei proprio uno dei grandi evasori individuati dall’evasometro, allora sì, il penale entra in gioco. Meglio muoversi per tempo e magari consultare un avvocato penalista tributario in questi frangenti.

D: Come posso prevenire in futuro di trovarmi in queste situazioni?
R: La migliore prevenzione è dichiarare redditi coerenti con il tuo reale tenore di vita. Ciò non significa che devi dichiarare tutto ciò che spendi (perché magari spendi risparmi tassati), ma se per anni dichiari redditi bassissimi accumulando beni, sappi che sei un candidato perfetto per il redditometro. Quindi:

  • Mantieni traccia dei flussi finanziari leciti: se ricevi somme esenti (donazioni, vincite) versa su conto; se prelevi contante e non lo spendi, magari ridepositalo o annotati cosa ne hai fatto.
  • Non intestarti beni per conto terzi: a volte si fanno intestazioni fittizie (es. l’auto di lusso intestata al nonno pensionato). Ecco, il redditometro prende di mira proprio quell’incongruenza. Evita queste situazioni o preparati a spiegare (ma spesso sono situazioni borderline).
  • Se gestisci un’impresa familiare o ditta individuale, evita di dichiarare redditi nulli se poi hai uscite personali elevate. Meglio dichiarare qualcosa in più (pagando un po’ di tasse) che esporsi a un accertamento più costoso.
  • Aggiorna la dichiarazione se ti rendi conto di anomalie: esiste il ravvedimento proprio per questo. Ad esempio, se un anno spendi per un evento eccezionale (matrimonio, viaggio costoso) molto più del solito, e magari avevi in nero del denaro, valuta seriamente di dichiararlo, magari sfruttando aliquote agevolate (chessò cedolare su affitti non dichiarati etc.). Prevenire costa meno.
  • Consulta un fiscalista: se hai dubbi sulla coerenza della tua posizione, un commercialista può fare una simulazione di redditest (lo strumento online predisposto anni fa) per capire se stai sforando.

Insomma, trasparenza e pianificazione. In Italia il Fisco ormai incrocia di tutto: meglio giocare d’anticipo e dormire tranquilli.

Dopo questo excursus sulle domande comuni, passiamo ora a qualche simulazione pratica: vedremo casi concreti di contribuenti con spese incoerenti e come potrebbero difendersi, così da mettere insieme tutti i concetti esposti.

Simulazioni pratiche

Di seguito presentiamo alcune simulazioni pratiche di casi tipici, dal punto di vista del debitore, per illustrare come applicare gli strumenti difensivi descritti. Ogni caso include lo scenario iniziale (la situazione e la lettera ricevuta) e un possibile svolgimento della difesa.

Caso 1: Persona fisica – acquisto di auto di lusso con reddito modesto

Scenario: Il signor Rossi, lavoratore dipendente, dichiara un reddito annuo di circa €25.000. Nel 2023 risulta aver acquistato una autovettura nuova di grossa cilindrata del valore di €50.000. L’Agenzia delle Entrate incrocia i dati (fattura dell’auto, passaggio di proprietà al PRA) e considera anomalo che con un reddito di 25k lordi (circa 20k netti) Rossi abbia potuto permettersi un’auto da 50k. Nel 2025 il contribuente riceve una lettera di compliance che recita: “Abbiamo riscontrato che nella Sua dichiarazione dei redditi 2023 il reddito dichiarato (€25.000) risulta incompatibile con l’acquisto di un’autovettura per €50.000. La invitiamo a verificarne la correttezza e a fornirci eventuali elementi giustificativi o a regolarizzare la Sua posizione”.

Difesa (fase pre-contenziosa): Il sig. Rossi analizza il caso. Egli aveva effettivamente comprato l’auto spendendo €50.000, ma senza aver nascosto redditi: ha usato €20.000 provenienti dai suoi risparmi accumulati (derivanti da anni in cui viveva con i genitori e riusciva a mettere da parte lo stipendio) e €30.000 ottenuti vendendo a un collezionista una auto d’epoca ereditata dallo zio (alienazione di bene ricevuto per successione, non imponibile). Rossi raccoglie quindi i documenti: estratti conto del suo conto corrente che mostrano che a inizio 2023 aveva un saldo di €25.000 e a fine 2022 di €27.000 (segno che aveva risparmi pregressi); copia dell’atto di accettazione di eredità dello zio che nel 2019 gli lasciò l’auto storica; contratto di vendita tra Rossi e il collezionista per €30.000 e bonifico ricevuto a febbraio 2023 di €30.000. Con questi elementi, Rossi risponde alla PEC indicata allegando tutto e spiegando: “Le spese per l’acquisto dell’auto non sono state finanziate dal reddito 2023, bensì da: (i) risparmi ante 2023 per ca. €20.000 (vedasi estratti conto allegati con saldo anno precedente); (ii) realizzo dalla vendita di un bene personale (auto d’epoca) per €30.000, somma accreditata sul mio conto il 10/2/2023 (vedasi bonifico), proveniente da patrimonio ereditario di famiglia (auto ricevuta nel 2019, vedi documento). Tali risorse, non costituendo reddito imponibile IRPEF, giustificano la disponibilità finanziaria per l’acquisto, senza necessità di ulteriori redditi”.

L’Agenzia esamina le spiegazioni. I funzionari verificano che effettivamente il bonifico di 30k c’è e proviene dall’acquirente dell’auto d’epoca; inoltre vedono dal saldo che Rossi aveva già fondo cassa. Questa spiegazione appare plausibile e ben documentata. Pertanto, archiviano la posizione in sede di compliance, senza emettere accertamento. Rossi riceve infatti dopo qualche mese una comunicazione di esito: “Gentile contribuente, in merito alla Sua segnalazione n… La informiamo che alla luce degli elementi forniti non si ravvisano anomalie reddituali per l’anno d’imposta 2023. La ringraziamo per la collaborazione”. Caso risolto prima del contenzioso. (Nota: se l’ufficio fosse stato scettico su qualche punto, avrebbe potuto comunque convocare Rossi; ma grazie alla documentazione chiara, non ve n’è stato bisogno).

Commento: Questo caso mostra l’importanza di allegare prove: Rossi ha dimostrato l’assenza di “buco” finanziario. Le sue spese (€50k) = risparmi (€20k) + vendita bene (€30k). Non serviva altro. Se Rossi non avesse risposto, quasi certamente gli avrebbero imputato €50k di redditi non dichiarati, con imposta magari di €15k e sanzioni €13.5k. Evitato con una PEC ben fatta.

Caso 2: Imprenditore individuale – reddito d’impresa inferiore alle spese per dipendenti (anomalia settoriale)

Scenario: La ditta individuale Bianchi, operante nel settore della ristorazione, per l’anno d’imposta 2023 ha dichiarato un reddito d’impresa (in regime semplificato) di soli €5.000, a fronte di ricavi modesti e costi elevati. Tuttavia, dai dati ISA risulta che la ditta ha impiegato 2 dipendenti con spese per salari pari a €30.000 l’anno. Dunque il reddito del titolare (€5k) è inferiore al costo del personale (€30k). Nel novembre 2024 il sig. Bianchi riceve una lettera di compliance che evidenzia questa anomalia: “Il reddito dichiarato per il 2023 (€5.000) risulta inferiore al livello minimo di redditività nel settore ristorazione, calcolato in base alle spese per dipendenti (€30.000). Tale circostanza, in assenza di oggettive giustificazioni, può essere considerata anomala”. La lettera invita Bianchi a integrare i redditi 2023 oppure ad aderire al Concordato Preventivo Biennale (CPB) per gli anni 2024-25, entro una certa data. In pratica gli si suggerisce: aumenta spontaneamente il reddito 2023 o entra nel regime concordato (che prevede un reddito minimo prefissato per i prossimi due anni).

Difesa (fase pre-contenziosa): Il sig. Bianchi è preoccupato: in effetti il 2023 è stato un anno pessimo per la sua attività (restrizioni Covid tardive, aumento costi materie prime, ecc.) e ha mantenuto i dipendenti perdendo margine. Però egli non ha nascosto ricavi: semplicemente ha avuto un utile basso, quasi in perdita. Bianchi si confronta col suo commercialista. Valutano due strade:

  • Opzione A: Integrare il reddito 2023 dichiarando qualcosa in più. Ma significherebbe pagare tasse su ricavi che non ha avuto realmente (sarebbe una sorta di “adeguamento per quieto vivere”).
  • Opzione B: Non aderire alla richiesta e spiegare perché il reddito è così basso.

Bianchi propende per spiegare, anche perché aderire al CPB lo obbligherebbe a pagare più tasse per due anni su presunzioni. Il commercialista allora prepara una risposta scritta: “Con riferimento alla Vs. comunicazione, precisiamo che il basso reddito 2023 deriva da circostanze eccezionali: ristrutturazione locale con investimenti straordinari per €20.000 (che hanno ridotto l’utile), e una politica di mantenimento del personale nonostante calo di fatturato, nella speranza di ripresa. Allego estratto del Conto Economico 2023 da cui risulta utile di €5.000 e costo del lavoro dipendente €30.000, nonché documentazione delle spese di ristrutturazione effettuate. Tali fattori spiegano l’anomalia in modo oggettivo. Pertanto ritengo il reddito 2023 correttamente dichiarato.”

Inoltre, Bianchi allega copia dei bilanci mensili 2023 che mostrano perdite nei primi 6 mesi compensate da un po’ di utile a fine anno, e fotografie/fatture della ristrutturazione. Questa non è una “prova contraria” classica di redditi esenti, perché qui il Fisco non contesta una spesa personale ma un’anomalia di reddito d’impresa. Tuttavia, sono giustificazioni oggettive. L’Agenzia esamina: vede che effettivamente ci sono fatture di lavori edilizi, nota che il contribuente ha presentato gli ISA con punteggio basso ma per ragioni spiegabili, e decide di non procedere con un accertamento automatico. In particolare, il CPB è su base volontaria, quindi non può imporlo. Potrebbe tuttavia fare un accertamento induttivo contestando ricavi in nero; ma vista la spiegazione e l’assenza di evidenze di ricavi occultati, l’ufficio sceglie di monitorare magari l’anno successivo ma di non emettere avviso su 2023.

Il sig. Bianchi quindi non subisce rettifiche. Continuerà la sua attività cercando nel 2024 di migliorare i margini (cosa che effettivamente avviene, tornando a un reddito più normale).

Commento: Questo caso riflette le lettere di compliance “minimo settoriale” del 2024 legate al CPB. Bianchi ha potuto difendersi evidenziando elementi reali (investimenti straordinari) che spiegavano il disequilibrio, senza cedere a integrative arbitrarie. Se non avesse risposto nulla, l’Agenzia avrebbe potuto avviare un accertamento induttivo per antieconomicità, magari riprendendogli ricavi presunti. Invece, fornendo un ragionamento economico e prove, ha evitato ulteriori azioni (l’ufficio sa che in contenzioso quei motivi sarebbero validi come prova contraria all’induttivo). Questo mostra che anche in ambito business l’importante è dimostrare la ragionevolezza delle proprie dichiarazioni, documentando crisi o spese straordinarie.

Caso 3: Persona fisica – contenzioso su redditometro e risparmi familiari

Scenario: La sig.ra Verdi è una casalinga senza reddito proprio imponibile. Suo marito, il sig. Neri, è pensionato con circa €20.000 annui. Nel 2018 la sig.ra Verdi ha acquistato, a titolo personale, un piccolo appartamento al mare pagandolo €80.000, intestato solo a lei (coniuge). L’Agenzia, anni dopo, effettua un accertamento sintetico per il 2018 a carico della sig.ra Verdi, contestandole un maggior reddito non dichiarato di €80.000 (ritenendo che per comprare quell’immobile abbia avuto redditi occulti). In realtà, la sig.ra Verdi aveva comprato l’appartamento utilizzando in parte soldi provenienti dal marito e in parte risparmi di famiglia accumulati su conti cointestati. Però, quando riceve l’avviso di accertamento nel 2022, la sig.ra Verdi non aveva risposto alla lettera inviata nel 2021 (che forse non aveva compreso bene). Ora decide di fare ricorso in Commissione Tributaria.

Difesa (fase contenziosa): Davanti al giudice, l’avvocato della sig.ra Verdi imposta così la difesa:

  • In via preliminare eccepisce la nullità dell’accertamento perché l’Ufficio avrebbe dovuto considerare la posizione reddituale dell’intero nucleo familiare e non l’ha fatto (richiama Cass. 31568/2023). Inoltre evidenzia che non c’è stato un contraddittorio preventivo adeguato: la lettera generica inviata non sarebbe sufficiente, e comunque la contribuente non ha avuto modo di spiegare prima (questa eccezione è un po’ debole perché una lettera fu inviata, ma si prova a dire che non fu un vero invito).
  • Nel merito, produce documenti: estratto conto bancario cointestato Verdi/Neri al 31/12/2017 con saldo €100.000; movimentazioni 2018 che mostrano un bonifico di €80.000 alla società venditrice dell’immobile, con addebito dal conto cointestato; attestati dei CUD del marito Neri 2013-2017 con redditi totali per €120.000 su 5 anni, da cui erano stati accumulati risparmi (infatti il saldo conto è compatibile con quei risparmi). Inoltre allega una scrittura privata in cui il sig. Neri dichiara di aver messo a disposizione della moglie €50.000 dei propri risparmi per l’acquisto, e la sig.ra Verdi ne aveva altri €30.000 provenienti da anni di gestione familiare o regali dei genitori (non formalizzati, ma plausibili visti i conti).
  • Sottolinea che la legge non richiede di dimostrare che la sig.ra Verdi avesse redditi propri, ben potendo provenire le somme da redditi di altro familiare. E in effetti il marito aveva redditi regolarmente tassati (pensione) con cui nel tempo aveva risparmiato la cifra; inoltre alcuni aiuti in contanti dei genitori di lei (per complessivi €10.000) spiegano la parte residua, sebbene questi non siano documentati se non da dichiarazioni.
  • Chiede dunque l’annullamento dell’atto poiché il maggior reddito presunto non esiste, essendo la spesa finanziata da redditi già tassati del marito e da risparmi familiari.

L’Agenzia dal canto suo insiste che la sig.ra Verdi non ha dichiarato nulla e non risulta fiscalmente capiente; inoltre evidenzia che la prova dei €10.000 regalati dai genitori è debole (nessuna traccia bancaria). Rileva anche che formalmente il conto era cointestato, ma metà saldo sarebbe imputabile al marito e metà a lei (questo è discutibile in diritto, ma loro lo affermano).

Esito: La Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione) accoglie il ricorso della contribuente. Nella sentenza scrive che “il redditometro genera una presunzione iuris tantum superabile dal contribuente dimostrando che la spesa è stata finanziata con redditi esenti o già tassati”. Nel caso di specie, la sig.ra Verdi ha dimostrato documentalmente:

  • l’esistenza di disponibilità finanziarie sul conto cointestato per importi ben superiori alla spesa;
  • che tali disponibilità derivavano dai risparmi del marito, cioè da redditi già dichiarati (pensione) negli anni precedenti, come da documentazione prodotta;
  • pertanto la spesa di €80.000 non implicava affatto un reddito “in nero” della sig.ra Verdi nel 2018, essendo coperta da risorse familiari legittime.

Il collegio richiama la Cassazione n. 31568/2023 sul considerare il nucleo familiare. Quanto ai €10.000 in contanti da genitori, la sentenza li menziona come ulteriore elemento presuntivo (basato sulle dichiarazioni testimoniali allegate) ma nota che anche senza di essi i conti tornavano. Di conseguenza, annulla l’accertamento sintetico.

L’Agenzia non appella, e la vicenda si chiude lì.

Commento: Questo caso dimostra come in contenzioso una buona documentazione può ribaltare l’accertamento. La chiave è stata mostrare i conti correnti e i redditi del marito: il giudice ha ritenuto logico che il marito abbia finanziato la moglie (cosa normale in una famiglia). Importante anche il fatto che la contribuente possedeva quelle somme da prima (saldi di fine 2017) – ciò evidenzia la durata del possesso come richiesto dalla norma. Se avesse cercato di giustificare senza documenti, difficilmente avrebbe vinto. Inoltre, questo scenario è molto simile al caso reale deciso dalla Cassazione (Frontera, 31568/2023) e non a caso la strategia difensiva ne ha ricalcato i principi.


Queste simulazioni coprono alcune situazioni frequenti: l’acquisto di un bene di lusso, l’anomalia reddito d’impresa vs spese, e l’acquisto immobiliare familiare. Ognuna ha mostrato un approccio difensivo diverso:

  • Nel caso 1 la difesa è avvenuta interamente in sede di compliance, con successo, grazie a prove immediate su risparmi e vendita beni.
  • Nel caso 2 la difesa è stata una spiegazione economica pre-contenziosa che ha evitato un accertamento formale.
  • Nel caso 3 la difesa si è svolta in giudizio, focalizzata sul dimostrare le risorse pregresse e familiari, portando all’annullamento dell’accertamento.

In conclusione, ogni situazione richiede di adattare le strategie generali al particolare: ma i pilastri – documentare la provenienza delle somme e attivarsi prontamente – rimangono validi in tutti i casi.

Conclusioni

Le lettere di compliance su spese non coerenti con il reddito rappresentano una sfida ma anche un’opportunità per i contribuenti. Sfida, perché costringono a giustificare il proprio tenore di vita e possono preludere ad un accertamento; opportunità, perché consentono di sistemare spontaneamente eventuali omissioni con costi sanzionatori ridotti o di chiarire malintesi senza arrivare al contenzioso. Abbiamo visto come il quadro normativo sia ormai ben definito: il redditometro (o evasometro) è uno strumento legittimo, affinato da recenti interventi normativi per colpire solo i casi più eclatanti e temperato dall’obbligo di contraddittorio. La giurisprudenza più aggiornata, dal canto suo, offre importanti spiragli difensivi: il contribuente può e deve far valere tutte le circostanze che spiegano le spese, inclusi i risparmi di famiglia e gli aiuti di terzi, senza limitazioni arbitrarie (come il vecchio limite dei 5 anni, ormai superato).

Dal punto di vista del debitore, il percorso migliore di fronte a una lettera di questo tipo può essere riassunto così:

  1. Mantenere la calma e analizzare – Capire cosa viene contestato e perché. Distinguere se c’è stata effettivamente evasione oppure no.
  2. Agire proattivamente – Non ignorare la comunicazione: rispondere, presentarsi, fornire dati. Questo spesso evita la fase successiva più gravosa.
  3. Usare la compliance a proprio vantaggio – Se si è in difetto, sfruttare ravvedimento e adesione per ridurre sanzioni. Se si è nel giusto, usare il contraddittorio per dimostrarlo, magari evitando del tutto l’accertamento.
  4. Documentare, documentare, documentare – Ogni affermazione difensiva deve essere supportata da prove (meglio se oggettive). Le dichiarazioni verbali contano poco; un estratto conto o un contratto contano molto.
  5. Conoscere i propri diritti – Sapere che il Fisco ha oneri procedurali (motivo per annullamento se violati) e che in giudizio l’onere probatorio si può invertire se si forniscono elementi convincenti.
  6. Farsi assistere se necessario – Per situazioni complesse o importi rilevanti, coinvolgere professionisti. Non solo per l’iter tecnico, ma anche per avere un confronto sereno: il contribuente “fai da te” può farsi prendere dall’ansia o commettere errori comunicativi.

È emerso chiaramente che la difesa in fase pre-contenziosa è la più efficace e meno costosa. Molti casi si chiudono positivamente spiegandosi con l’Agenzia, senza bisogno di arrivare in Commissione. Questo è un bene sia per il contribuente (meno stress e spese) sia per l’Erario (meno contenziosi, incassi più rapidi). Quando però si arriva al contenzioso, non bisogna scoraggiarsi: i giudici tributari oggi hanno ben presente l’evoluzione della normativa e accolgono le ragioni del contribuente ogni volta che questi riesce a dimostrare che il “reddito induttivo” non aveva ragion d’essere perché le spese contestate trovavano copertura in fonti lecite. Le sentenze recenti che abbiamo analizzato mostrano anzi una tendenza a valutare con attenzione le prove contrarie, anche superando vecchi formalismi (ad esempio, Cass. 20166/2020 ha bocciato l’idea che serva provare l’impiego puntuale di ogni euro: basta rendere verosimile la copertura globale).

In definitiva, il contribuente onesto, che magari ha fatto scelte finanziarie particolari (come attingere a vecchi risparmi) o attraversato fasi economiche difficili, ha dalla sua gli strumenti per difendersi con successo dalle presunzioni del Fisco – a patto di saperli utilizzare con rigore e tempestività. Al contrario, chi utilizza grossi fondi neri per sostenere il proprio tenore di vita deve sapere che oggi è molto probabile incappare nell’evasometro: con i mezzi tecnologici attuali, il Fisco riesce a individuare la maggior parte delle incongruenze. E in caso di accertamento, se non esistono giustificazioni reali, la legge non lascia scampo: quelle spese “non coerenti” diventeranno redditi tassati con aggiunta di sanzioni e interessi, con possibili strascichi penali se di entità rilevante.

Il punto di equilibrio sta allora in una corretta collaborazione fiscale: l’Agenzia dovrebbe usare le lettere di compliance come strumento di dialogo, non di mero incasso intimidatorio, e il contribuente dovrebbe coglierle come occasione per chiarire la propria posizione senza attendere la fase coattiva. Quando entrambe le parti fanno la loro parte – l’Amministrazione con trasparenza e il contribuente con buona fede e documentazione – il sistema funziona e si evitano sia inutili accertamenti che ingiusti patemi d’animo.

In conclusione, se ricevi una lettera per spese incoerenti col reddito:

  • Non farti prendere dal panico, ma non sottovalutarla.
  • Analizza, chiedi consiglio, e agisci nei tempi richiesti.
  • Fornisci tutte le spiegazioni e prove disponibili nella fase di “pre-contenzioso”.
  • Se serve, regolarizza spontaneamente: costerà meno farlo ora che dopo.
  • Se vieni accertato pur avendo ragione, prosegui la difesa in giudizio con determinazione, forte delle tutele normative e giurisprudenziali esposte.

Con la giusta strategia, potrai difendere con successo la tua posizione e uscire da questa situazione con il minimo danno economico e – speriamo – anche con una maggiore consapevolezza su come gestire in futuro la tua fiscalità in modo allineato al tuo stile di vita, evitando nuovi “campanelli d’allarme” dal Fisco.


Fonti e riferimenti

Normativa e prassi:

  1. D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38 – Disciplina l’accertamento sintetico del reddito delle persone fisiche (redditometro) e la prova contraria a favore del contribuente.
  2. D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 22 (conv. L. 122/2010) – Riforma del redditometro: introduzione coefficienti statistici e obbligo di contraddittorio preventivo.
  3. D.M. MEF 16 settembre 2015 – Individuazione degli elementi indicativi di capacità contributiva (beni e spese) e coefficienti per la determinazione sintetica dei redditi 2011-2015.
  4. D.L. 12 luglio 2018, n. 87, art. 10-bis (conv. L. 96/2018) – Sospensione dell’applicazione del redditometro per gli anni dal 2016 in poi, in attesa di nuovo decreto ministeriale sentiti ISTAT e associazioni consumatori.
  5. Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del Contribuente), art. 6-bis – (Introdotto da L. 58/2019) Prevede il contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio per i tributi non armonizzati (come IRPEF), salvo casi di particolare urgenza.
  6. D.Lgs. 4 agosto 2023, n. 108, art. 5 – Modifiche all’art. 38 DPR 600/73: introdotta la doppia soglia (20% e 10×assegno sociale) per l’accertamento sintetico e ampliata la tipologia di prove contrarie ammissibili.
  7. D.M. MEF 7 maggio 2024 – Nuovi criteri per il redditometro (decreto attuativo, G.U. 20/5/2024) individuanti gli elementi di capacità contributiva per gli anni d’imposta dal 2016 in poi. Entrata in vigore sospesa per ulteriori verifiche (Atto di indirizzo MEF 23/5/2024).
  8. Provv. Ag. Entrate 21/12/2020 n. 183217 – Criteri attuativi generali dell’obbligo di contraddittorio (anticipazione dell’art. 6-bis Statuto).
  9. Circolare Ag. Entrate n. 5/E del 14/02/2018 – Istruzioni operative sul nuovo accertamento sintetico post DM 2015, con esempi di spese e di contraddittorio.
  10. Circolare Ag. Entrate n. 19/E del 8/8/2019 – Chiarimenti sull’obbligo di motivazione rafforzata degli accertamenti sintetici in caso di mancata adesione del contribuente al contraddittorio (a seguito di Cass. SU 24823/2015).
  11. Circolare Ag. Entrate n. 21/E del 7/11/2024 – (per riferimento) Istruzioni in tema di autotutela tributaria; ribadisce che l’ufficio deve annullare in autotutela accertamenti evidentemente errati (ad es. doppie imposizioni, errori di persona, ecc.).

Giurisprudenza:

  1. Cass., Sez. Unite, 18/09/2015, n. 24823 – Principio di diritto: per i tributi non armonizzati (IRPEF) il contraddittorio endoprocedimentale non è obbligatorio generalizzato salvo previsione di legge, ma nel redditometro era ed è espressamente previsto; la mancata attivazione comporta nullità dell’atto (ora superata dallo Statuto, ma pietra miliare).
  2. Cass., Sez. Trib., 10/08/2020, n. 20166 – In tema di redditometro, afferma che la prova contraria del contribuente non si limita alla dimostrazione di redditi esenti utilizzati, ma può consistere nel provare in modo complessivo che le spese contestate sono state finanziate con entrate non imponibili o patrimoniali. Non è necessaria la prova analitica spesa per spesa, essendo sufficiente documentare l’esistenza di risorse non tassabili idonee a coprire il maggior tenore di vita.
  3. Cass., Sez. Trib., 11/11/2023, n. 31568 – Ordinanza fondamentale (caso “Frontera”): ribadisce che la prova contraria nel redditometro include il riferimento alla complessiva posizione reddituale del nucleo familiare (coniugi e figli conviventi) e ai risparmi accumulati negli anni precedenti. Censura i giudici di merito che avevano limitato la rilevanza dei risparmi al quinquennio e ignorato i redditi del coniuge. Conferma che il contribuente può fornire prova con ogni mezzo, anche oltre i limiti temporali presuntivi, ad esempio dimostrando risparmi di lungo periodo e finanziamenti esterni.
  4. Cass., Sez. Trib., 06/06/2024, n. 12527 – Sentenza che richiama il quadro normativo del redditometro “storico” e sottolinea che si tratta di presunzione legale relativa: una volta provati dall’ufficio i fattori indice (es. acquisto bene), spetta al contribuente dimostrare con documenti che il reddito presunto non esiste o è inferiore. Riconosce come prove contrarie i redditi esenti o soggetti a ritenuta e, più in generale, la provenienza non reddituale delle somme. Evidenzia inoltre (in linea con precedente giurisprudenza) che non basta allegare l’esistenza di risorse alternative, ma occorre provare quantità e periodo di possesso di tali risorse, ad esempio tramite estratti conto bancari. (Cass. 12527/2024 conferma così la necessità di una prova documentale puntuale, ma lascia intendere che mostrati tali elementi l’accertamento va annullato).
  5. Cass., Sez. Trib., 17/12/2019, n. 28855 – Stabilisce che in presenza di finanziamenti da terzi il redditometro deve tenere conto che la capacità di spesa è sostenuta dal terzo. Nella fattispecie, l’acquisto di immobile risultava pagato con denaro proveniente dal conto del padre della contribuente; la Corte ha ritenuto giustificato lo scostamento dal reddito dichiarato della figlia proprio per l’intervento economico del genitore (fonte non imponibile per la figlia).
  6. Cass., Sez. Trib., 04/12/2013, n. 26201 – (vecchia ma rilevante) Ha affermato che il giudice deve valutare la congruità complessiva della prova contraria: se il contribuente prova l’esistenza di redditi esenti/risparmi per importi tali da coprire il maggior reddito accertato, l’ufficio non può insistere. Inoltre, questa sentenza richiamava la natura di presunzione semplice del redditometro post riforma 2010, sottolineando la necessità che gli indici siano adeguati e attuali (profilo oggi superato dalla qualifica di presunzione legale relativa data dalla Cassazione più recente, ma utile come obiter).
  7. CTR (Corte Giust. Trib.) Lombardia, sez. Brescia, 02/07/2019 n. 1302 – Esempio di pronuncia di merito: ha annullato un accertamento sintetico riconoscendo la prova di risparmi pregressi e contributi di familiari. Pur non essendo Corte suprema, è indicativa dell’orientamento favorevole anche nelle commissioni regionali quando le prove risultano convincenti.

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