Hai ricevuto un accertamento fiscale per la tua attività di vendita online su Shopify, Amazon FBA, Etsy o altre piattaforme e non sai come reagire?
L’Agenzia delle Entrate negli ultimi anni ha intensificato i controlli sulle vendite e-commerce, incrociando i dati delle piattaforme con le dichiarazioni fiscali. Se ti contestano ricavi non dichiarati, IVA non versata o irregolarità contabili, è fondamentale sapere come difenderti e quali strumenti usare per ridurre sanzioni e interessi.
Quando un venditore online può subire un accertamento fiscale
– Quando i dati delle vendite registrate sulle piattaforme non coincidono con quelli dichiarati al fisco
– Quando vengono rilevati incassi tramite PayPal, Stripe o conti correnti non comunicati in dichiarazione
– Quando non viene emessa regolare fatturazione o scontrino elettronico per le vendite
– Quando ci sono differenze tra le giacenze di magazzino e le merci dichiarate
– Quando il fatturato supera le soglie del regime fiscale adottato (forfettario o ordinario) senza adeguamenti
Cosa può accadere dopo un accertamento fiscale
– Applicazione di sanzioni e interessi che aumentano notevolmente l’importo dovuto
– Iscrizione a ruolo del debito e successiva cartella esattoriale
– Blocco dei rimborsi fiscali e possibili azioni cautelari (ipoteche, fermi, pignoramenti)
– Controlli retroattivi anche su più anni di attività
– Nei casi più gravi, segnalazioni per ipotesi di reati tributari
Cosa fare per difendersi da un accertamento fiscale
– Far analizzare la contestazione da un avvocato o commercialista esperto in e-commerce per verificare la correttezza dell’accertamento
– Richiedere copia integrale degli atti e dei documenti su cui si basa l’Agenzia delle Entrate
– Presentare memorie difensive e prove documentali per ridurre o annullare la pretesa
– Valutare l’adesione all’accertamento con riduzione delle sanzioni, se conveniente
– Negoziare un piano di rateizzazione per importi non contestabili
– Coordinare la difesa fiscale con la gestione di eventuali altre pendenze tributarie o contributive
Cosa si può ottenere con la giusta assistenza legale e fiscale
– L’annullamento totale o parziale della pretesa tributaria
– La riduzione di sanzioni e interessi tramite adesione o definizione agevolata
– La sospensione di cartelle e azioni esecutive
– La tutela del patrimonio personale e aziendale da pignoramenti e ipoteche
– La regolarizzazione della posizione fiscale per evitare futuri accertamenti
Attenzione: un accertamento fiscale per attività di vendita online non va mai preso alla leggera. Agire tempestivamente, presentando difese tecniche e documentali solide, è essenziale per evitare importi esorbitanti e proteggere il proprio business.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario, difesa del venditore e-commerce e tutela del patrimonio – ti spiega cosa fare se ricevi un accertamento fiscale su Shopify, Amazon FBA, Etsy o altre piattaforme, come proteggerti e come risolvere la controversia in modo legale.
Hai ricevuto un accertamento fiscale per la tua attività online e non sai come difenderti?
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Introduzione
Hai ricevuto un avviso di accertamento fiscale per la tua attività di vendita online (su Shopify, Amazon FBA, Etsy o altri marketplace) e non sai come reagire? Ti contestano ricavi non dichiarati, IVA non versata o flussi di denaro non giustificati tra la piattaforma e il tuo conto? Negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli su chi vende online, anche se privo di partita IVA o convinto che fossero le piattaforme a gestire gli aspetti fiscali. Ma attenzione: un accertamento non è una condanna definitiva. Non tutte le contestazioni del Fisco sono corrette o legittime, e il contribuente (dal punto di vista del debitore fiscale) ha il diritto di difendersi. In questa guida avanzata – aggiornata a luglio 2025 – esamineremo in dettaglio la normativa italiana applicabile, i più recenti orientamenti giurisprudenziali, e soprattutto come difendersi in modo efficace da un accertamento fiscale relativo a vendite su Shopify, Amazon (anche FBA), Etsy o altre piattaforme digitali. Troverai inoltre tabelle riepilogative, domande e risposte frequenti, e simulazioni pratiche riferite al contesto italiano, con un linguaggio giuridico ma divulgativo, adatto sia ad avvocati e professionisti fiscali sia a imprenditori e privati coinvolti. Tutte le fonti normative e le sentenze citate sono elencate in fondo alla guida.
Introduzione
Il commercio elettronico tramite piattaforme come Shopify, Amazon FBA ed Etsy offre grandi opportunità a imprenditori e privati, ma comporta anche specifici rischi fiscali. In Italia non esistono regimi fiscali “di favore” ad hoc per le attività online: i redditi derivanti da vendite sul web sono soggetti alle stesse imposte dei redditi tradizionali, e gli obblighi dichiarativi sono analoghi. In particolare, chi vende abitualmente prodotti online con finalità di lucro è tenuto ad aprire una posizione fiscale (partita IVA) e ad assoggettare a tassazione i relativi proventi, esattamente come qualsiasi altra attività d’impresa.
D’altra parte, negli ultimi anni le autorità fiscali (Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza) hanno potenziato gli strumenti di monitoraggio delle transazioni digitali. Dal 2023 sono in vigore nuove normative europee (come la direttiva DAC7) e sistemi di raccolta dati che permettono al Fisco di individuare facilmente anche i venditori online meno visibili. Ad esempio, le piattaforme digitali come Amazon, eBay, Etsy (e verosimilmente i servizi per e-commerce come Shopify) sono oggi obbligate a comunicare al Fisco italiano i dati dei venditori attivi e i relativi volumi di vendita. Parallelamente, i prestatori di servizi di pagamento (PSP) – banche, PayPal, Stripe, ecc. – segnalano alle autorità flussi ricorrenti di pagamenti sui conti, tramite un sistema centralizzato europeo (CESOP) operativo dal 2024. Ciò significa che vendere online non rende affatto invisibili al Fisco: anzi, i dati incrociati di piattaforme, conti correnti e dogane consentono di far scattare automaticamente “allarmi” se un contribuente riceve bonifici o accrediti da Shopify/Amazon/Etsy senza avere redditi dichiarati congrui.
Questa guida fornirà dunque un quadro completo su quando e come scatta un accertamento fiscale per chi vende online (anche in dropshipping o tramite e-commerce proprietario), quali sono i diritti di difesa del contribuente e quali strategie adottare per contestare le pretese del Fisco o regolarizzare la propria posizione. Partiremo dai doveri fiscali di base per venditori online, per poi esaminare le modalità di controllo e accertamento adottate dall’Agenzia, le procedure difensive (in sede sia amministrativa sia contenziosa) e gli eventuali profili penali. Ampio spazio è dedicato inoltre a FAQ (domande frequenti), casi pratici simulati e tabelle riassuntive. L’obiettivo è offrire un riferimento avanzato ma comprensibile, che aiuti il venditore (privato o imprenditore, persona fisica o società) a comprendere la propria posizione dal punto di vista del “debitore” fiscale e a reagire consapevolmente a un accertamento.
Nota bene: Le informazioni e i riferimenti normativi sono aggiornati a luglio 2025 e tengono conto delle novità introdotte fino a tale data (es. D.Lgs. 1/2023 sul DAC7, D.Lgs. 219/2023 sul contraddittorio obbligatorio, abolizione del reclamo-mediazione tributario dal 2024, ultime sentenze di Cassazione 2023-2025, ecc.). Troverai in fondo al testo un elenco di fonti normative e giurisprudenziali citate, per un ulteriore approfondimento.
1. Vendere online (Shopify, Amazon, Etsy): obblighi fiscali e qualificazione dell’attività
In Italia chi vende beni online non gode di alcun regime fiscale speciale o esente: le vendite via web soggiacciono alle medesime regole fiscali delle attività commerciali tradizionali. Ciò che rileva ai fini tributari non è il canale utilizzato (marketplace digitale o negozio fisico), bensì la natura e frequenza dell’attività esercitata. In pratica, bisogna distinguere se le vendite hanno carattere episodico, occasionale oppure abituale/professionale, poiché da ciò discendono obblighi fiscali differenti:
- Vendite episodiche (una tantum) – La cessione di un singolo bene personale effettuata eccezionalmente (esempio: vendere la propria vecchia bici o un mobile usato ereditato) non costituisce attività d’impresa né lavoro autonomo. Non vi è intento speculativo e il ricavo ottenuto non genera un reddito imponibile in senso tributario. In tal caso non serve aprire partita IVA, né occorre addebitare IVA: la vendita di beni appartenenti al proprio patrimonio personale è fuori campo IVA e non produce reddito tassabile (a meno che si realizzi una plusvalenza patrimoniale espressamente imponibile, evenienza rara per i beni mobili usati).
- Vendite occasionali (non abituali) – Se si effettuano alcune vendite saltuarie con scopo di lucro, pur senza organizzazione d’impresa e senza formalizzare una ditta, i proventi possono rientrare tra i “redditi diversi” ai sensi dell’art. 67 del TUIR (D.P.R. 917/1986). In tal caso non è obbligatorio aprire una partita IVA né applicare l’IVA sulle singole vendite, tuttavia i guadagni vanno dichiarati nella propria dichiarazione dei redditi, indicandoli nel Quadro RL come redditi diversi, da assoggettare ad IRPEF sul margine (ossia sulla differenza tra ricavi delle vendite e costi inerenti). Ad esempio, chi svuota la cantina vendendo vari oggetti usati per poche migliaia di euro complessivi, o chi realizza saltuariamente piccole creazioni artigianali e le vende su Etsy per arrotondare, può trovarsi in questa categoria. È bene ricordare che i costi direttamente collegati alle vendite (ad es. costo dei materiali o dei beni rivenduti, spese di spedizione) sono deducibili dal ricavo per determinare il reddito tassabile. Inoltre, se i compensi occasionali superano certe soglie annuali (es. 5.000 euro l’anno) può scattare l’obbligo di versare contributi previdenziali alla Gestione Separata INPS, pur restando attività occasionale.
- Vendite abituali (attività d’impresa) – Quando le cessioni avvengono con regolarità, continuità e organizzazione (anche minima) e mirano al profitto, l’attività viene considerata commerciale a titolo d’impresa. In questi casi scatta l’obbligo di aprire una partita IVA e di rispettare i normali adempimenti fiscali delle imprese. I redditi generati sono redditi d’impresa, da tassare come tali (in capo a persone fisiche o società, a seconda della struttura utilizzata). Ciò significa che un venditore abituale individuale sconterà l’IRPEF sul proprio reddito netto d’impresa, mentre se l’attività è svolta tramite società di capitali (es. una SRL) gli utili saranno tassati con IRES (oltre all’eventuale tassazione degli utili distribuiti). L’IVA va applicata sulle vendite effettuate (salvo specifiche esenzioni di legge per beni particolari) e versata periodicamente, con obbligo di emissione di fattura o scontrino/ricevuta fiscale a seconda dei casi. Inoltre, sono richiesti obblighi contabili: tenuta dei registri IVA, scritture contabili (ordinarie o semplificate in base al regime contabile), liquidazioni IVA trimestrali o mensili, dichiarazioni annuali dei redditi, dell’IVA e dell’IRAP se dovuta, etc.. In sostanza, chi “vende spesso e con continuità” anche dal proprio domicilio o tramite il web, viene considerato a tutti gli effetti un imprenditore dal Fisco e deve conformarsi alla relativa disciplina.
Questa distinzione tra vendita occasionale e attività d’impresa è fondamentale ma non c’è una soglia fissa per legge che separi i due casi. La valutazione è demandata al concreto numero di transazioni, volume d’affari e grado di organizzazione riscontrati. La giurisprudenza tributaria degli ultimi anni è piuttosto severa nel qualificare come attività d’impresa tutte le ipotesi di vendite ripetute con fine di lucro, anche in assenza di una formale struttura aziendale o di competenze professionali specifiche. Ad esempio, la Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 7552/2025 ha ribadito che l’abitualità e la continuatività delle vendite online, specie se su più anni e con elevato numero di transazioni, configurano l’esercizio di un’impresa, indipendentemente dalla forma giuridica adottata dal venditore (anche un privato senza ditta può generare reddito d’impresa di fatto). D’altro canto, la stessa Cassazione ha anche chiarito (sent. n. 10117/2023) che la vendita di beni del proprio patrimonio personale (come mobili usati di casa) non integra attività d’impresa né lavoro autonomo se manca un reale intento speculativo e una sistematicità professionale. Ciò significa che chi vende oggetti strettamente personali, purché non acquistati appositamente per rivenderli, rimane fuori dall’ambito d’impresa e i relativi proventi non sono imponibili. La linea di confine dunque non è quantitativa ma qualitativa: conta la ricorrenza e lo scopo di lucro. In caso di contestazione, sarà il contribuente a dover provare che le proprie vendite erano sporadiche e non organizzate (ad esempio producendo evidenze che i beni venduti erano di sua proprietà personale da tempo, come nel caso di eredità o collezioni personali).
Regimi fiscali agevolati e speciali: va aggiunto che chi avvia un’attività online con partita IVA può beneficiare, se ne ricorrono i requisiti, di regimi fiscali semplificati. Uno di questi è il regime forfettario (art. 1, commi 54-89, L. 190/2014 e successive modifiche) riservato alle persone fisiche con ricavi fino a 85.000 € annui: esso comporta una tassa sostitutiva IRPEF al 15% (5% per start-up) calcolata su una quota forfettaria del fatturato (per il commercio generalmente il 40%). Tuttavia il regime forfettario non esonera dagli obblighi dichiarativi né dai controlli: il venditore forfettario deve comunque numerare le fatture, versare l’IVA se dovuta in casi particolari (perché normalmente in forfettario non si addebita IVA in Italia, ma ad esempio per vendite intra-UE sopra soglia OSS l’IVA va gestita) e soprattutto dichiarare il fatturato. Un uso improprio dei regimi agevolati (ad esempio restare in forfettario superando i limiti, oppure utilizzarlo quando si hanno cause di esclusione) può diventare oggetto di accertamento e contestazione da parte del Fisco. Analogamente, chi vende in Italia beni stoccati in altri Paesi UE potrebbe dover applicare gli speciali regimi OSS/IOSS per l’IVA sulle vendite a distanza (operativi dal 2021): questi regimi semplificano il versamento dell’IVA dovuta su vendite transfrontaliere (evitando di doversi identificare in ogni paese di destinazione), ma non rappresentano un’esenzione fiscale. In mancanza di utilizzo dell’OSS/IOSS quando obbligatorio, il venditore rischia doppi adempimenti o sanzioni per omessa applicazione dell’IVA nei Paesi coinvolti.
In sintesi, sia per privati che per società (SRL, SRLS, SNC, ecc.), vendere online comporta obblighi fiscali proporzionati alla sistematicità dell’attività. Chi vende saltuariamente pochi oggetti propri non avrà in genere obblighi stringenti (oltre eventualmente a indicare i guadagni in dichiarazione se superano certe soglie), mentre chi gestisce un vero e-commerce continuativo – su Shopify, Amazon, Etsy o altro – deve operare con posizione IVA aperta e scrupolosa osservanza delle regole tributarie. Trascurare questi obblighi significa esporsi al rischio di un accertamento per evasione fiscale o omessa dichiarazione, con conseguenti imposte, sanzioni e interessi richiesti a posteriori.
Di seguito, una tabella riepilogativa delle categorie di venditore online e i rispettivi trattamenti fiscali e adempimenti principali:
Tabella 1: Categorie di venditore online (Shopify, Amazon, Etsy) e relativi obblighi fiscali
Categoria venditore | Caratteristiche | Redditi e imposte | Principali obblighi fiscali |
---|---|---|---|
Privato occasionale (vendite episodiche di beni personali) | Vendite sporadiche di beni propri, senza organizzazione e senza intento professionale di lucro (es.: singolo oggetto usato) | Nessun reddito imponibile (il ricavo non genera plusvalore tassabile). Nessuna IVA dovuta (vendita fuori campo IVA per mancanza del requisito soggettivo d’impresa). | Nessun obbligo fiscale specifico: no apertura P.IVA, no fatturazione né dichiarazione (salvo casi particolari). |
Venditore occasionale (hobbista o piccolo venditore senza P.IVA) | Attività saltuaria e non organizzata professionalmente, con scopo di lucro modesto (es.: vendite di proprie creazioni fatte a mano su Etsy, oppure vendita di oggetti usati vari a scopo di guadagno limitato). | Redditi diversi ex art. 67 TUIR, tassati in IRPEF sul margine (ricavi meno costi inerenti). No IVA (cessioni effettuate da soggetto privato, fuori campo IVA). Se i ricavi annui superano 5.000 €, parte eccedente soggetta a contributi previdenziali Gestione Separata. | Dichiarazione dei redditi: indicazione del reddito nel Quadro RL (persone fisiche). Documentazione: conservare traccia di ricavi e costi (es. ricevute materiali, spese di spedizione) per eventuale esibizione. Nessun obbligo di tenuta registri. Nessuna fattura richiesta per vendite B2C, ma su richiesta dell’acquirente occorre emettere ricevuta non fiscale. |
Venditore professionale (impresa individuale con P.IVA, o società es. SRL) | Attività regolare, continuativa e organizzata di vendita online, svolta con metodo imprenditoriale (anche senza negozio fisico). Include sia ditte individuali sia società commerciali. | Reddito d’impresa: se persona fisica, tassato in IRPEF; se società di capitali, tassato in IRES (oltre ad IRAP se applicabile). IVA dovuta sulle vendite (al aliquota prevista per i beni venduti). Eventuali regimi fiscali semplificati (es. forfettario) applicabili se requisiti rispettati, ma non eliminano l’obbligo di dichiarare il fatturato. | Apertura Partita IVA (codice ATECO commercio elettronico o dropshipping). Regolare fatturazione delle vendite (fattura elettronica per cessioni B2B o su richiesta del cliente; per vendite B2C su marketplace, ricevuta/fattura se richiesta). Adempimenti periodici: liquidazioni e versamenti IVA, tenuta registri contabili (semplificata se ricavi sotto soglia, ordinaria se sopra), dichiarazione annuale IVA, redditi (Mod. Redditi o IRES/IRAP), comunicazioni periodiche (esterometro se rilevante, elenco corrispettivi elettronici se dovuto). Conservazione dei report di vendita delle piattaforme e degli estratti conto per controlli. |
Nota: La distinzione tra venditore occasionale e impresa è oggetto di valutazione caso per caso. Anche assenza di struttura professionale o di competenze specifiche non esclude di per sé la qualifica di attività d’impresa se la condotta è abituale (vedi sentenza CTR Molise n. 280/2020 citata più avanti). In dubbio, è prudente optare per la regolarizzazione: ad esempio, aprire partita IVA e regolarizzare l’IVA dovuta (magari aderendo a regimi come OSS per vendite UE) piuttosto che rischiare contestazioni successive.
2. Come il Fisco scopre le vendite online: controlli fiscali su Shopify, Amazon FBA, Etsy, ecc.
Vista la premessa sugli obblighi, chiediamoci: come fa l’Agenzia delle Entrate a intercettare i venditori online non in regola? Negli ultimi anni sono stati implementati diversi strumenti di controllo incrociato dei dati, che rendono difficile “nascondere” un’attività di e-commerce al Fisco. Ecco i principali canali informativi e di accertamento utilizzati:
- Dati trasmessi dalle piattaforme digitali (DAC7): Dal 2023 è in vigore nell’UE la direttiva DAC7 (Direttiva 2021/514/UE) recepita in Italia col D.Lgs. 1 marzo 2023 n. 32. Questa normativa impone ai gestori di piattaforme digitali di condividere annualmente con le autorità fiscali i dati di vendita dei venditori attivi. Ciò include marketplace come Amazon, eBay, Etsy, ma anche potenzialmente altre piattaforme dove avvengono transazioni (ad esempio Airbnb per gli affitti brevi, o piattaforme di servizi). Per il commercio di beni, le piattaforme devono comunicare all’Agenzia delle Entrate informazioni quali: identità del venditore, volumi di vendita lordi, eventuale IVA addebitata e altri dati rilevanti. Nel caso di Amazon FBA, ad esempio, Amazon conosce dettagliatamente le quantità vendute e gli incassi accreditati ai venditori italiani, e ora è tenuta a trasmettere tali dati al Fisco. Questo flusso informativo centralizzato (gestito a livello UE) rende molto più agevole per l’Agenzia individuare discrepanze tra quanto un soggetto ha incassato tramite marketplace e quanto ha dichiarato al fisco. Anche Etsy e Shopify (limitatamente alla parte di Shopify che gestisce i pagamenti o funge da marketplace: Shopify gestisce un marketplace di app e temi e offre Shopify Markets, ma non è un intermediario classico come Amazon; tuttavia, se il venditore utilizza servizi integrati di pagamento, alcuni dati possono emergere) rientrano nel perimetro se facilitano vendite di beni. In sintesi, con DAC7 il Fisco conosce “alla fonte” i ricavi lordi generati online dai contribuenti.
- Segnalazioni dei pagamenti elettronici (PSP e CESOP): Un altro pilastro del monitoraggio è costituito dai Prestatori di Servizi di Pagamento. Dal 1° gennaio 2024 è operativo il sistema CESOP (Central Electronic System of Payment information) previsto dal Regolamento UE 2020/283. In base a queste regole, banche, istituti di pagamento, emittenti di carte e altri PSP devono tenere registri e segnalare trimestralmente alle autorità fiscali europee i dettagli dei pagamenti transfrontalieri relativi a e-commerce. In pratica, se un venditore in Italia riceve oltre 25 pagamenti da acquirenti esteri in un trimestre tramite un certo PSP, i dati dei pagamenti (identificativo del beneficiario, importi, paese di origine) confluiscono nel CESOP e quindi sono accessibili all’Agenzia delle Entrate. Questo sistema è concepito soprattutto per individuare vendite oltreconfine non dichiarate (ad esempio un venditore italiano che incassa da clienti UE su PayPal senza dichiarare nulla). Parallelamente, a livello nazionale, l’Agenzia può incrociare i dati dei conti correnti (Archivio dei rapporti finanziari) e segnalazioni antiriciclaggio per notare movimenti anomali. Un tipico esempio: se un contribuente persona fisica riceve periodicamente bonifici o accrediti da Amazon, Stripe, PayPal per migliaia di euro, ma risulta disoccupato o dichiara redditi irrisori, il sistema di analisi del rischio dell’Agenzia fa scattare un alert. È quasi impossibile oggi, per chi vende tramite canali tracciati, sfuggire completamente alle “maglie” elettroniche del Fisco.
- Controlli della Guardia di Finanza e dogane: La Guardia di Finanza, spesso in collaborazione con l’Agenzia, svolge attività investigativa e verifiche sul campo. Può succedere, ad esempio, che la GdF effettui acquisti in incognito su un negozio Shopify o un account Etsy sospetto, per verificare se il venditore emette fattura o meno. Oppure possono essere controllate le spedizioni doganali: chi importa merce extra-UE (magari per dropshipping) può lasciare tracce nelle banche dati doganali (es. numerosi pacchi provenienti dalla Cina indirizzati al medesimo soggetto). Questi elementi, uniti a monitoraggi sul web (la GdF ha Nuclei specializzati in e-commerce), possono far partire accertamenti mirati. Un caso non raro: la Finanza individua su eBay o Amazon venditori con tantissimi feedback e inserzioni, e avvia una verifica fiscale per vedere se dichiarano quei proventi. A seguito di ciò può redigere un Processo Verbale di Constatazione (PVC) che raccoglie le risultanze (numero di vendite individuate, ricavi stimati, etc.).
In concreto, qual è l’iter di un accertamento fiscale tipico per vendite online? Di solito si sviluppa in più fasi:
- Lettera di compliance o invito al contraddittorio: Spesso, prima di emettere un avviso di accertamento formale, l’Agenzia delle Entrate invia al contribuente una comunicazione preventiva. Può trattarsi di una lettera di compliance (segnalazione bonaria di possibili anomalie, invitando a verificarle) oppure di un invito a comparire (art. 5-ter D.Lgs. 218/1997) per avviare un contraddittorio endoprocedimentale. Ad esempio, un venditore potrebbe ricevere un invito a presentarsi (o a rispondere per iscritto) in cui l’Ufficio espone: “Dai dati in nostro possesso risultano €50.000 di vendite su Amazon nel 2023 non presenti nelle dichiarazioni fiscali. Si invitano chiarimenti e documentazione”. Questo è un momento cruciale: la partecipazione è facoltativa, ma altamente consigliata. Fornire spiegazioni convincenti e documenti (ad es. ricevute di acquisto dei beni venduti, prova che parte delle somme erano rimborsi o trasferimenti privati, ecc.) può portare l’Ufficio a archiviare la posizione o ridurre le pretese. Ignorare l’invito, invece, spesso peggiora la situazione. Dal 2024, peraltro, il contraddittorio preventivo è divenuto obbligatorio per la maggior parte degli accertamenti: la legge ora prevede espressamente che gli atti impositivi devono essere preceduti da un confronto col contribuente, pena la nullità dell’atto, salvo specifiche eccezioni. Ci torneremo nel prossimo paragrafo.
- Verifica in loco e PVC: Se il venditore possiede un’attività strutturata (es. un magazzino, un ufficio) o se la GdF decide di approfondire, può svolgersi una verifica fiscale sul posto. In tal caso i verificatori redigono un Processo Verbale di Constatazione (PVC) in cui elencano le irregolarità riscontrate. Il contribuente ha diritto di fare osservazioni al PVC (entro 60 giorni) e di riceverne copia. Un esempio potrebbe essere l’accesso presso la sede di una SRL che vende su Shopify, per controllare le scritture contabili e confrontarle con i report di vendita online.
- **Emissione dell’avviso di accertamento: Se dopo la fase istruttoria (lettere, contraddittorio, eventuale PVC) l’Ufficio ritiene di aver raccolto elementi sufficienti per pretese fiscali, procede con l’atto formale: Avviso di Accertamento. Si tratta di un provvedimento scritto, notificato al contribuente (via PEC o raccomandata A/R), in cui sono indicati gli importi di imposta ritenuti dovuti in più (IRPEF, IRES, IVA, IRAP, etc.), le relative sanzioni e interessi, e la motivazione alla base della rettifica. L’avviso per legge deve riportare in modo chiaro le ragioni della pretesa e i calcoli effettuati dal Fisco. Ad esempio: “Si recuperano €X di ricavi non dichiarati per l’anno 2022, emersi dai report Amazon, con imposta IRPEF evasa €Y e IVA evasa €Z, sanzione del 90% per omessa dichiarazione…”. Molto spesso, in casi di e-commerce non dichiarato, l’accertamento ha natura “induttiva”: significa che l’Agenzia ricostruisce il reddito imponibile in via presuntiva, basandosi sui dati dei movimenti finanziari o delle piattaforme, senza una contabilità ufficiale di riferimento. In tal caso l’onere della prova si inverte: è il contribuente a dover dimostrare che le somme contestate non sono reddito (perché ad esempio erano semplici trasferimenti di fondi, o che ha sostenuto costi deducibili che abbattono il reddito). La legge consente accertamenti induttivi puri quando manca una dichiarazione o le scritture sono inattendibili (art. 39 DPR 600/1973), e la Cassazione ha confermato la legittimità di utilizzare come prova anche i dati delle transazioni online tracciate (es. elenco vendite eBay fornito dalla piattaforma), su cui poi il contribuente può eventualmente fornire prova contraria.
- Termini e immediatezza esecutiva: L’avviso di accertamento fiscale deve rispettare precisi termini di notifica (in genere entro il 5° anno successivo a quello d’imposta, esteso all’8° in caso di omessa dichiarazione). Una volta notificato, il contribuente ha 60 giorni di tempo per eventualmente pagare o presentare ricorso. Trascorsi 60 giorni, l’atto diventa definitivo ed esecutivo: per effetto dell’art. 17 D.L. 78/2010, l’avviso di accertamento non pagato si trasforma automaticamente in titolo per la riscossione coattiva. Ciò significa che, in assenza di impugnazione o definizione, dopo 60 giorni l’Agenzia può iscrivere a ruolo le somme e procedere con cartelle esattoriali e pignoramenti senza ulteriore avviso (vedremo meglio avanti le conseguenze). Durante i 60 giorni, è facoltà del contribuente anche avviare un’istanza di accertamento con adesione (una forma di negoziazione con l’ufficio): presentando tale istanza, i termini per fare ricorso sono sospesi per un massimo di 90 giorni in attesa dell’esito dell’adesione.
Ricordiamo che, a seguito della riforma del 2022-2023, oggi le Commissioni Tributarie sono denominate Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado; tuttavia, in questa guida useremo ancora i termini CTP/CTR per familiarità, indicando con essi rispettivamente i tribunali tributari di primo grado (provinciali) e secondo grado (regionali).
Riassumiamo le fasi del controllo e accertamento fiscale in Tabella 2, con le possibili azioni difensive in ciascuna fase:
Tabella 2: Fasi del procedimento di accertamento fiscale e strumenti di difesa del contribuente
Fase del controllo | Situazione / Atto | Azioni e strumenti difensivi |
---|---|---|
Monitoraggio e analisi dati | (Fase preliminare invisibile al contribuente: incrocio dati piattaforme, conti, dogane) | Prevenzione: mantenere documentazione in ordine (report vendite, costi, estratti conto). Regolarizzare spontaneamente (es. ravvedimento operoso) eventuali omissioni prima che arrivi un invito formale. |
Invito al contraddittorio (lettera di compliance o questionario Agenzia) | Richiesta di chiarimenti o documenti su presunte anomalie (es. vendite non dichiarate rilevate) – Partecipazione facoltativa ma consigliata. | Rispondere tempestivamente fornendo documenti giustificativi. Spiegare la natura delle vendite e dei flussi finanziari (es.: alcuni incassi erano rimborsi, o vendite di beni personali esenti). Se emergono effettive omissioni, valutare subito ravvedimento operoso (dichiarazione integrativa e pagamento con sanzioni ridotte) per sanare prima dell’avviso. Prendere atto che dal 2024 il contraddittorio è obbligatorio salvo eccezioni: la mancata attivazione di questa fase da parte dell’ufficio può costituire motivo di nullità dell’accertamento. |
Verifica fiscale / PVC | Accesso della Guardia di Finanza o ispezione, con redazione di Processo Verbale di Constatazione in caso di rilievi. | Durante la verifica: collaborare fornendo libri e registri se ci sono, ma far valere i propri diritti (art. 12 Statuto Contribuente tutela un minimo di garanzie durante le verifiche in loco). Dopo il PVC: presentare eventuali osservazioni scritte entro 60 giorni, contestando punti del verbale (possono indurre l’ufficio a moderare le pretese). Preparare documentazione aggiuntiva a supporto delle proprie tesi. |
Notifica Avviso di Accertamento | Atto impositivo formale con quantificazione imposte evase, sanzioni e interessi; diventa esecutivo trascorsi 60 giorni. | Opzioni entro 60 giorni: – Acquiescenza: pagare tutto (imposte più interessi) con beneficio riduzione sanzioni a 1/3. Utile se la pretesa è fondata e si vuole evitare il contenzioso, risparmiando sulle sanzioni. – Accertamento con adesione: presentare istanza per avviare dialogo con l’ufficio (sospende 60 gg termini ricorso). Nel contraddittorio di adesione, negoziare una riduzione di imponibile o sanzioni; se accordo, si paga con sanzioni ridotte a 1/3. – Ricorso in Commissione Tributaria (C.G. Trib. I grado): preparare ricorso motivato da presentare entro 60gg (o 150gg se c’è istanza adesione pendente). È l’inizio del contenzioso vero e proprio. Importante esaminare attentamente l’atto: errori o vizi formali (ad es. mancato contraddittorio, motivazione generica, notifica tardiva) possono essere motivi di annullamento. Anche errori di calcolo o mancata considerazione dei costi deducibili sono contestabili – la Cassazione richiede che nell’accertare ricavi online siano considerati anche i costi che il contribuente dimostra di aver sostenuto, per non tassare profitti inesistenti. |
Fase di giudizio – 1° grado (CTP) | La causa tributaria viene assegnata a una sezione della Corte Giustizia Trib. di primo grado. Ci sarà eventualmente un’udienza e una sentenza. | Difesa nel merito e procedurale: produrre in giudizio tutta la documentazione a supporto (es. estratti conto, report Amazon/Etsy, ricevute costi, perizie se utili). Sollevare eccezioni procedurali (es.: mancato contraddittorio obbligatorio, notifica oltre termini decadenziali, vizio motivazione). Sul merito, argomentare con norme e giurisprudenza: ad esempio citare sentenze che distinguono vendite occasionali vs impresa (Cass. 10117/2023) se rilevante al caso, oppure contestare l’applicazione di presunzioni senza prova. Si può anche chiedere al giudice l’applicazione del cumulo giuridico delle sanzioni (se l’ufficio ha sommato sanzioni per più anni, il giudice può ridurle applicandone una unica proporzionata). Inoltre, possibilità di mediazione e conciliazione: fino al 2023 era obbligatorio tentare la mediazione per liti fino a €50.000; dal 2024 non è più richiesta come passo a sé stante, ma resta possibile in qualunque momento trovare un accordo con l’Ufficio. In udienza si può proporre una conciliazione giudiziale: se le parti si accordano, le sanzioni si riducono al 40% (in primo grado) o al 50% (in appello) e la controversia si chiude. |
Fase di appello – 2° grado (CTR) | Se una delle parti impugna la sentenza di 1° grado, si va in appello presso la Corte Giustizia Trib. di secondo grado. | Strategia in appello: focalizzarsi sui punti contestati della sentenza di primo grado. Non si possono introdurre nuovi documenti tranne eccezioni, quindi è importante aver già prodotto tutto prima. In appello è ancora possibile la conciliazione (sanzioni ridotte al 50%). Se la controversia verte su questioni peculiari (es. interpretazione di norme UE, profili costituzionali) potrebbe essere utile citare eventuali pronunce della Corte UE o invocare rinvio alla Corte Costituzionale (ad es. la Corte Cost. n. 47/2023 ha rafforzato il principio del contraddittorio endoprocedimentale). |
Ricorso in Cassazione | Eventuale terzo grado (solo per motivi di diritto, non sul merito dei fatti). | Cassazione: si può ricorrere solo per vizi di diritto (violazione di legge o vizio motivazione). Ad es., si può far valere che la CTR ha violato una norma sul contraddittorio, o una errata interpretazione dell’art. 67 TUIR sui redditi occasionali. In questa fase non si rivedono le prove, conta la correttezza giuridica della decisione di appello. Se il contribuente arriva fin qui, è bene avere ben presente la giurisprudenza di legittimità sul tema: p.es. Cass. 7552/2025 sulle vendite online abituali come impresa costituisce un precedente chiave. |
Nel prosieguo della guida esploreremo in dettaglio alcune di queste fasi e strategie difensive (ravvedimento, ricorso, adesione, ecc.). Prima, però, vale la pena considerare cosa rende illegittimo o contestabile un accertamento fiscale a un venditore online, ovvero quali sono i punti deboli dell’azione accertativa del Fisco che il contribuente può sfruttare a suo favore.
3. Quando l’accertamento è illegittimo o contestabile: vizi comuni e primi passi di difesa
Un avviso di accertamento nei confronti di un venditore su Shopify/Amazon/Etsy non è insindacabile: può contenere errori o violare norme che lo rendono annullabile, totalmente o parzialmente, in sede di autotutela o in giudizio. È quindi importante, appena ricevuto l’atto, analizzarlo con attenzione per individuare possibili vizi formali o sostanziali. Ecco alcune delle situazioni che possono rendere l’accertamento illegittimo o comunque attaccabile dal contribuente:
- Mancato contraddittorio endoprocedimentale: come anticipato, dal 2024 la legge impone che prima di emettere un avviso di accertamento l’ufficio debba invitare il contribuente a fornire spiegazioni (salvo casi particolari di controlli automatizzati o errori materiali). Se ciò non è avvenuto (e non ricorrevano eccezioni), l’atto è viziato. Anche prima della riforma, la giurisprudenza aveva spesso annullato avvisi emessi senza contraddittorio quando si poteva dimostrare che il contribuente avrebbe potuto chiarire le circostanze (principio affermato dalla Corte Costituzionale e da pronunce di Cassazione). Dunque, verificare sempre se si è ricevuta o meno una “lettera di compliance” o invito a comparire prima dell’accertamento: in caso negativo, è un punto a favore del ricorso.
- Uso di semplici presunzioni senza adeguata prova: l’Agenzia spesso procede “induttivamente”, ma anche le presunzioni semplici devono essere gravi, precise e concordanti. Ad esempio, non basta che una persona abbia ricevuto soldi tramite PayPal per dare per scontato che siano tutti ricavi tassabili: potrebbero esservi delle giustificazioni alternative (prestiti infruttiferi tra familiari, vendite di beni personali non imponibili, rimborsi di spese, ecc.). Se l’accertamento si basa solo su dati grezzi (es. elenco di accrediti) senza aver tenuto conto di possibili spiegazioni che il contribuente aveva già fornito o poteva fornire, si può contestare la carenza di motivazione e l’assenza di quella gravità e concordanza richieste per le presunzioni (art. 2729 c.c.). La Cassazione ha affermato che, pur potendo l’ufficio presumere dei ricavi in base ai versamenti bancari, spetta poi al giudice valutare se il contribuente ha fornito spiegazioni plausibili e, in difetto di contraddittorio preventivo, l’accertamento può cadere.
- Errore nel qualificare l’attività (occasionale vs impresa): un venditore online può vedersi contestare di aver svolto attività d’impresa quando invece le sue erano vendite occasionali o di beni personali non tassabili. Questo è un tipico punto di difesa: dimostrare che mancava l’abitualità o lo scopo di lucro professionale. Ad esempio, un contribuente tassato come ditta potrebbe opporre che le sue vendite erano poche e derivanti dal proprio patrimonio (come nel caso degli arredi personali esaminato da Cass. 10117/2023, dove la Suprema Corte ha dato ragione al contribuente). Naturalmente, servono prove: fatture d’acquisto antiche che dimostrino che i beni erano propri, testimonianze, il limitato numero di transazioni, ecc. La frequenza e il volume restano indicatori chiave per il giudice: decine di vendite all’anno per più anni difficilmente verranno qualificate “occasionali”, ma se si riesce a collocare la propria situazione entro limiti di sporadicità, l’accertamento può essere contestato nel merito.
- Mancata considerazione dei costi deducibili: un errore comune degli accertamenti su e-commerce è che l’Agenzia ricostruisce i ricavi ma ignora i costi sostenuti dal venditore (acquisto della merce, spese di spedizione, commissioni della piattaforma, ecc.). Il contribuente deve assolutamente far valere in sede di difesa tutti i costi documentati, perché essi riducono il reddito imponibile. La Cassazione ha più volte sottolineato che non si possono tassare ricavi lordi senza considerare i costi se il contribuente ne prova l’esistenza. Ad esempio, se vengono contestati 100.000 € di vendite, ma 70.000 € erano il costo di acquisto dei beni rivenduti, il reddito vero è 30.000 €: far emergere questo in sede di adesione o giudizio può ridurre drasticamente imposte e sanzioni. L’errore contrario può avvenire sull’IVA: se l’ufficio presume IVA dovuta sulle vendite, può aver ignorato eventuali crediti IVA o importazioni con IVA già assolta. Verificare dunque il calcolo sia per le imposte dirette che per l’IVA.
- Violazione di termini o procedure: controllare sempre se l’avviso è stato notificato entro i termini di decadenza previsti (in genere 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui andava presentata la dichiarazione, esteso a settimo in caso di omessa dichiarazione; termini diversi per IVA). Un avviso tardivo è nullo per decadenza. Altra violazione procedurale: se vi è stato PVC della Guardia di Finanza, devono trascorrere almeno 60 giorni prima che l’Agenzia emetta l’avviso, salvo casi di particolare urgenza (art. 12 c.7 L. 212/2000). E ancora: l’avviso deve essere motivato in modo chiaro e intellegibile (art. 7 L. 212/2000); se contiene solo frasi generiche tipo “verificata evasione” senza dettagli, si può contestare il difetto di motivazione. Ogni aspetto formale va vagliato con cura, perché nel processo tributario i vizi formali/procedurali possono portare all’annullamento indipendentemente dal merito.
In pratica, appena ricevuto un accertamento, il venditore online (o il suo consulente) dovrebbe:
- Esaminare dettagliatamente l’atto: identificare annualità contestate, importi, tipo di imposte, e leggere la motivazione per capire su quali dati si basa (report Amazon, movimenti conto, stima induttiva, ecc.).
- Richiedere l’accesso agli atti: è un diritto del contribuente chiedere all’Ufficio copia di tutta la documentazione su cui si basa l’accertamento (es. estratti conto ottenuti, elenchi transazioni trasmessi dal marketplace, ecc.). Questo è utile per verificare se mancano pezzi o se vi sono errori nei dati.
- Consultare un esperto: data la complessità, è consigliabile farsi assistere da un avvocato tributarista o un commercialista esperto in contenzioso tributario, che possa individuare i motivi di ricorso più appropriati. Ad esempio, potrebbe emergere che l’atto è nullo per un vizio di notifica o perché non è stato preceduto da invito: un occhio esperto coglie queste sfumature.
- Valutare una strategia immediata: se l’importo è elevato e c’è rischio di sanzioni penali (ad esempio omessa dichiarazione oltre 50.000 € di imposta evasa, reato ex art. 5 D.Lgs. 74/2000), potrebbe convenire attivarsi subito con un ravvedimento operoso o con il pagamento per ridurre conseguenze penali (pagare il debito tributario prima del giudizio penale può estinguere il reato di omesso versamento, anche se qui parliamo di omessa dichiarazione in cui la soglia penale è su imposta evasa netta). Se invece l’atto appare totalmente infondato (ad es. ha scambiato per reddito qualcosa che non lo è), prepararsi al ricorso senza indugio.
Riassumendo: l’accertamento fiscale non è la parola finale. Molti venditori online sono riusciti a far valere le proprie ragioni in sede di contraddittorio o di giudizio. Proprio grazie a pronunce di tribunali e Cassazione, oggi sappiamo che vendere qualche oggetto usato su eBay non fa di te un evasore se mancano i presupposti d’impresa, così come l’Ufficio non può ignorare i costi o i diritti procedurali del contribuente. Nei prossimi paragrafi vedremo più in dettaglio come difendersi attivamente, dalle fasi iniziali (ravvedimento, adesione) fino al contenzioso vero e proprio.
4. Prima risposta all’accertamento: contraddittorio, ravvedimento e adesione
La miglior difesa è spesso anticipare il problema. Quando vieni a conoscenza che il Fisco sta verificando la tua posizione (anche solo tramite una lettera preliminare), non restare inerte. Come visto, ignorare gli inviti può precludere possibilità di chiarimento e, in alcuni casi, può persino indebolire la difesa in giudizio. Ecco cosa fare nelle fasi iniziali:
- Partecipare al contraddittorio e fornire una memoria difensiva: Se hai ricevuto un questionario o un invito a comparire, sfrutta questa sede per mettere agli atti la tua versione. Prepara una memoria scritta in cui ricostruisci l’attività: specifica se vendevi beni tuoi personali (elencali), se hai sostenuto costi elevati (elenca e documenta), se alcune somme accreditate sul conto non erano vendite ma altro (ad esempio, rimborsi da Amazon per resi, trasferimenti da conto PayPal personale, prestiti da familiari – spiega ogni flusso anomalo). Allega copie di documenti: ricevute di acquisto dei beni venduti, screenshots dei report di Shopify/Amazon/Etsy, estratti conto evidenziando corrispondenze. Più la risposta è dettagliata, maggiori le chance che l’ufficio ridimensioni la pretesa o archivi il caso. Se ritieni di aver agito in buona fede, dillo chiaramente (non incide legalmente sulla sanzione amministrativa, ma può far comprendere l’assenza di dolo). Ad esempio, potresti sottolineare: “Ero convinto che vendendo oggetti usati di famiglia non dovessi fare nulla, come confermato da Cass. 10117/2023”, citando norme e sentenze pertinenti per dare forza alla tua tesi. Questa memoria resterà agli atti: in caso di successivo giudizio, il giudice vedrà che hai già fornito spiegazioni (se l’Agenzia le ha ignorate, ciò rafforza la tua posizione).
- Valutare il ravvedimento operoso: Se nel corso del contraddittorio emerge che effettivamente hai omesso qualcosa – ad esempio, non hai proprio dichiarato redditi di vendita degli ultimi anni – potresti considerare un ravvedimento operoso prima che arrivi l’accertamento. La legge consente, finché non ti viene notificato un PVC o un accertamento, di presentare una dichiarazione tardiva o integrativa e pagare spontaneamente il dovuto con sanzioni ridotte (più ci si ravvede tardi, meno lo sconto, ma anche 1/6 o 1/5 delle sanzioni minime se fatto prima dell’accertamento definitivo). Ad esempio, se non hai presentato la dichiarazione dei redditi 2022 e sei ancora entro 90 giorni dal termine, puoi fare la dichiarazione “tardiva” con sanzione minima; se sono passati 90 giorni puoi fare integrativa con sanzione per omessa dichiarazione ridotta a 1/10 del minimo (nei 2 anni). Pagando volontariamente imposte e interessi, l’ufficio potrebbe non avere più motivo di emettere un avviso (o lo emetterebbe solo per sanzioni residue). Il ravvedimento però va ponderato: ammettere di non aver dichiarato nulla significa poi pagare; può convenire quando effettivamente il Fisco ha già tutti gli elementi e la sconfitta in giudizio sarebbe certa (es.: vendite ingenti senza scusanti). Inoltre il ravvedimento non elimina le eventuali sanzioni penali, ma pagare il dovuto prima di una sentenza penale può, in alcuni reati tributari, attenuare o estinguere la pena (nel reato di omesso versamento IVA, ad esempio, il pagamento integrale del debito estingue il reato, ma in omessa dichiarazione non c’è causa estintiva completa, solo attenuante). In ogni caso, è un elemento da valutare con il consulente per evitare il penale.
- Accertamento con adesione (fase amministrativa di accordo): Dopo l’eventuale emissione dell’avviso, ma prima di avviare il ricorso o in parallelo, il contribuente può attivare la procedura di accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997). Lo scopo è di negoziare con l’ufficio una definizione “bonaria” della vertenza, evitando il processo. Si presenta un’istanza all’ente impositore entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso; questo sospende i termini di ricorso per un massimo di 90 giorni. Segue un incontro (anche telematico) in cui si discute la pretesa: il contribuente espone le proprie ragioni, l’Agenzia può rivedere i calcoli. Se si raggiunge un accordo, si formalizza l’atto di adesione con i nuovi importi. Vantaggi dell’adesione: le sanzioni amministrative sono ridotte ad 1/3 (in luogo di metà come era anni fa); si può ottenere una rateazione del dovuto; soprattutto si chiude in tempi rapidi. Svantaggi: bisogna comunque pagare quanto concordato (non c’è ulteriore possibilità di ricorso se firmi l’adesione) e se l’ufficio è intransigente potrebbe offrire sconti minimi. Nel contesto vendite online, l’adesione può essere utile se, ad esempio, si concordano i costi da dedurre: spesso l’Agenzia arriva con un imponibile lordo, ma davanti a prove di costi può accettare di abbatterlo. Oppure, se c’è in ballo la qualificazione dell’attività (impresa vs occasionale), si può cercare un compromesso su un solo anno in cui pagare qualcosa e far cadere altri anni. Importante: durante l’adesione non si discutono aspetti penali (quelli seguono loro corso a parte), ma il fatto di aderire e pagare può essere visto positivamente dal Fisco in ottica generale.
In sostanza, la fase “iniziale” (pre-contenzioso) offre al contribuente opportunità per ridurre il danno senza dover necessariamente andare in causa: sfruttare il contraddittorio obbligatorio per far valere elementi a proprio favore, utilizzare l’adesione per chiudere con sanzioni ridotte, o persino ravvedersi spontaneamente. È chiaro che queste mosse vanno calibrate caso per caso: se l’accertamento è chiaramente sbagliato e hai elementi solidi per vincere in giudizio, conviene ricorrere; se invece hai torto su molti punti, può essere saggio usare gli strumenti deflattivi del contenzioso. Nei prossimi capitoli analizzeremo anche cosa succede se si va in contenzioso vero e proprio (ricorso) e come affrontare le sanzioni e i possibili reati.
5. Impugnare l’avviso: difendersi in Commissione Tributaria (contenzioso tributario)
Se non si trova un accordo in sede amministrativa, o se si ritiene l’accertamento infondato, la strada è presentare ricorso in Commissione Tributaria (oggi Corte di Giustizia Tributaria) entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso. Vediamo i punti essenziali per impostare una buona difesa processuale:
- Termini e procedura di ricorso: Il ricorso si propone entro 60 giorni (calendario) dalla notifica dell’atto impositivo. Va notificato all’ente che ha emesso l’atto (Agenzia Entrate o ente locale se fosse il caso) via PEC (obbligatoria se si ha un domicilio digitale) o tramite raccomandata/ufficiale giudiziario. Successivamente, entro 30 giorni dalla notifica va depositato telematicamente presso la segreteria della Commissione Tributaria competente (di solito, quella della provincia in cui ha sede il contribuente). Il ricorso deve contenere i motivi, i fatti, gli atti impugnati e la prova dell’avvenuto pagamento del contributo unificato (che dipende dal valore della lite). Attenzione: dal 2024 non esiste più l’istituto del reclamo-mediazione obbligatoria per liti fino a 50.000 €, quindi anche per importi piccoli si può adire direttamente la Commissione senza passaggi intermedi (prima era obbligatorio presentare il ricorso come “reclamo” e attendere 90 giorni). Ciò semplifica la procedura, ma toglie una fase in cui a volte l’ufficio rivedeva la propria posizione. Comunque, il contribuente può ancora formulare proposte di conciliazione.
- Sospensione della riscossione: L’avviso di accertamento, come detto, decorso il termine diventa esecutivo. Ciò significa che presentare ricorso non sospende automaticamente la richiesta. Se gli importi sono elevati e non si vuole/potrà pagarli subito, conviene presentare un’istanza di sospensione dell’esecuzione al giudice tributario, contestualmente al ricorso (o anche successivamente, ma meglio subito). Bisogna dimostrare che l’esecuzione immediata (la riscossione) causerebbe un danno grave e che il ricorso ha fondato fumus (motivi validi). Se accordata, la sospensione blocca la riscossione fino alla decisione di primo grado, evitando che nel frattempo arrivino cartelle di pagamento. Altrimenti, senza sospensiva, dopo 60 gg l’Agenzia Entrate-Riscossione può iscrivere a ruolo e, dopo ulteriori 30 gg, emettere cartella; se ancora inerte, dopo 180 gg dall’avviso può avviare pignoramenti. È quindi cruciale valutare la richiesta di sospensiva.
- Motivi di ricorso sostanziali: Nel ricorso vanno articolati tutti i motivi di contestazione, di fatto e di diritto. Elenchiamo i più frequenti nel caso di vendite online:
- Attività non imponibile o reddito diverso da come qualificato: ad es., “l’ufficio ha erroneamente qualificato come reddito d’impresa ciò che erano proventi da vendite occasionali di beni personali, esenti ex art. 67 c.1 TUIR”, citando sentenze (Cass. 10117/2023, Cass. 26554/2020 etc.) a sostegno.
- Mancata prova di abitualità: contestare che il numero di vendite fosse sufficiente a configurare impresa, evidenziando magari lunghi periodi senza vendite o importi modesti, contrariamente a quanto sostiene la controparte.
- Presenza di costi ignorati: se l’accertamento tassa ricavi lordi, inserire un motivo che chiede la deduzione dei costi documentati (elencandoli, magari in allegato tabelle con acquisti merci, spese spedizione, commissioni Amazon, ecc.). Argomentare che il principio del reddito netto è disatteso, richiamando giurisprudenza.
- Vizi procedurali: come visto, mancato contraddittorio (violazione art. 12 L.212/2000 e art. 6-bis introdotto dal D.Lgs. 219/2023), vizio di motivazione (se l’atto non spiega sufficientemente), eventuale nullità notifica (es. invio a indirizzo o PEC errata), decadenza termini, etc. Questi motivi spesso vanno in testa, perché se accolti fanno cadere tutto senza entrare nel merito.
- Errata applicazione IVA o doppia imposizione: ad esempio, se vendi tramite Amazon FBA con merce stoccata in Germania, potresti aver già versato IVA in Germania (regime di identificazione diretta) e l’ufficio italiano erroneamente tassa di nuovo. Oppure contestare l’applicazione di IRAP se la tua era impresa individuale minima senza autonoma organizzazione (anche se nelle attività online l’IRAP di solito non scatta per persone fisiche, mentre per società è dovuta). Ogni dettaglio va valutato.
- Prove da produrre: Il processo tributario è prevalentemente documentale. È il contribuente che deve fornire le prove a supporto dei suoi motivi. Quindi, insieme al ricorso (o nelle memorie successive, comunque entro certi termini) bisogna allegare tutta la documentazione utile:
- Report e estratti conto: stampare/reportare i dati di Shopify, Amazon Seller Central, Etsy dashboard, ecc., che mostrano i ricavi periodo per periodo. Se l’ufficio ha altri dati, confrontarli e segnalare eventuali discrepanze.
- Documenti giustificativi dei costi: fatture di acquisto merci, ricevute di spedizionieri, fatture di Amazon per le commissioni FBA, fee di PayPal (spesso scaricabili da PayPal Business), qualsiasi spesa inerente.
- Documenti su beni personali: se la difesa si basa sul fatto che vendevi roba tua, allega, ad esempio, l’atto di acquisto o foto dell’oggetto in casa, dichiarazioni di terzi che attestano che era un bene tuo da tempo.
- Corrispondenza con l’ufficio: se hai partecipato al contraddittorio, allega la memoria che hai inviato e l’eventuale verbale dell’incontro.
- Normativa e sentenze: non è obbligatorio allegare testi di legge (il giudice le conosce) ma è opportuno citare riferimenti precisi. Le sentenze di Cassazione o di Commissioni Tributarie di solito si citano e se ne riporta uno stralcio significativo. In un ricorso ben fatto, ad esempio, potresti inserire come allegato la copia di Cass. 7552/2025 o almeno riprodurne la massima saliente sull’abitualità.
- Discussione in udienza e decisione: Spesso le liti minori vengono decise in camera di consiglio senza discussione orale, ma per importi rilevanti o questioni complesse è possibile chiedere di discutere in pubblica udienza. Se c’è udienza, è utile che il difensore richiami i punti chiave, risponda alle eccezioni dell’ufficio e magari faccia presenti aperture ad accordi (a volte l’Agenzia, in udienza, capisce l’andamento e accetta una conciliazione parziale). La sentenza di primo grado può accogliere totalmente il ricorso (annullando l’atto), accoglierlo parzialmente (es. rideterminando il reddito imponibile più basso), oppure respingerlo. È importante leggere bene la sentenza: se alcuni motivi non sono trattati, si può valutare appello.
In generale, portare un caso di vendite online in contenzioso significa spesso muoversi su un doppio binario: da un lato fattuale (dimostrare cosa era veramente reddito e cosa no, quanti costi, ecc.) e dall’altro giuridico (interpretare correttamente le norme su occasionalità vs impresa, sul contraddittorio, sulla ripartizione onere prova). La difesa vincente riesce a convincere il giudice su entrambi i fronti: ad esempio, che le circostanze di fatto (poche vendite, beni propri) non integravano i presupposti di legge per tassare come impresa e che comunque l’ufficio ha agito contra legem omettendo il contraddittorio. Non di rado, se si portano buone prove, le Commissioni riconoscono almeno in parte le ragioni del contribuente: ad esempio, diverse sentenze CTR hanno annullato accertamenti per vendite online dove il contribuente ha dimostrato di aver venduto la sua collezione personale senza fini commerciali (cfr. CTR Lombardia n. 320/2019; CTR Toscana n. 504/2021, ecc.). La Cassazione poi, con varie pronunce, ha consolidato alcuni principi utili in causa:
- Vendite ripetute con profitto = imponibile d’impresa (Cass. 7552/2025).
- Vendita beni personali senza intento di rivendita = non tassabile (Cass. 10117/2023).
- Dati di piattaforme e conti correnti possono fondare l’accertamento induttivo, sta al contribuente l’onere di provarne eventualmente la non imponibilità.
- Anche se il contribuente non ha tenuto contabilità, il Fisco deve considerare i costi se emergono, altrimenti l’accertamento è errato (Cass. 6874/2023 e altre).
- Il contraddittorio preventivo è diritto generale del contribuente (Corte Cost. 47/2023; Cass. SU 24823/2015 per accertamenti doganali, esteso ora a tutto).
Questi capisaldi, citati correttamente, aiutano a orientare anche i giudici di merito.
In conclusione, impugnare un accertamento fiscale da e-commerce è spesso complesso ma non impossibile da vincere o transigere: serve preparazione tecnica, raccolta accurata delle prove e conoscenza di normative e sentenze aggiornate. Nei prossimi capitoli vedremo brevemente anche i profili sanzionatori e penali collegati, e gli strumenti eventualmente utilizzabili per evitare il peggio (come definizioni agevolate se previste dal legislatore, transazioni fiscali, ecc.).
6. Sanzioni tributarie e reati penali: conseguenze di un accertamento da e-commerce
Un accertamento fiscale comporta non solo il recupero delle imposte dovute, ma anche sanzioni amministrative e, nei casi più gravi, può far scattare procedimenti penali tributari. È importante capire la portata di queste conseguenze, sia per valutare i rischi sia per impostare correttamente la difesa (anche penale, se necessario).
Sanzioni tributarie amministrative
Le sanzioni tributarie per omessi redditi o omesso versamento IVA sono stabilite dal D.Lgs. 471/1997 e D.Lgs. 472/1997. Nel contesto vendite online, le violazioni tipiche e relative sanzioni sono:
- Omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs. 471/97): se il venditore non ha proprio presentato la dichiarazione annuale pur avendone l’obbligo (caso classico di chi vende tanto online ma non apre P.IVA né dichiara), la sanzione va dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di €250. Ad esempio, se l’ufficio accerta €10.000 di Irpef evasa, la sanzione base potrebbe essere €12.000 (120%) fino a €24.000 (240%). Nei fatti, l’Agenzia spesso applica una percentuale attorno al minimo (120%) in prima battuta. Se però il contribuente aderisce e paga in acquiescenza entro 60 gg dall’avviso, questa sanzione si riduce automaticamente a 1/3 (quindi 40% dell’imposta). Ulteriori riduzioni: in adesione 1/3, in conciliazione giudiziale -40/50% come detto.
- Dichiarazione infedele (art. 1 D.Lgs. 471/97): se la dichiarazione è stata presentata ma ha nascosto parte dei redditi (ad esempio dichiari 10.000 ma ne avevi 50.000), la sanzione va dal 90% al 180% della maggior imposta dovuta. Anche qui c’è riduzione a 1/3 con acquiescenza.
- Omessa fatturazione o omessa registrazione IVA (art. 6 D.Lgs. 471/97): se il soggetto era tenuto ad emettere fattura (perché con P.IVA) e non l’ha fatto su operazioni tassabili, sanzione dal 90% al 180% dell’IVA relativa. Analogo per mancata registrazione nei registri IVA. In molti casi di venditori online senza P.IVA, contestano formalmente la mancata fatturazione di tutte le vendite imponibili con sanzione 100% IVA ciascuna, ma poi viene assorbita nella violazione più grave (omessa dichiarazione).
- Mancata presentazione elenchi o altri adempimenti: spesso secondario, ma se non hai presentato ad esempio l’esterometro o OSS quando dovevi, ci sono sanzioni fisse (250€ ecc.), generalmente poco rilevanti nel contesto di un accertamento maggiore.
Le sanzioni tributarie non hanno natura penale ma amministrativa, quindi non portano precedenti penali. Tuttavia, il loro peso economico può essere rilevante. Nel nostro esempio, un venditore che abbia evaso 50.000 € di imposte rischia sanzioni base per decine di migliaia di euro. Per fortuna, esistono meccanismi per ridurle:
- Cumulo giuridico: se un soggetto ha commesso la stessa violazione su più annualità, invece di sommare sanzioni di ogni anno, si può applicare una sola sanzione aumentata dal doppio al triplo (art. 12 D.Lgs. 472/97). Ciò è spesso invocabile in giudizio: es. se omesse 3 dichiarazioni, anziché 120%*3, si chiede una sanzione unica magari al 200%. I giudici spesso accolgono questa tesi.
- Circostanze attenuanti: il diritto tributario non prevede l’“attenuante della buona fede” in senso stretto, ma se il contribuente dimostra che non c’era evasione deliberata ma magari errore scusabile, si può chiedere la sanzione al minimo. L’istituto della “tenuità del fatto” (art. 12 L. 689/81) non si applica alle sanzioni tributarie, purtroppo.
- Definizioni agevolate: il legislatore talvolta introduce sanatorie (ad es. “pace fiscale”) in cui si condonano sanzioni. Ad esempio, con la Legge di Bilancio 2023 c’è stata la possibilità di definire gli avvisi bonariamente con sanzioni ridotte al 3% o 5% (per dichiarazioni integrative speciali). Queste misure vanno verificate di volta in volta: al luglio 2025, non risultano nuove definizioni straordinarie oltre a quelle scadute nel 2023, ma il contribuente informato tiene d’occhio eventuali normative di tregua fiscale.
Da notare che le sanzioni amministrative tributarie, se non pagate, seguono la stessa via di riscossione delle imposte: quindi un accertamento definitivo comporterà cartelle anche per le sanzioni. Non pagando, si rischiano fermi amministrativi, ipoteche e pignoramenti su conti, stipendio, immobili. Inoltre, accumulare debiti fiscali può precludere benefici futuri (es. definizioni agevolate, o contributi pubblici).
Profili penali tributari
Quando le somme evase superano certe soglie, l’illecito non è più solo amministrativo: scatta anche l’illecito penale, disciplinato dal D.Lgs. 74/2000. Nel contesto vendite online, i reati che possono configurarsi sono principalmente due:
- Omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs. 74/2000): si verifica se non si presenta la dichiarazione pur obbligati e l’imposta evasa supera €50.000 per singola imposta (IRPEF, IVA) in un periodo d’imposta. Esempio: un venditore che in un anno doveva pagare 60.000 € tra IVA e Irpef e non dichiara nulla, commette reato. Pena prevista: reclusione da 2 a 5 anni. Questo reato è frequente nei casi di e-commerce “in nero” su vasta scala. La soglia di 50k va vista separata per IVA e per imposte dirette; se vengono contestati più anni, ogni anno è un reato a sé.
- Dichiarazione fraudolenta o infedele: se invece la dichiarazione è stata presentata ma è falsa, potrebbero configurarsi i reati di dichiarazione infedele (art. 4, soglia imposta evasa > 100k e ricavi non dichiarati > 10% del totale o >2M) o frode fiscale (art. 3 se usi fatture false o artifizi). Nel contesto vendite online, meno comune perché chi non dichiara e-commerce di solito omette proprio la dichiarazione. La dichiarazione infedele ha pena da 2 a 4.5 anni, ma soglie elevate la rendono meno applicabile al piccolo venditore.
- Omesso versamento IVA (art. 10-ter): se si dichiara l’IVA ma poi non la si versa oltre 250k €, è reato. Può capitare in una SRL che dichiara le vendite ma non versa l’IVA. Pena fino a 2 anni.
Non c’è uno specifico reato per “vendite online non dichiarate”, ma rientrano in queste fattispecie generali. Cosa succede in pratica? Quando l’Agenzia accerta formalmente l’evasione e questa supera le soglie di legge, invia notizia alla Procura della Repubblica. Può essere anche la Guardia di Finanza, se ha svolto indagini, a sporgere denuncia. Da lì parte un procedimento penale a carico del contribuente (imprenditore individuale o legale rappresentante se società) per il reato contestato.
Nel penale tributario, alcune cose da considerare:
- La soglia di punibilità è calcolata sull’imposta evasa al netto dei pagamenti. Significa che se riesci a pagare prima che si apra il dibattimento una parte del dovuto facendo scendere l’evasione sotto soglia, potresti evitare la punibilità. Ad esempio, se ti contestano 60k di IVA evasa ma riesci a versarne 15k prima del processo, scendendo sotto 50k, l’omessa dichiarazione non è più reato penale (Cass. pen. n. 11959/2021). Questo è un incentivo fortissimo a regolarizzare almeno parzialmente.
- Il ravvedimento operoso totale prima che il Fisco ti contesti formalmente qualcosa può evitare del tutto il problema: se fai una dichiarazione integrativa e paghi tutto, la condotta non è più punibile per difetto dell’elemento oggettivo (imposta evasa).
- In sede penale, una linea difensiva può essere dimostrare che l’imputato non aveva dolo di evadere: es. era convinto di non dover dichiarare perché mal consigliato. A volte queste argomentazioni di “ignoranza inevitabile” hanno scarso successo, ma l’assenza di consapevolezza piena può modulare la pena.
- L’esito del processo tributario non vincola il giudice penale, ma se in sede tributaria viene accertato che non c’era evasione (atto annullato), di solito cade anche l’accusa penale perché manca il fatto. Di contro, anche se in tributario magari ti va male, in penale puoi ancora far valere ragioni (con prove) che nel giudizio fiscale non hanno trovato spazio, magari convincendo che non c’era volontà di frode.
Conseguenze penali accessorie: in caso di condanna per reati tributari gravi, possono scattare interdizioni (da uffici direttivi, da contrarre con la PA, etc.) e la confisca dei proventi dell’evasione (la confisca “per equivalente” sui beni del condannato fino a concorrenza delle imposte evase).
Tutto ciò traccia un quadro piuttosto serio. Va però detto che non tutti gli accertamenti sfociano nel penale: se gli importi sono modesti, avrai solo sanzioni amministrative. Inoltre, l’ordinamento offre, come visto, strumenti per mitigare: pagando il dovuto, l’aspetto penale può essere risolto positivamente (spesso le procure stesse chiedono l’archiviazione se vedono che l’imposta è stata versata e magari il contribuente patteggia una pena minima).
Importante: se ti trovi coinvolto in un procedimento penale, è fondamentale farsi assistere da un avvocato penalista esperto in reati fiscali, in coordinamento col tributarista. Ad esempio, potrebbe convenire patteggiare la pena se hai già sistemato il fisco, oppure attendere l’esito del contenzioso tributario se è promettente.
In conclusione, dal punto di vista del debitore fiscale, sapere che c’è un potenziale penale deve spingere a non sottovalutare un accertamento: vendere online “a nero” può sembrare un peccato veniale, ma oltre una certa soglia diventa un reato con possibile reclusione. Per questo difendersi efficacemente su entrambi i fronti (tributario e penale) è essenziale.
7. Strumenti deflattivi e soluzioni alternative: come chiudere la vicenda senza trascinarsi anni di liti
Affrontare un accertamento fino in Cassazione può richiedere anni di contenzioso. Spese legali, incertezza, e nel frattempo il debito fiscale cresce con interessi. È comprensibile che molti contribuenti cerchino soluzioni per chiudere prima la faccenda, magari con un compromesso. Oltre al già citato accertamento con adesione (fase amministrativa) e alla conciliazione giudiziale (in processo), esistono altri strumenti deflattivi del contenzioso, alcuni codificati, altri straordinari, da considerare:
- Acquiescenza agevolata: consiste nel pagare l’accertamento entro 60 giorni dalla notifica, beneficiando della riduzione delle sanzioni a 1/3. Questa opzione è prevista dall’art. 15, c.2, D.Lgs. 218/97. Vantaggio: chiudi subito la questione (nessun ricorso, nessuna ulteriore sanzione o interesse futuro), con uno sconto sulle sanzioni del 66%. Svantaggio: devi riconoscere tutto il tributo contestato, anche se magari era eccessivo. Può avere senso se l’ufficio ha già in gran parte ragione e vuoi evitare aggravi. Nota: l’acquiescenza non è ammessa se sullo stesso atto si è già presentata istanza di adesione (bisogna scegliere una strada).
- Ravvedimento per periodi non accertati: se hai ricevuto accertamento per alcuni anni ma sai di aver venduto in nero anche anni successivi non ancora toccati, puoi considerare di ravvederti per quegli anni prima che arrivino nuovi controlli. Ad esempio, accertato 2019-2020, potresti presentare dichiarazioni integrative per 2021-2022 e pagare il dovuto col ravvedimento. Così eviti futuri avvisi e forse in sede di trattativa puoi far valere la tua buona condotta sui periodi successivi.
- Definizione agevolata delle liti pendenti: occasionalmente, lo Stato propone misure per chiudere in via agevolata i contenziosi in corso. Ad esempio, la Legge n. 197/2022 (Bilancio 2023) aveva introdotto la definizione delle liti pendenti con sconti (pagavi una percentuale del valore se avevi vinto nel merito, ecc.). Se sei in causa e capita una norma simile, va valutata: a volte pagando il 90%, 40%, 15% del valore si chiude, in base allo stato del processo. Queste misure non sono permanenti, ma nel 2023 molti ne hanno approfittato. Al 2025 non ce n’è una attiva, ma il lettore tenga presente di informarsi su eventuali “pacificazioni fiscali” in corso.
- Transazione fiscale nel concordato preventivo o crisi d’impresa: caso estremo, se il debito fiscale è insostenibile e l’attività è in crisi, si potrebbe ricorrere a procedure concorsuali. Ad esempio, una SRL insolvente può proporre un concordato preventivo o una composizione negoziata e chiedere una transazione fiscale, cioè di pagare solo una parte del debito tributario. Questo esula dalla presente trattazione (è materia concorsuale), ma va menzionato che i debiti tributari possono essere ridotti se si segue l’iter di ristrutturazione previsto dalla legge fallimentare (oggi Codice della Crisi). Non è uno strumento comune per piccoli venditori, ma se parliamo di una società e-commerce grossa con milioni di debiti, potrebbe essere l’unica via.
- Rateazione delle somme: sia in adesione che dopo un accertamento definitivo, c’è quasi sempre la possibilità di rateizzare il pagamento. Nell’atto di adesione si possono avere fino a 8 rate trimestrali (o 16 se importi alti). Nelle cartelle esattoriali post-sentenza, si possono chiedere piani fino a 72 rate mensili (6 anni) o anche 120 rate in casi eccezionali di grave difficoltà. La rateazione non riduce l’importo ma evita il colpo unico, e mantenere i pagamenti regolari sospende azioni esecutive.
- Istanza di autotutela: può capitare che dopo aver fatto ricorso emergano nuovi elementi a tuo favore (o l’ufficio rivede la sua posizione). Puoi sempre presentare un’istanza di autotutela chiedendo all’Ente di annullare o ridurre l’atto. Se l’ufficio è ragionevole e riconosce l’errore, potrebbe annullare in autotutela parzialmente l’accertamento (succede di rado su questioni di merito; più facile su errori palesi). L’autotutela non sospende i termini di ricorso, va fatta eventualmente in parallelo.
In sintesi, il punto di vista del debitore che vuole “chiudere” la questione senza processi infiniti è: trattare, trattare, trattare. Appena identificato il problema, si può negoziare col Fisco (adesione); se già in causa, si può conciliare; se proprio finisce male, cercare soluzioni di pagamento sostenibili. L’importante è non sparire: ignorare il problema fiscale porta solo ad aggravarlo con aggiunte di sanzioni e interessi.
Spesso, soprattutto con i nuovi strumenti di comunicazione, dialogare con l’Agenzia conviene. Ad esempio, alcune Direzioni Provinciali hanno sportelli dedicati per il “responsabile del procedimento” con cui interloquire. Mostrarsi collaborativi – pur mantenendo ferma la tutela dei propri diritti – può portare a risultati insperati (una rideterminazione in autotutela, o quantomeno un trattamento più umano). Ricorda anche che la legge delega di riforma fiscale prevede in futuro meccanismi di composizione stragiudiziale potenziati.
Abbiamo ora analizzato gran parte degli aspetti tecnici. Per chiarire ulteriormente come tutte queste regole si applicano nella realtà, presentiamo nel prossimo paragrafo alcune simulazioni pratiche di casi tipici di venditori online alle prese col Fisco italiano.
8. Casi pratici: esempi di accertamenti a venditori online e possibili difese
Di seguito alcuni casi simulati, basati su situazioni realmente accadute o verosimili, che illustrano l’applicazione pratica dei principi discussi:
Caso 1 – Vendita di un bene personale su Etsy.
Situazione: Mario, pensionato, decide di vendere un vecchio armadio ereditato dalla nonna, pubblicando un annuncio su Etsy. L’armadio viene venduto a un antiquario per €2.000, transazione unica nel 2024. Mario non ha partita IVA e non svolge commercio abituale.
Accertamento: L’Agenzia, vedendo il flusso in conto corrente, presume che Mario abbia avviato un’attività di vendita mobili e gli contesta un reddito d’impresa non dichiarato di €2.000 con relativa IVA.
Difesa: Mario può opporre che si trattava della vendita di un bene personale usato, operazione priva di intento commerciale. La Cassazione n. 10117/2023 ha chiarito proprio che cedere beni dell’arredo domestico non configura attività d’impresa se manca l’intento di lucro professionale. Nella memoria Mario allegherà magari foto dell’armadio a casa sua, un atto notarile che mostra che faceva parte dell’eredità familiare, e dichiarazioni di conoscenti che attestano che non commercia abitualmente mobili. In sede contenziosa, citando quella sentenza, sosterrà che i €2.000 sono esenti da tassazione. Verosimilmente, il giudice potrebbe dargli ragione, annullando l’accertamento. (Nota: in un caso reale simile – Cass. 10117/2023 – fu esclusa ogni imposta, IVA compresa, perché mancava il requisito soggettivo d’impresa nel venditore che alienava mobili usati di casa.)
Caso 2 – Vendite occasionali su Shopify di prodotti artigianali.
Situazione: Anna, appassionata di cucito, nel 2022-2023 ha venduto alcuni capi di abbigliamento fatti a mano tramite un piccolo sito Shopify. Non ha aperto partita IVA perché le vendite erano sporadiche. In due anni ha ricavato circa €6.000 (3k all’anno). Non ha dichiarato questi importi nella sua dichiarazione dei redditi, pensando fossero irrilevanti.
Accertamento: Le vengono contestati redditi non dichiarati per €6.000, qualificati come proventi di attività commerciale, con sanzione per omessa dichiarazione.
Difesa: Anna evidenzia che la sua è stata un’attività occasionale, senza organizzazione d’impresa. Può rimediare presentando dichiarazioni integrative per quei due anni, qualificando i €6.000 come redditi diversi ex art. 67 TUIR. Da quei ricavi dedurrà i costi sostenuti: ad esempio, stoffe e materiali per €1.500, costi di spedizione €200, commissioni PayPal €100 (dati ipotetici). Il reddito imponibile IRPEF scenderebbe così a circa €4.200. Pagando le imposte su tale importo tramite ravvedimento operoso, Anna sanerebbe buona parte della sua posizione. In fase di contraddittorio, potrebbe presentare le fatture d’acquisto dei tessuti e le ricevute postali come prova dei costi. Le sanzioni per omessa dichiarazione, inizialmente al 120% dell’imposta, con l’adesione/acquiescenza scenderebbero al 30-40% (nell’esempio, da circa €900 a ~€300). In definitiva Anna, mostrando collaborazione e correggendo il tiro, eviterebbe un contenzioso lungo e soprattutto metterebbe al sicuro la natura occasionale della sua attività (nessuna iscrizione d’ufficio IVA, nessun IRAP). Questo caso mostra come, per piccole cifre, convenga spesso regolarizzare spontaneamente appena si viene chiamati: DAC7 farà emergere anche i piccoli venditori, ma se questi corrono ai ripari con integrative e pagamenti, generalmente se la cavano con sanzioni leggere e senza strascichi penali.
Caso 3 – Account Amazon condiviso in famiglia: chi paga le tasse?
Situazione: Sofia ha una piccola attività commerciale (partita IVA) e vende i suoi prodotti artigianali su Amazon. Suo marito Sergio, da privato, usa lo stesso account Amazon ogni tanto per vendere libri usati della sua collezione. L’account (e il conto bancario collegato) sono intestati a Sergio. Nel 2019-2021 vengono venduti attraverso quell’account beni per €50.000 totali, la maggior parte derivante dall’attività di Sofia, ma formalmente risultano come ricavi dell’account intestato a Sergio.
Accertamento: L’Agenzia rileva i €50k di vendite su Amazon e contesta a Sergio (il marito) la mancata dichiarazione di tale reddito d’impresa, con IVA e tutto, per gli anni 2019-2021. Sergio resta esterrefatto perché in realtà i soldi li usava la moglie per la sua attività (che però non li ha dichiarati nemmeno lei adeguatamente, pensando erroneamente che essendo sull’account del marito “non si vedessero”).
Difesa: In ricorso, Sergio proverà a sostenere che l’attività era in realtà svolta da Sofia, lui era solo un prestanome tecnico dell’account. Dovrebbe dimostrare che i bonifici Amazon confluiti sul suo conto sono poi stati girati a Sofia, o che i libri venduti erano materialmente di Sofia. Purtroppo, senza predisporre a monte conti separati o almeno tracce contabili, questa difesa è molto difficoltosa. È verosimile che l’Ufficio e i giudici dicano: l’account è tuo, i ricavi li hai avuti tu, dovevano essere dichiarati da te. La CTR Molise, ad esempio, in un caso del 2020 ha respinto la tesi della contribuente che diceva “era mio marito a gestire l’account a mio nome” quando mancavano prove concrete a supporto. In situazioni simili, la linea migliore potrebbe essere cercare un accordo in adesione per redistribuire il carico tra i coniugi (se anche lei è stata oggetto di verifica) o almeno per ridurre le sanzioni. La lezione qui è preventiva: evitare commistioni account/fondi tra persone diverse, perché fiscalmente paga chi risulta titolare salvo poi rivalersi civilmente (ma intanto il Fisco vuole il suo).
Caso 4 – Il “evasore per ignoranza” che vuole rimediare.
Situazione: Luca è un venditore professionale su Amazon FBA: ha acquistato merci in Cina e le ha vendute in tutta Europa tramite Amazon nei 2021-2022, ricavando circa €100.000 (con costi per €20.000). Purtroppo non ha mai aperto partita IVA né presentato dichiarazioni, un po’ per disinformazione e un po’ sperando di farla franca. Nel 2025 riceve un avviso di accertamento pesante: l’Agenzia gli contesta €100k di ricavi non dichiarati, con IVA evasa, IRPEF su reddito €80k, sanzioni al 120%, più anche segnalazione penale per omessa dichiarazione (imposta evasa sopra soglia). In totale tra imposte e sanzioni gli chiedono circa €70.000, importo per lui impossibile da pagare in un colpo.
Reazione e difesa: Luca, realizzato l’errore, decide di collaborare per ridurre il danno. Per prima cosa, durante il contraddittorio, presenta dichiarazioni tardive integrative per i due anni contestati (2021 e 2022), inserendo i redditi corretti (€80k totali) e portando in deduzione tutti i costi documentabili (€20k). Effettua un ravvedimento operoso versando parte delle imposte dovute (magari grazie a un prestito familiare, paga €10k subito). Questo ravvedimento tardivo, benché a controllo iniziato, gli consente di mostrare buona fede e riduce di un po’ sanzioni e interessi. In parallelo, presenta istanza di accertamento con adesione: negozia con l’ufficio un piano di pagamenti rateali sul dovuto residuo di imposte e ottiene la riduzione sanzioni a 1/3. Dal punto di vista penale, il fatto di aver dichiarato e iniziato a pagare abbassa l’imposta evasa netta sotto la soglia dei 50k per anno (ad esempio, se su €80k di reddito dovuto paga già la metà, l’imposta evasa residua scende). In giudizio tributario, se si arriva, Luca potrà chiedere il cumulo giuridico delle sanzioni su più anni, sostenendo che era un’unica violazione protratta (omessa dichiarazione continuativa). Potrà anche valutare la conciliazione in udienza per chiudere con un’ulteriore riduzione sanzioni del 40%.
Esito ipotetico: alla fine, Luca riesce a limitare le sanzioni totali intorno al 30-40% (invece del 120%), diluisce il pagamento in comode rate biennali, e soprattutto dimostra di essersi ravveduto, il che in ambito penale potrebbe evitargli guai (è plausibile che la Procura, vedendo il pagamento in corso e l’adesione, archivi per particolare tenuità o applicazione della causa di non punibilità per pagamento del debito, a seconda delle circostanze). La morale di questo caso è che anche se si è inizialmente in torto, muoversi per tempo e con intelligenza può “salvare la pelle” sia finanziariamente che penalmente.
Questi quattro esempi coprono situazioni tipiche: vendita isolata, vendite occasionali minori, gestione impropria in famiglia, e attività significativa nascosta. Ognuna presenta differenti strategie di difesa, ma in comune c’è la necessità di documentare i fatti e conoscere i propri diritti per poter spuntare un esito favorevole.
9. Domande frequenti (FAQ) dei venditori online sul Fisco
Passiamo ora a una serie di domande ricorrenti che venditori su Shopify, Amazon, Etsy (o altre piattaforme) si pongono riguardo agli aspetti fiscali e agli accertamenti, con risposte basate sulla normativa e la prassi attuale.
D: Ho sempre venduto oggetti usati su Amazon/Etsy senza partita IVA. Devo preoccuparmi di un accertamento?
R: Se si tratta davvero di beni personali venduti sporadicamente, in genere non c’è obbligo di dichiarazione né tassazione (come visto, sono fattispecie non imponibili). Tuttavia, è fondamentale che le vendite restino occasionali e senza scopo di lucro sistematico. Pochi oggetti usati venduti all’anno di modesto valore di norma non fanno scattare controlli. Ma attenzione: se le vendite diventano ripetute e generano profitti, l’Agenzia potrebbe comunque considerarle come attività economica. Il confine è sottile e non matematico, quindi meglio essere prudenti. Sì, potresti doverti preoccupare se, ad esempio, stai vendendo decine di oggetti al mese anche se “usati”: il Fisco potrebbe interpretarlo come impresa mascherata. Con i nuovi sistemi di monitoraggio (DAC7, CESOP) anche i piccoli venditori “casalinghi” vengono allo scoperto più facilmente. Il consiglio: se hai dubbi di aver superato il limite, regolarizza spontaneamente la tua posizione (apri P.IVA o dichiara quei redditi come occasionali) prima che ti arrivi una comunicazione. In ogni caso, non ignorare eventuali lettere o inviti: è sempre meglio rispondere e chiarire subito la situazione con l’Agenzia, spiegando perché ritieni di essere un privato occasionale, piuttosto che far degenerare il tutto in un avviso formale.
D: Vendendo su Amazon FBA o Etsy non ho emesso fatture perché la piattaforma paga direttamente. Come mi comporto a livello fiscale?
R: È vero che nelle vendite tramite marketplace spesso non si emette fattura al cliente finale (soprattutto se sono privati): la piattaforma trattiene commissioni e riversa a te i pagamenti (i cosiddetti “pay-out”). Tuttavia, dal punto di vista fiscale sei tu il venditore e devi comunque dichiarare i ricavi. Non avere fatture non significa che quei redditi sfuggono: vanno autodichiarati. In concreto:
- Conserva con cura i report di incasso forniti dalla piattaforma (Amazon Seller Central consente di scaricare l’estratto conto venditore, Etsy pure ha il “Payment account”). Conserva anche gli estratti conto bancari o PayPal dove arrivano gli accrediti.
- Se hai partita IVA, dovresti in teoria emettere un documento fiscale per riepilogare le vendite (es. autofattura mensile riepilogativa o registro dei corrispettivi elettronici per marketplace). Molti piccoli forfettari non lo fanno, ma almeno registrano i totali nelle proprie scritture. In contenzioso non ti contesteranno la mancata fattura al cliente B2C, ma l’omessa dichiarazione del ricavo.
- Nella dichiarazione dei redditi indica i ricavi lordi comunicati da Amazon/Etsy; parallelamente deduci i costi pertinenti (in un quadro RF se sei impresa, o nel calcolo del reddito diverso se sei occasionale).
- Se non avevi P.IVA ma dovevi averla, ormai il danno è fatto per il passato: dichiara intanto i redditi (quadro RL) e poi valuta di aprire la partita IVA per il futuro, perché l’Agenzia lo noterà comunque.
In caso di accertamento, la miglior difesa sono proprio quei documenti: gli estratti di Amazon e gli estratti bancari saranno la tua prova per mostrare l’ammontare esatto dei ricavi e anche per calcolare la % di costi deducibili (commissioni Amazon, costi spedizione). Quindi, sebbene Amazon non ti abbia “dato fatture”, ciò non ti esime: devi tu ricostruire e dichiarare. Molti venditori scarsamente seguiti lasciano accumulare incassi su PayPal e non fatturano: purtroppo, ora che i PSP segnalano i movimenti, rischiano grosso. Regola generale: qualsiasi incasso ottenuto per vendita di beni, con o senza fattura, va monitorato e riferito al Fisco.
D: Ho aperto partita IVA in regime forfettario e vendo su Shopify, quindi sono a posto giusto? Il Fisco può contestarmi qualcosa?
R: Avere la partita IVA e dichiarare i redditi è sicuramente un’ottima partenza – ti rende un contribuente “visibile” e adempiente. Tuttavia, regime forfettario non significa che sei immune ai controlli. Ecco alcuni aspetti che il Fisco potrebbe contestare anche a un forfettario:
- Superamento del limite di ricavi (85.000 €): se vendi molto e superi il tetto, perdi il regime e devi passare a regime ordinario (IVA dovuta ecc.). Se non lo fai e continui in forfettario, rischi accertamento per IVA non versata sui ricavi eccedenti e fuoriuscita retroattiva dal regime.
- Incompatibilità con altre attività: ad esempio, se sei forfettario ma hai anche un lavoro dipendente oltre 30k annui, o partecipazioni societarie, potresti non avere diritto al regime. L’Agenzia lo verifica e in caso ti ricalcola le imposte come da regime ordinario.
- Costi non considerati: il forfettario non deduce costi effettivi, per semplicità. Ma se hai margini molto più bassi rispetto al forfait standard, sei penalizzato tu più che il Fisco. Questo di solito non genera accertamento (piuttosto il contrario: se hai ricavi incoerenti troppo bassi rispetto a spese vive, potresti finire sotto lente).
- Operazioni con l’estero (IVA): attenzione se vendi all’estero: il forfettario è esonerato da IVA in Italia, ma se vendi beni in altri paesi UE, potresti dover identificarti per l’IVA lì o usare OSS. Se non lo fai, potresti essere in difetto. L’Agenzia può contestare omessa fatturazione con IVA per vendite intracomunitarie se superi soglie (es. vendite in un singolo Stato UE sopra 10k prima del 2021, o in generale vendite B2C UE dal 2021 senza OSS).
In sintesi, essere forfettario “in regola” ti mette relativamente al sicuro da un accertamento grave, purché rispetti le condizioni del regime. Il Fisco generalmente concentra gli sforzi sui totalmente sconosciuti o chi gonfia costi/detrae IVA indebitamente, più che sui forfettari. Ma non impossibile: se, poniamo, fai 100k di vendite su Shopify e dichiari 80k (oltre soglia), potresti essere oggetto di un controllo per verificare la perdita dei requisiti. Dunque, sempre mantenere la contabilità di base e monitorare i limiti. Il forfettario ha meno adempimenti, ma non è una terra franca.
D: Posso aprire una società all’estero (es. in Bulgaria o a Dubai) per vendere online ed evitare le tasse italiane?
R: Tecnicamente puoi aprirla, ma se resti residente e operi dall’Italia, l’Agenzia ti considererà comunque tassabile qui. Costituire società in paesi a fiscalità più leggera è una pratica diffusa (detta esterovestizione se la residenza estera è fittizia) ma comporta grossi rischi. La normativa italiana (art. 73 TUIR, art. 5 comma 5 D.Lgs. 74/2000 in ambito penale) consente di considerare residenti in Italia società che di fatto sono gestite qui o che hanno qui l’oggetto principale. In caso di controlli, il Fisco guarderà dove è il centro di direzione: se tutta la gestione (magazzino, amministrazione, decisioni) è fatta in Italia e all’estero c’è solo un ufficio virtuale, molto probabilmente qualificherà la società come esterovestita. Risultato: tassazione in Italia di tutti i redditi (con recupero imposte evase con sanzioni), e potenzialmente contestazione penale per dichiarazione infedele o omessa (oltre a reati valutari se portavi capitali fuori). Inoltre potrebbe scattare la sanzione per monitoraggio fiscale se non avevi dichiarato la partecipazione estera (quadro RW), e per gli utili non dichiarati considerati “dividendi occulti” al socio italiano. In altre parole, cercare scorciatoie di questo tipo senza una struttura reale all’estero è molto pericoloso. Diverso il discorso se uno effettivamente si trasferisce all’estero e gestisce da lì: in tal caso occorre interrompere la residenza fiscale italiana e rispettare le normative internazionali, ma se si rimane in Italia mascherando il tutto dietro una LTD inglese o una LLC di Dubai, ormai il Fisco (italiano ed europeo) ha gli occhi aperti e ci sono sempre più scambi di informazioni. Influencer e pseudo-consulenti che promuovono queste soluzioni omettono di dire che ti possono beccare e le conseguenze annullano i (temporanei) vantaggi. Quindi la risposta è: no, non puoi semplicemente aprire all’estero e far finta di niente con la pretesa di evitare le tasse italiane, a meno di trasferire realmente te stesso e la tua organizzazione fuori (e anche in quel caso attenzione alle norme CFC e antielusione).
D: Le sanzioni fiscali sono altissime… è davvero utile contestarle in giudizio?
R: Sì, spesso è utile perché ci sono margini per ridurle. Le sanzioni tributarie, diversamente da quelle penali, possono essere modulate o ridotte dal giudice tributario. Come visto:
- Il giudice può applicare il cumulo giuridico (unica sanzione su violazioni pluriennali) anche se l’ufficio non l’aveva concesso.
- Può riconoscere cause di non punibilità parziale o attenuanti: ad esempio, se rileva che il contribuente ha commesso violazione per errore scusabile, può motivare la riduzione al minimo.
- Soprattutto, se si arriva a conciliazione in appello o Cassazione, c’è la possibilità di uno sconto legalmente previsto del 50% sulle sanzioni.
- Inoltre, contestare le sanzioni in sé a volte paga: ad esempio, se l’imposta viene annullata, le sanzioni cadono automaticamente; oppure se il tipo di violazione contestato era sbagliato (magari ti hanno contestato omessa dichiarazione ma tu l’avevi presentata seppur infedele – le sanzioni di omessa sono più gravi, quindi potresti farle ricondurre a quelle minori per infedele).
In un processo tributario, chiedere la disapplicazione totale o parziale delle sanzioni è prassi comune. Dunque vale la pena eccome inserirlo nei motivi di ricorso. Poi è chiaro, se hai torto marcio sul merito, difficilmente il giudice annullerà solo le sanzioni (non essendo “punitive” in senso penale, la buona fede non esime dal pagarle), ma può comunque ridurle. Come detto, l’unico “sconto automatico” fuori dal processo è l’acquiescenza (-1/3), ma dentro il processo si può ottenere di più in caso di conciliazione. Anche chiedere al giudice di applicare direttamente l’art. 7 D.Lgs. 546/92 (potere di disapplicare le sanzioni se ricorrono obiettive condizioni di incertezza normativa) è un tentativo: per vendite online, fino a qualche anno fa c’era effettivamente incertezza sulla qualificazione, e alcune CTP hanno annullato le sanzioni per questo. Insomma, conviene sempre contestare anche le sanzioni, perché magari non toglierai l’imposta, ma uno sconto sulle penalità può essere sostanzioso e fai bene a perseguirlo.
D: Cosa succede se perdo in Commissione e non pago quanto dovuto?
R: Se il ricorso viene respinto (o comunque l’atto accertativo diventa definitivo dopo i vari gradi) e non provvedi a pagare, si attiva la fase di riscossione coattiva. In pratica:
- L’avviso di accertamento, trascorsi 60 giorni dalla decisione sfavorevole (cioè dalla definitività), viene iscritto a ruolo dall’Agenzia.
- L’Agenzia Entrate-Riscossione (ex Equitalia) emette quindi una cartella di pagamento per gli importi dovuti (imposte, sanzioni, interessi di mora, spese). Questa cartella ti dà ulteriori 60 giorni per pagare.
- Se ancora non paghi, la cartella diventa titolo esecutivo: l’Agente della Riscossione può procedere con fermi amministrativi (ad es. blocco auto), ipoteche su immobili di tua proprietà, e soprattutto pignoramenti. Possono pignorare conti correnti (prelevando il dovuto fino a concorrenza), pignorare un quinto dello stipendio/pensione mensile, affittare all’asta eventuali immobili pignorati, ecc.
- Nel frattempo sarai anche iscritto nell’elenco dei morosi a ruolo, e in casi gravi l’Agenzia può segnalarti per vietare eventuali compensazioni di crediti futuri, oppure può bloccare il rilascio del DURC (se sei imprenditore).
- Inoltre, se avevi diritto a qualche rimborso fiscale, l’erario se lo trattiene in compensazione col debito.
In sostanza, non succede nulla di colpo il giorno dopo la sentenza, ma nel giro di qualche mese partiranno le azioni esecutive. Ignorare il debito non lo fa sparire: anzi, continuano a maturare interessi e aggio. L’obbligo di pagamento persiste a meno che tu non riesca a ribaltare la decisione in Cassazione o ottenere una transazione successiva. Se sei in difficoltà a pagare tutto insieme, puoi chiedere una rateizzazione della cartella (come detto, fino a 6 anni standard, o 10 anni in caso di grave e comprovata situazione). Ma devi iniziare a pagare almeno le prime rate, altrimenti decade. Insomma, se alla fine il Fisco vince, bisogna pagare o trovare un accordo, altrimenti il rischio è vedersi aggredire patrimonio e redditi. A margine: in casi di assoluta insolvenza, come ultima spiaggia c’è la procedura da sovraindebitamento (Legge 3/2012) per persone fisiche o ditte individuali, dove chiedi al giudice di stralciare i debiti tributari irrecuperabili, ma è un percorso complesso. Meglio, se arrivi a sentenza sfavorevole, valutare se c’è margine per un ricorso per Cassazione (solo su diritto) o per una conciliazione tardiva, se la legge la permette.
Abbiamo così toccato vari dubbi comuni. Se hai domande specifiche sul tuo caso, considera sempre di consultare un professionista: la materia è intricata e una piccola differenza di fatto può cambiare le risposte.
10. Normativa essenziale di riferimento
Per chi volesse approfondire, ecco un elenco delle principali norme italiane ed europee citate o rilevanti in materia di tassazione e accertamenti sulle vendite online:
- Art. 67 TUIR (D.P.R. 917/1986): definisce i redditi diversi, ovvero quei redditi non rientranti nelle altre categorie. Include i proventi da attività commerciali non esercitate abitualmente. Le vendite occasionali di oggetti rientrano qui, come redditi diversi se effettuate con fine di lucro ma in modo non professionale.
- Art. 55 TUIR (D.P.R. 917/1986): definisce i redditi d’impresa. Rilevante per stabilire che un’attività svolta con abitualità e organizzazione anche minima va considerata impresa ai fini delle imposte sul reddito (IRPEF/IRES). (Nelle vecchie versioni del TUIR era art. 51, spesso citato in sentenze).
- D.P.R. 633/1972 (IVA), Artt. 1-5 e 45-58: normativa IVA. L’art. 5 definisce il soggetto passivo IVA come chi esercita attività d’impresa abituale; quindi chi vende occasionalmente come privato non è soggetto IVA. Gli artt. 54 e segg. disciplinano l’accertamento IVA induttivo. L’art. 13 definisce la base imponibile IVA (utile se contestano IVA su margini e non su ricavi lordi, etc.).
- D.P.R. 600/1973 (accertamento imposte dirette): in particolare l’art. 32 dà poteri agli uffici di chiedere dati a terzi (es. banche), l’art. 38 è l’accertamento sintetico (redditometro), l’art. 39 consente l’accertamento induttivo puro in caso di omessa dichiarazione o contabilità inattendibile. Importante anche l’art. 43 che fissa i termini di decadenza per notificare gli accertamenti (di regola 31/12 del 5° anno successivo, elevabile a 7° in omessa dichiarazione).
- Legge 212/2000 (Statuto del contribuente): contiene diverse garanzie procedurali. In particolare:
- Art. 12: diritti del contribuente verificato (es. durata massima verifiche in loco, contraddittorio post-verifica entro 60 gg prima di emettere atto).
- Art. 6, comma 4 (ora abrogato e sostituito): prevedeva in alcuni casi il contraddittorio per accertamenti fiscali. Da aprile 2024, per effetto del D.Lgs. 219/2023, è stato inserito l’art. 6-bis che estende l’obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo per gli atti impositivi, a pena di nullità. Il DM 24/04/2024 (MEF) ha elencato gli atti esclusi dall’obbligo (principalmente controlli formali automatizzati, liquidazioni 36-bis DPR 600/73, atti urgenti anti-frode, ecc.).
- Art. 7: obbligo di motivazione degli atti e facoltà del giudice tributario di disapplicare le sanzioni se ricorrono condizioni (viene spesso richiamato per chiedere clemenza sulle sanzioni).
- Art. 10: buona fede e leale collaborazione (da citare se l’ufficio ti ha indotto in errore con info fuorvianti, ecc.).
- Art. 17-bis D.Lgs. 546/1992: (norma fuori dallo Statuto ma rilevante) disciplinava il reclamo-mediazione obbligatorio per liti fino a 50k. Abrogato dal 2024 come visto.
- D.Lgs. 218/1997: disciplina l’accertamento con adesione e l’acquiescenza:
- Art. 2-3: procedura adesione, sospensione termini.
- Art. 6: riduzione sanzioni a 1/3 se adesione.
- Art. 15: riduzione sanzioni a 1/3 se acquiescenza entro 60gg.
- D.Lgs. 74/2000: testo unico sui reati tributari. Rilevanti:
- Art. 5: Omessa dichiarazione (reato >50k imposta).
- Art. 4: Dichiarazione infedele (>100k imposta, >10% discrepanza).
- Art. 2-3: Dichiarazione fraudolenta (con fatture false o artifici).
- Art. 10-bis: Omesso versamento ritenute (>150k).
- Art. 10-ter: Omesso versamento IVA (>250k).
- Art. 13: Cause di non punibilità: integrale pagamento tributi prima del dibattimento per alcuni reati estingue la pena (solo per omessi versamenti in origine, ora estesa parzialmente ad altri).
- Art. 5-quinquies (introdotto nel 2015): Esterovestizione, che richiama le presunzioni di residenza per società estere controllate da italiani, penalmente rilevante se usata per evasione.
- Direttiva UE 2021/514 (DAC7) e D.Lgs. 30 marzo 2023, n. 32 (attuazione DAC7): impongono alle piattaforme digitali di comunicare i dati dei venditori all’Agenzia delle Entrate. Si applica dal 1° gennaio 2023, con primo invio dati nel 2024. Essenziale per capire come l’Agenzia viene a sapere delle tue vendite su Amazon & co.
- Regolamento UE 2020/283 (CESOP) e DLgs 177/2021 attuativo: obblighi per i prestatori di servizi di pagamento dal 2024, come parte del pacchetto anti-frode IVA e-commerce. Prevede registrazione e comunicazione dei pagamenti transfrontalieri a beneficiari per oltre 25 operazioni trimestrali, con confluenza nel sistema CESOP. Norme con cui PayPal, Stripe, ecc. devono collaborare fornendo i dati.
- D.L. 78/2010, art. 17 (convertito L. 122/2010): ha introdotto l’accertamento esecutivo. Stabilisce che gli avvisi di accertamento per imposte statali, emessi da 1/10/2011, includono l’intimazione ad adempiere e diventano titolo esecutivo decorso il termine di impugnazione. (In pratica, l’avviso vale anche come cartella se non fai ricorso/paghi). Questo è stato in parte rivisto dal D.Lgs. 159/2015 per coordinamento, ma il principio resta.
- Art. 12 D.Lgs. 472/1997: disciplina il cumulo giuridico delle sanzioni amministrative tributarie. Utile da citare se hai plurime violazioni della stessa indole.
- Legge 689/1981, art. 12: principio di continuazione nelle sanzioni amministrative (tenuità del fatto, personalità del colpevole, ecc.), ma non applicabile in materia tributaria per espressa esclusione (questo viene a volte richiamato per dire che non si può invocare la particolare tenuità nelle sanzioni tributarie, come ricordato più su).
- Norme UE IVA e commercio elettronico: Regime OSS/IOSS (Reg. UE 282/2011 e Dir. 2017/2455 come modificata). Dal 2021: soglia unica 10k € vendite intra-UE B2C, oltre la quale devi dichiarare via OSS l’IVA. Non fonte di accertamento diretto, ma se non usi OSS e avresti dovuto, potresti essere inseguito dagli Stati esteri o dall’Italia per omissione.
- Circolari e prassi: notevoli le circolari AdE n. 19/E 2012 (sul commercio online e accertamenti finanziari), n. 16/E 2016 (sul progetto EVA per e-commerce). Non normative ma possono essere citate come interpretazione.
Segue infine l’elenco puntuale di fonti giurisprudenziali e normative con riferimenti precisi, per chi volesse consultarle direttamente.
Fonti normative e giurisprudenziali (aggiornate al 2025)
- Cassazione Civile, Sez. Trib., sent. n. 7552/2025 (depositata 21/03/2025) – Vendite online pluriennali tramite piattaforma; conferma configurabilità di attività d’impresa anche in assenza di struttura formale, data l’abitualità e l’elevato numero di transazioni.
- Cassazione Civile, Sez. Trib., sent. n. 10117/2023 (17/04/2023) – Vendita di beni dell’arredo personale tramite internet; esclusione dell’abitualità d’impresa in mancanza di intento speculativo e di organizzazione, con conseguente non imponibilità dei relativi proventi.
- Cassazione Civile, Sez. Trib., sent. n. 6874/2023 (08/03/2023) – Ribadisce il principio che, in sede di accertamento, l’Amministrazione finanziaria deve tenere conto anche dei costi deducibili correlati ai ricavi accertati se il contribuente ne fornisce prova, altrimenti l’imposizione risulta indebita (richiamata in dottrina e giurisprudenza di merito).
- Cassazione Civile, Sez. Trib., ord. n. 26554/2020 (23/11/2020) – Legittimità dell’accertamento induttivo basato sulle vendite effettuate su eBay; vendita abituale di beni usati online considerata attività d’impresa, irrilevanza della buona fede del contribuente che la riteneva attività marginale.
- Cassazione Civile, Sez. Trib., ord. n. 26987/2019 (22/10/2019) – Utilizzabilità da parte del Fisco dei dati delle transazioni su piattaforme eBay & simili; onere sul contribuente di provare che i movimenti rintracciati non costituiscono redditi imponibili (presunzioni semplici legittime).
- Commissione Tributaria Regionale Molise, sent. n. 280/2020 (25/09/2020) – Caso di account di e-commerce intestato alla moglie ma usato dal marito; riconosciuta la legittimità dell’imposizione in capo all’intestataria formale (assenza di prove concrete contrarie); irrilevanza della mancanza di “professionalità informatica” addotta per escludere l’abitualità.
- Corte Costituzionale, sent. n. 47/2023 (depos. 21/03/2023) – Ha dichiarato illegittima una norma interpretativa che limitava il contraddittorio endoprocedimentale, riaffermando il principio che il contraddittorio è elemento essenziale del giusto procedimento tributario (ha spinto poi il legislatore a introdurre l’art. 6-bis Statuto).
- Direttiva (UE) 2021/514 del Consiglio – c.d. DAC7, in vigore dal 2023, obbligo per le piattaforme digitali di comunicare annualmente alle autorità fiscali i dati sui venditori (identificativi, ricavi lordi, numero operazioni, ecc.).
- D.Lgs. 1 marzo 2023, n. 32 – Decreto attuativo DAC7 in Italia, recepisce la direttiva 2021/514. Stabilisce modalità e termini di comunicazione dei dati da parte delle piattaforme all’Agenzia Entrate, nonché sanzioni per omessa comunicazione.
- Legge 27 luglio 2000, n. 212 – Statuto dei diritti del contribuente. Articoli rilevanti: art. 12 (diritti in fase di verifica), art. 7 (obbligo di motivazione atti), art. 10 (tutela dell’affidamento e buona fede), art. 17 (tempistica e efficacia degli atti). N.B.: Dal 2023 con il D.Lgs. 156/2015 e D.Lgs. 219/2023 sono state innovate alcune parti, inserendo l’obbligo di contraddittorio (art. 6-bis).
- D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219 – Ha riscritto lo Statuto del Contribuente introducendo l’art. 6-bis: obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo per atti impositivi impugnabili, a pena di nullità. Ha delegato a decreto MEF l’elenco delle eccezioni (emanato il DM 24/4/2024).
- Decreto MEF 24 aprile 2024 – Elenca gli atti esclusi dall’obbligo di contraddittorio (es: avvisi ex art.36-bis DPR 600/73 su errori materiali, accertamenti catastali, ecc.), in attuazione dell’art. 6-bis Statuto.
- D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – Norme sul processo tributario. Contiene: art. 2 (oggetto della giurisdizione tributaria), art. 19 (atti impugnabili, tra cui avvisi di accertamento), art. 21 (60 gg per il ricorso), art. 17-bis (reclamo-mediazione, ora abrogato dal 2024), art. 44 (conciliazione fuori udienza), art. 48 (conciliazione in udienza, sconti sanzioni), art. 68 (sospensione e pagamento in pendenza ricorso).
- D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – Norme sui controlli fiscali e accertamenti imposte dirette. Vedi sopra: art. 32 (indagini finanziarie), 37 (fittizie intestazioni estere), art. 38 (accertamento sintetico redditometro), art. 39 (accertamento induttivo extracontabile), art. 43 (decadenza termini).
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – Decreto IVA, parti rilevanti: art. 17 (soggetto obbligato a versare l’IVA), art. 18 (soggetto passivo, riflette il concetto di chi esercita impresa), art. 54 (accertamento IVA in caso di omissioni, consente metodo induttivo), art. 55 (sanzioni ed effetti penali per evasioni IVA rilevanti, ora abrogato e rifuso altrove).
- D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 – Sanzioni tributarie speciali (violazioni di singoli tributi):
- art. 1 (dichiarazione infedele, 90-180% imposta)
- art. 5 (omessa dichiarazione, 120-240% imposta)
- art. 6 (violazioni IVA, es: omessa fatturazione 90-180% IVA), ecc.
- D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 – Sanzioni tributarie generali e processo sanzionatorio:
- art. 2 (principio di personalità, colpevolezza)
- art. 6 (cause di non punibilità, errore scusabile)
- art. 12 (continuazione e cumulo giuridico delle sanzioni)
- art. 16 (acquiescenza con riduzione sanzioni, ora modificato da altre norme).
- D.Lgs. 74/2000 – Reati tributari (già menzionati sopra). Fondamentale in contesto di grosse evasioni:
- Art. 2-3 (frode dichiarativa),
- Art. 4 (infedele),
- Art. 5 (omessa dich.),
- Art. 10-ter (omesso vers. IVA),
- Art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento imposte, pignoramenti simulati),
- Art. 13 (cause di non punibilità e attenuanti per pagamento integrale).
(La lista sopra include le fonti normative principali. Norme secondarie o correlate, come il D.Lgs. 119/2022 sulla giustizia tributaria – che ha introdotto il giudice monocratico per liti <€3k e altre novità – non incidono direttamente sul merito dell’accertamento e pertanto non sono state dettagliate qui.)
Conclusione: Vendere online su Shopify, Amazon, Etsy è un’opportunità, ma non ti rende invisibile al Fisco – i dati viaggiano e l’Agenzia incrocia le informazioni rapidamente. Ciò non significa però che ogni venditore online sia per definizione un evasore: molto dipende dalla scala e dalle modalità dell’attività. La chiave è inquadrarsi fiscalmente in modo corretto fin dall’inizio, e se si riceve un accertamento, reagire con cognizione di causa. Come abbiamo visto, difendersi è possibile: dagli errori di calcolo del Fisco alle zone grigie normative, esistono spazi per contestare e ridurre le pretese ingiuste. L’importante è non farsi trovare impreparati – una gestione fiscale accorta e, se necessario, l’affiancamento di professionisti qualificati, permettono di gestire (e spesso risolvere) anche le situazioni più difficili. In tal modo potrai continuare a far crescere il tuo business online su basi solide e regolari, evitando che le questioni fiscali ne mettano a rischio i frutti ottenuti con tanto impegno.
Accertamento fiscale a venditore su Shopify, Amazon FBA, Etsy: Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un accertamento fiscale per la tua attività di vendita online su Shopify, Amazon FBA o Etsy?
Ti contestano redditi non dichiarati, IVA non versata o movimentazioni bancarie sospette?
Sempre più spesso l’Agenzia delle Entrate effettua controlli approfonditi sui venditori e-commerce, incrociando dati di piattaforme di pagamento, marketplace e conti correnti. Un accertamento può riguardare mancata emissione di fatture, importi non registrati, differenze di magazzino o vendite internazionali. Tuttavia, la legge offre strumenti concreti per contestare gli addebiti, ridurre le sanzioni e trovare accordi fiscali sostenibili.
🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo
📂 Analizza nel dettaglio l’avviso di accertamento e la documentazione raccolta dal fisco
📌 Verifica eventuali errori o irregolarità procedurali nelle indagini e nei calcoli
✍️ Predispone ricorsi e memorie difensive per ridurre o annullare le somme richieste
⚖️ Ti assiste nelle trattative per definizioni agevolate, rateizzazioni o transazioni fiscali
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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e difesa di venditori e-commerce
✔️ Specializzato in accertamenti fiscali su attività online e internazionali
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia
Conclusione
Un accertamento fiscale non significa la fine della tua attività online: con la giusta strategia legale puoi difenderti, ridurre il debito e continuare a vendere su Shopify, Amazon FBA o Etsy senza blocchi operativi.
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